nero era il suolo
- Milky
- 1 apr 2022
- Tempo di lettura: 30 min
Povero vecchio, vecchiaccio ruvido e logoro. Povero vecchio, tu conosci la futilità delle tue musiche.
D’un tratto aveva bisogno di punzecchiare qualcosa. Un bel bastoncino, un rametto immancabile nell’armamentario di chi esplora la landa: rivalutò l’importanza cruciale di un tale strumento, argomento del quale esistevano certamente nascosti vangeli apocrifi.
“E il profeta scese dalla montagna, recando con sé un sacro emblema: maestro, cosa ne sarà della nostra città, del nostro popolo? E il profeta, sicuro, diresse la punta del suo bastoncino dritta nei molli gonfiori d’una carcassa di procione, mammifero scaltro del continente promesso; e poi sull’occhio e la tumefazione del naso, e infilzando credette d’essere egli stesso il dito del legno, e di toccare, per la prima volta, la morte, e di capirla. E il maestro, il profeta, disse al suo popolo: popolo, per non disperare, procuratevi un bastoncino quando andate in campagna. Tanto sicuro una carcassa prima o poi la trovate, non vi potete sbagliare, andate tranquilli, stai pur certo, e altro verbo cristallizzato del signore di questo tipo.”
Questa era vita. Si chinò per poco tempo in cerca di uno strumento che potesse rispecchiare quelle parole, purtroppo dimenticate, di un grande profeta, uno che possedesse la vera saggezza. Era questo il senso della futilità che lui, povero vecchio, avrebbe dovuto conoscere? Con un legnetto della mente, andava a rivoltare carcasse di cose accadute, ormai marcescenti, con le membra putride mezze sommerse nella guazza bassa, gelida, onnipresente. Qualcuno gli aveva detto che non sarebbe stato salvato, e allora cosa ritornava a recuperare le cose che aveva seppellito in una capanna, nel bosco d’eucalipti? Sarebbe stato del tutto inutile. Egli era come il personaggio di una parabola già destinata a venir bruciata, già consapevole dell’abbraccio del fuoco in cui traballavano gassosi ed evanescenti la seduzione e la maledizione delle grida. Nella carta che già si consumava, il personaggio doveva procedere tra le pagine con la testa rivolta al basso, con lo spirito consumato o fuggito via senza rimedio, senza ritorno al suo involucro. Evidentemente, un vecchiaccio ruvido, logoro, era anche un bastardo vecchio testardo. Molti da quelle parti -si immaginava per bene quella squadriglia di canaglie sparpagliate per i boschetti- avrebbero certamente scommesso che il muso del vecchio puzzasse di alcol e croste di vario genere e zanne gialle di topi selvatici cresciuti a dismisura. Dalla dentatura nascosta dietro la barbaccia stopposa si sprigionava un country-blues dell’infinita tristezza e della solitudine ululata alle stelle, nei molti giorni in cui aveva camminato. Stupido futile vecchio, sempre a camminare, e non sai cantare d’altro, aveva detto una delle carcasse rivoltolate dal rametto della mente, così ben adoperato. Ma era tempo di smettere di adoperarlo. Gli aromi annacquati degli arbusti crescevano, pungenti, indicandogli che il posto era vicino.
Nessuno avrebbe mai recuperato le pagine di quella parabola sgraziata, quella vita sgraziata, e sarebbe stato per sempre un personaggio che non era mai esistito. Non visto da nessuno, burbero nel rivolgere le sue vive espressioni contorcentesi nella plastica bruciacchiata del volto soltanto ai vuoti che attraversava nel mondo, aveva preso a ridere follemente, come a rallegrarsi alla stupidità dell’idea che fosse sufficiente esser assenti delle memorie degli esseri per poter credere di non essere mai esistiti. Se c’è un dio lassù e ha per compare un diavolo là sotto, si diceva, devono certo essere i tipi più stravaganti e insensati mai esistiti: ne era conferma tutto quanto da loro si era susseguito, goffamente, sempre con qualcosa che non andava dietro i veli ingannevoli -ma non abbastanza furbi e opportunisti- della logica. In effetti non era male, come visione: molto migliore di tante altre appartenute ai vecchi uguali a lui, il cui blues liberato come torme di coyote nei campi era in realtà prigioniero, e s’era fatto via via più cinico, più lontano da dio e dal diavolo e dal loro amore: vecchi d’odio, con lo sputo denso di neri liquami provenienti dalle profondità ctonie del fegato, si erano susseguiti e come lui erano partiti in cerca di quanto avevano lasciato in un capanno abbandonato per venir un giorno a riprenderselo, a costo di ripercorrere dall’inizio alla fine tutta la pianura selvatica in cui s’erano visti sparire da davanti i tumescenti volti, uno dopo l’altro, quelli come loro, e quelli diversi da loro, e le bestie domestiche e le bestie avverse, e gli alberi centenari e quelli di un giorno -e tutto diventava gonfie carcasse, per questo, maledizione, un bastoncino era fondamentale! Come si fa a vivere in un posto, qual è il senso di vivere in un posto, se non si è pronti a pungicarlo quando ti si avvicina, ti accerchia, ed è pronto ad amalgamarsi alle pareti della propria fortezza mentale, che vuole disturbare e contaminare? Non era nemmeno più possibile sentirsi soli e protetti, quando le ombre del suolo scivolavano verso la propria, quando le cose del mondo premevano contro i confini della propria carne e della propria anima. E allora servivano i bastoncini. Sia lode al profeta, anche se al suo tempo, poverino, non poteva davvero comprendere la vera essenza di stranezza e stupidità del padre di tutto e dell’avversario. Su quei due avevano addirittura architettato un intero modo di sentire l’universo, tutto il bene e tutto il male.
E poi, si fosse davvero considerato in tutte le sue implicazioni questo proposito, questo teorema di chi aveva progettato il mondo per il quale lui era già da considerarsi scomparso e inesistente… beh, non poteva applicarsi. In quanto “vecchiaccio bastardo”, e così chiamato anche dalle fauci idrofobe dei procioni mentali che era andato a richiamare dal loro sonno di putridume, ebbene, come appartenente a quella stirpe d’esseri che poteva ricevere dalla stirpe chiamata “gli altri” un nome del genere, poteva ben rivendicare il fatto che qualcuno ancora, tra campi troppo fangosi e gelidi per generare vita dal terriccio, tra boschi intricati d’alberi sottili sopperenti alla debolezza con la pervasività del fitto, c’era certo ancora qualcuno che andava pensando a gente come lui -e quindi a lui, e quindi a tutti loro. Si trattava di una leggenda, e che importava, allora, che sarebbe andata bruciata di lì a poco? Anche gli eroi antichi, quelli del tempo mitico, erano andati bruciati. Prima di vangeli e scritture che avevano ispirato, per sempre ignoti tanto a preti ed esorcisti quanto a indemoniati. Nessuno conosceva quello che avevano fatto coi corpi di luce, le bestie di fuoco domate, muscoli scultorei di semidei desertici scomparsi insieme ai cuneiformi, meno resistenti di questi.
Si vede che tutto -un altro teorema- funzionava a leggende effimere. E la leggenda dei vecchi così, selvatici vagabondi di pianura e acquitrino, voleva che cantassero quei futili blues. Questo li rendeva meno futili. Un vecchio del genere rideva folle, forse con la rabbia già dentro le vene simile a un esercito di raggelanti serpi nate da un veleno ghiacciato, nate da denti, e trasmesse attraverso il muoversi troppo a contatto con le bocche sporche dei cadaveri delle bestie della terra. Forse così contagiato, questo paria riverso nell’impurità lontana dalla luce delle grandi e ricche città, rideva, derideva, scherniva quello stato di cose. Non c’era niente di cui dolersi, ormai così decrepiti, nei confronti di quanto era stato stabilito da forze cosiddette superiori che erano in realtà né più né meno che tutto il resto parte di una stessa massa sconfinata d’imbecilli. Dunque a ciascun imbecille la sua leggenda, a ciascun eroe la sua bestia di fuoco domata, a ciascun imbecille la sua ricerca di un mucchio di cianfrusaglie sepolte, da andare a recuperare quando gli pare e accollandosi lo stupido e del tutto illogico sforzo di percorrere a piedi o a bordo di robe (carri, vagoni, grossi pesci, poca differenza) un intero mondo cosparso di morti, morti che diventavano fango, morti che erano aumentati dopo l’improvviso ritorno di morbosi soffi dimenticati nella storia, nelle storie, nel folklore del dolor di vivere così languido e perfetto dalle labbra contadine. Malarie, pestilenze, morie, rabbie, morbi, cancrene e polmoniti… “questo sarà il tuo regno, disse il profeta al primo che l’ascoltò. E quello, richiamando a sé la forza dell’altissimo e dell’immensamente basso, e gemendo e piangendo lo stridore di denti delle bestie selvatiche sotto il sole e dei demoni delle grotte, scatarrò con forza e risucchio, e al profeta indicò la sputazza gelatinosa così prodotta: maestro, questa è l’opera dell’uomo!”
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Scostò una radice che sporgeva dal terreno simile a una liana, sottile e verde e avvoltolata su se stessa: finse di scusarsi con la giovinezza dell’albero da cui certamente proveniva. Nel colore brillante della cellulosa annaspava l’inesperienza, la grossolana incapacità di tenere a freno la propria sete d’ossigeno e sali minerali. Faceva tenerezza, al vecchio. Ma ancor più faceva formula, rito, senso magico: era parte d’un recinto immaginario, che conosceva, a cui stava facendo ritorno. Scostare un viticcio da un cerchio che avvolgeva certe parti dell’enorme suolo, delimitando il posto conosciuto, era parte stessa di ciò che era venuto a fare. Sollevò un ginocchio, penetrò nell’area. Ortiche s’abbarbicavano contrariate ai femori nudi per i pantaloni tirati su, sfregavano i dentelli invisibili della propria foglia contro le rughe e le arterie sottopelle mosaicate tra loro. Nuovi incantevoli tagli si producevano sulla pelle del vecchio, entrato nel cerchio. Le fresche dita di penombra provenienti dai particellari tunnel nel fogliame degli eucalipti s’adagiavano alla sua pelle con una facilità incomparabile tra tutte le cose del mondo, più fluida della caduta della pioggia al suolo, più legittima del fragore del mare lontano: si posavano su ciò che da sempre le aveva fatte posare. Un decrepito vissuto per decenni che non dovrebbero esistere (e che stavano per smettere di esistere), ne ha visti, di eucalipti. Le loro ombre trascorse una dopo l’altra sulla sua pelle che trascorreva sotto le chiome, trascinata dalla linea lunga e goffa della deambulazione propria degli esseri di terra, degli esseri bipedi, e di quello che tra gli esseri bipedi andava dicendo d’essere il prediletto di dio -bella storia, dice il vecchiaccio, essere i prediletti di un simile imbecille! Esser prediletti da qualunque cosa costituiva un sollievo alquanto inconsistente, giacché l’intera composizione del cosmo era fatta di imb… oh, ma di questo aveva già parlato a se stesso, innumerevoli volte, fino ad annoiarsi e trovarsi fastidioso e testardo d’opinioni. L’unica colpa che faceva a se stesso, anche mentre si inoltrava per il terreno erboso di quell’ombra famigliare, pronta ad accoglierlo, era quella di non essere un buon conversatore. Ma non potevano fargliene una colpa i rovi e gli arbusti e le pozzanghere e gli uccelli d’acqua tutt’intorno a lui, perché con le loro teste riempite d’un saggio vuoto, sapevano cogliere questioni più importanti, come la sete e i raggi del sole. Erano sempre queste menti vuote, tra l’altro, ad accogliere quelle che erano le sue “risate rivolte ai vuoti del mondo”. E allora sghignazzò ancora, e perché sghignazzi, disse per finta il ciuffo fumoso d’un qualche tubero silvestre, beh perché sono pazzo, facciamo così.
Il vecchio si sistemò il cappello simile a una massa di fradici stracci di cuoio, e sulla tesa color bruno rugginoso, sorella al candore cespuglioso della barba e i capelli scarmigliati, traballavano e sfumavano andandosene le macchie d’ombra e luce filtrate dalla coltre di fronde verdeacqua. Piccoli veleni vivevano nelle foglie lacrimose degli eucalipti. Che in forma di polvere evaporassero da quelle trame di fragile e crepitante carta, coi loro principi mangiasangue ben conservati all’interno del nucleo, per andarsi delicatamente a posare sulla pelle rovinata di chi sotto di loro marciava? Il vecchio in qualche modo se l’era anche chiesto. Perché sapeva che le uniche predilezioni, che potessero provenire dal cielo e la terra, erano quelle dei veleni o quelle delle acque. Quando aveva sete, desiderava esser prediletto dall’acqua, in forma di pioggia (la quale era sì parte di quello stesso mondo privo di senno, ma forse si distingueva, per qualcosa, una trasparenza, una proprietà meno risibile…), e quando aveva mal di gambe o di mente, la pioggia di un un veleno dei tanti vaganti, forse, sarebbe stata destino fortunato. Comunque fosse, non era passato molto che aveva bevuto un po’ di pioggia accumulata in una conca sudicia, dalle pareti molli, simili allo stomaco abbandonato da un ruminante. Qualcosa ci era anche morto, là dentro. Si era rinfrescato labbra e gola con quella mistura marroncina, in cui galleggiavano frammenti di corteccia e forse di funghi, insieme a batteri di dissenteria purissima. Un tempo, quando gli facevano effetto, gli avrebbero provocato, attraverso il lancinante contorcimento di budella, perfino delle visioni. Ma adesso era solo acquetta per un vecchio, che stava a posto per un po’ con la sete. C’era solo quello che era venuto a fare.
-permesso!-, gridò, grattandosi poi violentemente la gola con catarrose unghie di gargarismo e rigurgiti. Diede colpi di tallone al gradino ligneo, appena sollevato rispetto alla linea ombrosa del suolo, dell’ingresso della bassa palafitta. Le dita grigie e gialle come vermi di nicotina s’avvinghiarono ai bordi interni, i polpastrelli s’affossarono nella leggera mucillagine che anni ininterrotti d’umidità avevano conferito al legno delle pareti. Si sporgeva all’interno e perlustrava, con scintille d’insolita apprensione nello sguardo, le disagevoli coltri di tenebra che parevano frusciare in longilinee appendici dagli interstizi delle tegole, componenti il singolo ambiente scarno dell’interno della casupola. Emanavano un unico compatto odore, in cui era rimasto per sempre intrappolato uno spirito della pioggia caduta ininterrotta per chissà quanti anni, di chissà quale lunga era pluviale, sugli eucalipti là fuori. L’avevano risucchiata tutta, riversata forse nel sottosuolo, e forse del marciume di quell’acqua rigurgitata da tubature vegetali s’erano impregnate anche le fondamenta, conficcate nel terriccio paglioso, della struttura abbandonata. Menhir verdi d’imprecisata natura a volte foravano la pavimentazione, s’ergevano stillanti di linfa pregna di sentori aciduli negli ambienti compresi tra mura che erano state lasciate sole con gli anni e con gli alberi, con gli elementi. Magari erano figli di radici degli eucalipti, o loro tumori. Ce n’erano alcuni anche lì, confusi in quell’alternanza, armonica sopra le tegole, di nulla impolverato e invasività di rampicanti, fogliette annuenti da liane, forme del verde che s’aggrappavano a tutto. Simile a un minerale, uno di questi organi, falso polmone di radice, era completamente avvolto da una soffocante spirale d’edera. Forse era lì sotto, pensò il vecchio, che tanto tempo fa aveva sepolto la cassetta riempita di inutilità varie. Serbando un’essenza dentro lo scrigno, l’avevano poi sparsa fino a farla inoltrare nei risucchi di appendici predaci lì intruse. Crescevano meglio i simbionti in questo influsso.
Ci mise più tempo di quello che avrebbe dovuto per vederlo, e soltanto per questo sobbalzò -non è che non se lo aspettasse, insomma. Forse era vero che la vista scompariva, non importa quali nuove scintille animassero lo sguardo. Quello era là, enorme, fermo che pareva in attesa. Proprio lì con il brutto cranio puntato all’ingresso, quadrupede (si sarebbe potuto dire in piedi o seduto?) con la stazza da montone sulle zampe dritte e tozze, e le rosee froge porcine roteanti nell’affanno incolmabile del respiro, nel tentativo di captare qualcosa assieme al tremito delle vibrisse infilzate nella punta del muso lungo e indagatore. L’enorme opossum, la sua simbolica bestia lasciata a un bivio delle sue passate gesta, attendeva, apparentemente. Roba da non crederci, scosse la testa il vecchio.
-e allora?? Quant’è che ci hai messo? Mi hai portato qualcosa da masticare?-, sibilò l’opossum della Virginia rizzando tutti i peli del grosso volto sbiancato di fantasma, e fece oscillare dietro sé, come ad ammaestrare tutta la polvere depositata nella tana, il lunghissimo e sgradevolmente muscoloso lombrico della coda. Difficile dire se fosse un saluto, una forma di disappunto, una trepidazione.
-vecchia strega! E quant’è che te ne stai là a fossilizzare, a pensare a me e nient’altro, eh?? Non ha preso pure te la rabbia che gira, o la peste dei marsupiali?
-pensare a te? Che strane idee! Per un pensiero che mi prendo adesso. È anche ora che crepi, no?
-non pensavo che avrei incontrato un topo avvezzo a esprimere cordoglio per la mia scomparsa dalla fogna della vita.
L’opossum lanciò un assordante raglio, che s’inasprì strusciando contro le zanne retratte dalle bulbose gengive esposte a minaccia. Quel raglio voleva dire, in una lingua banale che sarebbe esistita soltanto in chi avesse un giorno deciso di raccontare, resuscitandola, quella leggenda destinata a venir bruciata, qualcosa come “non chiamarmi topo! Non chiamarmi topo!”, e altre cose di questo tipo, senza speranza. Patetiche rivendicazioni, versi d’animali. Tutte frasi che confermavano le teorie che il vecchio si era fatto sul mondo, sul fatto che era come era in conseguenza del modo in cui era comparso e dell’artefice.
-dai, basta, sta buona. Anche tu hai un’età.
Si avvicinò. L’opossum, voltandosi, appiattì con la coda molte disperate testoline ballonzolanti di quel fogliame intruso di case palustri. Cominciò a grattare il pavimento con unghie uncinate e sporche, macinando una granula di legno fradicio che s’accumulava in trucioli saltanti da ciascun intervallo ritmico dei movimenti rasposi. Davanti, sotto il lavorio delle zampe nude e in un intreccio di materia vegetale, pavimentazione, polvere e altri detriti indefiniti, cominciò a comparire un buco. Il vecchio si teneva sbirciante in piedi dietro al dorso dell’opossum ed entrambi guardavano dentro al buco, sembrava, in attesa che si allargasse nel corso dell’operazione.
-di un po’, ma non mi avevi riconosciuta?
-perché mi chiedi questo?
-è parso alle mie vibrisse come se ti sorprendessi nel vedermi.
Era vero. Forse non l’aveva riconosciuta. Il vecchio, con in gola un lieve sgomento come se all’improvviso avesse succhiato nettare ghiacciato dalla pelle di un rospo, stette a guardare in silenzio il buco che si espandeva, un occhio cavo nei frammenti del terreno. Era vero, una parte di lui non l’aveva riconosciuta. Nel suo blues cantato sotto gli eucalipti, era scomparsa una strofa. Senza avvisare, ridotta in riverberanti frammenti sempre più spettrali come dal banale sobbalzo di una puntina sul vinile, oppure simile a un annebbiamento d’oblio, l’azione di qualcuno che ritoccava i dischi praticando bruciature nei solchi. Parti di canzone si facevano evanescenti di un’evanescenza rozza, crepitante. La memoria e i pentagrammi -del tutto ipotetici per i cantori della musica rigorosamente senza scrittura- si svuotavano senza farsi sentire. Eppure, in fondo, il risultato non era differente da quello di una strofa che fosse stata brutalmente recisa.
Tese una mano, le dita a turbinare disperate nell’aria scura, annaspando per ritrovare quella strofa, certi pezzi di sé che non stavano nella cassa sepolta sotto la palafitta. E si sentì per la prima volta un vero vecchio, colto da spasmi nati in profondità dentro il braccio. Il gesto, quasi invisibile, più fantasma che gesto vero, sfuggì anche alle molteplici percezioni acute dell’opossum, concentrato nella sua operazione.
Solo un vecchio nel buio, rimasto senza pezzi.
…
Ah, il piano di sotto. Che dire. Cosa avrebbe detto, per esempio, il profeta? Se lo immaginavano gli esuli della nostra genia, prima che facessero albeggiare sulle rovine desertiche le civiltà che si sono poi susseguite, ciascuna a combinare i suoi casini? Certo, parlavano già di “inferni”… ma no, quel “piano di sotto” non potevano conoscerlo.
Eppure il vecchio, del tutto insensatamente, decise di proseguire con quel gioco d’immaginazione. Ma sì, facciamo che il profeta ha modo, lui e due tre suoi seguaci, facciamo che hanno modo di conoscere questo posto, il piano di sotto della palafitta, in questa landa umida lontana dai deserti. Si diceva così, si giustificava, perché i vecchi -lo aveva sentito dire, da chiacchieroni e rospi e uccelli di palude, mai che tacessero- diventano come i bambini. Quei bambini che in un crepuscolo aveva visto giocare, e l’avevano guardato passare, e si erano tutti guardati, in silenzio. Misteriosi bagliori rossastri erano scivolati sugli abiti logori del vecchio mentre passava di fianco al salice e teneva lo sguardo fisso, sugli altri sguardi che, senza mai sbattere le palpebre, lo ricambiavano e con invisibili mani d’intenzione sostituivano i pezzi dell’atmosfera. Mettevano al suo posto un’aura di tensione, simile al timore febbrile racchiuso in fiabe dai contenuti cupi. Tutto s’era interrotto, stettero in sospeso. Il vecchio, andandosene nel silenzio da quel cerchio campestre in cui per alcuni istanti era scomparso ogni linguaggio, aveva continuato a voltarsi, per vedere: continuavano ogni tanto a guardarlo, quasi ammonirlo, ma intanto riprendevano a giocare, si colpivano a vicenda, oscillavano, utilizzando un copertone semidisintegrato penzolante dai rami del salice da cui sgusciava filamentosa una fune, pareva un lembo di carne marrone sul punto di strapparsi. Ma per loro cos’era? Il collo di un rettile preistorico, un fulmine, forse un nulla, perché la ruota galleggiava in un’aria che immaginavano di solcare, avventurieri. E la ruota era forse una nave. Era passato un intruso temporaneo nel loro mondo. Ah, ma adesso l’ho vinta io, stupidi marmocchi!,-poteva dire: era invecchiato ancora un po’ da allora, chissà quanto era passato, e invecchiando ancora si avvicinava a una fine in cui i deliri della solitudine e del logoramento fisico acquisivano energia sufficiente a rendersi palpabili, sottoforma di visioni sempre più vivide. Più vivide e vere e capaci di spaventare di qualsiasi sogno d’infanzia.
“E allora il profeta disse: osservate, figli dell’uomo e della sabbia, poiché questo è il piano di sotto. Maestro, cosa troveremo nel piano di sotto? Maestro, c’è qualcosa che il figlio dell’uomo e della sabbia è venuto a fare al piano di sotto, questo sepolcro, terra buia e del freddo nelle ossa irredente, cosa troverà? Un sacco di merda indefinita, tanto per cominciare. Questo perché qualcuno ha avuto l’idea forse malaugurata di scavarlo sotto la palafitta tanti anni fa, quando questa ancora fungeva da struttura satellite alla grande casa del bosco d’eucalipti insieme ai magazzini delle granaglie e tutto il resto. Il figlio dell’uomo ebbe quest’idea e cominciò a venirci per abbandonare ciò che non gli serviva più, ciò che voleva dimenticare, oppure ciò che voleva esistesse in un diverso spazio, dal quale poterla recuperare lontano dagli occhi degli intrusi. E la sua mano, ladra come i predoni che s’annidano tra le spine della natura selvaggia e i loro uccelli cacciatori, la mano del figlio dell’uomo furente e nera come le fiere che soffiano fino a sopprimere il suono della preghiera, s’avvinghierà ai frutti seducenti di questo mondo inferiore. Egli è simile al re che nasconde il tesoro del popolo, egli è simile alle bestie carnivore che ricoprono di fogliame i resti della preda: sapeva già, quando compì il nascondimento, che un giorno sarebbe tornato, e ciò sapendo ha trascorso i suoi giorni e le sue notti con un sorrisetto da vero bastardo nascosto da qualche parte dentro le pieghe del volto. Sta scritto che il figlio dell’uomo è prima di tutto il figlio di una grande scrofa.”
Così avrebbe detto il profeta. Compiaciuto, il vecchio annuì mentre scendeva l’ultimo gradino.
Faceva freddo come in una cantina. Sapendo che sarebbe rientrato in quel luogo appartenente alle viscere profonde della palafitta, simile per temperatura e odore annacquato dell’aria a quello che sarebbe stato se la palafitta avesse effettivamente galleggiato su un lago, il vecchio aveva preparato un suo sistema: trasse da sotto il cappello due malloppi tutti accartocciati che aveva tenuto per tutto quel tempo sulla testa, e mentre seguiva nell’oscurità l’opossum cominciò a dispiegarli. Si trattava in realtà di lunghi tranci di pelle, si sarebbe detta pelle di serpente, sulle cui squame era stato incollato con saliva e succhi di piante un pelame sudicio. Pareva fosse stato strappato da qualcosa di bianco. Stranamente queste cose gli trasmettevano calore e se le gettò attorno al collo, fino a farle discendere in mezzo alle gambe, alla maniera di sciarpe troppo grosse. Sentendo un odore di carcassa, l’opossum si girò a guardare.
-santo cielo!-, emise un gridolino, forse a voler dire “e che schifo è questa roba?”, o almeno così pensò il vecchio.
-ah, non cominciare con queste cose del buon gusto e tutto il resto! Tu sei un animale, ricordatelo.
-come hai fatto a trovare un’anaconda pelosa da queste parti?
Il vecchio rimase perplesso, indugiò sui grandi globi tondi che nel faccione dell’opossum luccicavano curiosità e stupore placidi come acquerugiola nella tenebra disomogenea. Non era una domanda che si aspettava, e non sarebbe stato in grado di rispondere. Eppure si riteneva un tipo scaltro. Venire al piano di sotto forse era davvero come avevano detto quelli prima di lui, com’è che li chiamavano? La famiglia. Sì, quelli della famiglia avevano detto che a volte succedono cose strane là sotto, e uno ci rimane confuso, confuso riguardo a cose di se stesso… assurdità di questo tipo avevano detto, e lui non ci aveva mai creduto. Del resto, erano tutti crepati, di alcuni si era pure scordato i nomi. Rimaneva solo lui a poter determinare se era proprio così. E non era intenzionato a dar ragione a nessuno.
-ah, l’anaconda pelosa, dici! Certo, sì. Dove l’ho incontrata, dici?
-certo, certo, e che altro?? Sei strano, dai dimmi, dimmi, le uova!-, ansimò l’opossum con una specie di striscia di labbra frementi. Pensava solo a infilarsi nel nido di un animale mitologico e rubargli le uova piene di niente, e succhiare rumorosamente quel niente da un foro rotto nel guscio con scricchiolio di vetri masticati.
-hai presente il fiumiciattolo triforcuto, quello che da un po’ è in secca?
-ah, sì sì! Vicino al pioppeto, con quelle belle radici contorte…
Il vecchio annuì. Gli occhi chiari sapevano star fermi, se davvero lo volevano, e in questo erano capaci di ingannare su qualunque cosa.
-lì c’è un bassarisco che cucina dei semi di zucca tostati gustosi.-, commentò l’animale facilmente persuaso.
-eh, sì, mi ricordo.-, accondiscese. Per fortuna aveva la pazienza che serve a un vecchio nel tempo in cui i destini bui e imperscrutabili del piano di sotto lo costringono a rapportarsi con un grosso animale che pensa sempre al cibo.
Procedettero a tentoni, sebbene entrambi conoscessero gli angoli, le strettoie, l’odore salmastro. L’umidità si infilava nei muri simili a muffa, e i muri perdevano consistenza. Cos’erano stati, cemento o legno, pietra da porcile, non importava assolutamente, una volta che la cancrena fungina, il sentore dove si discioglievano insieme un impulso respingente e uno all’incanto, s’apriva in fogli solcati da ruvide ramificazioni di pattern, croste bucherellate stillanti polvere urticante per le narici troppo ravvicinate. Ammassate contro le pareti così rivestite, stavano le cose che per un motivo o per l’altro erano finite là sotto. Certi oggetti sprofondavano da soli, inghiottiti dalle sabbie mobili e i pantani nel mondo esterno, nel giardino (i sottosuoli erano collegati); certi altri, invece, vengono inghiottiti, senza ragione, dal pavimento, sebbene sembri rigido e costruito in modo da star fermo. No, certe cose ci camminavano e sparivano, e finivano lì. Altre, è ovvio, nascevano direttamente laggiù. Il vecchio si ricordava i fantasmi dalle molte zampette brulicanti che aveva vagheggiato quando scendeva là sotto in un tempo di giochi temerari dimenticati, gli scarafaggi mai visti ma sempre sentiti. Le loro ovoteche viscide, l’analogo sotterraneo della polvere, dovevano imperlare di gelatinosi bulbi tutte le superfici indistinte nell’assenza di luce. E le radici, certo. Penzolavano dal soffitto che a ogni impercettibile movimento del suolo pareva sgretolarsi, pioggerella di vaporosi calcinacci tra radici sfilacciate. A ciascun mazzetto di radici beige doveva corrispondere una coltura di quelle che avevano invaso il pavimento. Queste e altre le cose che nascevano direttamente nella logica del piano di sotto. Ancora più ovvio era che alcune cose dovevano essere state messe lì dalla volontà di qualcuno. Dimenticare, lasciare in promemoria, occultare.
Ricordava più o meno il punto, sì, sotto quel menhir verdastro, aberrazione vegetale. Ma se non si era portato una pala sulla spalla, risparmiandosi così la fatica comune a molti altri vecchiacci nei loro giorni tra i campi, era perché non aveva mai avuto intenzione, in fondo, di scavare, disseppellire. Quella era solo una metafora. Il vero disseppellimento avveniva con l’interessato ai segreti del sottosuolo che scendeva laggiù in persona, prendeva, risaliva. Ecco cosa stava facendo. Il problema, però, era che le architetture si capovolgevano. Non si trattava solo del fatto che radici penzolavano dal soffitto, sarebbe stato ingiusto parlare del piano di sotto come di “un altro mondo” per simili ragioni. Eppure, quelle che in superficie sembravano “mappe” agli occhi di uccelli e altri migratori bipedi, si scombinavano quando venivano vissute laggiù. Non avrebbe saputo, traslando i passi suoi dal pavimento a ciò che sotto il pavimento giaceva ottenebrato, ritornare al punto sotto il quale sarebbe dovuta essere la sua cassetta di cianfrusaglie. Quel punto in corrispondenza del menhir avvolto dall’edera, insomma -cominciava a provare un certo fastidio all’idea che fosse proprio quello il punto, come se volesse comunicargli una sorta di sgradito simbolismo (menhir ed edere facevano pensare ai volti rossicci dei vecchi suoi, vecchiacci di quando lui non era ancora un vecchiaccio, giunti in quel continente di pioppi ed eucalipti per costruire fattorie dove pensavano non ci fossero zanzare…).
Un’altra cosa lo infastidiva: poiché non avrebbe trovato subito quello che doveva prendere, sarebbe dovuto passare per forza accanto a tante altre robe che sapeva giacessero là sotto. E l’opossum avrebbe fatto domande. E lui odiava rispondere.
-e quello, eh, e quello?
-eh, quello… aspetta che troviamo la torcia…
-io ci vedo al buio però. È bello. Un centrotavola? Oh, e quello, un candelabro! Non è così che li chiamate?
In fondo sapeva che ce l’avrebbe trovata. Quell’opossum che si portava sul dorso i cuccioli, l’aveva raccolta, quando ancora era di dimensioni normali e non parlava, nel giardino della tenuta degli eucalipti. Cominciava già a scordarselo, ma supponeva fosse in primavera, quando padre e zii e i maggiori tra i cugini si recavano a discutere coi signori, ed era tutto un gesticolare di gentiluomini, mettevano le donne a cucire sulle sedie a dondolo in veranda mentre nel biancore pomeridiano della casa loro tessevano rapporti commerciali, gesti di sotterfugio e strette di mano. Aveva raccolto l’opossum, afferrata per la schiena, sentiva i piccoli palpitare morbidi sul suo palmo mentre la portava che si agitava furiosa nella sua stretta, per farla vedere. Gli dissero qualcosa, non ricordava cosa… probabilmente che non se ne facevano niente, o forse che non doveva toccare gli animali pieni di malattie, chissà. Ah, se l’avessero vista, com’era cresciuta! Avrebbe forse tirato i carretti e gli attrezzi meglio dei ronzini malaticci di quel tempo privo di avene e mangimi grassi. Invece gli dissero di abbandonarla, di darle un calcio forse, perché era inutile. Ma l’aveva fatto? Non si ricordava. Eh, se avesse dovuto ricordare tutte le cose che aveva preso a calci in una vita di vecchiaccio vagabondo! Era la sua scelta, di vivere così. Giacigli provvisori, donne di notti singole, solite storie squallide senza fondamenti nella memoria.
Trovò la torcia, uno strumento antico. Allora era parso così nuovo, col potere della lucciola incapsulato nell’occhio da ciclope. Doveva aver dentro una batteria fioca, ma immortale, d’acidi banditi dai commerci di tutti gli stati. L’afferrò. Filamenti appiccicosi sgusciarono da tutta la sagoma dell’oggetto mentre veniva raccolto. Fece un cenno all’opossum per avvertire che l’avrebbe accesa, e l’animale si scostò per impedire che la luce, per quanto debole, infilzasse la notturna umidità degli occhi già fatti restringere tra le muffole di pelo bianco che aveva per guance. Puntò il raggio vacillante sulle ombre circostanti e dalle incrostazioni umide inverdite si levarono a ogni guizzo della torcia nuovi morbosi colori, e da ogni ombra sgusciarono altre ombre, movimenti ticchettanti come stillicidi di caverna, e a ogni ombra proiettata con riluttanza dagli oggetti sprofondati si levavano domande.
-una foto!!
Certo, doveva per forza riferirsi alle foto. Forse nella curiosità dell’opossum c’era qualcos’altro oltre al cibo, e il vecchio credeva si trattasse di tutto quanto fosse in grado di infastidirlo, costringerlo a dare spiegazioni. Probabilmente il profeta e i suoi seguaci non avevano conosciuto gli animali in grado di parlare, tormentare. Solo bestie da domare di cui s’era raccontato nelle parabole andate distrutte. Per domarla, poteva purtroppo solo rispondere, cercando magari di omettere qua e là.
-certo, sì… lo sai, che è il mio vecchio. Guardalo, con quella sua uniforme. Ah, se vuoi, dovrebbe esserci anche quella, qua da qualche parte. Puoi andare a masticarla, magari, non so cos’è che fate voi…
L’opossum soffiò per qualche motivo. Forse era una battuta offensiva. La foto del padre del vecchiaccio stava incorniciata in una forma stranamente simile a un cuscino, grande all’incirca quanto un busto marmoreo. In piedi in giardino con fare marziale e una specie di divisa indosso, con l’aria di non rendersi conto di quanto fosse eccentrica e di credere al contrario nella sua profonda dignità. Nel volto, scolorito e irriconoscibile nella deformazione dei grigi e marroni della pellicola, si riusciva comunque a percepire con sorprendente nitore l’aura dei lucidi baffi che c’erano stati.
-con quella lama smussata che spunta dall’arma,- fece il vecchio anticipando le domande, disarmandole -mi ci “puniva”, diceva lui. E un sacco di legnate, anche. E adesso è solo un morto dentro una foto morta, hahaha! Che stupido vecchio.
-odiavi tuo padre?
-odi… odiare? No!-, esclamò sorpreso il vecchio, con genuina aria di non aver compreso il significato della domanda.
-e tua madre?
-eccola.
Fece un cenno a un cuscino pieno di ricami, questo senza cornice, posato sullo stesso ripiano di legno impolverato che ospitava la fotografia. Nappe d’oro adornavano i bordi disegnati da cordoncini che s’intrecciavano ricci a imitare la forma di capelli, risalivano fino alla sommità dipartendosi da una linea di separazione centrale, e pochi motivi sulla federa al di sotto del tendaggio così costituito simboleggiavano molto rudimentalmente un volto di donna. Aveva ricamato se stessa, che gesto annaspante. Anche lei era una donna morta, rimasta solo dentro un cuscino morto! Era stata, in vita, abilissima con le mani. Il tessuto sotto i palmi era solito riflettere una specie di candore argenteo, come se la pelle e le trame che venivano cucite, lavorate o lucidate si svuotassero reciprocamente di colore. Molti oggetti pregiati aveva prodotto, ma aveva sbagliato -così pensava il vecchio, per qualche motivo- a infilarci dentro se stessa. Ora era costretto per questo a vedere una cosa che simboleggiava la sua faccia, una faccia morta, e l’effetto era grottesco. Il padre col volto cancellato nella sua fotografia sembrava solo uno scemo a paragone della resilienza vitalistica di quel cuscino. Comunque, tutti morti, annaspante sete di gloria, di farsi ricordare.
-e i fratelli e le sorelle?
-mah, i fratelli e le sorelle… erano così tanti a quei tempi, sai. Saranno diventati questa poltiglia- sollevò una scarpa, puntò il raggio alla suola per vedere i grumi di quelle uova di scarafaggio spappolate che cadevano staccandosi con un cigolio colloso.
Certo, quelli potevano essere i suoi fratelli e le sue sorelle. Si erano scomposti in parte in quella sostanza, in parte in tante altre cose che avevano lasciato dietro, volontariamente o meno, e che erano state ingurgitate fin là sotto. Ma era altrettanto probabile che fossero diventati dei vecchiacci come lui in attesa soltanto del giorno del loro ritorno per una qualche reliquia ossessionante, lasciata appositamente lì. Se la loro fosse stata una leggenda di quelle recitate in versi o in frasi tali da echeggiare in camere ampie, ci sarebbe stato uno scontro, una lotta fratricida tra vecchi decrepiti nel piano di sotto. Ma nessuno bussò, non c’era rumore di passi sulle mattonelle di sopra, e nessuno passava per il buco che l’opossum aveva riaperto, compiendo il suo ruolo nel cerchio magico.
C’era un gran rovistare, tra tentennamenti e intrusioni nel buio. Prima di poter recuperare il tesoro. E c’erano numerosi ragionamenti, per esempio: erano tutte cose della sua famiglia?
-le famiglie allora erano delle imprese commerciali. O almeno così dicevano loro. Io mi sono sempre rifiutato di capire. Impara, ingenuo marsupiale: il mondo dei cristiani è quello in cui un tipo come me, che se ne va a fare il vagabondo, è detto “qualcuno che si è rifiutato di capire”. Per un certo periodo, per lo stesso motivo, vieni detto anche “bambino”, finché dai graffi del mento calloso a forza di schiaffi non comincia a spuntarti questa inequivocabile barbaccia che vedi, e allora finalmente ti lasciano solo concedendoti la pace che t’avrebbero dovuto rendere sin dal giorno in cui la pancia rosa e vischiosa della madre s’è squarciata, a formare un’orribile fica responsabile d’aver fatto passare per prima fino agli occhi l’obbrobrio della luce.
L’opossum cacciò fuori la lingua rossa in una smorfia di disgusto, più per la luce che passa attraverso “l’orribile fica umana” descritta dal vecchio che per la fica in sé.
-per queste cose quelli della mia specie si fingono morti!
-per non dover sentire certe cose, vorrai dire. Comunque, queste famiglie si formavano attorno all’asse degli affari, dei cui tarli io non volevo sapere niente. Ci si equilibravano sopra famiglie di sangue, famiglie lontane, famiglie di patti, stranieri, di tutto. Visitavano case dei patriarchi influenti, i profeti di quest’acquitrino magro di risorse, ma a vederli girare impettiti con gli stivali sempre lindi nel fango dei campi come sugli scalini, li avresti detti capaci con qualche preghiera e qualche colpo di fortuna e qualche calcolo ben fatto di rendere fertile tutta la terra, manco fossero preti con i miracoli dentro le mani. Poi come sia andata a finire, quante cose siano crollate su se stesse, non lo so e non m’interessa: avevo già seppellito quello che dovevo e sapevo che sarei ritornato cent’anni dopo, se mai fossi ritornato. Ah, e c’erano torme di marmocchi. Non posso escludere che qualcun altro di quei marmocchi che giocava nei giardinetti avesse prima o poi scoperto questo buco enorme sotto la palafitta. E allora vedi che si è riempito di tante cose a cui non saprei dare un nome. Oh, ma perché dico queste cose a te? Che sei solo il ricordo di un pomeriggio, o di una notte e… ah, cazzo, non ricordo! Taci per un po’!
-ma se sei tu che blateri per ore!
-è per le tue domande insopportabili che mi devi ancora fare, stupida megera, puttana arboricola!
-oh, e cercatela da solo questa cassetta di cianfrusaglie!
-e chi ti vuole!
Perlustrarono un po’ per i fatti propri. L’opossum infilava il muso dove credeva ci fosse qualcosa, da mangiare o da scoprire, e magari avrebbe scoperto che anche alcune cose che avrebbe potuto dire “sue”, ungibili nella presa delle zampette glabre, si trovavano lì. Forse era un ripostiglio di cose generali di tutta la pianura. Il vecchio lanciava a destra e sinistra attrezzi arrugginiti, scheletri di gatti seppelliti e andati a finire là sotto, ceneri di stoppe di granturco da fuochi di fine estate. Le mani gli si sporcavano di quella granula paganeggiante, scura come carbone, e provava un certo senso di soddisfazione non dissimile dal gusto per la fragranza che si levava aromatica dai falò campestri. Aveva detto: sapevo che ci sarei ritornato. Senza sapere nemmeno per cosa. Il vecchiaccio era un animale completamente diverso dal cucciolo che era stato un tempo. Anche pensando ai batuffoli, quei figli che s’aggrappavano al dorso della piccola mamma opossum, non erano certo capaci di fingersi morti nella stessa maniera degli esemplari adulti, le loro piccole gole non avrebbero sopportato lo sforzo di schiumare e tingere la pelle violacea. Per questo la sua fatica più grande al momento era quella di ripescare gli istinti che l’avevano animato allora. Sapeva solo che allora sapeva che sarebbe tornato e che avrebbe saputo, e che insomma, lo stava facendo per il vecchiaccio che da lui sarebbe uscito fuori, come sdoppiandosi. Cercava i rimasugli che un altro animale aveva lasciato per lui.
-e poi quando trovi le cose che ci farai?-, si fece risentire l’opossum, trascorso un tempo indefinito, in cui la penombra aveva mutato la sua composizione. Sembrava riflettere, pur nel suo modo accecato, gli scintillii sui cristalli d’acqua lacustre che amalgamano le loro diverse gradazioni di blu e verde nei bassi flutti lambenti la riva. C’erano immersi dentro, uomo e opossum.
-niente.
-come niente?
-e che ci devo fare? Donna impicciona. Volevo dire opossum, volevo dire sorcio. Ma non hai fame?
-santo cielo, non sai niente, non sai nemmeno che c’è là dentro!
-no, dico, se hai fame, puoi andare a masticare le maniche dell’uniforme del mio vecchio. Il mio vecchio, è proprio giusto chiamarlo così. Chissà dov’è la sua tomba.
-magari a questo punto sta dentro quella cassetta di cui non sai niente, no??
Il vecchio arrestò momentaneamente il lancio delle macerie, pensieroso. Sbuffandosi via da una guancia un ciuffo in cui s’erano intrecciati capelli, peli storti di barba e fibre di radice, pareva aver infine concluso che era plausibilissimo trovare una tomba dentro una cassetta. Anche se quando l’aveva sepolta suo padre non era morto, essendo una roba che aveva fatto per un altro animale, un vecchio del futuro, per il quale effettivamente il padre era morto da un po’, allora… comunque fosse, trovava assurdo rapportarsi per la prima volta a quell’età, in bilico sui campi commerciati solo dalla morte, ai paradossi. Partoriti tra l’altro da un marsupiale, tra i peggio animali di questa terra quanto a comprendonio. E tutto questo perché dei profeti antichi erano sopravvissuti i peggiori! A parlare di dio come se fosse un’intelligenza nell’alto dei cieli. Il suo profeta invece, quel profeta che s’era immaginato tutto da solo e che diventava realtà e consolazione alla realtà -ora prossima a sgretolarsi-, diceva le cose come… com’è che si diceva? Come stavano, diceva le cose come stavano.
…
Di sicuro era notte, ma chissà quale notte. Ed era logico: una notte senza nome, quella in cui finalmente crepa, e sparisce la sua leggenda per sempre. L’eroe con la barba sporca, il volto appena distinto dalla fuliggine del sottomondo, in piedi sotto le stelle e la luna, subito dopo seduto sotto le stelle e la luna; e nel flusso riposante sparso da tutte le membra rilassate dalla fuoriuscita al mondo esterno trovato incredibilmente quieto, le labbra ricominciavano a fischiare una melodia taciuta; e accanto la sua bestia domata col ventre sgraziatamente accasciato al suolo, come una grassa contadinotta che a fine giornata sviene su una poltrona da esterno sotto un faretto sfrigolante di falene morenti.
Che avevano fatto là sotto, come erano usciti, erano tutte vicende per le quali non esistevano spazio e tempo, in nessun racconto tramandato. E poi tanti altri opossum morivano sulla prateria, insieme a tanti altre bestiole zannute. Giravano la peste, la rabbia, la moria. Per un po’ erano stati lontani: il piano di sotto non era raggiunto dai soffi rancidi, stranamente. Eppure ci avrebbero vissuto così bene, fortificati da un’atmosfera di malattia stranamente gradevole, accomodante in realtà per tutto ciò che esisteva di vivo e di morto e di salubre e pestilente. Un’atmosfera che abbracciava chiunque, una volta trascorso l’iniziale ribrezzo. Veniva voglia d’andarcisi a rifugiare ed erigere barriere. Ma quello stesso posto risputava fuori gli ospiti quando veniva depredato ciò che era stato lì collocato soltanto per poterselo riprendere. Incomprensibili logiche di laggiù. Al tempo del profeta già parlavano di “inferni”, ma non si trattava di questo, no… eroe vecchiaccio e opossum scorbutica stavano là a guardar le stelle appena fuori dal bosco d’eucalipti, e anche a guardarle, dio e diavolo restavano gli stessi imbecilli di sempre.
Aria fresca di campagna accoglieva di nuovo le forme del blues, le melodie che lo componevano. E presto anche le malattie avrebbero raggiunto i due. Lui cantava, sottovoce. L’opossum rimestava coi peli interni alle narici quei vasi sanguigni estremamente ricettivi in cui s’erano immagazzinate in succulente forme le miriadi di sensazioni del sottosuolo visitato poco prima. L’aveva stordita la sclera traballante in fondo al tunnel che si era aperto per farli uscire, una specie di buco speculare a quello che lei stessa aveva scavato (si sarebbe potuto ricercare l’animale responsabile dello scavo speculare, ma uscendo dalla bocca videro intorno solo tracce per niente fresche di zoccoli e frasche strappate da un grufolare caotico…). Gradualmente il bagliore s’era fatto più bianco, e in qualche modo liquido, mostrando così che non si trattava del sole. Allora l’opossum si rese conto del pregiudizio insito nei suoi occhi, già strabuzzati per timore del giorno. Quando capirono di trovarsi insieme alla luna e le stelle nell’ultima notte, si riempirono di lacrime fresche e rassicuranti.
Era un tunnel pieno di versioni sotterranee di quei menhir in mezzo ai quali era stata ad attendere così a lungo. E aveva visto il vecchio, che correva con la cassetta della sua scoperta sottobraccio, farsi via via più ansioso, mai visto così. Gli sembrava in quel tunnel di rifare tutto il viaggio che aveva fatto, per uscire chissà dove. Si accorgeva forse di aver visto in quel suo viaggio diverse cose che l’avevano preoccupato in maniera soltanto subdola, in attesa di render visibili le apprensioni di cui erano gravide soltanto in un tempo successivo. Tutto nel mondo illogico in realtà febbricitava di ragionamenti e calcoli, così come lui era stato calcolatore. Eccolo che se ne usciva finalmente con il tesoro che aveva messo al riparo, il successo dei suoi calcoli.
Non erano usciti chissà dove, era solo la fine del bosco di eucalipti. Poteva nel frattempo essere cresciuto a dismisura, fino ad ammantare con le fronde velenifere le isole del mondo intero, ma a loro questo non importava. Si sentivano vicini al mondo conosciuto, di quella proprietà di campagna i cui edifici erano per la maggior parte scomparsi, sprofondati e non ritrovati nemmeno nel sottosuolo dell’unica palafitta rimasta, vestigia d’un passato che era tutto il passato -preistoria, esodo, scoperta, commercio e conquista, di nuovo esodo ma solitario, e insomma per l’amor del cielo tutto quanto, tutto il dannato passato. Erano vicini a dove erano stati e dove lui doveva ritornare, questa era l’impressione.
-certo che era pieno di merda incredibile, il piano di sotto.
Il vecchiaccio senza rispondere canticchiava, nel suo ultimo sforzo di mettere insieme le pentatoniche della voce, le melancoliche settime che l’avevano accompagnato sempre.
-un sacco di merda.-, ripeté con convinzione l’opossum.
-mah, non parlar male, del piano di sotto… forse.-, biascicò il vecchio tra una strofa e l’altra. Freddo era il suolo, cantava.
-perché? Ci punisce come ha fatto cacciandoci?
-non lo so in realtà.
Le pareti del tunnel si erano ristrette, e riempite di ciò che l’opossum chiamava “merda incredibile”. Mostri e divinità strane, figure deformate di donne e uomini incontrati sulla via del vecchiaccio. Era molto patetico a vederlo imbarazzarsi per averli rincontrati, come non volesse ammettere di ricordarsene. Non serviva a niente il rametto, di legno metaforico o corteccia dura, per toccare le cose a distanza, così tante. C’erano anche molte mucche, molti maiali. Begli alberi: dovevano essere quelli del frutteto, di quella singola estate in cui riuscì a dar frutto. Da un albero spoglio invece penzolava desolatamente un copertone, degli sguardi s’aprirono nelle spighe d’erba lì intorno alla scena. E un tronco tagliato, con la sagoma d’un vecchio ormai già vecchio, seduto ad attaccare senza senso peli biancastri all’incantevole pelle smessa da un serpente colorato d’autunno, per farsi delle sciarpe. E doveva esserci anche qualcos’altro, che aveva fatto lacrimare l’opossum ancor prima di vedere la luna. Cose che aveva perso lei, e che erano andate pure quelle a finire là.
-freddo il cielo, freddo il suolo… ah, no, aspetta…
Comunque il vecchiaccio pareva contento, se della contentezza poteva esistere nel cosmo una minima blue note. Quando aveva aperto la cassetta, magari c’erano anche delle tombe, magari altre cose, ma ciò su cui si era precipitato con più foga, a mani tremanti, era quella specie di quadernetto. C’erano annotate le parole, e una personale notazione musicale, primitiva e analfabeta, per far riconoscere a se stesso le melodie. Prima del lungo viaggio aveva composto la sua bibbia dei country-blues, il suo vangelo per andare a dormire la sera, e a dire il vero anche per ogni passo sotto il giorno, ogni pasto e ogni giaciglio, ogni effimero bacio infetto, ogni languore dell’anima. Incredibile, poteva ritrovare la strofa perduta!
Come aveva fatto a sapere che questo avrebbe voluto? L’animale che era stato quando era piccolo sapeva chi fosse l’animale vecchiaccio che un giorno sarebbe tornato là. Come diavolo faceva a sapere che gli mancava una strofa? Si fece questa stupida domanda prima di morire, la morte stupida di un vecchiaccio creato da un dio stupido, solo. Il vecchio solo figlio del dio solo s’accostava, le forze sempre più flebili, al corpaccione untuoso di un opossum così grasso e grosso da far rabbrividire pure i morbi che imperversavano tra le bestie della terra. Da qualche parte dietro di loro, tra le impronte, dovevano giacere oggetti caduti dalla cassetta, sballottata nella fuga, e una torcia, e un rametto usato per punzecchiare i ricordi.
-caldo il suolo… no, freddo era il suolo, buia la notte, buio il cielo, freddo ero… io………
L’opossum si ricordò di quando erano incespicati nella strettezza del tunnel, e lei aveva per sbaglio mostrato il ventre su cui era rimasta la cicatrice. Il vecchiaccio era parso mortificato. Le labbra contratte in un monosillabo volevano dire “scusa”, forse. Non doveva esser stato piacevole per lui, ricordare proprio in quel buio il momento in cui aveva dato un calcio al ventre di un animaletto, lui in piedi tra i campi desolati e la bella fulgida casa bianca del sud. Le donne in veranda avevano continuato a cucire, giudizi indecifrabili negli sguardi mesti. Gli uomini annuivano.
Il suolo era gelido per davvero. I vecchiacci del blues passato, i primi compositori nella solitudine della pianura, avevano visto pure il futuro.
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