le isole di Brian Wilson (ep.9) (finale)
- Milky
- 9 ott 2024
- Tempo di lettura: 13 min
Aggiornamento: 12 ott 2024
La sua figura apparve nel mare intorno alla tarda mattinata, ancora piccola a causa della grande distanza. Si muoveva molto lentamente. O forse era veloce, e la distanza era considerevolmente maggiore di quanto si ingannassero gli occhi delle bestie isolane, non abituate a pensare ai grandi numeri e ai grossi spazi e a quanto deserta fosse quella viva pianura grigia del mare davanti a loro. Toccò terra nel pomeriggio, sebbene nulla nel cielo nuvoloso e biancastro fosse cambiato dall’ora in cui era apparso per la prima volta. Erano trascorsi, secondo la memoria delle bestie, già due millenni dall’ultima volta in cui dall’oceano era giunto un viaggiatore, e aveva preso dimora in questo territorio, e vi aveva vissuto, come se non fosse il luogo freddo che appariva, in cui nessun essere sarebbe potuto sopravvivere. Ma ormai ci si trovava. Probabilmente per sua scelta. Lo aveva cercato. E loro tutti sarebbero stati pronti ad accoglierlo. L’istinto aveva loro raccontato di lui, come leggendo a un lume acceso dentro una caverna da un libro appartenente a tutti, e preparati lo aspettavano, dalle scogliere e dalle colline lo osservavano strisciare sulla sabbia del primo tocco.
Ciò non significa che anfitrioni o ambasciatori si precipitassero a offrirsi d’accompagnarlo. Semplicemente osservavano mentre dalla spiaggia risaliva il pendio antistante il molo. Avrebbero però aspettato che li raggiungesse prima di avviarsi, tutti quanti, al centro dell’isola, dove poi si sarebbero svolte le cose. E di questa pazienza mite, degna dei membri di un gregge, bisognava render atto a tutti gli animali dell’isola -che presto sarebbe diventata un “regno”. E i suoi sudditi sarebbero stati la gente cogli zoccoli e i quattro stomaci, e i piedi palmati e le pinne per sospingersi nelle acque profonde, e le riserve di grasso per tollerare le correnti fredde, e le mammelle e le cavità ovipare, e gli sguardi che a volte s’immobilizzano e stolidi scrutano il mare senza scorgervi nulla, soltanto come congelati dallo stesso fenomeno che da queste parti spesso pietrifica l’aria conferendo alla terra e alle acque lo stesso colore del vento dal soffio pressoché costante, ma non sempre -a volte di brusche impennate acute, a volte spento, anche lui forse in momentaneo arresto ad ammirare estatico le onde.
Il visitatore sconosciuto lentamente arrancava lungo il pendio erboso, superando senza più voltarsi le masse di sabbia sospinta dalla brezza marina, i ciuffi d’erba più alta che adornavano certe irregolarità del suolo, e alcuni strani arrangiamenti di sassi bianchi disposti nel prato come a simbolizzare uova o rune indecifrabili. Le bestie posizionate nelle prime file distinsero le sue caratteristiche, videro com’era fatta la presenza attesa, “Il Ladro”, Scassinatore, Santo, colui che avrebbero celebrato e incoronato nuovo e illustre abitante dell’isola, regno, terra chiusa. L’enclave loro esisteva laggiù, distante da tutte le altre coste, come un pascolo o fattoria galleggiante nel mare, e un individuo nuovo marciava su per la collina quasi con il fare di un pastore.
Riconobbero i segni: indossava una scura e usurata t-shirt di un’antica band, sotto il logo la stampa quadrata e un po’ appiccicosa della copertina della loro opera più acclamata da critica e pubblico. A un primo sguardo si intuiva come si trattasse di uno di quei capi che il possessore ha per un certo periodo indossato quasi ogni giorno, come pigiama e come veste da casa e come identità provvisoria per uscir fuori -ma raccontavano anche, le sue pieghe, che un tempo era stata sfilata, brutalmente sostituita da altre innumerevoli pelli susseguitesi in tanti anni, dimenticata in fondo a un cassetto e infine riscoperta e fatta riaderire al corpo da cui era stata separata. I pantaloni erano di colore abbinato, nero con squame verdastre. Portava un passamontagna nero che gli ricopriva tutto il volto eccetto che per labbra quasi invisibili, pupille di occhietti miopi ma con qualcosa di fiammeggiante, e due fori in corrispondenza di narici schiacciate, sonoramente sibilanti nelle inspirazioni un po’ asmatiche.
Si fece avanti dalla folla degli osservatori indigeni un esemplare di capra, che lo riconobbe e lo salutò, ricambiandogli un sorriso tipico di un’altra cultura alla quale forse un tempo erano entrambi appartenuti, un tempo ormai così remoto che in suo richiamo fugace non poteva più esservi il rischio di evocare alcun sentimento nostalgico e di obliarsi al suo interno, reminiscenza dopo reminiscenza. Per cui anche le impressioni di malinconia straniera che gli altri animali, se avessero avuto interesse di giudicare e riflettere in tal senso, avrebbero forse potuto cogliere in certi loro sguardi e sospiri che avrebbero esalato negli istanti del loro incontro, non erano vera retrocessione nei mondi che dietro di sé avevano lasciato, l’uno molti secoli addietro, l’altro forse soltanto da poco, dopo tanto inconcludente vagare di spettro prima di trovare infine la terra ricercata in cui stare. Non poteva essere: l’unica cosa rimasta simile alla malinconia era soltanto lo sguardo rivolto di tanto in tanto all’oceano, e gli occhi numerosi e burrascosi dello stesso che di rimando scrutavano, in lunghi momenti di strano sonno, e nulla di più intenso esiste in questo clima ove il soffio costante e l’agitarsi incessante delle acque assicurano l’equilibrio, la costanza, il respiro ampio e diaframmatico che culla la dormita profonda del tutto, in un gelo rigoroso che presto non viene più avvertito. Le cose stavano semplicemente così, e tutti gli animali di laggiù dovevano accettarle.
Certo poteva rivelarsi un clima aspro per uno come lui, forse incline ad assorbire anche un po’ di calore, quando necessario. Ma in fondo si poteva fare. Ce n’erano stati altri, in altre isole molto simili, percorse dagli stessi rumori: erano esistiti parenti estinti della sua stessa stirpe, prima che fossero debellati, cacciati dai miracoli di diversi angeli e diavoli -e nessun rancore nemmeno poteva esistere lì, nemmeno al vago ricordo di quei conflitti che tanto insulsi facevano apparire gli anni trascorsi nelle terre lontane. Sapendo tutto questo, e quanto fossero protetti dal ritorno di ombre spiacevoli condivise tra i due, alle quali preferivano alludere soltanto in maniere caute e poco chiare, se la sentirono, per la durata di sbrigativi saluti, di scambiare poche chiacchiere in qualche modo legate ai loro vecchi mondi.
-oh, allora?
-non c’è male dai.-, rispose sorridendo goffamente lo straniero. I sorrisi che si scambiarono nel silenzio che seguì furono molto angosciosi a vedersi, diffondendo negli immediati paraggi il senso di passeggero respingimento dato dal primo incontro con una dissonanza musicale. Forse i sorrisi non erano roba loro, oppure, semplicemente, non era opportuno che li si potesse vedere.
-sei tu, no? Voglio dire: non mi sbaglio, no?
-eh.-, scrollò le spalle in un risolino stanco -dipende da che intendi. Però forse ti posso rispondere: no. Cioè… io, sai… cioè, quello che tu pensi che io sia… quell’individuo, pensava sempre ad altre vite. Tante giornate sue sono andate via così. E anche le giornate mie, solo che lui non lo sapeva. Non poteva immaginarlo… comunque, troppe ore ha dissipato a fantasticare di essere qualcun altro. Completamente. Come uno sciamano invasato dagli spiriti, ha visto fluttuare, nel suo sguardo dei momenti più vacui, intere esistenze diverse, le componeva egli stesso… ecco: si può dire che io derivi da una di queste fantasticherie.
La capra annuì, pensierosa per un momento.
-eh sì. Si capiva. Che non fossi… scusa, non riesco a non vedervi come la stessa persona. Continuerò a usare il tu.
-non c’è problema.
-si capiva che non fossi contento di ciò che eri. Una volta ti ho incrociato totalmente per caso, non so se ricordi. Era dalle parti dell’ex-mattatoio. Iniziava a piovere forte, ma non sembravi farci caso… ma forse non ha senso chiedere se ricordi.
L’altro non disse niente, senza smettere di guardarlo con attenzione intensa e attendendo che proseguisse.
-prima che ti chiamassi, ammetto che il tuo sguardo assente mi aveva un po’ incupito. Era troppo assorto, pensai che nemmeno io ero mai arrivato a quel punto e che forse le tue meditazioni e visioni s’erano addentrate in un territorio in cui io stesso non sarei stato in grado di inoltrarmi senza patire fitte troppo acute e fredde alle viscere. Mi sbagliavo?
-…mah, dipende…
-stavi solo vedendoti in un’altra vita, dunque.
Annuì.
-sì, con altro nome e altri genitori e altri luoghi e interessi leggermente diversi e capacità diverse e vestiti diversi e personalità a volte opposte a volte soltanto di poco deviate ma senza questo impulso a fantasticarsi cambiate, e così via.
-Scassinatore, rubavi identità. E nelle casseforti che aprivi senza mai smettere non trovavi mai niente, e ripartivi alla ricerca.
Incurvò le labbra sottili inscritte nel buco del passamontagna un’ultima volta prima di cambiare discorso.
-a proposito, è andata molto bene: credono davvero che io non esista più da nessuna parte su questa terra. L’enorme pelle bruciata di un rettile è stata un ottimo diversivo. Ne hanno sparso le ceneri in cima a una montagna sacra, attribuendole a me, e perlopiù le hanno dimenticate. Perciò sono sicuro che nessuno mi abbia seguito fin qui, in questo posto segreto.
La capra scoppiò nella risata compiaciuta di chi ha appena ascoltato una battuta molto arguta. E l’altro continuò, come prolungando l’impalcatura di uno strano scherzo che solo loro avrebbero capito.
-e ignorano completamente che tu abbia vissuto un destino non molto diverso dal mio. Il tempo che hai passato in mezzo agli altri li ha fino in fondo convinti della tua realtà. Sei stato un animale convincente. Nessun sospetto di simbolismi arcani, nessun motivo di rammarico, per nessuno, pensando a te. È quasi incredibile. A vederci, non saremmo sembrati di quella schiera avvezza alle truffe e i trasformismi, eppure, nei nostri piani, siamo stati abili nel mentire e depistare. E adesso siamo qui, irraggiungibili.
-eh sì, ben detto. Un bell’inganno. Però, se ci pensi… sarebbe stato proprio bello se le cose fossero andate così, e non come sono andate realmente, eh? Se l’inganno di cui parli ci fosse stato davvero.
Tacquero per qualche minuto, non sapendo più che dire. Forse continuavano ad ascoltare l’eco ripetuta delle parole della capra, coi loro impliciti punti di sospensione. Forse avrebbero pianto, se fosse stato possibile. Ma scostando lo sguardo dalle vicinanze e deviandolo lateralmente e all’indietro, portandolo a sorvolare la veduta che s’apriva dalla cima dell’altura, s’incontrava soltanto la distesa deserta di un gelido oceano. Che impediva con il suo respiro salino il deturparsi delle cose, bloccava le lacrime nei condotti nascosti dietro gli occhi spugnosi degli uccelli marini, arrochiva le loro voci che non assomigliavano mai ai piagnucolii umidi degli uccelli d’acqua dolce, librandosi invece come ragli aridi e solitari a scandire ore molto lunghe di luce fioca, rannuvolata, priva di asperità. Passato quel tempo di contemplazione, la capra fece ritorno alla folla dalla quale si era separata per il saluto e sparì in mezzo alle altre capre, mentre il Ladro o Scassinatore o Re del paese si avviò camminando lento in mezzo a tutti quanti gli abitanti, che gli facevano largo e contemporaneamente lo circondavano, già anticipando la cerimonia che al centro dell’isola lo avrebbe iniziato al massimo mistero del vivere isolato laggiù in quel preciso incrocio di latitudine e longitudine ignorato dalle imbarcazioni.
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(sarebbe bello se l’inganno di cui parli ci fosse stato davvero.)
(se fosse possibile che ogni singolo frammento di ciò che accade o che si pensa e si sente e che appare all’interno della mente non faccia parte anche della verità, se il fatto di poter nominare una bugia o una mascherata non renda un totale controsenso ciò che significano.)
(invece tutto è vero oppure nulla lo è oppure l’unica cosa che cancella la verità di effimeri sentimenti e percezioni che racchiudono il mondo intero è la loro immediata morte o trasformazione, e le cose si frantumano e le cose si trasformano: la gente umana in animali domestici e le cellule vive in cellule morte, e i respiri in asfissia e gli umori in distimia, e invano gli interlocutori s’ingannano immaginando differenti evoluzioni e modalità del divenire, l’unico che conoscono e che possono nominare, ché tutte le alternative frutto del loro slancio fuggitivo non sono che altri costituenti della stessa monolitica roba che è per definizione un’assenza di alternative, e il loro ingannarsi può soltanto aggiungersi al mucchio dei paradossi giocosi dei viventi che cercano ora di rallegrare ora d’immalinconire il trascorrere strano dei secondi, in attesa del prossimo istante in cui avranno temporanea coscienza d’una mutazione in atto, in attesa larvale d’un passaggio a qualcos’altro, e poi ad altro ancora, e poi ad altro ancora.)
(ma esistono anche terre in cui l’immobilità e la costanza per un po’ sembrano vincere.)
(che mantengono per la durata dell’anno una temperatura tra i 7 e i 10 C°.)
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(una specie di poesia si sprigionava dai passi pantomimi dei partecipanti al rituale, le bestie galvanizzate e il loro ospite uomo-bestia, che un po’ impacciato cercava di fargli eco imitando un battere di piedi sul posto, piedi che battendo balbettavano parole identiche agli immaturi tentativi espressivi di un adolescente -in una lingua di cui in ogni caso nessuno fuori da quei confini saprebbe comprendere tutte le sfumature, per cui si consiglierebbe agli onniscienti amatori di tutta la poesia prodotta nella storia del cosmo di saltare questa particolare "poesia" a pie pari.)
I piedi di già rinselvatichiti affondavano nell’erba nel terriccio nelle erbe subantartiche che li riconoscevano dicevano loro di tornare attirandoli e pareva che fossero i loro steli a racchiudere il principio d’attrazione gravitazionale e non qualche ruvida fossilizzata spelonca a migliaia di metri sotto le radici e nel cui nucleo fluttuasse una palla di magma assetata di corpi,
ma lui non se ne avvedeva nemmeno di ciò che l’erbetta stava facendo ai suoi passi nemmeno di quell’indefinibile emulsione d’umidità e secchezza che si pareggiavano nell’atmosfera sedentaria e avanzava sospinto dalle volontà da lui separate o forse da nessuna volontà,
appariva anzi chiaro che non vi fossero volontà e ovunque cioè nell’unico mondo che avrebbe abitato stavano soltanto i movimenti posteriori al loro presunto impulso originario,
e se un accadimento si manifestava questo era solo un’operazione grammaticale una specie di caso declinato la cui accidentalità era sufficientemente contagiosa da infiltrarsi come fermentante micelio in tutti i principi sottostanti le cose e far sì che l’accidente sia isolata propaggine d’un ordine invisibile,
e vedeva l’immaterialità delle montagne nane volatilizzarsi a contatto con una fascia di polvere siderale presente da sempre nell’atmosfera scarsamente ossigenata,
e credette di trovarsi nel definitivo ventre in cui convergono tutti i contorni e le parvenze di montagne azzurre che si disciolgono e si fanno mere allegorie della distanza e non roccia tangibile non luoghi reali in cui un corpo diretto laggiù in imperterrita marcia possa mai esser stato e invece lui contro ogni previsione ci si trovava dentro,
e ciò lo distrasse per un momento,
ma nel momento che seguì presto cessò d’esistere la possibilità di distrarsi poiché era cessato il cogitare sugli argomenti e su ciò che si mutava in percezione immediata castrata di conseguenze,
ma incoscientemente assorbendo negli occhi il delinearsi della scarna tundra verde e bruna attorno a lui permase nel suo volto coperto la vacua meraviglia di quella distrazione che c’era stata e aveva avuto vita breve da falena poiché aleggiò ancora alleggerendogli i muscoli facciali avvolti nel panno caldo o qua e là scoperti e scalfiti dalla salsedine e dall’afrore vagamente muffito della promiscua unione di quadrupedi e creature piscivore,
ma dai recessi della testa provenne soltanto un muto e strozzato rintocco laddove in altre circostanze sarebbero emersi strani fantasmi,
che a partire dal prato e dall’oceano gli avrebbero parlato di pagine di libri e di canzoni e di scrittrici e di crepuscoli trapassati e di lunghi capelli magnetici traballanti come alghe sospese per l’incalzare serale del vento e oltre il cui ruvido intrico si poteva immaginare un viso ancorato alla veduta lontana sotto il muso del promontorio di onde e pescherecci e luci già stanche d’esserci,
che erano tutte cose viventi e non viventi che avevano nomi non più esistenti,
che erano ormai nella testa solo abortito segnale e il silenzio che rimane e indiscreto indugia finché ci si dimentica che stesse rimanendo,
che era un filamento di qualcos’altro di irrecuperabile.
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La temperatura si manteneva costante per tutta la durata dell’anno, tra i 7 e i 10 C°, tendenzialmente evitando di scendere sotto lo 0.
Ma questo è già stato detto.
Che altro…
L’entroterra era roccioso, impervio, burbero, non voleva che gli si facesse visita, e come biasimarlo? Aveva molto da nascondere o che sarebbe stato meglio non vedere. Così ragionavano i suoi abitanti, che con la loro terra natia intrattenevano un rapporto di somiglianza reciproca. Suini e caprini e uccelli di mare che al mattino gridavano a squarciagola per brevi istanti la comparsa d’un sole nebuloso e quasi privo di circonferenza dietro la coltre folta delle nubi, e adesso si era aggiunto anche il fantasma di quello che forse era un serpente marino, o forse giunto da lontane terreferme a nuoto, o in camminata sulle acque servendosi di metamorfiche membra sgusciategli dalla parte inferiore del corpo, insomma tali dettagli non hanno alcuna rilevanza.
L’ultima significativa raccolta di dati risale ormai a qualche anno fa.
Ma anche questo è stato detto. E anche riguardo al clima e al vento e al freddo e alle non comuni nevicate. Che altro…
Ah, sì: sebbene l’entroterra fosse appunto impervio, roccioso eccetera, i rilievi a conti fatti non erano altissimi.
Al massimo qualche centinaio di metri… sempre tra i sette e i dieci gradi…
ma no, si è già detto anche questo, e poi nessuno esisteva che avesse un qualche interesse a misurare tali questioni e stilarne catalogazioni e inventarsi file Excel di presunto interesse scientifico e tutte queste altre discutibili amenità.
Le bestie che abitavano quel territorio, nei pressi della maggiore sua “montagna”, e precisamente in uno strano schiacciato altipiano sottostante l’ultimo tratto granitico di cima, s’erano tutte radunate e circondando un nuovo membro davano vita a un movimento scoordinato e frastornante, ed era il suono più intenso e potente e corale che mai si fosse interpolato ai lunghi silenzi che abitualmente dominavano dalle retrovie del vento. Non lo si udiva più soffiare, per il gran clamore della cerimonia, che dei riti perdeva al passare d’ogni secondo le formule, le stereotipe ripetizioni, e descriveva soltanto traiettorie matematiche sconosciutissime ai cervelli dalle quali si dipanavano, simili a un'inconsapevole geometria di sbuffi incandescenti lanciati da un cratere.
Si trattava d’un multifocale ruggito di peli e piume e lamenti, di cui non s’era ammirato l’eguale sin dal giorno in cui quelle zolle di terra erano apparse a inturgidire la piattezza dell’oceano in un periodo di attività vulcanica la cui asprezza e imprevedibilità aveva cancellato ogni possibile pattern.
E come ogni festa e gioco e iniziazione, che inscenano un assassinio del fluire dritto del tempo per farne olocausto e offrirlo a un proposito ignoto (la più agognata delle cose), sia le eruzioni delle remote origini che l’eruzione drammatizzata del popolo indigeno dovevano spezzare, momentaneamente rompere, l’altrimenti inamovibile apparenza dell’ordine spaziotemporale, la nebbia che tutto inglobava e livellava attorno alle cose tangibili, spargendosi vaporosa dagli schizzi delle onde in continua frantumazione contro le barriere di scogli.
In quell’arcipelago non c’era niente.
Eppure questo è strano.
Esisteva probabilmente un sottosuolo. Che qualcuno di interessato avrebbe potuto studiare. Ipnotizzarsi scoprendo i suoi incanti cunicolari mai visti, introdursi grazie a una luce invasiva oltre le colonne d’Ercole di certi inferi di certo mai visitati, nemmeno dai peggiori dannati. Però nessuno condusse indagini scientifiche di quel tipo.
Organizzare spedizioni scientifiche ben strutturate si rivelava sempre difficoltoso ed enormemente dispendioso, d’energie e risorse, rispetto alle ricompense percepite.
L’interesse commerciale suscitato dall’arcipelago era pressoché nullo, un nulla compensato soltanto da fugaci e inconsci interessi d’altro ordine: certi afflati inquisitivi di breve durata e non conservati dalla memoria che a un certo punto potevano ghermire, per esempio, i cervelli fantasticatori alla cui attenzione fosse stata portata l’esistenza di luoghi simili nelle fasce oceaniche più remote e disabitate, un lampo di domande senza risposta, insignificanti, cariche di inspiegabili forze d’attrazione.
Lì non c’era niente.
Soltanto gli animali autoctoni accanto a quelli alieni si trovavano al centro dell’isola a far rumore prima di tacere per altri lunghi millenni, e al loro centro stava in piedi a ricevere il flusso da loro generato il nuovo arrivato e nuovo sovrano e nuovo compleanno, col volto coperto come quello d’una divinità ferina innalzata su un altare; e mentre attorno a lui tutti ondeggiavano come steli di gramigna invasati dall’arrivo brusco dell’autunno, lui chiudeva gli occhi lasciati appena scoperti dall’indumento, sferzati con ferocia dal vento ghiacciato che spirava ininterrottamente e il cui rantolo era stato ingurgitato dal boato dell’ultima festa; fu in questo modo incoronato, poiché più d’ogni altro spirito laggiù approdato nel corso della storia conosciuta aveva bramato di raggiungere quel nulla; chiudeva gli occhi che troppo a lungo erano stati spalancati e s’abituava all’idea dei millenni silenti che attendevano, alle schiere identiche del bestiame rinselvatichito e delle colonie degli esseri semiacquatici; s’abituava, con quei pochi pezzi di faccia a contatto con l’aria, e non coi pensieri, all’idea della pace stazionaria che attraversa le ere, facendosi nebbiolina salmastra, somigliante al boato da disco rovinato che diveniva l’unica musica udibile, quei versi celebrativi di animali che, superato il climax del trasporto, già si trasformavano in un rumore bianco dalla consistenza di schiuma; chiudeva gli occhi, e lasciava che il vento li ferisse, e non pensava a niente.
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