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il frontespizio

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 28 nov 2024
  • Tempo di lettura: 20 min

Aggiornamento: 30 nov 2024

Eravamo appena usciti da non so quale bolgia di sottopassaggio, stretto peggio di una vena in cui a ritmo costante si ingorgano gocce di sangue semisolido. Non sapevo quanto ci fosse da aspettare per il tram ma la cosa non mi infastidiva. Non era male aspettare, in linea teorica, una teoria che presto avrebbe dovuto sostenere colpi improvvisi e sleali. Ovviamente era lei a controllare le app utili ad aggiornare le informazioni sul transito eventuale dei mezzi -era solo lei ad averle scaricate. Stavo pensando già a dove appoggiarmi per mettermi le mani in tasca e ammirare il vuoto in cui far sciogliere nuvolette di fiato, nemmeno il tempo di assimilare del tutto la prima boccata d'aria fuori dal buco del sottosuolo urbano. Quindi diedi occhiate sparse allo spazio, coi suoi sporchi frammenti di mosaico sbiadito -marciapiedi, panchina con tettoietta trasparente già piena di corpi, scalinata, transenne con pubblicità incorporate, vari altri trespoli possibili per me e altri volatili del malaugurio… comunque, se non pensai a una crosta di terra in via di desertificazione, gremita da stormi di avvoltoi in attesa di cadaveri imminenti, fu soltanto perché alle cinque passate si era già fatto buio. E il periodo eliminava quell'impressione che il luogo avrebbe provocato in altri momenti, in ondate di altro caldo che non quello di sciarpe e giacconi sovrapposti: con un mese di anticipo si preparavano festività, e sopra alle teste imberrettate di compratori di regali e passeggeri di mezzi pubblici in entrata e uscita da varie bocche, fluttuavano soltanto le luminarie celebrative, appese ai fili sospesi nell’imbrunire come tanti pipistrelli a testa in giù. E qualche gabbiano che passava ogni tanto, bianco sporco piumaggio reso giallastro da un ittero di elettricità diffusa e senza stelle.

 

Non avevamo fatto forse neanche due passi che già si era scontornata, divisa da tutto il circostante, la sagoma di quel tizio, al centro dello spiazzo. Affermava fisicamente che lui c'era, per davvero, nel caso avessimo qualche dubbio. Ragioni di aver dubbi ce ne potevano essere di tutte le specie. E nei pochi secondi, distorti dalle burle snervanti dello spaziotempo tanto che ti sembrano minuti e finanche ore condensate -nei pochi lunghissimi istanti, insomma, che ci metti a capire che il tizio è proprio uno che parla dell'amore di Gesù in uno spazio pubblico, microfono alla mano, allora avverti quella sensazione di cui molto avrai sentito parlare, se ti trovi a leggere questo e dunque a condividere tuo malgrado con me un pezzo di esistenza.

Parliamo di quella roba in cui realtà e finzione si abortiscono a vicenda dopo essersi promiscuamente ingravidate, o meglio regalandosi reciproche gravidanze isteriche; e dal collasso tra i due piani contigui su loro stessi che da ciò consegue, nasce un disastro vivente, ma furbo abbastanza da camuffarsi e normalizzarsi -non del tutto: si lascia integra giusto la quantità di cellule distorte sufficiente a farsi percepire; e questa entità, che poi forse assomiglia a te che la guardi, va a stuzzicare col dito una certa ghiandola del tuo cervello, e tu poveretto rimani coi pensieri invasi da ossimori, imbarazzi logici, minchiate in sciami di zanzare. In altre parole.. non ci sono altre parole: camminai sui sampietrini della piazza sapendo di non poter verbalizzare in nessun modo lo straniamento di una scena quotidiana, la quale, se appariva filmica, era più per colpa dei film che della scena in se stessa. E allora siano maledetti anche i film.

Ma è anche vero che quel senso di "sta veramente dicendo quel che credo di aver sentito?" fu notevolmente incrementato dal fatto che parlasse inglese. E dal fatto che, tra tutti i neri in attesa in quella piazzola di sosta, fosse chiaramente l'unico afroamericano, l'unico tra loro ad avere qualche probabilità di non aver mai messo piede in Africa -non che questo delegittimasse in qualche modo la storia africana dentro il suo sangue, non più che per tutti i nostri corpi in piazza, né delegittimava la sua percezione che il messaggio del suo personale Cristo un po’ leonino rastafari e un po’ black panther fosse un messaggio di coscienza di classe e di razza. Sono certo che sia una gran bella immagine quella che ha in testa, ma allora perché parlarne pubblicamente al microfono?, non senti che se lo fai si disgrega?, non senti che...

Jesus loves you, ok, e allora prese me per il braccio, e mi ripeté la stessa cosa, e io

 

-oh, huh, then i feel sorry for him.

 

Che non so come mi uscì, infatti lei, lo ricordo bene, mi aveva guardato con la prima occhiata stupita della nostra frequentazione amicale. Ma io con un piegamento gommoso di guancia le avevo assicurato che era tranquillissima la chimica tra me e il tipo, che mi permettevo tale confidenza soltanto per istintiva simpatia. E allora lui, in un istante di transitorio ma profondo dispiacere,

 

-why you feel sorry for Jesus?

 

E allora io, sotto gli innegabili sguardi di lei e di lui che mi impollinavano le budella con miriadi di piccoli chiodi vivi, manco fossi l'autentico gianobifronte in persona mantenni davanti quel sorrisetto per specificare anche a lui che era tutto ok, mentre di dietro mi tremava il culo dentro i jeans come alla recita delle elementari, e gli dissi

 

-see the thing is, i usually give a very hard time to people who try to love me.

 

E detto questo il tram fortuito comparve, così che ebbi modo di avviarmici e archiviare l'imbarazzo di tutto ciò con una semplice mano agitata all'indietro, un saluto sbrigativo al predicatore dell'amore, a fargli capire che comunque fosse avevo fretta di salire, e lei, spiazzata quanto me, ma in una modalità sconosciuta e diversa dalla mia, mi corse dietro -non aveva avuto modo di dire niente, quasi scioccata.

 

Erano trascorse fuori dai finestrini del tram alcune ambasciate, altre bandiere sotto lo stesso ittero giallo, prima che lei mi rimproverasse.

 

-senti mi dici che significava quella cosa?

 

Con questo alludeva al fatto che meno di un'ora prima di quella simpatica interazione mi aveva trovato a fare avanti e indietro non so quante volte davanti al negozio dei vinili, assalito da cronica titubanza, perché il negozio era piccolo e non c'erano altri dentro e non avrei comunque comprato niente e sarei solo stato là a guardare e sfogliare i malloppi negli scaffali e avrei soltanto esaminato le belle copertine dei dischi imbrattando con le mie manine sudate il free jazz di Eternal Rythm e le pulsazioni elettroniche di Selected Ambient Works 85-92, capolavori cosparsi di mie ditate acide cristoiddio che imbarazzo questi polpastrelli di merda, e avrei avuto per tutto il tempo la consapevolezza della presenza del negoziante seduto là in fondo. Ovviamente non entrai. Cioè, sì, sono entrato, ma solo perché lei, che come uno spettro di passate figure di merda passava di lì, mi aveva visto, e colta in un attimo la situazione mi aveva fatto entrare a calci

(poi, vedendomi in difficoltà dopo il salutino stridulo che il negoziante nemmeno aveva sentito, era entrata pure lei, con l’aria sapiente di chi ha sufficiente ragionevolezza da capire che puoi entrare in un negozio e non succede proprio un bel niente, perfino nel caso in cui poi esci fuori senza aver fatto acquisti).

(Inutile specificare che una persona come lei non è in grado di capire che non è che ho paura di farmi rivedere là dallo stesso negoziante che neanche mi si ricorderà: sono le uova di occhi vischiosi che nascono viscidamente sulle braccia di costui a registrare tutto, ogni evento ogni stupido movimento ogni timore di altrui ostilità: si riaffacceranno dalla corporatura ignara del negoziante la seconda volta che entrerò nel negozio, puntandosi come ricettori termosensibili verso di me e lanciandomi formicolii che in certi momenti è davvero difficile tollerare).

Tutto questo, sommato all'atteggiamento sbarazzino dell'incontro col predicatore, poteva soltanto comporre una doppiezza del sottoscritto, un abbaiare e non mordere, poteva soltanto condurre alla conclusione che non ero altro che un bullo con quelli di cui non temevo gli attacchi, e un bullizzato al cospetto di sguardi di cui non avevo il controllo -in definitiva un bastardo. O forse niente di tutto questo. Però lei per qualche ragione voleva sapere.

 

-ma niente, così...

 

Feci io, cercando di manipolare l'evento come un qualcosa di dimenticabile e trascurabile. Ma per quanto in quel periodo mi crescesse sotto il labbro inferiore una mosca grossa e nera come quella di Frank Zappa, un autentico moscone compositore di cerebrali ronzii, non sarei mai stato in grado di vantare nonchalance e cinismo come avrebbe voluto l'immagine complessiva con cui cercavo di respingere le domande stampandomi in faccia uno sguardo inespressivo.

E lei lo sapeva, e mi guardava il punto della felpa palesemente smosso avanti e indietro da una stupida e ingiustificata tachicardia, sintomo costante.

Le provai a dire che in fondo non si era trattato di una cosa così strana: tanti, tutti, reagiscono diversamente a seconda di chi hanno davanti, e quello era un tipo al quale, anche solo sfiorandone l’atmosfera e sapendo che non l'avrei mai più rivisto, sentivo di poter fare una confessione estemporanea, preclusa ad altri in altri luoghi e momenti inopportuni.

Lei non disse niente.

Comparvero dall’altra parte del vetro in movimento i colori della bandiera argentina, erano intrappolati nel tessuto smunto e sciupato appeso tra gli stucchi di un balcone dell'ambasciata, simile al grosso calzino spaiato di un gigante celeste; erano poi pittura secca sui mattoni di una specie di chiesetta o tempietto poco distante dall’ambasciata.

Allora lei riprese il discorso.

 

-e quindi? Vuoi prenderti la responsabilità di quello che hai detto?

 

-di cosa?

 

-spiegati: perché lo fai?

 

-cosa?

 

-perché mi rendi la vita difficile quando provo a volerti bene?

 

Riprovo la stessa smorfia di prima. Mi incazzo con le zanzare che ho in testa, tutte figlie mie. Perché a queste cose so rispondere al volo soltanto quando appaiono spontaneamente nelle conversazioni di fantasmi che da sole prendono vita e germinano in testa, quando sono solo e lontano da tutti, da tutte le voci che potrebbero dare a quei contenuti una fisicità, delle onde sonore. E invece nel presente non c'è che l'apparire infinitamente scemo. Il tempo diventa un cordone ombelicale di pentimenti, fin quando non ti scatta in un angolo del cervello quella molla dopo il cui rintocco improvvisamente te ne frega molto meno di prima. O almeno, fino alla prossima ricaduta, in cui ti ritrovi uguale a come eri sempre stato: perfino le tue cellule morte e cadute ritornano tutte al loro posto, e i neuroni stessi sono una fossa comune: sei scemo come materia morta.

Non faceva eccezione quel caso, analogo ai molti casi in cui viene posta una domanda.

 

-eeeh, da dove comincio..

 

Fine. Avevo finito. Ma lei insistette.

 

-quindi?

 

-quindi era una frase per farti capire che non vuoi affrontare questo discorso, credimi.

 

-forse sei tu che non lo vuoi affrontare.- disse duramente, ma in fondo avendo già rinunciato, e senza che ciò la crucciasse più di tanto. Mi ammutolisce sempre quell'aura degli altri, l'elettricità quiescente negli occhi delle persone capaci di non crucciarsi per le parole, nemmeno dopo averle ascoltate o pronunciate, nemmeno dopo che gli innumerevoli piccoli cosmi in esse imprigionati hanno attraversato l'aria per poche, gravi frazioni di secondo irreversibili, deflagrando irreversibili.

 Al che si ripeté l'effetto poc'anzi descritto. Sbuffai. Dio che palle. Chiaramente disarmato. Chiaramente non lo sarei stato, fossi stato al sicuro tra altre pareti, tra altri pensieri, gli stessi di sempre, poco corporei.


-ma no, io lo posso pure affrontare. Però, è che...

 

E a partire da quel punto si dipanavano vari scenari possibili, e nulla mi scrolla di dosso la raggelante sensazione che, in qualche modo, è come se si fossero verificati tutti contemporaneamente.

Però, se dovessi limitarmi a illustrare una mera concatenazione di eventi di quella giornata, non potrei dir nulla di nessuno di questi scenari, perché poco dopo il tram deragliò (un incidente assurdo che coinvolgeva un cavallo, non vale davvero la pena di parlarne) e morimmo tutti.

No non è vero, finimmo soltanto in ospedale, un intero reparto occupato dai passeggeri del tram diventati amiconi, come quando, sempre sul tram o sul treno o quant'altro, si è tutti solidali, tutti un'unica anima contro i ritardi e i guasti e l'incuria della cosa pubblica.

Solo che in quel caso eravamo diventati tutti vicini di letto in quella specie di stanzone bianco.

Quel caso assurdo e allegro e anche malinconico, mi faceva pensare alle terrazze condivise in un’abitazione rurale al tramonto, a un altro me che ci è nato per caso e che, quando costretto, si fa andar bene pure quella troppa umanità e troppo rumore e troppi panni stesi, e ogni tanto ne esce perfino qualcosa di bello.

Ecco, la sensazione era quella, e ricordo che per la durata di quei pochi giorni di convalescenza collettiva ebbi un’insolita tolleranza nei confronti delle sgradevolezze di quel vivere condiviso -ebbe durata breve, certo, ma lasciò un retrogusto appagante di compiutezza, come se fosse assolutamente logico che per quei giorni fosse andata così e che tale sentimento, così com’era venuto, smettesse di esistere una volta concluso quell’arco. Dovrebbe esserci ancora una foto di gruppo da qualche parte, il momento più Sgt. Pepper della mia vita, ma tutti in casacca azzurrina e qualcuno coi denti rotti.

E poi, chi li ha rivisti più. E che, c'era da aspettarsi qualcosa? Anche lei è un sacco che non la vedo. Chissà come ricorda quei giorni. Sono certo che lei abbia voluto davvero molto bene ad alcuni degli altri che si sono fatti male e sono finiti là con noi, che si siano scambiati un po’ di contatti. Stava due letti di là dal mio e mi piaceva mettermi con la schiena reclinata sul cuscino, che posizionavo verticale a ridosso dell’inferriata della brandina, zitto a guardare i suoi rapporti con gli altri prendere vita e formarsi in quei momenti sotto i miei occhi distanti, tipo slow motion di generazioni successive di fiori nascenti e morenti e rinascenti. Ma, al di là di queste cose, non ho intenzione di affrontare le dinamiche di quell’incidente, in fondo poca cosa, o il tempo di ripresa dalle ferite.

 

E insomma, al di là di simili faccende collaterali, mentre l'incidente stradale stava accadendo, chissà perché mi vennero in mente, come lampi simultanei più ampi del cielo stretto che li incamerava, una serie di cose; e vorrei affrontarle perché mi sembra che nascondano qualcosa, e che ci sia un nonsoché di sospetto in quel loro essersi manifestate in quel frangente.

 

Per esempio mi rividi a trascinare degli spessissimi colori a cera su dei fogli di carta sparpagliati disordinatamente su un vecchio tavolo di legno, in una casa in cui a un certo punto smisi di vivere, ed era una diversa e succulenta malattia gialla quella che si propagava dal lume acceso in sala in un eterno momento sospeso tra il crepuscolo e il post-cena, e tutti i momenti di quel luogo dentro di me rimangono fotografati in questo modo; soltanto che, a rivederli così, sono state apportate modifiche all’arredamento:

lo stesso lume che mi inocula una soporifera febbre si distribuisce, oltre che dal lampadario sospeso sopra la mia testa che ricordo bene (e che era, per me nanerottolo, invisibile e imprendibile), da una fila murata di faretti disposti equidistanti sotto un quadro astrattista, paralleli al bordo inferiore della cornice; la febbre che mi addormenta i sensi all’età di tre anni mi investe in pieno viso e nel corpo che faccio sporgere quasi per intero dal tavolo, quasi in piedi sulla sedia per poter ampliare il gesto del disegno, e la cera è grassa e rumorosa quando si frantuma sui fogli di carta, lasciandovi impresse come graffi sulla corteccia le sagome vuote e incomplete di pescecani blu e di una bestia predatrice fulva che balza dal sottobosco. Riproducevo la vignetta di carta plastificata osservata per un’eternità immobile sull’atlante degli animali selvatici, spalancato sul tavolo; mi si perdoni se quella bestia non la studiai, la vedevo e basta, la sentivo e basta, ed era bella, e desideravo in quei momenti che ogni cosa al mondo fosse uguale a lei, mimetizzata nel sottobosco e uguale all’ombra stessa della foresta, era bella, questo e basta; ero un bambino, santo cielo, cosa volete? Ma poi, cosa volete chi?

I graffi di cera colorata parevano aver trapassato la pur spessa risma di fogli: vedo tracce di scavo sulla superficie del tavolo -calcavo troppo, non imparai mai a disegnare per bene, soltanto belve uscirono dalle mie mani, e pensai che, forse, avere delle dita e altre cose goffe e ingombranti poteva non essere poi così male, se il loro scopo al mondo era quello di ospitare, nel breve intervallo di un agguato, l’ombra di una creatura che personifica il primo momento di ipnosi autoindotta di cui abbia memoria.

 

Per esempio mi rividi in un momento che in qualche modo era simile: sto facendo una lunga vacanza da girovago e temporeggiatore, in un’estate prolungata attraverso sotterfugi, incantesimi, scaramanzie; lontano è ancora il momento atroce di una scelta, e in fondo al sentiero soltanto alberi folti e giganti, dalle cui chiome si levano a intervalli irregolari nuvole di grandi uccelli neri, riempiono il limite ultimo del visibile; e costeggio un campo enorme, riempie l’orizzonte accanto a me come un oceano verde e marrone, coltivato a patate dolci.

Un’ombra umana sta accovacciata, compare componendosi poco a poco come i frame glitchati nelle terre selvagge di un rpg.

Sto per incrociare questo npc e nelle regole della vacanza, in cui sono uno spettro e qualunque cosa faccia non ha poi queste irreparabili conseguenze, è cortesia che gli rivolga la parola, che sia da lui riconosciuto, ch’io veda il suo cappello di steli di paglia a raggiera simile all’aureola del san Giuseppe di un presepe da aiuola, che lui veda il cappello vietnamita che mi stende un fresco velo d’ombra sul volto, mentre indirizzo lo sguardo al suolo in cui le caviglie in marcia mi si riempiono passo dopo passo di segni lasciati dall’erba appuntita e dalle zampe di piccole cavallette.

Il fattore che accanto a uno spaventapasseri se ne sta premuto contro il suolo sputa dalla bocca un filo di fieno come fuoco di drago, e possiede anche lui un’ombra in volto, sebbene il sole scivoli senza ostacolo tra le feritoie del suo copricapo malconcio; è un’ombra che gli proviene da una mansuetudine interiore, che me lo rende più avvicinabile ammansendo anche il mio istinto, e da una preoccupazione, anch’essa che me lo rende più avvicinabile, più comunicabile: questa terra di vacanza è un posto strano: la prima ombra umana che mi si para davanti non è un uomo rurale con la pelle dura che ride dei miei pensieri inconcludenti; è invece un contadino cogitabondo, snervato nel fondo della sua calma superficiale, non per questo falsa.

Rassicurato, gli chiedo cosa sia successo.

Risponde che non sa più come comportarsi con gli orsi che vengono a rubare le patate dolci: spuntano sempre là, ai confini del campo, e appena li noti, non ci mettono niente a sparire nel bosco.

Gli chiedo: quali orsi? E lui mi indica un punto lontanissimo in cui non c’è niente. In piedi accanto al campo rimango per lungo tempo a scavare con lo sguardo allungato fin laggiù. Accanto a me non ci sono più né fattore né spaventapasseri né la porzione di campo che si estende da quel lato. Soltanto la parvenza di una compatta vibrazione che passa attraverso di me, come fa una linea di schiuma con un paio di caviglie interrate nel bagnasciuga, mi rende vagamente consapevole di uno spazio che mi circonda fatto di luce e rumori e odori vivi sprigionati dal suolo; e poco a poco mentre osservo mi sembra che la mia facoltà di vedere inizi ad assomigliare al frinire degli insetti che riempie quella stessa distanza, divengono una cosa sola; e il sole, di raggi frantumati in colori cangianti di secondo in secondo, valica l’ombra che mi sono steso sul volto, e mi fa sudare gli occhi, fa venire un’emicrania allo sguardo.

Non vidi nessun orso, ma sulla linea finale del campo iniziarono ad apparire macchie brune, che si ingrandivano e rimpicciolivano, sfuggenti; e sentivo provenire dal loro nucleo, che permaneva come un punto incandescente per qualche secondo anche dopo che erano scomparse, un qualcosa di simile a quella presenza che avvertivo dentro le palpebre quando, durante i lunghi viaggi in macchina, chiudevo gli occhi schiacciati contro il finestrino in corsa su una regionale sopraffatta dalla canicola, e allora anche dentro il mondo del sonno si propagava un rovente bagliore arancione.

 

Per esempio mi rividi in un momento in cui incontravo lei, la stessa tipa con cui stavo morendo sul tram deragliato, e facciamo un pezzo a piedi, e dopo un quarto d’ora in cui sono stato zitto come una lastra di ghiaccio urbano marrone, fiancheggiamo una libreria che espone in vetrina alcuni classici, parto a parlarle di quelli in reazione a una sua semplice sollecitazione che richiedeva una risposta anche meno articolata, e parlando iniziano a bruciarmi le orecchie e sono certo che ci ghosteremo proprio a causa di questi miei ragionamenti non richiesti, così simili ai rumori effimeri di quella strada tutt’attorno, evaporanti dai marciapiedi e dispersi senza conseguenze nello smog della sera.

Tra le stesse nuvole di rumore appare una sua amica dell’università e io taccio di nuovo, stavolta in maniera definitiva.

Dopodiché ricordo soltanto forti impressioni sparse di ciarle casuali degli umani e delle infrastrutture che cingevano la via congestionata di turisti e passeggiatori d’altra specie:

due anziane voci roche di fumatori fuori da un ristorante chiacchierano e una si distingue per aver affermato di vedere con sospetto la recente insorgenza di fiorai e compro oro, e sento nel silenzio dell’altra la discrezione di chi non è d’accordo ma preferisce non dir niente;

due insegnati delle medie uscite da un rientro pomeridiano parlano di colleghi e alunni, e ho un dejavu, di un momento futuro rispetto a quello, in cui il sosia di una delle due dice “ma chi era, Lorenzo che se ne è uscito con Dr. Slump e Arale?”, enfatizzando che di norma un simile argomento sarebbe l’ultimo dei suoi pensieri, “no Lorenzo non se ne esce con ‘sta roba qua”, al che io penso, figliuola cara (avranno all’incirca quindici anni più di me), è della parola di Dio che stai parlando, ma poi espettoro un colpo di quella specie di tosse che serve a distrarre il disagio, quando ricordo che in quella stessa giornata del futuro avrei detto: “ancora non ci credo che Toriyama è morto”, e dicendolo mi sarei reso conto che invece ci credevo eccome, e non esisteva un modo di spiegare adeguatamente all’interlocutore quanto la cosa mi rendesse triste -un tempo ero meglio di così, un tempo, sapendo quanto fosse futile e insignificante, non avrei sentito affatto alcuna necessità di tentare di illustrare a un altro anche la più banale delle cose che ho dentro;

ricordo poi che l’amica della mia amica a un certo punto se ne esce che lei legge soltanto libri in cui i personaggi sono accompagnati da minuziose descrizioni, perché questo la aiuta a renderglieli familiari, a farseli amici: dirò allora per correttezza che lei aveva i cappelli ricci di colore autunnale e occhiali dalla montatura rossa e un naso acuminato, e della mia amica non dirò niente, e di me dirò che, boh, facciamo che indossavo anche allora il cappello vietnamita della vacanza di cui ho detto prima, e alla quale sono grato di avermi ammazzato un gran bel pezzo di tempo;

poi degli adolescenti in uscita da una fumetteria che non parlano di fumetti ma di X Factor,

facendomi notare che tutta questa gente che ho intercettato aveva parlato con un tono di voce altissimo, quasi fosse sparito il confine tra i passanti, le comparse, le ombre sullo sfondo, e le conversazioni in cui si partecipa in prima persona;

poi niente: ora, chi mi spiega queste rimembranze di una sera qualsiasi? Tutte senza significato, senza forma, tutte ugualmente apparse mentre il tram cadeva.

 

Per esempio mi rividi in un periodo in cui mi ero messo in testa di tradurre alcuni racconti: per l’occasione, mi ero predisposto a vivere solo e indisturbato per un certo intervallo in una catapecchia dispersa nella campagna, piena di aracnidi e in cui al mattino ascoltavo il fischio del bollitore, amplificato dal silenzio esistito prima e dopo di lui, come fosse un disco ambient vecchio e rovinato. Sulla pallida parete antistante il mio tavolo da lavoro avevo inchiodato a mo’ di santino una fotografia in bianco e nero di Akutagawa, accovacciato sui tatami nella penombra del suo studio. Certo, non era lui l’autore che stavo traducendo. Indossavo però per l’occasione uno yukata blu scuro tendente al nero, lo indossavo come l’armadio portatile di una tartaruga a tutte le ore, e mi ammorbidiva i pensieri come presine di ovatta sul cervello, quando l’alba mi svegliava bussando forte contro le finestre di legno prive di protezioni, e stringendo l’obi uscivo subito a sedermi sulla veranda simile a un engawa; gambe a penzoloni, strusciate da schiene di gechi che strisciando sotto i polpacci sparivano svelti nell’ombra sotto la casa.

Sarebbe stato bello sciogliersi al riparo lì sotto le grondaie assieme al fumo di una pipa o di una sigaretta, ma non mi ero ancora deciso a iniziare a fumare: me lo impediva il timore di alcuni bruciori gastrointestinali che, un giorno, sentii salirmi dal ventre fino alla testa.

Mi sedetti alla scrivania cercando di ignorare questa interferenza, davvero troppo odiosa, ostacolo rispetto a ciò che una volta tanto mi ero proposto di fare, e ciò che sarei dovuto essere in quei giorni: una cancellatura nel foglio rumoroso della vita, di cui quella casa isolata era soltanto un intervallo: una temporanea inesistenza.

Ma chino sul mio foglio di carta, carta reale e stampata per motivarmi a muovermi, divenivo sempre più alieno rispetto al senso della frase, mi si faceva dapprima sconosciuto nei suoi costrutti complessi, poi in quelli più semplici, infine nei vocaboli stessi, nelle loro relazioni più elementari…

il bruciore a quel punto era risalito fino ad annebbiarmi la fronte e, regredita del tutto ogni grammatica, ogni possibilità di comprenderla, ridotti ad acido incandescente i miei neuroni, vidi sollevarsi dalla carta fitte foreste di inchiostro.

I caratteri ideografici, spogli, privi di simbolismo, mera materia nera e dotata di striminzite innumerevoli gambe da insetto, presero a uscire dal foglio e sciamare, odiosi come eserciti in marcia sulla collina di una qualche antica battaglia nelle steppe. Si moltiplicarono le loro zampe. I loro spazi di non-nero erano occhi, occhi come incandescenti braci bianche, che mi osservavano, erano un organismo, o ciò che ne restava, e con loro, in quel luogo, io non ero del tutto solo e in pace: ero in compagnia di una presenza estranea strisciata di nascosto in casa.

Mi sembrò per qualche istante che mi uscisse un pus incolore dagli occhi ma non ebbi modo di pensarci più di tanto: senza alcuna gradualità mi si era gonfiata la cassa toracica.

Il petto squassato da respiri ingigantiti che mi stupivano, mi mettevano una paura incontenibile, perché non avrei mai creduto che i miei polmoni potessero fare qualcosa di simile, e perché sembravano intenzionati a privarmi più che rifornirmi di ossigeno; e più sentivo di dover respirare, più i respiri accelerando mi soffocavano.

Quel circolo vizioso durò pochi secondi, la stessa durata del fischio del bollitore -avevo riempito di immaginario vapore la stanza della catapecchia, la nebbia avvolse gli eserciti dei kanji: una foschia di vapore che senza sosta si sprigionava dal contrasto tra il gelido sudore del panico, stillato a litri dalla fronte, e l’incendio che dietro la stessa fronte divampava e corrodeva, non risparmiandomi niente.

Ricordo che, quando i respiri decelerarono e sentii del tutto trascorsa quella specie d’ulcera diffusa, mi trovavo avvolto alla ringhiera di legno della veranda, e avevo iniziato ad ascoltare l’eco di un chiocciare di polli da un terreno vicino. Sentii come balsamo il pensiero che quei polli, che non potevano appartenere a nessuno in quella campagna vasta e disabitata, dovessero aver vissuto in quella porzioncina di terreno da chissà quanto, non sorvegliati, sereni a razzolare senz’altro scopo che il razzolare, ogni giorno, e ogni identico giorno accogliendo le nascite diversa della luce, filtrata dalle fronde; osservai, forse vedendola per la prima volta, la figura di una quercia titanica che cresceva in un punto del giardino vicino alla casa. Il tronco verde opaco, largo come quattro orsi, tutto avvolto da un rampicante nodoso e grigio, morto, un parassita che era stato incapace di sottrarre vita a quell’albero, certo meno abile del muschio, che qua e là in macchie rade era riuscito a risalire dalle radici ai rami, tra i quali restavano in trappola le luminose spolverate del sole rinascente, schiuso da una nuvola.

 

Per esempio mi rividi in uno spazio in cui era allestita una mostra di esemplari di design dell’editoria. Eravamo io e la persona di cui ho parlato -o forse un’altra: non voglio farle un torto invitandola di nuovo, nell’immaginazione e rielaborazione, al museo, a perder tempo con me, quando non è detto che tutti abbiano la stessa mia necessità di perderlo.

Un piccolo frontespizio incorniciato è quello che maggiormente ha attratto la nostra attenzione. Subito davanti, svetta un capitello corinzio sul quale è disposto un quaderno: invita i visitatori in coppie, da un lato e dall’altro, a riprodurre sulle due pagine i due lati speculari dell’immagine, senza guardare la propria mano o il tratto della matita, soltanto osservando l’opera incorniciata senza staccare gli occhi, cercando perfino di non sbattere le palpebre. Facciamolo, diciamo noi, sorridendo, mi sembra, per la prima volta, perché lo sa anche lei che è un’ottima idea, perché in fondo è d’accordo con me: c’è necessità di un frontespizio del genere.

Ci mettiamo in modo che la mia sinistra e la sua destra si scontrino, cosicché, anche se ci intralciamo, perlomeno siamo simmetrici.

Come da regolamento, non stacchiamo gli occhi dalle due pantere rampanti ai lati delle felci folte e crespe che avvolgono lo stendardo centrale -un semplice fondo rossobruno attraversato da una croce bianca, e nonostante i residui di riflessi verdeacqua nelle felci e viola scuro nelle pantere non si siano del tutto cancellati, l’impressione complessiva è di un fumoso bianco e nero, minimale e perfetto.

Concludiamo la nostra riproduzione amanuense senza controllare cosa abbiamo fatto, soddisfatti chiudiamo il quaderno, che sarebbe dovuto restare aperto per gli altri visitatori: ci guardiamo e sorridendoci come idioti ci stringiamo la mano: ottimo lavoro. È stata la miglior cosa di sempre. Lei si mette il quaderno sottobraccio, d’accordo con me nel rubarlo. E soprattutto, lei, su questo, è d’accordo con me: c’è necessità di questo frontespizio, e soprattutto, se mi fosse stato concesso di pubblicare le mie traduzioni, e di includere in prima pagina un frontespizio come quello, le cose sarebbero andate molto meglio: nessuna perdita di controllo della respirazione, nessun incidente del tram, nessuna necessità di difendermi da lei o da chicchessia: e saremmo stati tutti consapevoli della verità che gli scrittori, quelli tradotti o quelli lasciati impenetrabili dietro la coltre frastagliata dei caratteri d’inchiostro, hanno scritto del medesimo argomento: tutti gli scrittori e i loro disperati corpi umani hanno sognato quelle due pantere, il cui nome racchiude tutte le belve selvatiche, e felci ad adornare l’immagine astratta di un cuore geometrico.

 

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In diversi modi si sarebbe potuta sviluppare l’autogiustificazione seguita alla sua domanda sul tram, diversi scenari si materializzarono, convivendo in uno stesso spazio, un paradosso del pensiero, come illustrato dal Tractatus. Non tratterò di questi, ma dirò solo che in uno risposi alla domanda rivolgendogliene un’altra: che male c’è a stare sulla difensiva?, il tutto dopo una lunga premessa. Non rispose. Non perché non avesse risposta. Ma credo che avesse scelto di fare come me, ponderando da sola sulla domanda e raggiungendo conclusioni che non ebbe voglia di condividere, forse volendomi mostrare come ci si sentiva, forse valutando che comunque non avrei ascoltato. In silenzio si sarebbe conclusa quella tratta di tram non deragliato, mentre attorno al suo transito, sotto gli intrecci di luminarie sospese e fili dell’elettricità tranviaria, premevano verso le rotaie i palazzi delle ambasciate, oltre i cui muri rumorosamente bisbigliavano frasi straniere intraducibili.




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