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pranzo a casa vecchia

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 17 gen
  • Tempo di lettura: 25 min

Sono in sala, non la sala di casa nossignore, questa è la sala di Via Tiziano 13, la prima e archetipica, fulve tegole lignee sotto i piedi e polvere gialla fluttua ovunque, che ci sto a fare qua? Ma per quanto me lo domandi è qua che mi trovo, e non si trovano altri -forse sparpagliati in giro per la casa, a fumare e bere e sparecchiare tra una portata e l’altra, fatto sta che c’è solo questo mio spettro a sfrusciare costeggiando il divano sul quale stanno accasciati e storditi, irraggiungibili, uno zio mio e un altrui padrino che russano simili a gemelli in letargo ubriaco, e accanto il figlio di qualcuno concentrato su una psp, e un tizio duro e brizzolato addormentato ciucco anche lui che non ho la minima idea di chi sia, cazzo non l’ho mai visto, lo giuro sul cristosomaro di porcellana blu che prendemmo come souvenir della Corsica e che, se la memoria non mi inganna, dovrebbe anche lui trovarsi qua, in questa casa, sulla mensola del camino magari… e infatti eccolo là. Ma non dovrei cercare lui: se qualcuno sopraggiunge dalle stanze contigue o se i morti del divano resuscitano, e se vedono me, nella mia attuale forma, intrusa in questo momento storico, sono guai. Devo cercare qualcun altro, qualcuno che… ecco, le mie acuminate vibrisse di spettro captano una massa gasteropode: si aggira sfaccendato ed esitante nello spazio tra un bracciolo del divano e il mobile del televisore, assetato del consueto incanto che trae come nettare dall’osservare la nevicata del pulviscolo dal soffitto al pavimento quando la sala si svuota; è il corpo molliccio giallastro di me da piccolo.


Mi avvicino.

Dall’alto al basso, lo guardo.

Mi riguarda dal basso all’alto: gli si ingrandiscono gli occhi ed ebete gli si schiude la bocca, labbro inferiore pendulo simile a una tramontante corolla di papavero moscio.

Ben presto comprendo che il mio trovarmi qui significa il suo essere mia preda, il mio banchettare, saprofago, sulle sue troppo fragili emozioni ribollenti in quel torace morbido, defunte da tempo lontano, da questa occasione conviviale di un passato indefinito.

Eppure, in questo tempo e spazio, sono io la materia morta, e non lui, ch’è vivo in questo presente: ho bisogno del suo corpo per nascondermi.


Me ne impossesserò.


Sono alto il doppio di lui e mi guarda, bloccato.

Ma l’ebbrezza del mio potere su di lui scompare veloce come si era manifestata: sarà anche me, ma è pur sempre un bambino. Non so mai che cazzo fare. E loro lo sentono. Fiutano il mio disagio e ne ridono o ne pensano, semplicemente: che tristezza.

E lui anche? Non lo so se sente il tanfo della mia mancanza di gesti e parole, ma mi guarda con occhi d’acqua nera, due laghi nei quali, per me che sono lui, si concentra una sorta di orrore, un paradosso color del cosmo. E venendo da lui guardato, sento capovolgersi lo squilibrio di potere.

Sono io a dover chiedere il permesso a lui.

-allora entro, eh, posso?-, gli faccio con voce tremante, inginocchiandomi per parlargli alla stessa altezza.

Non dice niente e continua a guardarmi, ma nemmeno reagisce quando inizio a tirar giù la zip che ho trovato frugando impacciato il suo corpo sudato.

Continuo come a chiedergli scusa con occhiate e bisbigli anche quando infilo una gamba dentro di lui, e poi l’altra, e mi rannicchio, e faccio appena in tempo a chiudermi dentro tirando su la cerniera che tutti quanti si riversano in sala, proprio in questo istante come richiamati da un segnale implicito, portando lasagne variopinte e bicchieri pieni di liquidi color fegato e mazzi di carte e chiacchiere e schiamazzi.

Faccio una prova, mi aggiro nel corpo nano e molle che ho rubato, mi guardo intorno tra i tronchi della foresta di gambe in movimento, guardo verso l’alto dove i volti irraggiungibili s’intrecciano accecanti coi raggi che s’irradiano dal lampadario: provo a parlare, a dire la peggio merda che ho in testa: ridono e sorridono, significa che io sono un batuffolo di carne rotonda coi capelli neri e qualsiasi mia parola o azione non è niente più che una massa tenera, alla quale strizzare una guancia e mandarla via senza aggiungere altro.

Beh, mi sta bene: almeno posso osservare senza essere scoperto.


Chissà perché sono qua.


Che giorno è?


Mi tiro su in punta di piedi e raggiungo il tavolo -ma quanti anni ho? Probabilmente è la mia mente a farmi più nano di quello che ero veramente a quest’età, che non so quale sia, comunque non così piccolo e minuscolo; ma così mi vedo e così giganti vedo gli altri e le cose attorno, perché così è, così è la vita e ci devi stare, zitto e muto, credevi forse che nei tuoi ricordi avresti avuto una, come si chiama, “agency”?, una possibilità di riplasmarli, di portarvi dentro ciò che ti hanno insegnato riguardo al tuo sentire? Zitto, piccolino: a Via Tiziano 13 sono tutti giganti, e devi sforzare quelle tue membra, che tardano a crescere e a manifestare tracce di ormoni, anche solo per prendere un bicchiere d’aranciata.


-e non ne bere troppa che ti gonfia!-, dice una voce.


Io prendo il mio bicchiere di plastica e mi allontano, stringendo tra due mani marroni il beveraggio giallo smorto, zucchero luccicante sotto il bagliore elettrico della stanza mentre fuori il pomeriggio è un univoco velo di nuvola grigio-bianca, incorniciata dalla porta del balcone, una casa arancione ingrigisce sulla riva opposta della discesa che conduce al garage, un intruglio di eco diverse rimbomba da una via parallela trasportando sfrecciate di ciclomotori e latrati di cani che infilano musi tra sbarre di cancelli di ferro nero. Sono a casa, sì, riconosco tutto, quella che nei sogni si mescola in biotecnico collage con la casa attuale e con quell’altra ancora, quella che esiste solo nelle estati morte che non torneranno mai più.


Sì, riconosco. Ci sono stato qua, ci sono vissuto.

C’è vissuto questo corpo e forse per questo riesco a marionettarlo senza grande sforzo.

Eppure sembra diverso, distante.

Come non credessi di essere cambiato così tanto negli anni che mi separano da lui.

Concentrandomi solo sul mio respiro, rimasto pressoché immutato, spezzato negli stessi punti e di fronte alle stesse cose, devono essermi sfuggite altre cose.

So comunque camminare con lui per questo breve tratto.

Guidandolo mi posiziono in un angolo della sala, dal quale posso vedere.


Nonna trova mio cugino e lo afferra: adesso dovrà intonare alla tromba una melodia richiesta, una manciata di note, neanche dieci secondi in totale, dovrà farlo per lei e per mamma perché, suvvia, lo sa che dovrà farlo -che fai, ti metti a imparare la tromba e non ci fai sentire niente? E in quel momento -non so se sono i miei sensi di spettro o quelli di bambino a recepirlo- sento che prende vita, come una leggera fiammella dietro il volto di mio cugino, una sorta di frustrazione, incorporea, senza sbocco, senza verbalizzazione possibile. Dura appena un attimo. Lui mormora qualcosa che non so ben distinguere, o non ricordo bene -ho problemi di udito e di comprendonio, sono un bimbo scemo che capta cose che non può pronunciare perché non ha parole né capacità neurali, e nessuno sospetta niente: rovesciano bicchieri sulla tovaglia e parole nell’aria, tanto c’è nei paraggi una spugna vivente che si risucchia tutto e che, sono certo che lo pensino, si dimentica anche tutto, e come biasimarli? Non so rispondere alle domande e non saprei ricostruire un singolo dettaglio d’arredamento o vestiti indossati o rapporti causa-effetto: per queste cose dovete rivolgervi alla memoria di mia sorella. Ma una vibrazione invisibile nell’aria, che ogni volta nasce, schiudendosi da ogni singolo atomo della catena di tutti questi invisibili microavvenimenti, io la so ricordare, lo giuro, la rivedo in eterno, proiettata davanti ai miei occhi, vivisezionata.


Mah. Chi se ne frega, davvero. Non sento le parole esatte di mio cugino. Vedo vivo il loro ardere.

Prima pronuncia una frettolosa e poco ragionata scusa, qualcosa come, boh, non poter andare a prendere la tromba in quel momento.

Poi, qualcosa come che si può anche farlo più tardi.

Poi, un mercanteggiare.

Poi, una specie di accettazione. Sbrigherà la pratica.

È solo un fastidio temporaneo, in fondo, se di fastidio si tratta -cazzo, per uno che dice di essere tanto bravo a intuire e visualizzare vivida la vibrazione, sono dannatamente incerto riguardo alla natura di quel sentimento. Fatto sta che lui si alza e, senza fretta, va a prendere la tromba, e si prepara, per il momento obbligatorio di uccello canoro in gabbia, nipote e figlio e maschio che dà soddisfazione, beh immagino faccia parte del gioco, nella tua camera studi Dizzy Gillespie quanto ti pare e piace, ma poi ti accolli anche questo e non è che ti puoi lamentare. Così e basta, come tante cose.


L’aranciata stretta tra le mie mani marroninervose non basta a distrarmi da un salmastro accrescersi di cose strane nel petto quando assisto a questi e altri movimenti, così gironzolo un po’ tra la sala e il corridoio, mi viene in mente che zia è ancora viva e forse c’è anche lei da qualche parte in casa, è una casa piccola ma anch’io sono piccolo e allora la casa è grande grande, una vera savana di parquet e mura bianche, magari sì, c’è anche lei in giro per casa, o forse è già troppo tardi?

Ci sono tutti però. Che festa sarà, che ci sono entrambe le parti della famiglia e altra gente ancora?

Compleanno di papà forse. Ma non vedo albero addobbato né presepe.

Che si tratti di una comunione mia, o di mia sorella?

Ci manca solo questa: una stramaledetta festa di primavera, germinante di rigogli e pollini e succhi sgorganti dalle cose che scoppiano in tripudio sessuale di tutte le cose organiche. Merda, una comunione… allora lei si sentirà peggio di me che sono due persone nello stesso momento, poveraccia -molto peggio di me, di quanto io possa comprendere ora con questo corpicino di principino vezzeggiato e figlio minore protetto.

Vado a cercarla.

Attenzione però: essermi camuffato in questo corpo potrebbe rivelarsi, con lei, con lei soltanto, un rischio: io ora per lei non sono quello che sono adesso, sono un “testa che non parla chiamato cocozza” come dicono sempre loro, e se parlo è solo per blaterare a profusione delle mie cose fastidiose e non richieste e solipsistiche tipo la zoologia e altre cazzate che adulti applaudono anche e soprattutto senza ascoltarle; sono un essere lento, svelto solo a reagire contro di lei quando me lo fa notare, perché il mio solo modello sono le bestie della foresta, sono il fottuto sciamano, sono Mowgli e al contempo il re tigre schizoparanoide che gli dà la caccia, eccomi qua, sciamano della catalessi animale, lentissimo in tutto, per esempio a capire, come lei ha capito sin dal primo istante di coscienza, che ci sono conseguenze e cause nelle cose che noi sentiamo dentro, e possibili reazioni e modi di affrontarle, ma io mi faccio fare tutto da tutti indipendentemente dal sentire e così mi allineo, sono un chierichetto, collaborazionista del regime che la opprime, il quale ingiustamente mi celebra e protegge… la sto cercando per chiederle scusa di essere nato maschio e dopo di lei e proprio in questo nucleo di gente ferita, di essere nato in generale, di non sapere come ci si comporta in nessun caso, o cosa? Ma non lo farò. La cerco perché in fondo per me lei è già quello che è nel mio presente e so che ha ragione su tutto, la cerco perché di là stanno alzando la voce e mi spaventano e so che anche lei è spaventata e a vicenda possiamo distrarci dentro una nostra breve parentesi di quiete, rifugio.


Rimugino su tutto quello che potrebbe succedere ed ecco che la incontro in corridoio: mi fermo, mi blocco, non so se prevarrà il rancore o se può accettare il mio invito non detto. Mi sorride.

(eh?)

Mi porta in cameretta dove per qualche minuto controlliamo come vanno le cose nella nostra città di peluche. È andata bene questa volta, forse troppo: troppo simile, cioè, a tutto quello che avrei voluto -forse sono diventato davvero il principino del cazzo dei sogni di mamma e nonna a cui va sempre liscia, e la cosa mi insospettisce e disgusta.

Non può e non deve andarmi bene.

Non è giusto.

Né naturale.

Ma in fondo va bene.

Meglio questo che il conflitto, che ti mette a nudo senza gusci, tutto molle che ti frantumi a ogni tocco.

Meglio accondiscendere.

Meglio essere accontentato come in un sogno narcisista.

Un invito accettato, da lei, mia massima speranza di questo periodo, desiderio di cui a nessuno posso spiegare il perché, perché assolutamente nessuno deve sapere quanto poco vado d’accordo con i miei coetanei fuori da qua, e nessuno mi crederebbe, ché a nulla varrebbe spiegare loro che soltanto la pixelosa bellezza degli sprite dei pokémon è il fragile collante che mi tiene temporaneamente unito ad altri -fragile per loro che già abbandonano le favole in favore di ciò che accade ai loro corpi, e non per me, per sempre devoto alla chiesa di Rayquaza nell’alto della torre dei cieli. Rendo grazie a lui e a tutti i draghi volanti per questa pausa dal caos famigliare, e senza dirle grazie rendo grazie anche a mia sorella, dopodiché, concluso il gioco, torno di là.


Mio cugino suona le note che gli sono state richieste. Nonna e mamma, con affettazione che ricorda le madonne dipinte sui sassi soprammobili, si portano le mani al petto e sospirano, quanto è bello, che bello quando un nipotefigliomaschio ci ricorda i maschi morti della nostra mitologia genealogica, uomini con la pelle di terracotta abbrustolita dal sole contadino del sud e i baffi folti e la divisa, pensa che bel bersagliere diventerebbe con quella tromba. Ma lui nella testa ha il doo bop sound, e lui per me è l’anello che congiunge i miei cinque gradi di separazione con Miles, perché fra qualche anno conoscerà il trombettista virtuoso che con Miles ha avuto uno scazzo, e che ha suonato con Art Blakey, il quale ha suonato con Miles e a dire il vero con mezzo mondo, per cui in realtà secondo la teoria dei gradi di separazione noi e i grandi del bebop siamo tutti amiconi, amici di famiglia: e allora la canzone che papà ha appena fatto partire, inserendo un CD nel lettore DVD e così facendo apparire sullo schermo la schermata blu fissa, la canzone che parla delle Stelle del Jazz, parla in realtà di compari nostri, gente che conosciamo.

Non faccio in tempo a pensarlo che din don, suona il campanello e dietro i vicini di casa, che portano altre cibarie e dolciumi, ecco che appaiono in fila un po’ di quei ragazziscimmia del jazz, separati tra loro da decenni e mutamenti stilistici, ma qui riuniti sul pianerottolo per esser nostri effimeri commensali, passati solo per un saluto: c’è Mingus, ha un sigaro fumoso e pungente e collerico-sanguigno tipo quelli di zio.

Bud Powell sorridendo discreto segue placido e flemmatico e assomiglia a zio l’altro che seduto gioca a carte ed è l’unico che non alza la voce.

Poi c’è Charlie Rouse che ha portato dei cioccolatini dentro una custodia a forma di melanconico sassofono.

Salutano e se ne vanno, che devono scappare, tutti amici nostri.


Ritorniamo a occuparci dei jazzisti di casa nostra. Papà quasi quasi prende la chitarra, che dici, ci scappa una suonata di Paolo Conte, o magari Sweet Georgia Brown?, e nonna batte le mani per suo nipote, e io, che sono due persone dentro una, mi avvicino e la guardo, e vedo sdoppiarsi due nonne, per la doppia natura dello sguardo che ciò consente.


E chi sarà il primo a disfarsi della sua pelle? Lei o io? Potrei farle questo dispetto?


Le attenzioni che sempre mi rivolge mi infastidiscono. E se mi vendicassi, qui e ora? Se, davanti a tutti, ma soprattutto davanti a lei, sbottonassi la cerniera che mi mantiene in incognito dentro questo corpo di bimbo, che lei rimpinza? Potrei darle questo dolore? O sarebbe lei, per prima, a sbottonarsi la cerniera e rivelare che, sotto la sua apparente sagoma di pernice ingobbita, c’è il lupo che l’ha divorata e sostituita?


(già, il lupo che lei ha incontrato da bambina sulla riva del fiume, che le ha ringhiato dalla distanza, zanne sgusciate da gengive scoperte, rughe moltiplicate sul muso, il volto bruno-grigiastro di Satana. Tutto quello che ascoltavo, e che le chiedevo di raccontarmi, erano i giorni dell’età aurea del Volturno, quando lei da piccola vedeva pesci e lontre nella corrente limpida in cui immergeva le caviglie nude, bianche larvali nel mondo trasparente e gelido come ghiacciai; di quell’epoca soltanto le chiedevo, quando di notte le streghe janare e i folletti danzavano sotto la luna e le costellazioni di quel loro cristianesimo pagano di campagna.)


Una tremenda febbre diabolica mi scuote tutto e l’idea di smascherarmi mi sprona sul serio, cazzo, forse lo faccio, sai come ci rimane di merda? A vedere il tenero carnoso bimbo, sorridente per obbedienza ed escapismo e misure preventive, trasformarsi, per mezzo di un fulmineo sortilegio del tempo spietato, in un giovane pelato e ai suoi occhi scheletrico, uno scuro e grigio spilungone lugubre in volto e nei pensieri, senza fede né direzione nella vita, che non va a trovarla a casa, che si rifiuta di mangiare gli animali e non beve, e vaga nervoso e rinchiuso, e non sciupa le femmine come si confà al sangue, troppo cauto e anaffettivo e distante e segretamente pestifero come i preta प्रेत di quei suoi tomi buddhisti miscredenti -néé annonna, perché non ti siedi a dire il rosario con me, che da piccolo lo facevi????


Lascio perdere.

Faccio il giro del tavolo, mio cugino mi passa accanto dopo essere andato a dire nonsoché a sua madre, mia zia cioè, che complice gli sorride per qualche ragione che loro conoscono, alta alta come tutti gli altri la vedo incorniciata nel balcone accanto a mamma, tra le dita inforcano lunghe bianche sigarette simili a gessi per scrivere sulle lavagne. Lui si risiede al suo posto e con una pezzetta asciuga la condensa appiccicata alla tromba, scambia chiacchiere per me indecifrabili con mio cugino l’altro, seduto dall’altra parte del tavolo, chissà che dicono, forse entrambi frequentano ancora il liceo in questo periodo? Comunque mio cugino dall’altra parte del tavolo mi vede e mi fa un sorriso strano di chi la sa lunga, mi chiede come mai non sto col muso appiccicato al gameboy come ero solito fare. Gli spiego che non riesco a sconfiggere un certo capopalestra, so che lui può capire. Gli dico però, e certo farà tesoro di questa preziosa informazione, che mi si è evoluto wingull. Ride e torna a chiacchierare. Me ne vado soddisfatto in cerca di altre cose, non ho ancora capito cosa.


I due defunti sul divano sono resuscitati e si destreggiano come meglio possono tra le inconvenienze di una ritornata sobrietà. Mi si parano davanti all’incrocio tra la cucina e lo studio di papà, come grosse statue di rubicondi gioviali predatori sostituiscono gli stipiti, e mi richiedono la parola d’ordine per poter proseguire oltre: è divertente mettermi in difficoltà, certo, ma non sono neanche del tutto impreparato: conosco la loro natura di raconteur baffuti, la loro precedente conversazione infarcita di aneddoti rocamboleschi e soleggiati come banchetti pomeridiani sotto intrecci di viti e ulivi e ronzii di vespe: sparo la prima sciocca arguzia che mi venga in mente, lontana dalle tipiche risposte pronte che si aspettano da un degno erede e che non riuscirò mai a replicare, ma pur sempre una accettabile capriola di linguaggio, perché conosco un po’ di parole strane per uno della mia età, e ascoltate da una bocca infantile inducono scambi d’occhiate e risa compiaciute, tanto che pare mi sia guadagnato il passaggio. Aggiungono qualcosa, distendono le branche possenti e roteano le nocche dure, come per afferrarmi, ma non mi intrattengo e sfuggo alla presa, cercando di non far cadere l’aranciata, passando nel tunnel tra le gambe, scappo via perché ho il vago timore (so che è improbabile, ma devo stare attento: sono un alieno in questo tempo e spazio) che questo sia il giorno di una certa umiliazione che ho subito non lontano da questo punto della casa, e che mai verrà nominata e che prima che possa prender forma anche solo lontanamente, e prima che possano dirmi qualcosa, escogito un diversivo, e dico:


-guardate, c’è un distributore che sputa le cose che vi bevete voi,


e indico in cucina un macchinario magicamente apparso, un barilone per la birra alla spina dal quale tuttavia fuoriescono i più disparati e focosi beveraggi postprandiali, proprio quello che fa al caso loro.


-aaaaahhh…-, fanno, e subito si avviano per un refill. Credo sia il macchinario che ho visto una volta, una notte, di festa estiva, in Via della Collina. Ci fu una jam session tra i suonatori grandi della famiglia e giovani mai visti e mai più rivisti. Guardavo impacciato seduto su un’altalena, sedette accanto a me una cugina di un mio compagno di classe, sentivo che mi guardava il profilo e mi sorrideva e non capivo perché -forse ispiravo i sentimenti inteneriti che ispira a me la visione di un gatto?

Inammissibile: la mia parte mammifera è repressa, sono ben altro genere di animale, io, dalla distanza osservo, non partecipo alla vita: seduto sull’altalena ondeggio impercettibilmente, e ammiro, come fossero officianti di riti misteriosi, i musicisti. Quella fu la prima volta, di cui abbia memoria, in cui vidi un basso elettrico. Chiesi a mio padre perché ci fossero due chitarre, la domanda degli sciocchi e dei non-iniziati. Quello è un basso, mi dice mio padre, e il tuo, quello ciò che esiste nel tuo presente di ventisettenne, sta là a prendere la polvere, dopo tanti incoraggiamenti.


Oh, no… come spiego ora questa cosa? Gli incoraggiamenti che per me sono veleno, rumore cognitivo, così come le critiche -inutili esplicitazioni, sguardi e riflettori puntati su cose che mi sembrano già abbastanza rumorose nel loro rimanere implicite…

ma allora non ti sta bene niente?

Boh, forse, se né incoraggiamenti né insulti so tollerare, non avrei dovuto proprio cominciare?

Basso, matite e fogli da disegno, pagine su pagine su pagine di inchiostro, composizioni ingenue, poesie, teoria musicale… nulla di ciò che ho toccato ho fatto mio, nulla ho padroneggiato, nulla ho studiato fino a consumarmi, nulla saputo amare, o dimostrare tramite i gesti quanto l’amassi.


Sarà che non avevo niente da esprimere?


Sarà che ogni cosa che sentivo ripetermi da altri, vivi e attivi, evidenziava in me l’assenza, la grave assenza, d’un fuoco, che è necessario in tutte le cose, che è necessario a forgiare, a dar forma?


Se no si rimane soli dentro la propria mente. La mia, per giunta. Che dell’acqua e della terra ha solo gli aspetti peggiori, che della madre e del padre ha solo gli aspetti che…


(no, è ancora presto per dire una cosa di questo tipo. Sono in un tempo e un’età in cui, qualsiasi cosa possa dire, anche mi trovassi lontano anni luce sui pianeti solitari e deserti dell’adultità, risulterebbe in uno sguardo di spettri alle mie spalle -due fantasmi genitori che sbirciano ciò che scrivo sul foglio e mi chiedono spiegazioni, cioè l’ultima cosa che voglio dare)


E va bene gente!, non ho un fuoco se non quello che mi brucia da solo in fondo alle budella, e le cui braci si aggiungono ai solchi che mi si formano come cicatrici sulla pelle dopo ogni contatto. Non ho dentro me quel terrificante vivere, non lo capisco, so che mi disintegrerebbe se lo provassi. E più d’ogni altra cosa io devo proteggermi. Ma nel modo che dico io. Non nel modo in cui mi state proteggendo.


Mannaggiatutto, l’ho fatta proprio grossa in questi anni. Non ho imparato niente!


Mi serve una boccata d’aira. Sono ancora in corridoio. Balconi occupati. In bagno un tanfo insopportabile. Altro bagno chiuso a chiave.


Ho bisogno di immagini. Come pitture rupestri. Costellazioni. Una storia da cantilenarmi da solo nella fronte.


Prendo in mano l’asinello blu della Corsica, che nel frattempo, forse perché si è stufato, si è spostato dal camino a una mensola del corridoio.


Oh, cristosomaro, dammi risposte…


Vaffanculo, mi risponde lui. Come se non bastasse.


Devo cercare alternative. Fluttua fuori da una montagnola di libri nello studio, con le fattezze del me stesso adolescente e vestito di nero a lutto, la sagoma di Stephen Dedalus, che mi fa: eh no, bello mio: trovati la tua narrazione, il tuo alter-ego, la tua voce, che io sono il personaggio di un’altra storia.

E detto ciò scompare.

E che mi resta? Il gameboy è scarico e sono rimasto bloccato alla quinta palestra.

La sala è occupata, niente videogiochi di kart che sfrecciano nel cosmo.


La libreria del corridoio ha un ripiano che io stesso ho dispoticamente adibito a raccoglitore di enciclopedie zoologiche.

Sfilo un volume dalla processione dei titoli che nostalgicamente riconosco sulle rilegature, mi siedo a terra…

Porco mondo, stanno cascando delle lacrime del cazzo sulle pagine che sfoglio. Ma come è possibile? Perché? Con le gambe distese sul pavimento, improvvisamente lunghe lunghe, mi ritrovo accasciato col dorso sulla libreria, corpo srotolato a terra, a piangere con un libro di illustrazioni di bestie selvatiche aperto in mezzo alle cosce… merda, sono tornato quello di prima. Che cazzo è successo? È sparito il corpo del me stesso bambino. Se mi trovano così, non so cosa è peggio: che mi vedano a ventisette anni o che mi vedano piangere. Che spettacolo umido e deplorevole, squallido col culo per terra. Dove lo ritrovo adesso quel bambino? Dov’è andato? Me ne devo andare, subito.


-oh, che fai là? Vieni con me.


Mi giro e, alla mia sinistra, fluttuante in un angolo di penombra del corridoio, appare il fantasma di zia.

Ah, ma allora era ancora viva, c’era anche lei allora.

No, forse no: è chiaramente un fantasma. Lo vedo, lo capisco.


-ciao zia, dov’è che dici che devo andare?


Mi fa un cenno con la mano, che dice che devo star zitto adesso, e afferra la mia, le sue dita di fantasma sono solide sul mio polso per me che sono un fantasma, sebbene di diversa specie. Mi trascina, diretta e sicura, si direbbe, verso la cameretta.

È strano: sono più alto di lei. Non era mai successo, nel tempo in cui siamo stati in vita insieme. È una cosa troppo strana. E non so che significa.


Si guarda intorno, circospetta, ma con un che di nascostamente divertito: sembra cimentarsi, tutta presa, in un gioco da bambini, una sorta di nascondino o acchiapparella di cui sono il complice e beneficiario, soltanto per pochi secondi -il gioco è sempre così: una brevità nei corridoi interposti tra le stanze ove si consumano il rumore e le grida e il movimento, e dopo, quando è concluso, ricomincia subito la vita, ricomincia subito la morte. Via libera, mi fa cenno con uno sguardo, mi spinge dentro e chiude la porta dietro sé. Sveltissima mi indica l’armadio.


-entra là. Va’ in fondo al corridoio che trovi subito dentro. Laggiù ti rifaranno il corpo che ti serve per stare qua ancora un po’. Se ci vuoi stare. Magari devi vedere qualcosa.


Annuisco, apro l’armadio. Uno spiffero strano striscia dal fondo dell’oscurità che vedo fumigare in banchi al di là dei vestiti di mia sorella appesi, un venticello che ha come un soffio rancido dentro, eppure mescolato a un sentore di sole… come quello che mi saliva nei polmoni a casa di nonna, nel palazzo in cui abitava anche zia, a pranzo la domenica vedevo zia e nonna e… già, nonna dov’è? Non l’ho vista in casa, oggi. E nemmeno il suo fantasma. Certo, nel presente stanno di nuovo insieme, madre e figlia in un altro tipo di palazzo, stesso loculo; ma si vede che questa zia fantasma è venuta da sola per darmi un aiuto, o forse non è affatto venuta da là. Forse niente viene da là.


E allora perché mi aiuta?

Mi riconosce, sa che sono io, anche se non mi ha mai visto così?

Che casino, eh, zia… non so come giustificare me stesso, ora che mi vedi così, non so come mi vedresti e cosa mi diresti e… sì, lo vedo, mi fai lo stesso gesto di prima, mi dici che penso troppo e mi picchietti con le dita la schiena, devo far presto a infilarmi dentro l’armadio.


(Ma come sono, eh, come mi trovi? Ero meglio, nel modo in cui mi hai conosciuto te?)


(No: non si è mai migliori quando si è qualcosa di cui in futuro ancora si pagherà lo scotto.)


(Ero già peggio? Ero già quello che sarei diventato subito dopo essertene andata? No, non posso parlarne, non di quello… che mai più, sulle terre emerse, si parli di quei giorni: che la memoria di tutte le scuole medie di questo mondo sprofondi, assieme al sudore prepuberale, alle svastiche sui muri, alle tag, allo sviluppo in ritardo, al mal di pancia, alla stramaledetta crescita dei maschi italiani con la sua legge di giungla brufolosa, al bullizzare e l’essere bullizzati, divorarsi e farsi divorare, al farsi accettare dal branco e ai riti iniziatici, al piangere sempre e soltanto di nascosto, senza farsi vedere da ombre che hanno occhi e ricettori ovunque, le prime palpitazioni sincronizzate ai respiri mozzati da un sentimento nuovo, e quel piangere è in un modo mai sentito, più grosso, e strisciante tutt’attorno come una macchia nera che da me si dipana e mi circonda, e più terrificante di qualsiasi pianto ci sia stato prima, perché è vergogna e assenza di fuga, e tutto il resto…)


(C’era già tutto. Tutti miei passati presenti futuri, che tu, prima che morissi, hai visto, hai conosciuto, concentrati, condensati in un punto. Perché mi aiuti allora?)


Già, già, zia, hai ragione, è un gioco, non devo fare domande.


-ma ci rivediamo?-, chiedo in silenzio mentre mi volto, sulla soglia del buio. Mi fa una faccia che ribadisce come non ci siano domande qua, mette un indice davanti alle labbra, non dobbiamo farci scoprire -è tutto un gioco, questo, per lei, anche il suo aiuto ne fa parte.

Entro, scemo come un ladro, nell’esofago dell’armadio, la porta si chiude dietro me ed è buio, e sono solo io, ho ventisette anni e so benissimo che non ci si rivede più, che le persone semplicemente spariscono, e il più delle volte sono io a sparire, e non c’è proprio un bel cazzo da fare -sia nell’uno che nell’altro caso. Sempre ci si protegge, io e gli altri, soggetti e oggetti, passivi e attivi, alterità e alterità. Tutti come bambini nascosti dentro un armadio, rannicchiati a piangersi dentro le ginocchia.

In fondo alle viscere dell’armadio, una flebile bioluminescenza viene cosparsa da organismi e batteri che per gioco prendono la forma di creature d’abisso. C’è perfino uno squalo longimano che è stato ingoiato dall’armadio, le sue branchie baluginanti illuminano per un istante la figura del bambino che si è nascosto qua. Poi di nuovo buio.

Capisco che non devo far niente, non devo essere io a entrargli dentro, stavolta. Aspetto. I plancton mutaforma scompongono il bambino piagnone, lo assorbono, e me lo risputano sopra, come poltiglia appiccicaticcia, che poco a poco si solidifica: me lo ricuciono sopra. Quando sono pronto, mi spingono. Formano una massa di pressione vivente, forte come abissi. Vai, hai fatto, puoi uscire fuori.

Ovviamente non c’è nessun fantasma ad attendermi fuori dall’armadio. Solo la libreria, la cameretta, gli sguardi da insetto di plastica nera delle schiere dei peluche con cui ho giocato, la porta semiaperta, scorgo le letterine colorate a forma di pagliaccio che compongono i nostri nomi attaccati all’ingresso della nostra stanza, scorgo il corridoio, la sala, i colori e la vita laggiù che sembrano divampare, come un piccolo incendio dentro un camino, e nelle vicinanze lo strascico attutito di un suono di tromba indistricabile da ogni memoria dei giorni di queste strane feste, indefinibili, che non so collocare, che non voglio nominare -lasciarle in eterno indicibili e rinchiuse nella stanza dell’irrazionale, nella casa che ha il balcone in cui nel mio più vecchio ricordo ho visto strisciare i gechi: va bene così.


Incontro mia cugina che esce da una porta, mi dice: andiamo a sviluppare le foto?, ma ecco, capisco subito che qualcosa non va: la camera oscura era a casa loro, non da noi. Ma scrollo le spalle: va bene tutto. La seguo. Nel bagno stretto di casa nostra la osservo concentrata, tra la doccia e il lavello, estrarre con pinze da chirurgo flessuosi pezzi di tempo stampato in tessere di papiro semi-liquido, grondano acqua bianca quando le solleva dal lavandino, sotto lo specchio.


-ho dimenticato una cosa. Tu guardale, eh, non le far scappar via, se no ti taglio le orecchie.


Ci provo. Dov’è che se ne possono scappare le foto? Lei sa quello che dice e non faccio domande, faccio solo la guardia alla sua preziosa arte. Mia cugina uscendo spegne la luce, ne subentra un’altra, rossa, quella della vera camera oscura di casa sua, la stessa. Tinge di un crepuscolo irreale le fotografie, appese come calzini a fili sospesi. Le numerose foto, in cui non distinguo i volti deformi, mossi, colti in disfacimento, iniziano a prender fuoco. La luce è troppo rossa. Sono io, per scarsa tolleranza, a vederla eccessivamente rossa, e così vedendola, potenzio la sua pericolosità, lascio che il mondo somigli alla paura che da esso mi aspetto. Tutta colpa mia. Cazzo, e adesso? Lancio manciate d’acqua del lavandino contro le fiamme, ma niente. Certo lei tornerà e mi dirà che ho fatto un disastro. Non mi si può lasciare niente. E soprattutto, capirà: che dopo due schizzi d’acquetta scema mi sono fermato, arreso. Sul bordo della vasca, rassegnato, a guardare il bagno di casa vecchia incenerirsi tutto, sotto il mio sguardo.


.


Bocca secca e gola assetata, emicrania fin dentro alla trachea, come dopo un sogno, un sonno ghermitore del pomeriggio, da cui non si è riusciti a fuggire, e al risveglio non scompare del tutto, persiste sulla traccia, segugio, stordisce l’inseguito sfinito.


Che ore saranno?

I pomeriggi di queste occasioni erano robe infinite, serpentoni sconfinati, immutabile il cielo.

Potrebbero essere le sei, potrebbero essersene andati già tutti, potrebbero essere ancora le quattro -chi se ne frega, mi importa solo che entrando in cucina trovo finalmente un po’ di silenzio dietro e intorno a me, sento borbottii lontani, bisbigli, stanno ancora discutendo di là, residui del danno che ho fatto. Ho, appiccicati in faccia, rossori e muco sparsi tra occhi e naso, segno che ho pianto, segno che ho un fastidio maledetto alla gola, di grumi bavosi riingoiati, di qualcosa di strozzato e irrisolto e per sempre relegato a questo istante, che non se ne parli mai più -sempre questa puttanata decidevo.


E facevo bene.


In cucina ci sono la gabbietta del pappagallino, vuota, la boccia del pesce rosso, vuota, la lettiera della gatta, vuota -lei è venuta dopo. Esco tra le piante in vaso, dove lei da cucciola annusava e starnutiva -è stata la prima casa anche per lei-, mi siedo a guardare la signora bionda che stende i panni, lei è sempre là ogni volta che esci fuori, e gli strani tetti delle casupole sotto, sembrano le foto dall’alto di Nairobi quando, insonne e sperduto, trangugi da Wikipedia sullo schermo rettangolare stretto in mano sotto il piumone informazioni randomiche di città che sorgono nelle savane e nei deserti, chiedendoti se esistevano già da prima, indipendenti da te e lontane immobili là nelle terre aride, o soltanto dal momento in cui ti sono venute in mente, soltanto dopo averne avuto abbastanza di altri deserti. Allo stesso modo vedrebbe quei tetti quella cicogna che fece il nido sul palo elettrico dello stadio -l’altro ricordo più vecchio che ho di questo posto.

Prendo una boccata d’aria e guardo fuori, come da un finestrino di un treno che non arriva mai -di fatto fermo, di fatto un condominio.


Accanto mi siede, raccolto nelle sue spire sovrapposte, l’animale nudo. È spellato, soffia con la lingua rossa, e il dottor Freud certo direbbe che dev’essere un richiamo a ciò che accadde nel corso di un altro pranzo del genere, quando mi presero da parte e mi fecero calare i pantaloni e mi tastarono tra due dita il cazzetto dicendo qualcosa come “buon sangue non mente”, e nei giorni seguenti ebbi paura e imbarazzo di guardarmelo quando andavo a pisciare, quasi mi aspettassi che questo “buon sangue” fuoriuscisse biforcuto in zampilli dalla punta che mi pareva rimpicciolirsi, rimpicciolirsi, mortificata, indegna… il dottor Jung invece ci andrebbe molto più vicino a capire che animale è veramente, ma non starò certo a spiegarlo, perché quello svizzero si rinchiuse nella sua torre di pensiero in riva al lago, in cerca dei mostri dell’abisso suo, e io come lui -sei un grande, Carl Gustav!, stringiamoci la mano.

Comunque, non c’è nessun dottore qua. Solo uno stupido e la sua bestiola. In sogno, ogni tanto, mi appare ancora: la vedo con la pelle ancora indosso, però è scannata, stecchita per terra, distesa dissanguata sul suolo di fieno simile ai vimini che intrecciano il ventre di una cesta: bestia morta sulla trama dei campi che circondavano, gialli e bollenti, la casa estiva.

 

-che bel silenzio, eh?-, gli faccio.


Annuisce. Conosce il silenzio che viene dopo i clamori che si erano librati così in alto allo scopo di coprirlo, ma io soltanto vagamente intuisco che ognuno aveva il proprio silenzio da coprire, seppellire, da non dover sentire. Ain’t this boogie a mess, mi fa il mio compagno di balcone, riferendosi a tutto, alla casa, a chi c’è dentro, alle cose di sempre, alle tombe di tutti che già immagino disposte lungo una cintura di ideale cimitero erboso, a quello che le lapidi diranno, soprattutto a quello che non diranno -tutto il resto cioè, tutte le cose dette e fatte in questo luogo dove ancora siamo; cose scomparse, senza traccia, le conseguenze ancora imperversanti ma invisibili, ininfluenti, e ormai insignificanti tutti i nostri dolori.


Fissa la signora che stende i panni in balcone senza mai muovere lo sguardo, come volesse pietrificarla. Io gli faccio una domanda.


-senti, ma.. nel senso... perché? Ogni cosa, ogni cosa che accade, che muta, che scompare, che si perde, che vedo, mi lascia questi solchi dentro. E mi sembra che una roba calda, incandescente, una specie di sangue che qualcuno o qualcosa ha fatto bollire come magma in qualche grotta infera, si intruda, scorra e si infili nei solchi, vivificando la sensazione, sfregando la parte lesa. Che senso ha? Nessuno, vaffanculo. Sentire in questo modo una roba qualsiasi. Perché…


Solleva il muso, sembra quello di una bestia cieca, priva di pigmenti e di cellule integre, che agiti una capoccetta ricognitrice nelle profonde tenebre tubolari di un sistema di caverne.


-ma tu in che senso dici “perché”?


Oh, che posso dire, mi ha convinto. Come se mi avesse fatto notare che non è una domanda mia. Mi si è infilata dentro, proveniente da altrove, da posti e pensieri a me stranieri. Da habitat in cui morirei, in cui non durerei un secondo. E che è?, una creatura come me non ha il permesso di durare, di abitare, trovare un posto suo, ovvero nulla più che una tana e possibilmente un balcone? O si deve sempre stare in tempo di guerra? Circospetto e già sentendo l'astinenza dalla mia assuefacente paranoia mi giro, destra sinistra come per attraversare la strada, stringo le spalle contro i paraggi e gli agguati, ma l’animale mi sussurra: e rilassati, maledizione, che siamo solo io e te.

Obbedisco.

Sospiro.

Nulla recide il mio fiato.




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