libro dei fantasmi: ciò che chiamava poesia
- Milky
- 25 feb 2023
- Tempo di lettura: 25 min
-non eravate in buoni rapporti.
-non l’ho detto.
-non l’ha negato.
-eravamo in buoni rapporti. Non che parlassimo molto. Cosa può aver da dire un ragazzo della sua età a un… parente. Per quanto ci si possa, diciamo, somigliare.
-e un parente, invece, cosa ha da dire a lui?
-..non credo di capire. Forse.
Il buio seduto davanti diede uno schiocco, assumendo di colpo personalità. Odorava di vernice. Uno schiocco forse è un codice. Ci sono creature di profondità provviste di biosonar.
-una guida, un consiglio. Si può scegliere di non dir niente, o dire qualcosa. Far nascere, nel mondo, una differenza. Evidentemente lei ha scelto.
-beh, non sono suo padre.
Più di qualcuno della commissione si affretta a scribacchiare qualcosa a matita sui fogli spillati nelle tavolette posate sotto i loro occhi, sempre sottomano. Sembrerebbero matite di polvere compattata, anomala e non cancellabile, come quelle che si usano per votare. Il cigolio della punta sulla carta indurita dal suo giaciglio di plastica ricorda al signore occhialuto i colori a cera, calcati con forza eccessiva sulle pagine piene di disegni infantili, intere foreste di brachiosauri, fiori più alti di palazzi, soli verdi che esplodono. Lui però da piccolo non aveva mai avuto i colori a cera. E anche se sposato, non aveva figli. Doveva essere, anche questo, un ricordo di suo nipote.
-l’ultima volta che ha scambiato anche solo poche parole con lui. Saprebbe collocarla? Nelle ultime settimane, magari?
L’impressione maggiore, mitigata dall’inclinazione dei raggi solari attraverso le vetrate alte che sembrava sottomettere e cancellare ogni impulso accecandolo, era che i funzionari incaricati del suo interrogatorio suggerissero sempre qualcosa, anche quando domandavano. Una stradina veniva anticipatamente scavata a ogni svolta, ogni bivio semantico. Il signore occhialuto avrebbe dovuto soltanto adeguarsi a quella procedura di pochi minuti, forse di poche ore -di sicuro avevano programmato la durata, ma nessun altro poteva venirne informato. Va bene, solo una procedura. La verità: non c’entra niente con le procedure- così si diceva in cuor suo il signore. E sospirava, segretamente, profondissimamente col suo torace abituato a nascondersi, con tutto quello che conteneva, negli alettoni troppo lunghi del cappotto. Stesso eccesso di quei pesci rossi deformati dal profluvio delle pinne. Spumose macchie di sangue diluentesi in acqua.
-sì, forse. Ultime settimane. Niente di che. Saluti, suppongo. Accenni. Qualche situazione famigliare.
Scrivono.
-definisca “situazione famigliare”.
-si mangia insieme. Qualcuno beve. Qualcuno dice molte cose, qualcun altro non dice niente. Nessuno sa cosa l’altro pensi. Tutti decidono che è prassi e per prassi ignorano diverse cose. Ci si scambiano baci sfiorati. Prima una guancia, poi l’altra.
-sembra che lei abbia una visione piuttosto cinica dei rapporti tra di voi.
-non esprimo giudizi. Non tra di noi in particolare.
-già, lei non “esprime”. Ma lui sì, a quanto pare. Forse un po’ troppo. No?
Il signore occhialuto alza le spalle, sgrana appena gli occhi, come avesse liquidato frettolosamente un dilemma senza risposta nel corso di una chiacchiera da bar. Scrivono. La scrittura di quelle mani enormi procede con l’inevitabilità dell’incenerimento di una stecca di sigaretta attraverso il tempo. E ciò che una simile sigaretta può sbuffare nell’aria circostante, anzi, che deve sbuffare, è greggi di nuvolette, ricordi assai vaghi: cera, tempera, acquerello, tutti spalmati disordinatamente sui fogli che seppellivano un tavolo di plastica bianca, disposti in tessere aperte verso l’orlo, a raggiera verso la caduta come una bianca coda di tacchino alzatosi in volo senza preavviso, spalancata in omaggio a una vertigine sottostante. Sembra di intravedere però un ordine in quel caos, incorniciato dalle tessere. Sì, c’era un bestiario, c’era un elenco sistematico di cose del mondo catalogato all’interno di quei colori. Ogni foglio una pagina d’enciclopedia.
Il signore occhialuto cerca di usare ogni riflessione possibile per prendere tempo: vuole uscire da lì. Non perché sia una tortura, o abbia una particolare indisposizione verso le autorità. Il sole è degno di essere schermito. Piombandogli sulle sopracciglia da quell’altezza, che getta in penombra le golemiche figure dei funzionari dall’altra parte del lungo banco d’alluminio, cresce d’intensità e d’un calore fastidioso come quello che si concentra in un punto delle orecchie durante i pomeriggi di tedio. Non sa che ore siano. Sa che anche in quella stanza, senza altre finestre che quei rettangoli irraggiungibili sotto il soffitto, il riverbero luminoso fa assomigliare l’interno dell’edificio -ricoperto all’esterno di vetrate alte e lunghe- a un acquario dove i secondi, i minuti, le ore, diventano forme di vita. Questi sono i biologi degli abissi che li nutrono e indirizzano e sostituiscono i loro cadaveri quando vengono ritrovati a galleggiare pancia all’aria nelle vasche. Ma ora le visite alle vasche sono chiuse. Ci sono altre questioni da condurre in posti del genere, come in tutti i posti. Scartoffie, precisazioni.
-ci parli della composizione famigliare.
-non avete già chiesto agli altri?
-è importante che ognuno costruisca la propria versione. È la stessa famiglia, certo. Ma è significativo anche il punto da cui ognuno decide di partire. Parli liberamente, ometta quello che vuole, approfondisca ciò che vuole.
-..mi invitate a omettere?
Nell’oscurità, pare qualcuno sorrida. Dalla piega delle labbra nascoste scivolano rimescolii di voci di donne e uomini, ma sembrano provenire da un’altra epoca. Potrebbero recitare una scena. Dramma in cui ciascuno interpreti uno strano misto di rimpianti e serenità e paura della fine incombente, nobili tediati in ampi saloni di palazzi antichi, affacciati sulle coste di qualche civiltà annegata.
-tutti omettono. Soprattutto quando si arriva a parlare di questo.
-..e immagino che invece, quando si arriva a parlare delle informazioni che cercate…
-..a quel punto, se starà omettendo, lo capiremo. E non sarà più concesso.
Sembrano sorridere ancora. Il signore scrolla le spalle nel pastrano da investigatore, facendo frusciare impercettibilmente qualcosa che ha in un taschino. Sembrano non essersene accorti. Procede dunque a descrivere alcune delle, diciamo “forme manifeste” attorno all’enigmatica esistenza di suo nipote. Le sagome che egli rapì, con le grinfie del suo mondo, pura vertigine, simili a liane protese dalla sua fronte giovane, la sua ombra. Questa di cui sto parlando, sente all’improvviso fortemente, è la sua vita quotidiana. Non c’è forse qualcosa di quasi mostruoso, di enorme, in ogni vita quotidiana, per poter alimentare desideri di vita, di morte, di amore? Non sa rispondersi, può solo parlare a vuoto in un intervallo destinato a una procedura non opzionale.
-ha sua madre. Suo padre è morto tempo fa. Mio fratello. Cancro. Credo non andassero molto d’accordo. Beh, non è che io invece ci andassi d’accordo. Sua madre invece, mh… sempre stata mite. Anche da ragazza. E..
-e lei, con suo padre, ci andava d’accordo? Non di suo nipote. L’uomo che l’ha creata. Faccia uno sforzo.
-..mah, no. Non particolarmente.
Scrivono. Lui deve riprendere, concludere. Riprendersi i secondi della sua vita. Li sente che gli vengono sfilati da sotto i polpastrelli, i pori della pelle, ogni impercettibile particella di sé come se là operasse un invisibile meccanismo da sauna, che in silenzio procede a far scivolar via tutto ciò che identifica come tossine.
-..dicevo, sua madre. È contenta di vederlo sano. Cose materne, sapete. Quando esce dalla camera, e fa le sue passeggiate al sole. Meglio se non da solo. Anche se a lui non dispiace, credo. Star solo.
-da cosa lo deduce?
-si capisce. E dicono tutti che assomiglia a me, caratterialmente. Per come ero. Come di certo sapete e volete sentirvi dire.
-sì, questa informazione è in nostro possesso. Per questo l’abbiamo chiamata. E lei cosa pensa? Sente di assomigliargli?
-…forse.
Scrivono.
-lui andava d’accordo con la sua famiglia? E con quella della madre?
-…forse più con quella della madre. Vicini a casa. Apprezzano le arti. Lo incoraggiavano, mi pare, nel periodo delle poesie. Forse non molto seriamente. Nessuno, l’ha mai incoraggiato seriamente.
-eppure alla fine questo non l’ha fermato.
-…già.
-mentre con quella del padre, diceva?
-siamo tutti dispersi qua e là. Alcuni fratelli e altri parenti di mio padre sono un po’ inaccessibili. Le zie dicevano che erano così anche da prima della guerra. E poi, tendono tutti a curarsi degli affari propri. Meglio così.
-lei sembra aver ripreso qualcosa. Ha ereditato l’individualismo attraverso il sangue, non trova? È più facile, non voler intervenire nelle cose, vero? Una vita comoda, per quelli come lei.
Il signore non commenta. Incrocia le braccia dietro la nuca e comincia a dondolarsi sulla sedia, osservando la biforcazione di una singola sottile zanna di luce nell’istante in cui le sue ciglia l’attraversano, prima di ritrarsi, sfuggire temporaneamente al calore con l’andatura rimpicciolente di un gambero di fiume che retrocede in un buco tra i sassi del fondale.
-la guerra, dice. Ne sono stati segnati più di quello che crede. Dalla guerra, dalla malattia di suo padre. Certe cose… dividono, sa?
Lo sa benissimo. Preferisce non dirlo. Il pezzo di foglio strappato che invisibilmente aderisce al petto gli ricorda che certe cose non si condividono. Perdono il loro fulgore se esposte all’esterno. Fiori selvatici e orgogliosi che chiudono le corolle quando scorti da occhi indiscreti, cioè da tutti gli occhi del mondo. Per questo diventano alghe, transitando in un altro regno. Alghe gialle come stelle alpine, raggi di sole, in fondali di limo cosmico. Sono reincarnazioni, pseudonimi, homunculi.
-analoghe esperienze nella famiglia della madre?
-sua madre morì. Vecchiaia, dicono. Non così vecchia. Le sorelle di sua madre..una, qualcosa come tre aborti, l’altra suicidio. Diceva di esser cresciuta tra le gambe lunghe di queste pazze altissime o qualcosa del genere. Nelle vecchie foto la vedi sempre che stringe qualcosa in una mano. Bimba che si tiene sempre dietro le gonne dei più alti. Sono questi i dettagli che cercate, no?
Alcuni sembrano scrivere più frettolosamente di prima. Questa volta, quello che sembra aver fatto la maggior parte delle domande -ma è un po’ difficile precisarlo- si sporge valicando sopra l’alluminio il confine invisibile di una vicinanza molto insolita, un barlume segna una leggera cicatrice sulla sua fronte e la bocca. Chissà se è la stessa zanna fluttuante di prima. Per quanto può, il signore vede solo i denti numerosi che si muovono là dentro, snocciolando parole gravide di obiettivi precisi, ossessioni. Immersi come sono in quel generale evocativo scricchiolio di matite, inciso a fondo nelle carni immobili di una profonda quiete isolata da tutto quanto accade oltre la pareti della stanza alta e per metà oscurata, al signore non può non venir in mente un coccodrillo del Nilo che non abbia mai ricevuto una pulizia dentale dall’uccello guardiano. Il signore è costretto a ricredersi: non era prevedibile che quel posto potesse stimolare l’occhio interno che scorge le forme nascoste delle cose. Merito di un rumore insignificante.
-sembra che l’esperienza del lutto e il dolore siano una costante, quasi una passione della vostra famiglia.- assume un tono suadente, insinuante in qualche sua parte. Recita senza nascondere di farlo.
-perché, esistono famiglie che non sono così?
-per voi è diverso. Vi ci avvinghiate come un lignaggio di mastri si avvinghia alla propria tradizione, facendo ereditare il mestiere ai figli e ai figli dei figli, facendogli attraversare le stesse iniziazioni, discutendo di quegli argomenti perfino ai pranzi natalizi e così via.
Silenzio. Hanno smesso di scrivere. Il signore ha smesso di scrollare le spalle, ma la sua espressione -tra noia, la rassegnazione da bar a occhi sgranati di prima, e un’aria interdetta da chi consideri l’interlocutore svitato o troppo chiacchierone- non è mutata. Cambia discorso. Solo stupide parole per compiacere, e andarsene a casa. Passeggiare dove il sole e l’aria fresca e il silenzio non sono strani, non subiscono una metamorfosi nell’attraversare vetri troppo alti per esser toccati.
-sua madre era contenta. Di sapere che avesse un’amica, intendo. Non di quello che facevano, forse. Qualunque cosa fosse.
-sua madre era preoccupata per il suo futuro. E per il suo presente. Come noi. Lei non pensa?
-penso sia una brava madre.
-eppure lei avrebbe fatto diversamente.
Non risponde. Tiene le braccia incrociate dietro la nuca, e sul petto un foglio strappato dalla “lettera” del nipote e della sua amica, che solo lui ha letto.
-e quella ragazza, poi? È una “vittima”, ci passi il termine, di suo nipote? O è lui a esser vittima di lei? Tenendosi per mano si avviano attraverso sentieri di dissennati idealismi che, si fidi di noi, si fanno sempre più oscuri. Conosciamo tutti i posti esistenti: ci abbiamo camminato. Prima di tutti voi altri, prima che cominciaste a porvi questi dilemmi futili, la vita o il sogno, e tante cose che, mi creda ancora, sono bazzecole. Allora? Lei che avrebbe fatto, vedendo le cose evolversi in quell’inequivocabile forma? Che tipo di intervento per rimetterle al loro posto destinato, cioè sulla stessa via della sicurezza da lei intrapresa, e di cui, se non è ingrato, è certamente soddisfatto? Visto che può godersi il privilegio di mantenere impassibile il suo atteggiamento dovunque va. Guardi che è stato lei a comportare tutto questo: la sua scelta di non vivere nel modo in cui suo nipote, simile a lei, sta vivendo adesso. La sua scelta ha reso necessario un intervento risanatore dell’ordine. Quello a cui lei ha contribuito, agendo di proprio arbitrio.
Non risponde. Fa rintoccare soddisfacentemente nell’aria il mutismo serrato delle labbra, si chiede, ma chi sono questi, golem o coccodrilli? Giganti semitici, nella sabbia o nelle acque. Si nascondono sotto la superficie della vita e della storia? Sono tutti così quelli che si occupano di far girare le cose del mondo, forse. Mentre quelli che le cose del mondo le trasformano in polvere colorata, che riempiono di fogli scarabocchiati il tavolo di plastica di pomeriggi così placidi da far paura e diseredarsi rispetto a tutto lo scorrere spietato del tempo, se ne vanno via, scappano di casa, forse in cerca di una grotta su un monte in cui meditare. Come aveva fatto suo nipote. Rapendo una musa, forse una a caso, mah, forse suo nipote aveva sbagliato per davvero, forse era un pazzo, forse erano due pazzi entrambi. Perfettamente consapevoli di cosa facevano.
Il suo atteggiamento, dicevano. Lui era calmo, sì. Non si faceva deformare da quanto provava, curandolo come qualcosa di prezioso, da non sfoggiare. Ma aveva sempre saputo cosa stava facendo. La calma, sì. La sicurezza anche, l’immobilità d’eventi ch’era riuscito ad assicurarsi. Lavoro matrimonio e casa, la sua piramide a base triangolare. Capacità di recarsi a piedi, subire un interrogatorio, tornare a casa sempre a piedi. Passare quel tempo nella convinzione della propria fermezza. Eppure possiede qualcosa di diverso, un suo contrario dentro sé, un fastidio ed errore grammaticale. Il brivido di chi scorga da un oblò un ciclone infuriante all’orizzonte, soltanto per quel tempo della passeggiata, poi tutto come prima, e sentir scender dentro sé come latte denso e abbacinante la soddisfazione data dall’aver accettato -in un freddo e desertico giorno qualunque, spartiacque d’un passato qualunque- qualcosa di tanto effimero: aver cioè accettato tutto. Accettata anche quella scaglia di non-accettazione, conficcata da qualche parte dove cerchi concentrici di intorpidimento comprimono e nullificano il prurito della cicatrizzazione.
-già, lei avrebbe fatto in modo che suo nipote vivesse al suo posto la vita che lei non ha vissuto. Che nel bivio scegliesse l’arte, la meditazione… questi errori insomma, queste cose che lei ha relegato solo ai ricordi, da rivisitare molto di rado. No, non ci fraintenda. Non sono errori nella sostanza: lo sono nell’esecuzione.
-l’esecuzione?
-esatto. Lei ha eseguito le cose in un certo modo. Ha compiuto le sue scelte. Suo nipote le somiglia. Ma al bivio ha imboccato una diversa svolta. Tuttavia le cose devono ripetersi, dovunque si assomiglino. È legge. Cosa pensa che succederà, adesso, eh?
-non so. È la sua vita.
-ah, davvero?
Si è di nuovo sporto, lo stesso di prima. Il signore occhialuto vede baluginare per un istante un occhio del funzionario che lo sta interrogando, celeste e ruvido, come un cristallo che imprigioni i riflessi del mare e del cielo nelle sue squame simili al diamante. Un istante. Dev’esser stata una precisa scelta anche quella di mostrarglielo.
-è la vita di chi, esattamente? Ce lo dica.
Dondola sulla sedia. È difficile evitare che i raggi lo sfiorino, lo inseguano. Mosche subacquee dell’acquario.
-ricordi che non è solo del futuro di suo nipote che ci occupiamo. Ma del presente. Cioè di tutto, anche del futuro.
-mah, non faccio il vostro lavoro. Non me intendo.
-perché lei si occupa solo del suo lavoro.
-naturalmente.
-e anche suo nipote.
Annuisce lentamente, scrollando le spalle. Qualcuno, nella penombra, strofina mani enormi. Stanno voltando le pagine spillate sulle tavolette di plastica, maneggiando altri documenti. Conoscono tutte le fasi, le mettono in pratica senza indugio. Conoscono fasi, le nominano. C’è di sicuro qualcosa di strano, che non torna, nel modo in cui si rapportano all’oggetto del proprio lavoro privo di pause. Dicono sia un’unità di misura, un concetto astratto, una cosa torreggiante, imponente. Bastioni e obelischi eterni. Lapidi perfino della sabbia inorganica. Eppure non sanno decidersi: potrebbero essere figure giunte inalterate da epoche di leggende, brividi sparsi in pestilenze sui continenti della terra, e potrebbero essere, appunto, “funzionari”, strano titolo di cui fregiarsi per certe creature, impiegatizi nell’inflessibilità e nella cortesia. Mah.
-ora le mostriamo delle fotografie. Questo è suo nipote?
Naso inclinato, capelli biondi, riccioli lunghi fino alla base del collo, felpa verde militare. Occhi grigiastri. Suo zio annuisce.
-questa è la ragazza che ha portato con sé?
Capelli di stessa lunghezza, bruni o rossicci a seconda della luce. Carnagione diafana, aria smarrita. Felpa bianca e viola. Occhi di puro nero. Annuisce di nuovo.
-una serie di rapide domande ora. Suo nipote preferisce tè o caffè?
-tè verde mi pare.
-ha la patente?
-non ricordo.
-era bravo in scienze?
-non saprei. Sì, credo di sì. Da piccolo. Davo occhiate ai compiti.
-veste per esprimersi, comodità o vanità?
-per esprimersi. No anzi, comodità.
-deve volergli bene.
Non essendo una domanda, lo zio occhialuto non risponde.
-si arrampicava sugli alberi?
-a volte.
-tendenze antisociali?
-non so.
-che scrittori gli piacciono, quali musicisti, film, cosa lo emozionava.
-Salinger. Smashing Pumpkins.. no anzi, com’erano quelli, Eric’s Trip. Kurosawa. Il pensiero che spiriti si aggirino tra le mangrovie con le radici nell’acqua torbida e il pensiero che in quei posti il sole si sciolga come note di blues e l’ombra risponda con i gracidii.
-e a lei? A lei quali scrittori musicisti film ed emozioni piacevano?
Riluttante, lo zio occhialuto tossisce, e ancor più riluttante risponde.
-…Salinger. No anzi, Schwartz. The Smiths.. no anzi, Joy Division. Leone. Il pensiero che ci fossero savane abitate da grosse bestie nelle terre nostrane.
-bene. Abbiamo quasi fatto.
Scrivono. Questa volta è lui a sporgersi sull’alluminio.
-giusto per accertarmene. Siete consapevoli che potrei aver detto un mucchio di bugie? Non è che conoscessi così bene mio nipote.
-alla vostra età, dovreste conoscervi.-, sorride in risposta.
-e immagino che, ammettendo non siano bugie, eravate già in possesso di queste informazioni.
-certo.
-ma è il modo che conta.
-esatto.
Annuisce. Sa, nello stesso momento in cui lo sanno loro, che è pronto a uscire dall’“acquario”. Le visite sono chiuse. Non si sentono rimescolii d’acqua artificialmente azzurra che lambisce i bordi delle piscine, né scricchiolii di biosonar. Non arriva, nemmeno attutito, il traffico della strada. Il tempo riprenderà a scorrere secondo parametri che occorre mantenere all’interno di binari già definiti: il modo in cui la luce si rifrange nell’acqua, in cui B segue ad A, in cui va svolto quotidianamente il lavoro di oliatura del meccanismo, la sua ripetizione. Lo fanno con aria affabile. Non si fanno per niente odiare, non sono stereotipici controllori, sebbene talvolta usino parole che provano a esser caustiche. Ma è solo recitazione, e sanno di usarla. Credono che agli umani piaccia sentirla. Forse non sbagliano. Forse è l’unica arte che i controllori di qualsiasi cosa non rifiutano. Occorre recitazione, se deve esistere accettazione. Il tempo, senza accettazione o cieca noncuranza, vedrebbe per sempre violati i suoi spazi di quiete: univoco si leverebbe un grido delle creature resesi conto di essere vive, e di trovarsi inghiottiti da un organismo sordo a ogni loro dolore. Pazienza. Ci sarà recitazione in ogni incontro fatto di domande, informazioni già ottenute, altre che si crede di star ottenendo. Non hanno forse tutti i torti, il signore occhialuto non si fa particolarmente impressionare. Uno zio, pronto a tornare a essere un normale passeggiatore occhialuto. Si alza.
-bene, può andare. Arrivederci.
Stringe la mano al funzionario dritto di fronte a lui, il più vicino. Grossa il doppio della sua, rinchiude il pugno rannicchiato in un’ombra che sembra materna nell’atteggiamento, sembra voler nutrire la mano degli esseri di più ridotte dimensioni. Magari trascinarla, come la mano tutelare che guidi la manina che deve toccare solo ciò che non farà male, e deve imparare a scrivere il corsivo. Il signore occhialuto indirizza un sorriso di cortesia a un punto a caso della penombra davanti a lui, dove crede si nasconda quell’occhio adamantino. Fa in silenzio un ultimo cenno, un lievi inchino. Il mento indirizzato alla base del collo, al petto pieno di tasche segrete, a una ciglia d’ombra che gli si disegna proprio lì, in corrispondenza del fascio luminoso delle finestre che gli traccia sulla pelle un’ultima, accesa riscaldata prima che se ne vada dalla stanza.
Gambero di fiume fugge dall’acquario comunale. Si raccomanda di chiudere a chiave i cancelli.
…
Sono appunti che ha rubato da un cassetto, sono refurtiva che aveva inviato sottili segnali da una temporanea tana buia impregnata dell’odore di polvere accumulata in più di vent’anni, e adesso freme, sfruscia sul petto da dentro la tasca, dandogli l’impressione che attraverso un filamento simile a DNA trasparente si leghi al vento, alle foglie degli alberi che allo stesso modo si fanno flettere, per mandare messaggi. Altro codice. Lui cammina portando con sé questo lascito.
Gli alberi disposti in gialle file ordinate tra i marciapiedi e i giardini, ampi e ariosi a entrambi i lati della strada, tracciano con ombre e bagliori autunnali nuove striature sulla sua fronte rimuginante, leggermente incrinata verso i passi sul bitume compatto piacevolmente maculato qua e là da qualche foglia caduta. Sa di star accelerando. Sa di starsi imponendo di non di indagare ulteriormente su ciò che lo spinge a farlo. Da qualche parte, lateralmente in fondo a quei prati, ancora incombe la struttura dell’acquario, a osservargli con occhi di blu vitreo, incendiati di bianco dai raggi, la schiena beige che si è ormai allontanata. L’aria è tranquilla, è piacevole, il vento non lo infastidisce, i muscoli facciali non lasciano che affiorino strane contorsioni da un imbarazzante fondale sottocutaneo. Che ha di cui preoccuparsi in una giornata tranquilla, un uomo intento a passeggiare? Cosa c’è di morboso, a parte una lettura segreta, che avrebbe forse potuto estrarre nella quiete di una panchina solitaria del grande parco cittadino, tra anatre e fogliame svolazzante? È forse un ladro, solo perché possiede quella singola lettura che è impossibile condividere? Qualcosa di strano c’è, in questa giornata. Come se qualcuno, l’ennesima persona, si fosse suicidato nel parco. E in silenzio trascorresse i minuti della propria cancellazione dalle memorie del mondo, prima che un odore, irrefutabilmente intriso nelle proprie macerie, chiami cani, passanti, allarmismi che movimentano la giornata. Il signore occhialuto spera di non essere quel passante. Deve cercare un posto. Uno dei piccoli stagni del parco, proprio uno di quei posti dove normalmente si sarebbe seduto, inosservato, per leggere quanto aveva già letto. Deve accertarsi di qualcosa.
Un ladro. Per impossessarsi di quei fogli, era sgattaiolato, da solo e più svelto dell’ombra di una blatta si era dovuto defilare nel corridoio rimasto vuoto ai margini di quel giorno di esagerata atmosfera da funerale. Corridoi ai margini di una veglia funebre priva di bara, il tanfo del cadavere dell’assenza e delle domande, “dov’è andato”, “cosa succederà”. L’istinto o qualcosa di simile era la causa della sua mancata partecipazione ad alcuni di quei minuti di dramma. Partecipe di corridoi vuoti, oltre i vetri smerigliati incastonati nei nuclei delle porte come cuori del legno, che lo inseguissero rendendosi responsabili di tutti gli scricchiolii senza origine a scansione dei secondi negli spazi della casa del fratello morto, negli spazi rimasti momentaneamente disabitati di tutte le case uguali. Consanguinei, inscenando la tensione, dovevano essere riuniti in una sala, in piedi, seduti, o a far cerchi sui tappeti. Infinite case uguali, dove la possibilità del dolore si reca a far visita. Case che hanno un pendolo da qualche parte, attutito nei tunnel di carta da parati verdognola, sembra d’essersi immersi nella tessitura lacustre di un lenzuolo teso tra due braccia che collaborino nel piegarlo all’ombra fresca dei muri. Lui ai lati di questa onnipresenza era sgusciato, penetrato in margini inusitati. Chiamato in altra stanza. Fantasma e ladro. Nella camera del nipote aveva visto le frasi da lui tracciate sulle doghe del letto, forse versi, forse dichiarazioni. Nel cassetto aveva trovato i fogli scritti a quattro mani con la ragazza che forse aveva sedotto, forse era parte di un patto, forse era una sua personalità sdoppiata in riproduzione mitotica. Aveva infilato senza pensarci e senza alcun rumore la mano nel cassetto più vicino al suolo. Quello in cui lui alla sua età nascondeva le canzoni. Lì seduto sul materasso, convinto che nessuno sarebbe entrato, aveva letto il contenuto che soltanto lui poteva decifrare. Prosa febbrile, lanciata per ultima, prima di fuggire e cercare l’ascesi sui colli, bassi e marroncini malaticci, attorno alla conca della città pianeggiante. Prosa che suo nipote chiamava “versi”, ciò che chiamava poesia, usando la negazione dell’evidenza e delle altrui definizioni come personalissimi artigli nati per ferire il mondo.
Riavvolgendo il nastro dei suoi movimenti era poi riapparso in corridoio, nella sala, nelle scale, sul marciapiede. La testa piena. Cose che sembrava avesse già letto, riportate a galla. Alcune frasi gli avevano dato l’impressione che le avesse scritte identiche, tanto tempo fa. E dopo che, recatosi al parco, ebbe lanciato i fogli accartocciati verso il centro dello stagno, dopo aver osservato sprofondare l’ultima guglia di fibra piegata e irrigidita simile a un iceberg immerso tra innocue increspature trasparenti, aveva ricordato le circostanze in cui aveva scritto parole che gli parevano ugualmente intense, ugualmente deliranti. Un tempo lontano. Forse cancellato assieme a quei fogli, quella “lettera” che infine era scomparsa sott’acqua, tra sagome vaghe e biancastre in nuoto sotto la superficie. Sembravano cigni in immersione, che nessuno ha mai visto.
Diretto allo stesso stagno, lo zio si reca a consegnare all’acqua dolce, gialla del colore delle latifoglie attorno, il pezzo strappato che era fuggito quel giorno, rintanandosi nel fondo di una tasca. A consegnare, o a decidere di non farlo. In fondo è solo un angolo di foglio non scritto. Ma deve andare a verificare di persona se la carta, spedita al fondale qualche giorno prima, non possa tornare ad arrancare fradicia e limacciosa sulla riva, richiamata, nel sentirsi avvicinare la parte mutilata di sé, dal cimitero delle parole ormai morte.
Deve essere impazzito, ma è un dubbio forte. Sotto le filari d’ombre del marciapiede rievoca i passi letti, senza necessità di mandarli a memoria. Suturati alla luce verde subacquea della camera del nipote, in cui forse non era mai entrato prima di quel momento, eppure conosceva ogni collocazione d’ogni cosa. Attorno a lui -abbracci alle orecchie e alle spalle e ai capelli sulla nuca e tutto ciò che conteneva gli impulsi a rannicchiarsi e ricevere le carezze della solitudine- premevano poster vecchi e privi d’affetto residuo, mai smessi per indolenza, e un quadro appeso di grotte visitate in vacanza; una chitarra e un basso impiccati ad agganci nel muro, entrambi modello SG; due paia di pantaloni, verdi e poi viola, abbandonati su una sedia; frasi di pennarello sulle doghe del letto: “she said she knew she was able to fly”, “i know what it’s like to be dead” (sbarrata da una linea), “rise from the mounds of desire and change” (sfocata), “nel suono della campana di Gion..” (interrotta); voci da queste cose che dopo esser state silenziate sembravano continuare a parlare grazie a un metodo segreto.
I brani sparsi simili a frecce scoccate per interrompere il flusso della sua respirazione regolare:
« E non si dovrebbe nemmeno sottovalutare la mia capacità, chiave appesa al collo. Posso prenderti la mano e condurti attraverso stanze di vite passate, rubate, se vuoi. Incontriamoci alla reception e da là saliamo le scale che ti sembra di aver già visto, anche queste: sono rivestite di un manto a scacchi, a quadri, una mimesi per il colore che prende l’ombra nel mondo selvaggio della suggestione. In te c’è l’iniezione onirica che si è conservata sin dal documentario che vedesti da piccola e ti ispirò innumerevoli disegni di colori a cera, quella scena in particolare: nel buio, notte oppure giorno ombreggiato da vegetazione fitta, i figli cercano le orecchie nere macchiate di bianco della tigre alta, mimetizzata nelle paglie alte. Sono come due occhi che ricordano i passi temporaneamente dimenticati, sono un controllo esercitato su ciò che ormai è indietro, ciò che è già morto. Ma se la madre controlla i figli, e i figli, essendo indietro, essendo ricordi, sono già morti, questo non significa forse che ogni nuovo nato è un nato morto, da queste parti? Questi sono i ragionamenti cui ti induce il mondo di là dello specchio, che hai scelto di seguire assieme a me, follow me back down. Ti confondi profondamente di fronte alle scale e i primi pattern da cui si sprigiona la convinzione, non verbale, priva di struttura, d’aver già visto tutto questo -eppure sai al tempo stesso di non esser mai stata in un albergo che avesse decorazioni fatte in questo modo. E precisamente per tutto questo scegli di seguirmi. Va bene, saliamo gli scalini, i piani si rimescolano tra loro appena avvertono che qualcuno ha poggiato un primo piede su una prima pietra -perché è pietra, questa, lo sai? Sta scritto che non dimenticherai mai l’origine di nessuna delle cose che vedrai affacciarsi sulla via buia. Di ogni sciacallo vedi il pelo mendicante, le azioni perlustrative attorno alle fosse comuni, alle paludi brune dell’autunno torrido, alle macerie della strada e del folto dall’altro suo lato, dove trascorrono le ruote, l’assassinio delle piccole creature in fuga perenne dettata dall’agitazione superstiziosa delle vibrisse. Il tuo respiro denota stanchezza riguardo a tutti questi mammiferi. E allora puoi far finta che fuori dalle mura di questo finto albergo ci siano le indie, ci siano dei territori caldi di mammiferi e uccelli e rettili eternamente allegorici in pose ferme nei mandala, diagrammi del mondo e di tutto ciò che può essere mente, che può essere tua percezione. Tutto quanto puoi concepire sei tu, nulla travalica i tuoi confini e quelli di questa stanza che è l’inizio di tutto, di ogni stanza.»
« vedrai nelle stanze fiocamente illuminate come squarci nel corridoio di tenebra un’identica luce, tipo maioliche di un bagno sterilizzato e profumato d’incensi, cose che ti appartengono. Ognuno vedrà in maniera autonoma le sue proiezioni. E possiamo presentarcele a vicenda. Aprirò una stanza e, convintissimo di quello che ho provato, senza vergogna ormai per tutto ciò che sono stato e ho fatto sulla terra che non più ci riguarda, ti presenterò a un me stesso di laggiù. Ti farò vedere che un occupante della stanza è un soldato, il più alto tra tutti gli uomini, e scrivendo con la sua matita sui taccuini gialli contagiati da malaria, segna per sempre la mano con una birthmark di grafite. Ha parole sgomitanti per uscir scritte e pregne di vita e morte in quelle ore interminabili sotto la tenda, sotto il sole indocinese, sotto nuvole di zanzare gravide di virus e metafore. Apro un’altra stanza. Utilizzando la chiave che porto al collo. Ti presento il musicista di Jazz: ha le guance e le mani ancora rosse per il fumo che gli ha attraversato le meningi, costringendolo agli assoli e la poesia, costringendolo ai fantasmi. Lascia soltanto che parlino attraverso di lui gli spiriti degli schiavi e di chi non ha mai avuto modo di dire niente, ed eccolo che attraverso un corno ricurvo, estensione di sé, lo si sente gridare. Asino pezzato di canicola assassina e fruste e mosche, il raglio è sublime musica, si genera nella fornace del fumo nel cranio. Dita guance e labbra rosse, il fumo l’ha penetrato dal sottoscala dei cabaret notturni, dove si radunavano i capelloni simili a driadi e tutta la notte buia del fumo acre, quasi qualcuno bruciasse sempre un sacro incenso, si odono versi di parole simili, il free jazz è versi liberi, libertà agli spiriti chiusi nel petto. Tu credi a tutto questo? Non credi al soldato, alle cose ammazzate che ha visto? Lui la tigre in persona la vide balzare dal fogliame. Riconobbe in quel momento il volto familiare del retro delle orecchie, gli occhi posatisi su di lui prima della gestazione, dell’infinito ritornare delle nostre facce in queste stanze d’albergo. In quel momento, dovette udire un pavone gridare alto nel cielo blu e smeraldo, diretto al sole e poi alla luna, dall’altra parte, oltre la stanza. Dove diventa uno spoglio tacchino incolore, una larva dove verranno disegnati i futuri.»
« Apro con la chiave la successiva camera. Ci seguono il soldato, il jazzista, non credi forse a loro? Il jazzista quello spirito l’ha preso in mano, se l’è fatto salire sulle dita perché si facesse plasmare, accarezzare, ammaestrare, questo cobra nella cesta di tutti. Estrai l’essenza dalle ghiandole velenifere: bevila: adesso sei in grado di veder meglio in questa oscurità. E allora magari riconosci qualche volto, perfino, in queste camere, alberghi d’oscurità dove tu sei un pipistrello, dove tu sei una cosa che ha dimenticato di non esser cieca, credi di non far rumore ma ogni tuo passo è infrasuono e ultrasuono, e noi amiamo le caverne. Non preoccuparti. Dalla serratura esce un altro me, un altro che si ricorda d’aver vissuto, che non ricorda di esser cieco. Sono io? Sei tu? In queste stanze, e nel corridoio che come nero filamento le collega e dispone nel vuoto, possiamo esser tutti compresenti, stringerci la mano anche. La mia mano si sporca della grafite nella mano del soldato, prendo la malaria assieme a lui mediante un contagio che non ha niente di scientifico. E all’improvviso ho paura di chi striscia nella giungla, rettile o giallo; di sciami, che sono malaria o proiettili di fuoco. E ti sembra di ricordare che, in quei numerosi momenti che si sono infiltrati sotto le tue palpebre, fotografandosi in trasparenza di fantasma, tu hai provato lo stesso smarrimento. Comprendi immediatamente che basta un salice dagli ampi rami sopra un giardino, dei giocattoli abbandonati nel prato accanto al viale, basta perfino il modo in cui una mosca si muove. Mi presenti una tua “io”. Ha il portamento nobile, la riconosci. Un’altra no, ha il portamento opposto. Sono gemelle in qualcosa che non riconosce affatto legami di famiglie di diversa estrazione. Le metti a cavallo: ecco, montano su qualcosa che, misteriosamente, non fai alcuno sforzo a riconoscere come comune a tutti, per te è l’intera condizione umana sintetizzata dal cigolio di quel legno mal verniciato: è un cavalluccio a dondolo, logoro con le venature sporgenti dalla pittura bianca, che gioca da solo con se stesso e il vento quasi inesistente nel giardino antistante una villa schiacciata dal cielo grigio del pomeriggio, il cielo grigio di una fotografia opaca. Si sono sedute tutte su qualcosa che riconosci.»
« C’è anche mia madre. Tu mi credi se ti dico che sono stato anche lei? Nelle fotografie era minuscola. Capelli neri sottili asiatici in tendine su guance rigonfie. Tutti quelli nelle fotografie sono morti e anche lei assomiglia a un’epigrafe, come morta a quell’età. Quindi io non sono nato. Quindi, quello che di lei ho vissuto, è un mio sogno. Ho sognato di innamorarmi di mio padre: sentire dentro il mio ventre, come m’appartenesse, una massa di dolore e rifiuto che gli si andava accumulando dentro, rendendolo difensivo, murato dentro sé, necessitante cura. Ho sognato di camminare con lui sul ponte soleggiato di un pomeriggio dove ogni cosa sbucciava rumorosamente un tanfo vitale, d’infatuazione. La mia mano di ragazza nella sua mano, come la tua nella mia, come le nostre che adesso scrivono tutto questo. Ho amato mio padre, ho partorito me stesso. Ho avuto paura di non esser mai uscita dal bianco e il nero sporchi di grigio e marrone di quelle fotografie. Per questo con più forza stringo le gonne e le gambe, di mia madre, mia nonna cioè, che mi chiama figlia cattiva, di sua sorella che creando uccide, dell’altra sorella che vivendo muore. Andiamocene. Cerchiamo sui colli una di quelle grotte dove furono trovati gli elmetti della guerra, dove gli zii di mio padre con le gambe storpiate dagli spari nascosero munizioni, ficcandole nei buchi calcarei dove gli anacoreti medievali avevano ficcato le mani per miracolare l’acqua sorgiva del paesino arroccato, dove prima ancora una sorta di celti dei colli avevano ficcato palchi di cervo per venerarli.»
« In certi posti sembra di sentire l’odore di una presenza scomparsa appena pochi istanti prima dalla sedia di servizio, prodotta in serie, concava per accogliere il tuonare del silenzio nei luoghi di transito. E sono bellissimi. Apriamo una porta: sembra ci si pari davanti un immenso, vuoto aeroporto. Un’interminabile banchina di treno. E ci sembra quasi che siano bei momenti, che ci sia un perlaceo silenzio intessuto reciprocamente tra di noi, e tra noi e gli arbusti e i cavi elettrici che s’accalcano lateralmente ai binari. E le vetrate oltre le quali sordamente trascorrono gli aerei. Ci sediamo su sedili vuoti, grigio balena, immersi nel colore acqueo del vetro come dentro una teca. Ci sediamo in questa ampia macchia odor di caffè e sentiamo accanto la presenza degli assenti, sentiamo lo stesso transito dei loro cuori e dei nostri, sentiamo che tutto questo è mente, è noi, è vivibile, rivivibile, in eterno. In un aeroporto incontriamo noi che eravamo in stazione, felici quasi. Incontriamo il soldato che scrive, alzate l’architrave anche per lui, carpentieri. Incontriamo il delirio di droga che ha portato quaggiù, da stanze di fumo, un musicista condotto come dallo spirito del bosco sacro, lui è quello che soprannominano o insultano, Blackie. Lei è una bimba che ha paura delle zie alte e tocca la paura, stringe le gonne in ogni fotografia, fa sporgere il viso. Vediamo tutti loro, e ci teniamo per mano. Siamo in sala d’attesa. Guardiamo le nuvole, in un cielo che non è mai stato azzurro in maniera così lancinante, è un mare o una piscina come li immaginavi allora, tanto tanto tempo fa, e come davvero li avevi visti allora, tanto tanto tempo fa, proprio in questo stesso buio dove credevi che non avresti visto niente. Dovremmo stare più tranquilli. Dovremmo governare questa nostra eterna tachicardia: ricordare che esiste sempre da qualche parte un aeroporto vasto come il deserto e l’oceano, una sala d’attesa senza confini, di file interminabili di sedili vuoti, in cui non saliremo mai sull’aereo, in cui semplicemente si prolungheranno, serenamente, i respiri densi di silenzio di quei momenti in contemplazione davanti alla vetrata, davanti alla separazione tra noi e il cielo e il vuoto di tutti i luoghi in cui non siamo presenti. Sempre c’è da qualche parte, là dietro che ci osserva, un posto così.»
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Un signore occhialuto sembra impallidire, mentre davanti allo stagno, senza saper che fare d’un pezzetto di carta, rievoca le frasi in sequenza. Ma con la strana luce di questo giorno non si può esser certi che sia impallidito. Ripensa alle circostanze in cui anche lui aveva scritto così. Ripensa a quei giorni da studente e il ponte soleggiato che si decise ad attraversare allo scopo di raggiungerla, la sua musa, con le sue individuali reminiscenze di cavalli a dondolo, allo scopo di consegnarle la lettera. Un’ora di cammino sotto il sole, dall’altra parte della città. Interminabili istanti davanti al cancello muto e immobile, senza decidere. Che avrebbe fatto? Lui era il tipo d’uomo che, davanti al bivio, avrebbe imboccato quale strada? Ogni momento dilatato, per rimuginare, decidere se si è fatti della sostanza in grado di tollerare, per un’esistenza intera, una tachicardia così straripante di vita, così protesa alla morte. O se si è fatti di sostanza che vuole solo chetarsi, non aver mai più paura di sentirsi esplodere dall’interno. Ricorda, più della decisione finale e il dietrofront, più della lettera che affondò nella pattumiera come adesso finalmente un pezzo di carta bianca affonda nello stagno, il tempo prolungato della sua indecisione. Quando era stato solo, in piedi, sotto il sole giallo a congelarsi nella placenta fredda del suo sudore, ad ascoltare un soffio segreto nell’immobilità di tutte le cose, rischiarata e accecante. Ricorderà sempre il frastuono di cicale che dai rami dei pini, sporgenti sui cancelli e tra i semafori dei tram, penetrava fin dentro i suoi battiti incontrollati. E attraverso la coltre torrida dei ronzii, un brusio lontano di un motore, forse un aereo. Ma nel cielo azzurro di quella giornata non aveva visto scie, né nuvole.
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