le isole di Brian Wilson (ep.8,5) (+???)
- Milky
- 5 ott 2024
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Aggiornamento: 12 ott 2024
Abbandonando la Terraferma, rappresentata dai continenti conosciuti dell’Eurasia e dell’Africa, la immaginò un’ultima volta.
Vedeva le gobbe giallastre della Namibia e il crine verde d’Irlanda fiancheggiarsi sul pelo dell’acqua argentata, come se fossero vicini bestioni emergenti dai flutti, a causa di un’illusione ottica, il sortilegio di una geografia accartocciata, che si sarebbe ridotta forse a un solo punto non appena si fosse inoltrato al di là del confine -una linea, un tropico tracciato di netto- che segnava il principio dell’Alto Mare. Tra le dune e le scogliere bianco-smeraldo, si sfilacciava come una torbiera di lanuginose nubi la linea viola delle terre emerse innominabili, ovvero, le confuse coste delle numerose nazioni che separavano i due paesi maggiormente visibili. Poi, anch’essi retrocedettero dentro la linea; poi, la linea si plasmò a un livido gassoso che spirava dalla sommità orizzontale e traballante del mare; poi, anche questa sparì. Rimase soltanto l’argento inquieto degli oceani del sud, e delle miniere fantasticate nei suoi territori invisibili, meno che miraggi o passeggere schiene affioranti di bestie subacquee.
Credette col suo cervello di animale sporco di terra, sempre gravato nei peli lunghi del ventre da una polvere robusta che nessun lavaggio poteva rimuovere, che in quel mondo ormai scomparso avessero luogo avvenimenti degni della vista dei profeti, eventi che facevano crollare il cielo fino al suolo, schiantare le une contro gli altri le creature della notte e i miraggi del giorno, annullandone i confini, sì da mescolare la liquidità inebriante e lisergica del sogno con l’aggressività predatoria dei fatti che appaiono: sciocca fantasia: l’animale sapeva non esservi ragione di supporre che proprio in quelle terre, più che nelle altre, si manifestasse questo fenomeno. Ma intere arterie di pregiudizi si immettevano nel suo teschio -perfino nel suo che aveva mutato di forma ed era rinato e aveva creduto d’estirpare tutto ciò che era stato, per ricomporlo-, e come il Nilo e il Tevere si attorcigliavano nelle regioni aride della testa, aderendogli infine, palpitanti e gonfie di sangue, alla base delle corna, senza qui trovare sbocco, nessuna foce che ne spargesse e mitigasse il contenuto in acque più vaste e meno individualizzate.
Per questo Croce soffriva di frequenti mal di testa.
Oppure, questa sarebbe potuta essere una spiegazione leggendaria del suo male. Come una storia edificante di miracoli, che spiegasse per esempio le origini delle fattezze di una bestia bizzarra, o il perché si chiami proprio in questo modo presso il popolo che raccontandola ne sogna il destino.
O come la storia del suo addio, che come cosa viva e cancerosa gli lievitava nella mente, fino al momento della scomparsa del viola dietro o sotto la lontana ultima spuma dell’oceano.
Vedeva se stesso arrampicarsi, pochi balzi di zoccoli duri di diamante per conquistare la ripidità delle crode, spoglie e aspre, di roccia rugosa, testimone di geologie molto più antiche delle parole e dei sogni. Sulla cima di un promontorio dell’Africa & Eurasia, da solo si dirigeva verso lo strapiombo ove terminava l’altipiano screziato da erbe e sabbie color del tuono, mentre attorno e ovunque mareggiava senza posa il cielo temporalesco, un tumultuare di nubi viola scuro i cui rotolamenti fumosi davano adito a ruggiti gutturali carichi d’elettricità, che parevano provenire al contempo dalle altitudini celesti ostruite dall’oscurità e dalle profondità del sottosuolo, o dalle profondità degli esseri che vivendoci accanto lo replicano anatomicamente.
Si rivolse al cielo, che era il suo padrone, il pastore distratto che l’aveva perso di vista tra le frastagliate guglie altaiche e dell’Atlante e dell’Hindu Kush, e dopo aver tanto vagato si rincontravano lì, nel luogo in cui il cielo più che mai dava mostra di se stesso, vivo e intercettabile, posato a terra al termine di ciclici voli millenari.
Croce si visualizzava affranto, inginocchiato come se possedesse ancora il corpo bipede degli umani.
Ma non rimproverava ai suoi genitori celesti l’abbandono. Non quella distrazione che l’aveva smarrito per sempre, eterna preda di lupi e leopardi grigi, della caduta e del fulmine, della carestia, dell’anaerobica estinzione d’alta quota in cui soltanto la natura lunare di certi licheni colonizza le pareti minerali.
Rimproverava tutto ciò che era stato prima, in questo modo, o con altre parole strane che nessun essere avrebbe saputo ricevere nelle orecchie:
-mi hai dato una mangiatoia. Sul cui pavimento di pietra collocasti una ciotola ossea, vi versasti il latte che descrivesti come una mia madre di carne reale, diversa dalla madre di vento che tu sei; in un angolo facesti accasciare, stanco come un vecchio, il nodoso bastone guardiano, che nelle mie prime notti timorate da sibili del vento e ululati imperversanti là fuori contro le assi del riparo, continuò a vegliare su di me dal suo cantuccio, e lo descrivesti come un mio padre di carne reale, diverso dal padre di vento che tu sei. Mi desti una serie di nomi che io potessi portare al collo, come un campanaccio per non smarrirmi mai e spargere l’eco di me tra le aperture delle montagne, e così andare tra le altre bestie della terra. Nelle prime ore, già camminavo. Così che da me stesso potei verificare le cose che accadevano qui, piene di sgomento e disgusto e degenerazione, tanto che mi domandai assai spesso cosa ti saltasse in mente, con questa idea di far sì che una cosa qualsiasi accadesse, figurarsi tutte quante assieme.
Ma il ricordo degli altri tuoi doni mi manteneva in uno stato strano, i cui dettagli poco a poco sfumano dalla mia memoria. Mi sembra però che fosse, e potrei sbagliarmi, come il fiatone e il forte battito del cuore quando con gli ultimi sforzi si raggiunge una radura alpina, e l’aria floreale e ronzante di api punge i polmoni del corpo che si ferma finalmente a trarre i suoi grossi rumorosi respiri; o come un canto di pastori quando i raggi del sole precipitano arrossati a valle, quelle voci che una volta mi attirarono, mi trascinarono giù a cercarne la fonte; o come la prima volta che sentii i rivoli freddi della pioggia scivolarmi lungo il pelo, e una goccia sferica che sembrava contenere infiniti mondi trasparenti impigliarsi tra le mie ciglia, e poi cadere giù.
Croce di visione e soliloquio tacque. Nell’atmosfera sfrigolava elettrica la paziente preparazione di una risposta, non frettolosa, consapevole dei momenti giusti.
-perché l’hai fatto?-, sbottò infine Croce. -io non sono quello che credi. Sono meschino, insensibile. E di essere insensibile sento, insensata, l’enorme paura quando, anche piangendo, mi chiedo se le mie non siano lacrime false, di chi ha ricevuto tutto e nulla sa guardare, nulla sa apprezzare, del mondo intero. E mi agghiaccia l’idea che non abbia un’anima. E di perderla e anche solo di modificarla, in una sua piccolissima parte. E giudico e non perdono. E ho fallito la mia missione: più d’ogni altra cosa, non ho compreso cosa fossi venuto a fare nei posti in cui sono stato, in cui mi hai portato. E più di ogni altra cosa ho maledetto questo. Eppure sapevi. Sapevi che figlio sarei stato. O intuivi, comunque, che non sarei stato quello dell’aspettativa tua, del disegno tuo, al quale solo ora mi sottometto, dopo tanta ribellione, dopo aver agitato le mie corna in direzione degli avversari, perché non mi si avvicinassero. E l’hai fatto lo stesso. Mi hai scagliato qua perché io potessi maledirti. Ti odio.
E continuò con altre parole che l’altro si era sentito rivolgere troppo stesso perché potesse distinguerle, diventate per lui una nebbia amorfa appena scorta e appena separata dal terreno lontano sotto i suoi piedi. Nebbia di poeti e disperati e figli e peccatori e bipedi e quadrupedi.
Il cielo rispose sfoderando tuoni e saette e scrosci di pioggia, e sembrava non essere in grado di esprimere nulla di ciò che sentiva se non in quel modo forse troppo schietto, forse troppo brusco, che poteva piacere ad alcuni ma respingeva altrettanti.
Gli disse qualcosa che sfuggiva alla visione di Croce. Risultava agli sforzi del suo dilagante immaginare che quelle parole del cielo fossero simili al ritorno incompleto, durante la giornata, di un sogno dimenticato della notte precedente, una parvenza remota d’un loro recupero fulmineo, e fulmineamente vanificato, cancellato dalle forze ignote e troppo numerose che imperversano nella veglia. Seppe però che fu una risposta lunga e articolata, che per un bel po’ fece star buona e zitta col capo chino e le corna moge la sua controparte onirica. Soltanto una cosa riusciva a ricostruire, ma era abbastanza sicuro che fosse una cosa in realtà udita da ben altre bocche, risuonante nell’atmosfera di paesaggi che con quell’altipiano tempestoso non avevano nulla a che fare. Altri posti, altra gente che rispondeva ad altri poveri ossessionati dagli stessi interrogativi suoi:
ti ho mandato in questo posto perché ero intimamente convinto che alla fine tutto si sarebbe risolto; anche se fosse venuto il cancro a me e a tutti i tuoi cari, anche con la guerra e la peste nera, anche se l’imperatore ci seppellisce vivi nella sua cripta e la storia cancella per sempre le nostre grida lasciando soltanto un monumento di ruderi fotogenici per i turisti che condannano soltanto gli olocausti recenti, anche se in questo e miliardi di altri modi veniamo tutti dimenticati per sempre, e pure se viene in anticipo il giorno in cui saranno gli abissi dell’universo a tuonare e rosseggiare, che saranno cazzi sul serio; alla fine ci sei tu e ci siamo tutti noialtri, questo pensavo, alla fine “ci siamo” e tu hai pure avuto modo di lamentartene, e non negherai che è un piacere incommensurabile.
Croce si disse è vero, ha ragione questa voce del cielo falsificata da tante voci della terra e dalla mia che parlo con me stesso e mi intrometto nel pensiero, versandoci ciò che è mio, e ricordandomi che è tutto mio in fondo; ma so di esserci stato sulla cima di quel territorio a salutare il cielo temporalesco della Terraferma per l’ultima volta prima di mettermi in viaggio per mare.
Poi il cielo gli aveva detto qualcosa come: senti, riguardo a quell’altra questione…
e il discorso si trasformò in qualcosa di molto più rude, sbrigativo, terreno in diversa maniera. E il cielo portò l’attenzione su quegli argomenti forse per una strana premura di cavare d’impaccio il figliolo cornuto, anche se non ce n’era alcun bisogno, anche se il vero impaccio per il figliolo corrispondeva proprio alla materia che altri avrebbero reputato più semplice -ma comunque il cielo, pur fraintendendo del tutto il sentire del figlio, e come infiniti altri genitori non avvedendosene, si era in fondo dimostrato, anche riguardo a quello, involontariamente previdente: spiegò a Croce per filo e per segno che di tutte quelle altre questioni e scartoffie (di cui enumerò inutilmente i dettagli tecnici per l’ascoltatore che non poteva apprezzarli) si sarebbe occupato lui in sua assenza. Poteva considerarsi libero da quelle incombenze. Che si godesse la sua bella vacanza nelle vastità acquatiche e gli arcipelaghi del sud.
Croce vanamente ribatté per imbarazzo, per dispiacere, troppo disturbo, davvero non c’era bisogno, e così via:
-e le tasse di quell’altra mangiatoia? E le tasse sulle parole che ho detto e lasciato incompiute? E le tasse di tutte le volte che ho respirato e gli assegni che ho lasciato mettendo in conto che forse avrei un giorno restituito allo stato i respiri che per un certo periodo, la mia eterna vacanza cioè, ho mancato di consegnare?
Il cielo scrollò le spalle. Croce capì che, di questa roba, non proprio tutta se l’era accollata volentieri. E non solo per le seccature che comportava. Era anche il sottotesto di quelle cifre senza apparente significato, l’assenza che implicavano. Il problema era il fatto della sua ingratitudine, forse? Croce non capiva fino in fondo cosa della sua assenza potesse provocare quell’amarezza seminascosta. Ma capì pure che non c’era molto altro da dire.
Perciò s’allontanò senza rimorso dalle coste dei paesi separati da interi regni, e comprese che identico alla poesia del crepuscolo è il distanziarsi delle terre dopo tanto a lungo esser state pangea -che tanto nella distanza del punto d’osservazione ritorna a esser tale, quando ormai tutto il mondo emerso conosciuto diventa un punto-, e comprese che è naturale, la distanza, che passando oltre la si può ammirare, e lui per sempre si distanziava dal Kalahari e dalla Torre Martello, dai catalettici passi di danza sulle nevi subartiche di uno sciamano piumato, dalla sagoma spettrale di una dama esiliata da Heian Kyō che malinconicamente affacciava il pallore del viso nudo in direzione delle onde, rivolgendo il kimono a una schiera fitta di cedri e nebbie attraversate di continuo da voli migratori; altre cose piccole e grandi volarono sopra la testa di Croce che ben saldo sulla zattera prendeva il largo, e gli ricordavano storie incantevoli e tutte uguali in cui sempre avrebbe potuto scorgere qualcosa di infinitamente stupido o ammaliante, e parole provenienti da esse,
the drone of flying engines
is a song so wild and blue
it scrambles time and seasons, if it gets through you
then your life becomes a travelogue
of picture postcard charms
e poi gli fluttuarono negli occhi come i volatili nelle nuvole i musi sciocchi e irrisolti di tutti quelli che aveva visto, e le loro recite,
it was just a false alarm
e le volte in cui nulla di tutto ciò lo aveva toccato, e la piccolezza sua, il timore reverenziale al cospetto delle cattedrali densamente popolate da statue i cui corpi erano espressione di geometrie troppo perfette da non terrorizzare i nevrastenici, o al cospetto degli scaffali delle biblioteche il cui contenuto mai avrebbe potuto leggere per intero attraverso millenarie esistenze,
it was the hexagram of the heavens
e lo sgomento chiedendosi per quale ragione quei tomi esistano, se già è scritta nel destino l’insufficienza del tempo e del leggere, che ci stanno a fare questi presagi se mai li conosceremo, o se quelli mai aperti mai sfogliati non abbiano il preciso ruolo di non essere aperti o sfogliati, placeholder, arredamento, presagi di tutt’altro,
it was just a false alarm
e Croce sulla zattera rimaneva una capra incapace di azzittire dentro di sé il linguaggio che aveva scoperto in una sua precedente incarnazione umana, e le linee schiumose dietro il suo andare sparivano e si rigeneravano come orme di zoccoli nella sabbia ghiaiosa di un vasto serir disabitato.
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Approdò al porticciolo del territorio isolato del sud in un tardo pomeriggio di pioggerella nero-bluastra, leggera e incessante, che incanutiva quando, respinta dagli scogli e dalle rocce collinari, formava una nebbiolina quasi impercettibile al tatto. Attraversandola, imboccò la salita che dalla costa conduceva subito alle colline. Prese posto tra il bestiame e gli uccelli marini dell’isola, e qui condusse una vita piena e quieta per qualche millennio, conversando nella lingua dei belati e dei lunghi silenzi, fino all’arrivo del “ladro”, che non si sapeva cosa avesse rubato, ma era ragionevole reputare predoni tutti coloro che approdavano in quei territori; e lo elessero a loro Dio, o forse santo, o forse re, poiché apparteneva a quella specie strisciante ovipara che era stata sterminata da un santo, o forse conquistador, o forse carcerato, un cristiano insomma del passato remoto che tanti secoli addietro aveva invaso, trainando le sue muggenti navi della civiltà, quelle spiagge ancora abitate dai diavoli, presto estirpati a opera del suo miracolo.
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8.5.1
Il “salvatore” scortato dal suo gregge sarebbe stato sulla collina ciò che aveva sognato di essere, un esploratore delle terre incognite o un navigatore di altre possibilità, nei prati scoscesi e disabitati immersi in un maltempo piacevole si sarebbe visto uomo e donna, e presente e passato, e rettile e uccello e anfibio e pesce, pastore o prigioniero delle capre giunte prima di lui, lui è Molly Bloom che dice sì ha detto sì a Leopold e un punto nero d’inchiostro si materializza in fondo alla pagina di quel giorno germinante segnando la conclusione di tutto, lui è vivo dentro un romanzo di sua stessa fattura, è un crescendo di percussioni in una hit che invoca un patto pagano con Dio e che lui non potrebbe mai ballare o eseguire al karaoke al cospetto degli sguardi degli altri, lui è se stesso quando sognò d’incontrare, a ridosso d’altre scogliere e brughiere, una collega praticante della Soka Gakkai, che aveva visto estrarre dalla borsa tascabili di E. Morante e Sei Shōnagon conosciute a memoria e che lei sfoglia ad alternanza in una tavola calda studentesca durante una pausa pranzo in mezzo alle lezioni, e con la quale alla fine non si era svolto il dialogo scritto per intero nei pensieri anticipatori, è l’ombra della persona che avrebbe voluto essere in quel momento mai nato, è tutto questo e non ha modo di percepirlo perché la strana aria dell’isola principale del piccolo arcipelago vuoto modifica sistematicamente la natura della memoria.
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