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le isole di Brian Wilson (ep.8)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 4 ott 2024
  • Tempo di lettura: 37 min

Aggiornamento: 9 ott 2024

Pagina *** del diario psicoattivo di Pollo, anche noto come Il Gallo. E andiamo, e incominciamo, anche questa volta.


E per gli spettri famelici di altrui vite, che vagano incorporei e scorporati dal resto degli esseri bramanti, più invisibili e magri di tutti gli altri: se per la prima volta vi imbattete in queste pagine e ne ciucciate il nettare, che mi dicono aver sapore di polvere, siate consapevoli di una cosa: il fatto irreversibile che io le abbia scritte è triste prova di un mio destino che reputo peggiore della morte. Sei stai leggendo questo, allora significa che sono peggio che morto: sono in confessione: sono in riabilitazione: sono un animale malconcio, un volatile convalescente soccorso dalla Lipu e il cui unico buio amico rimasto è quel buio poco nobile della gabbietta ricolma dei miei escrementi e piume, e di tutte quelle cose che circondano le creature nel momento in cui nessuno dovrebbe vederle.


(per inciso: l’ultima volta che sono uscito -non ricordo quando ma in ogni caso decisi, ormai già precipitato alla soglia non più riattraversabile di queste mie bassezze, che avrei interpretato la cosa come un segno- vidi un falco. Elegante, volteggiava silenzioso tra le nubi biancastre e uniformi che imbrunivano un pezzo di campo incolto tra palazzine moderne, volava su di un colore temporalesco del suolo, così che pareva, per quella penombra della giornata, che il terreno fosse sul punto di piovere e le nuvole sul punto di essere calpestate. Pensai: è indifferente lui, invece, al sopra e il sotto: vola sempre elegante nel mezzo. Lo spazio di fluttuazione. Mi annotai mentalmente: indagare su cosa sia lo Spazio di Fluttuazione. Ma qualcos’altro trascinava ben più morbosamente e veritieramente i miei pensieri: questa eleganza, da dove viene? E lui dove abita? In quale zona della città? Così, dopo aver consegnato la poké in quel mio primo e ultimo giorno di part-time, dopo aver chiuso il portone ed essermene andato voltandomi a guardare il suo volo quasi a ogni passo, non potei non pensare alla sua dimora. Lì, nessuno avrebbe dovuto vederlo: sporco, immerso in un fetore che non lo segue quando esce di casa e volteggia e tace e manovra le correnti d’aria, dirigendosi dove vuole.)

(E compresi l’essenza della contraddizione che tanto a lungo mi aveva tormentato negli umani: tutte le creature sono così: nessuno è leggiadro dentro la tana: è innaturale il gesto di spiare, innaturale la possibilità d’affacciarsi su un antro rinchiuso di vita quotidiana e osservarne l’occupante nel suo riposo più grossolano e inelegante: è naturale che ciò che si vede in giro, nei campi vasti e negli spazi aperti tutti, non sia che una proiezione incappottata, un personaggio che prende il via libera soltanto quando ha da procacciarsi il cibo o altre forme di sostentamento tipiche dell’aria aperta, una parte minima del vivere, estratta dalle stesse cellule che compongono il corpo brutto per come è in una sua forma altrettanto autentica, e mi azzardo a nominarla la più autentica, perché è la forma in cui più ardentemente anela di ritornare, perché le altre forme che vagano per il mondo sono sempre funzionali al ritorno in quella forma primaria, e si muovono sospinte soltanto dall’ineffabile fiatone della sua attesa; il ritorno alle zampe piantate nella pavimentazione viminosa del nido. E pensai all’atrocità che dovrebbero ispirarci, allora, tutte le fotografie scattate in casa: momenti che nessuno dovrebbe mai rubare. Nessuno vorrebbe vedere l’agonia e imbarazzo nel volto del falco quando qualche improvviso intruso lo sorprende seduto nel nido buio nel sottotetto d’un terrazzo in zona grattacieli, chiunque dovrebbe poter reputare anormale rispetto al consueto flusso delle cose quell’immagine della sua figura irretita, incapace di reagire prontamente cogli artigli lucenti e il becco letale -che quasi non ne ha, di becco e artigli, in quel momento: perché è anomalo, sebbene sia il più reale, perché l’anomalia è il poterlo scorgere.)

(E la nausea mi viene, per la foto che dovetti mettere sul mio curriculum, che scattai con la schiena a una parete di casa, poiché, sebbene la foto in casa, come ho descritto, sia un abominio che rischiara le oscurità inviolabili degli esseri, ancor peggio sarebbe stata una fotografia scattata in esterni, un’uscita effettuata per quell’unico proposito eterodiretto da qualcuno che ti legge ben incolonnate le inconcludenze della vita e mosso da perversione desidera pure guardarti la faccia mentre lo fa. Ma accanto alla nausea un nuovo sentimento. Mi sono bruciate troppo quelle ore di noia che ho conosciuto più in profondità di tutte le altre in tutti i miei incontri con altri, quella mia incapacità di perdonare, per esempio, lei che mi vedeva così, lei e me che vedevamo noi due attraverso una vita che pareva decomposizione, condensava nei minuti intere domeniche pomeriggio, e tanto brutta ci si presentava, e che era in realtà soltanto una vulnerabile puzza corporea, un goffo stare nelle molte e molto lunghe ore delle tane)


Come gli spettri affamati di altri episodi già sapranno, e come i nuovi ora apprendono, sono solo: gli altri se ne sono andati. Croce è un po’ che non lo vedo. Chissà che giretti si fa. E non ha le mani ed è muto, ma in qualche modo le tasse sue vengono sempre pagate. Forse ha qualcuno che gli vuol bene da qualche parte, o che conserva qualche interesse nel suo avvenire? Nel suo star qua certamente, per qualche oscuro motivo. Quindi i soldi di Croce arrivano più puntuali dei miei. Avrà un angelo-diavolo custode, dei genitori, o meglio degli allevatori in una fattoria lontana che in apprensione lo sanno nella grande città eppur vogliono in qualche modo imporgliela, pagandogliela, ricreandovi la comodità dei suoi letti di fieno e stuzzichini salati disponibili a tutte le ore -basta scendere, due passi, scaffali costantemente ingravidati di beni deliziosi, peggio che vacche da latte in batteria. Ah ma mica mi inculate così: io ho fatto un megaspesone quando c’era da farlo: e chi cazzo scende più. E si fottano i prodotti da frigo, sopravvivo a forza di tutto il resto: questa, in questo momento, la filosofia di Pollo, che volentieri divora tutto ciò che vien sparpagliato sul pollaio, le varie immondizie sottovuoto oppure i rimasugli di tutto il commestibile a temperatura ambiente.


Vi chiederete perché vi ho convocati, ancora una volta, tra queste pagine che raggiungono le imbarazzanti tre cifre di confessioni e martoriamenti autoinflitti e causali e consequenziali autoguarigioni. Da parte mia, è logico che debba raccontarvi delle cose che ho visto stavolta: non credevate forse che non ne avessi viste di altre? Anzi, proprio perché pure Croce è sparito da giorni, si sono moltiplicate. Va a finire che forse forse la sua presenza che dava ascolto ai deliqui quand’erano in via di sviluppo, rispondendo muto ai miei vomiti, mi era in qualche occulta maniera necessaria; e lenisco il panico e dolore di questa mia ammissione soltanto ascrivendola, anch’essa, alla vergogna livellatrice di tutte le cose che accadono nella tana, secondo il Teorema da me espresso. Ovvero: non cessa mai di moltiplicarsi lo squallore una volta che ne hai scoperto il nido.


(comunque, prima di continuare: sto bene. Le finzioni che mi attanagliano si manifestano soltanto per quei pochi minuti o poche ore, più intensi di quando erano provocate dalle mie febbri, certo, ma proprio per questo più gestibili. Sopravviverò. Non posso pretendere, lo so perfino io in fondo, che qualcuno mi accudisca, che qualcuno ci sia sempre ad assorbire assieme a me i miei dolori, i significati di cui questi presagi si rivestono per me, per il mio occhio interiore soltanto, e per l’orecchio esterno di qualcuno che potrebbe avere la pazienza amicale di ascoltare le mie urla, che un po’ esagero, appositamente. Lo so: non devo imporre a nessuno quelle cose che posso sbrogliarmi da solo. Lo ammetto, potrei aver sbagliato. Ciò non toglie che avrò estremo piacere di intrappolare il primo essere che si ritrovi a passare nelle mie vicinanze, non appena accadrà: non per dimostrar che gli voglio male, né che gli voglio bene: soltanto per dimostrare quanto avessi ragione io, e quanto torto loro a non aver ascoltato le mie parole di avvertimento, quando agli albori della nostra amicizia io ho detto quello che dico a tutti: di star lontani da me, di salvarsi. E in questa dimostrazione io sarò un’essenza quantomai inseparabile, quantomai codipendente: di spire e liane sarò fatto, e un costrittore diverrò nel mio abbraccio: e dagli occhi miei una pietrificazione, e dai bargigli miei un veleno corrosivo acidificherà i tessuti della pelle del malcapitato, finché non assomiglierà, così ferito, un po’ di più a me.)


Ma basta con queste follie degne dell’umana conversazione, dell’assurdità di un dialogo. Passiamo a ciò che è unilaterale, e che soltanto è giusto riferire.


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Ho visto sacchi di sabbia prendere vita sull’orizzonte. Come i corpi pieni di bozzi di un esercito che s’alza in piedi dalle erbe nasconditrici della loro imboscata, corpi disposti a distanze regolari sulla linea della distanza più ultima sull’altipiano, ad annunciare con le loro sagome, le loro ombre, il proprio numero infinito, e assieme al tuono del cielo, altrettanti presagi di guerra.

I loro corpi, uccisi, suicidi, o semplicemente caduti, usurpano il suolo, ne sostituiscono le carni granello per granello: nasce in queste pianure e sui pendii delle brulle montagnole il deserto, ch’è adesso il pavimento di tutto, e sfaldandosi come una cosa viva e che muta di pelle, là dove incontra le acque che cingono i continenti, vi si riversa microscopico, moltiplicandone la salinità: nasce il mare, sostituendosi alle neutrali acque amniotiche che si disvelano dalle croste del mondo: ché non son loro i veri primordi dell’esistenza di questo paesaggio, ché un disco piatto chiamato Terra volteggia in un cosmo altrimenti abitato da pianeti sferici, ché è la terra il principio e le acque la prosecuzione -sebbene da esse siano emersi i vivi-, ché l’aria, affine alla mente, è il primo vero irrespirabile veleno fluttuante sopra queste spiagge, e ché il fuoco, ben lontano dall’incarnare un inizio esplosivo o una fine gigante rossa o nucleare, è invece ciò che occultamente cova nel mezzo, in tutto ciò che sta in mezzo, è la misura stessa del tempo, per me, che da qui lo vedo, che osservo, con le unghie avvolte attorno all’asta di un trespolo sacrificale, l’altare in cima alla collina brulla dalla quale ho osservato la battaglia.

Spicco il volo, per migrare lontano da lì, e più fragili, più ridicole, mi paiono ora le spioventi piume della mia coda che dietro il mio tragitto ricadono, con le punte rivolte a quello stesso suolo di melanconia e immutabilità anche nel mutamento, e rassomigliano così a un volto che piange, e che sta dietro di me, nella mia parte posteriore.

E me ne vado sopra alle cose, l’ombra mia schiacciata tra gli sterpi che muoiono e diventano rimasuglio di clessidra, me ne vado col cervello cavo come le ossa per facilitarmi il volo, e contro le prescrizioni del cuore che è terricolo e vorrebbe per me soltanto il riposo razzolante in cerca di semi, e mi chiedo volando e morendo di fatica nella mia fuga quante siano le steppe della storia che sono mutate all’istante in deserti, e quanto il numero delle albe e i tramonti che in questi ampi vuoti furono osservati dall’occhio prescientifico di quelli della mia razza appollaiati sugli altari, i trespoli o dolmen disposti per incapsulare tra le genitoriali gambe l’illusoria forma dell’astro lontano, termometri che misurano la febbre rossa del cielo, e mi chiedo poi quale sia il numero -il numero esatto e precisissimo e non quello astratto ch’è uguale al numero dell’esistente tutto- di tutti quelli che sono morti qua e sono diventati i vari piani inferiori della carcassa continentale, l’aldilà sotto i piedi, e quanti sono stati i giorni di pioggia e quanti quelli di abbandono.


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In mare, su di una zattera enorme e fumigante, ci attaccano i pescecani. Sono diversi dagli squali e sono diversi dal Cetaceo, ch’è il grande mostro delle profondità. Sono personificazioni del morso. Hanno pelle gommosa di pastinaca. Branchie carnose, fuoriescono da se stesse, mostrano un sangue nascosto, sembrando diversi occhi. Comprendo che l’acqua è tra gli elementi quello che una mia coscienza invasiva, un’entità che ha preso il controllo della mia testa e che vuole inocularvi i più astrusi convincimenti, reputa il più alieno alla mia costituzione, m’annegherebbe il volo, m’annegherebbe l’alzarsi dei propositi più naturali miei; gli altri elementi sono invece questa coscienza stessa; la quale dunque si rivela nient’altro che paranoico afflato di vita, di continuare a esserci -a far che, non si sa-, inerte e vacua paura di morire e spegnersi e diventar fumo che è di questi suoi tre costituenti una troppo strana e sconosciuta sintesi: gas, combustione, polvere che sei e che ritornerai e che è le pareti dei comignoli e dei vulcani, ne vediamo uno ch’è la nostra destinazione e che da noi si allontana e si fa sempre più immaginaria quando gli ostacoli ci mordono. Perciò non so bene come comportarmi, quando i pescecani arrivano. Un grosso esemplare, inghiottitore di pescatori, abbatte il corpo grondante su un’asse del ponte, la zattera ondeggia, minacciandoci la caduta, i lati nostri di acque mai ferme, ricordandoceli, sempre attorno, ad accerchiare tutto quanto noi potremmo mai abitare; alzo lo sguardo al cielo e lo vedo penetrato da una punta recisa: la vetta del vulcano, la cima dell’isola, alla quale ci stiamo avvicinando, per restituire cenere alla cenere, e che vista da qua, tra i grossi pesci della morte che più d’ogni altra cosa intende annunciarsi, mi appare come una speranza di roccia.


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Li vedo, ogni giorno e ogni notte, i pescecani: mentre dormo e il letto ancora mi sembra nauseato nel tentativo d’assestarsi tra un ondeggiamento e l’altro, com’era stato nella cabina del mio sonno talassofobico, sempre così per i passeggeri che scendono dalla nave e ci mettono un po’ a riabituarsi e io non mi sono mai abituato, e dormo vomitando e vedendo i denti dei pesci che m’oltrepassano le palpebre chiuse e s’abbattono sul ponte ligneo della mia visione, facendo un rumore secco di schegge spezzate, soffiando, sibilando il respiro loro di pescirettili preistorici che in un diverso ossigeno continuano pure a sopravvivere qualche ora e annaspare di fame, diversi da noi, corpi di terraventofuoco, quando anneghiamo, quando già al primo e poco buio strato di abissi ci adagiamo dolcemente all’inazione, al gonfiore, allo scroscio verticale e cullante delle nostre bolle espettorate.


Anche adesso: una schiera di denti mi affonda nel ginocchio.

Non so da dove sia entrato.

Forse dovrei chiudere tutte le finestre prima di rincantucciarmi in un incubo. Poi è una seccatura alzarsi se ho già la schiena sul letto e quando mi ci rimetto ci trovo il calore di un cadavere usurpatore che poi sarei io stesso e allora meglio farlo meticolosamente prima di stendermi no? Che poi già lo faccio, che poi mi riferisco a tipiche misure apotropaiche, perché tutto è sigillato e nulla potrebbe realmente penetrare in questa fortezza, ma il semplice accorgimento, la scrupolosa cura che posso infondere nell’osservare la chiusura e nelle prove manuali per verificare quanto è salda almeno dieci volte garantiscono che gli insetti i fantasmi i ladri e i pescecani non entrino in casa. O che almeno entrino in minor numero.


Uno sciame di pescecani mi succhia il sangue. Fa male, cazzo!, esclamo. Ed è a quel punto che vedo un povero pescecane sciupato, di anatomia in qualche modo antropoide, e con le costole d’aspetto rigonfio che gli tendono la pelle ruvida fin sotto alle branchie, rivoltate e sporgenti per la pressione interna. Ha attorno alle labbra un impiastro del mio sangue nero già secco, e continua a far saettare dentro la mia ferita una lingua dentellata che si sfodera dal centro della sua gola buia, tutta spalancata e ancora grondante del pasto. Uno sgradevole sfiatare di stantuffo si ripete ritmicamente ogni volta che il movimento viene innescato.

Come posso dirgli che mi fa male? Sembra così triste. Gli guardo la faccia, quel volto tutto distorto e dislocato per intero su di un lato -ricettori elettrici, denti di vario genere che escono da ogni depressione della carne e non solo dalla bocca, e poi le labbra, strani baffetti da pescegatto, un nasone sporgente da carcarino inserito come una piramide in mezzo alle altre fattezze, due occhi a pupille multiple concentriche, i cui capillari sempre più vengono pervasi da un flusso ascendente di sangue, che non so distinguere se proveniente dalle vene del pesce o da quelle mie ingurgitate e già immesse in circolo nel suo organismo, per una strana digestione istantanea scattata in un istante, dalle labbra ancora impiastricciate fino all’interno dei bulbi oculari. Gli occhi pieni del sangue nostro mescolato mi guardano, e li sento parlare: non posso smettere! Perdonami, perdonami! E allora io lo perdono. Mi dispiace così tanto, a vederlo così. Lascio fare. E che sarà mai una puntura di zanzara, un’iniezione, una trasfusione, una serie di macchie lebbrose che si squarciano sulla mia fisionomia.


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Il prurito mi riporta in un luogo brutto, uno tra gli ennesimi, ciò significa che purtroppo la scena cambia ancora, che non mi trovo qui nel letto nel mare nel mezzo del tragitto tra la costa e un’isola lontana, tra pescecani e conati che salgono nei tentativi svogliati di prender sonno.

Sono in uno chalet tre quattro anni fa, forse prima, sono desideroso di andarmene, al più presto, come sempre, che io sia maledetto, sono in una festicciola e con amici di amici che mi sono sforzato spesso di non ricordare, e i padroni di casa adibiscono questo gazebo dislocato ai giochi e le cenette con delitto e le sfide alcoliche e i drammi istantanei presto dimenticati tranne che dal sottoscritto a quanto pare, tranne cioè dall’unico a cui dovrebbero importare zero.

E non ricordo nemmeno i nomi di questa coppia intenzionata a sposarsi e costruirsi una equilibrata vita che in fondo e forse a loro insaputa si impernia proprio sull’esistenza dello chalet, il centro di gravità del loro mondo sicuro e immobile, stipato di posate e cavatappi e in un cui angolo torreggia una pila di scatole colorate varie, tabù e risiko e monopoli e tutto il resto.

Ricordo soltanto che ogni volta che mi sono trovato là dentro in quello chalet, soffiava fuori un vento indomabile, indifferente allo spessore delle mura, raggelante al solo ascoltarlo. E sentendolo mi sentivo all’esterno.

Scoperto nel cortiletto grigio canile che divideva la casa vera e propria dallo chalet, le caviglie esposte agli artigli ghiacciati che spazzavano via la polvere e le punte delle erbacce, che immaginavo ghiacciarsi dall’interno, decadere lentamente senza dar mostra di morire. E immaginavo il momento in cui il vento avrebbe raso al suolo tutto il mattonato e il muretto e il garage e tutto quanto edificato nel raggio di chilometri, e io immutato là in piedi al centro del soffio impetuoso, soltanto a osservare, mentre un mondo di aspirazioni di una famiglia e di amici e di riparo dagli elementi spietati della natura viene cancellato, sono io in piedi tra le macerie di una coppietta e irresistibilmente ghigno dell’altrui sfortuna, sapendola ovvia sin dall’inizio sin dal primo sguardo, già di fatto pasciutosi all’inizio del paesaggio di macerie rotolanti nel vento, che quello no, non finisce mai proprio mai, oh certo che rido ragazzi miei che volete?, voi stessi mi reputate brutto sgradevole scheletrico sinistro e in questo preciso sentimento di invidia e umana bassezza mi scrivereste se ne aveste l’opportunità, sono uno stereotipo di frustrazione da voi generato -lasciatemi essere, lasciate che m’impazzi dentro al petto quell’animale che gode quando una volta tanto sono le vostre costruzioni a crollare.

Superstite ardito soltanto quando sono i cazzi degli altri ad andare a scatafascio, che io sia maledetto.

Bramo la stessa capacità di sopravvivere in piedi quando è il mio mondo a polverizzarsi e venir digerito dalla tempesta.


Sono invece in piedi dentro, sebbene mi immagini fuori in quella scena che ovviamente è già avvenuta propriocomeprevisto, e impugno una freccetta, d’un gioco che odio, vuotissima prova di destrezza manuale e suppongo anche della mia determinazione quando chiudendo un occhio guardo il centro del bersaglio, so già che vacilleranno questa abilità e questa capacità di individuare e decidere, ma strafatto e un po’ ubriaco partecipo mio malgrado e desidero centrare, e allora compare Croce che, sono abbastanza sicuro, non conoscevo ancora, sono abbastanza sicuro che non c’è stato spazio nella storia di cui sono testimone per un accostamento tra il suo corpo quadrupede e quell’interno di uno chalet (chissà perché così ben stampato nella mia memoria), eppure eccolo là quel caprone, accasciato sul divano, è incredibile che sia riuscito a inseguirmi perfino qui dentro. Mi osserva  nel frastuono di musica odiosa da una cassa bluetooth estranea al mio controllo mentre nella fronte mia pulsano divoratrici una drum machine e le nubi sonore di Merzbow, mi mette alla prova persino, guardandomi, con occhi più rettangolari che mai -due fessure, ormai- mentre le mie freccette colpiscono il bersaglio e allineandosi formano una strana figura.

Sono io, modellato da diversi avvenimenti.

Odio i giochi del possibile. Ma ne ho appena disegnato uno. Su un bersaglio di gommapiuma coi pennacchi rossosangue delle freccette, ciuffi emorragici di rabbia sfilacciata.

In questo mondo infilzato nel bersaglio, io sono un ragazzo intossicato dagli stessi miei correnti sentimenti: quasi identici nel contenuto, figli degli stessi modi che hanno le cose di decadere, che io ho osservato, ferendomi negli stessi modi, in questo mondo e in tutti gli altri; ma nell’altro mondo del bersaglio di gommapiuma, io sono un ragazzo mite, che questi sentimenti, di generale o specifico disprezzo, e terrore dei presagi di attacco che appaiono incarnati nei miei (ahimè) consimili, che vogliono rubarmi l’anima e strapparla e prenderne i coriandoli a calci davanti ai miei occhi di bimbo, e irritazione per le altrui ingiustificate irritazioni e per la certezza che dentro il filtro alieno dei loro sguardi la mia sia allo stesso modo la più ingiustificata, e immensa vergogna di qualunque cosa io sono e sia stato -tutti questi tormenti li tiene chiusi con sé in una buona e oscura stanza, e non è la sua stanza, ma la sua “cameretta” in casa di mammaeppapà, ché questo qui non è andato a vivere con gli Altri, e con mamaeppapà lui non litiga perché, ha stabilito in lunghe pensate, tanto è inutile; disegnato sul bersaglio sto io, dentro un mondo che ho rivestito di angoli tondi e morbidi, protezioni, sterilizzazioni: per impedire che diventassi, io stesso, il rischio da cui dover proteggere tutto quanto, l’incendio assoluto che forse in questa vita sono diventato.

In piedi di fronte al mio disegno, accanto al sorriso muto di Croce, che annuisce e mastica il vuoto, e tra gli spumosi fantasmi di ex conoscenti tra loro distribuiti in gruppetti di chiacchiera di cui presto non posso più riconoscere coi miei sensi o con la mia memoria alcuna fisionomia e caratteristica umana, tra mormorii e sorsate dai bicchieri e risate pungenti e altri insiemi di suoni inesprimibili in alcuna lingua, io osservo quella distante forma di me, e la reputo buona: non era male questo altro mondo, con i suoi difetti: non ero male io, buono, quando tutto il mio morire, il mio incessante consumarmi inceneritore, non era che un movimento nascosto, dentro i miei stretti e invisibili confini, nient’altro che un ciclo silenzioso e dimenticato, pari alla discesa e risalita di inosservati astri del cielo.


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Mi trovo in un incrocio che riconosco, gettato per strada, attorno a me si muovono ora le schiere degli innumerevoli altri giocattoli rotti già svegli al mattino, escono ognuno dalla propria pattumiera, prendono gli ascensori, svicolano tra le architetture di immondizia e incontrando la brezza fresca dell’alba s’infilano il cappotto, pronti ad andare, contro le intemperie e certi selvatici lupi che circolano nell’ecosistema metropolitano.

Io sono indifferente a tutto ciò. Mi scosto quando passano, cerco di allontanarmi il più possibile: non voglio esser visto e riconosciuto dagli altri giocattoli danneggiati, sebbene non vi sia ragione di supporre che alcuni di loro possano riconoscermi.

Per questo infilo le scarpe in una lingua d’asfalto lucida e vischiosa come se fosse passata in questa via soltanto una lumaca gigante, i suoi fluidi mi penetrano nei calzini come pioggia insistente quando tra i due versanti di marciapiede si generano mulinelli torrenziali adiacenti ai tombini.

Ben presto si cancella ogni forma antropomorfa di altro giocattolo, sono di nuovo solo e cerco di prender fiato, dimenticando che sono stato gettato, non so se da un generico qualcosa, non so se da un generico qualcuno.

All’improvviso qualcuno mi si fa accanto: mi volto, mosso non dalla cautela e dall’insicurezza, ma da una curiosità in me insolita, risvegliatami da un odore che ha anticipato di pochi istanti il nuovo arrivato, e che non riesco a decifrare immediatamente. Vedo molto vicino un cobra grande e nudo color verme, della stirpe dei naga, con due prominenti seni che sgusciano da una calza di squame, simili al ricordo di biancheggianti uova in un suo nido dal quale fu molto difficile distaccarsi.

Ha due tozze braccia e le distende per quanto possibile davanti al torso, stringendo tra le dita unghiute le maniglie di una carriola.

La carriola, senza che sia necessario attuare alcuna metamorfosi, è semplicemente mutata d’aspetto, trasformatasi, nel passaggio privo di transizioni tra un fotogramma e l’altro, in un carrello della spesa.

A questo punto guardo in faccia il serpente: ha gli occhi immobili e gialli, la sua espressione è singola, e provo invidia per lui; lo guardo, mi guarda: non apro bocca, la sua è già aperta, una mascella slogata per lasciar sempre libero il forcone nero-violaceo della lingua; lo guardo, e mi dice: lanciamo il carrello contro quella parete dell’edificio: rompiamola, e troverai me; sarò, con la mia vecchia pelle e tutte le cianfrusaglie impigliate nelle sue pieghe, stramazzato a terra, tra i barattoli svuotati e ammaccati dei legumi e le lattine accartocciate e le bottiglie ramate dei digestivi.

Di un po’, -mi chiede poi-, ma ti sei ricordato di prendere queste cose quando hai fatto la spesa?, e penso cazzo, questa roba in effetti mi serve come il dentifricio. È un pensiero delirante e consapevole d’esserlo ma una forza incontrollabile mi spinge a formularlo per intero e insistentemente, diventandomi un’idea fissa, ho comprato troppo dentifricio sacrificandovi i suoi equivalenti.

Non ricordo se il naga ha già demolito la parete o se era semplicemente sul punto di farlo, ma in ogni caso lo ringrazio per il suo operato (risponde col silenzio, con la fissità di sguardo e di lingua che ha smesso di saettare, sembrando morta lì a penzolare), mi avvio senza più voltarmi (è ancora lì dietro e non smette di guardarmi), entro in punta di piedi nel buco nella parete e, inondato dalla luce laboratoriale che acceca i corridoi tra i reparti, mi chino a raccogliere le provviste per il mio prossimo capodanno.


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Mi trovo in una di quelle casa natalizie in cui appaiono stereotipici parenti sconosciuti e che per quanto si ripresentino nelle solite occasioni non riescono mai a farsi catturare dalla memoria o una qualsiasi altra parvenza di coerenza e unicità di carattere, i loro corpi e intenti mutevoli mi comunicano una minaccia data sia da questa stessa informità che da un presagio opposto di univoca prevedibilità. In loro mi inquietano in egual misura il cambiamento e la stasi e l’uno e l’altra sono qui per mangiarmi la pelle, ingozzarmi e castrarmi perché è scappato il cappone e in mancanza dello stesso sono io il più adeguato capro -se solo ci fosse Croce, ma, bastardo, proprio quando mi serve non compare il suo spettro a perseguitarmi.

Che poi, perché spettro, che mica è morto anche lui, o comunque, non che io sappia.

E se è morto non certo si trovano qui il suo spirito trapassato e il suo cadavere stecchito, che sono io quello che è stato ingrassato, e ansimando per il bolo che mi risale in gola e m’ostruisce i respiri, mi eclisso dal salotto ove si danno inizio ai giochi d’azzardo normalizzati, striscio in un’altra camera provvista di un altro caminetto acceso, per riscaldare nessuno, perché un animo di drago nascosto nella struttura della casa ha bisogno di scaricare le sue braci ardenti da più bocche, e non solo dal camino principale dei commensali; così queste braci le osservo, semispente ma ancora tiepide, dietro il paraschizzi che ne frammenta il lucore arancione e vivo, guardingo non giro la poltrona interamente verso di esso, perché cogli sguardi possa in qualunque momento prevenire il passaggio nella stanza degli altri incalcolabili presenti, e osservo con un occhio e con l’altro ora il vetro smerigliato della porta della sala principale che mi fa intravedere i perlacei fantasmi degli urlanti giocatori di carte, ora l’immobilità paziente e sinistra di un bicchiere di cognac rimasto a bocca aperta a sfiatarsi sul tavolino che mi tocca gli stinchi, e accanto la bottiglia stappata e senza etichetta sul cui vetro permangono grumi appiccicosi di colla, e ne sento raddoppiato dall’affanno e dall’indigestione l’odore di alcol etilico, non mitigato mai da essenze fruttate o zuccheri o estratti organici d’altra specie. Mi sembra l’immagine che resta dopo un avvelenamento, il silenzio lasciato dopo che il corpo dell’assassinato è stato fatto sparire, e rimane soltanto l’arma, aperta sul tavolo.

Il silenzio è apparente, è solo stordimento. Accoglie eco di voci e grida ubriache, accoglie lo scoppio delle scintille nel caminetto.

Questa è la stanza in cui avevo lasciato il mio cellulare, come il bicchiere avvelenato anch’egli moribondo e a pancia in su, sulla mensola del caminetto.

Ha vibrato, giudicando il mio abbandono, pieno di disappunto.

Capisco di essere in trappola. Nonostante tutte le mie precauzioni. Capisco che dagli stereotipi posso difendermi indossandone uno: il mio maglione natalizio è folto, bianco e rosso, e verdi gli abeti e marroni le renne, la mia paranoia spiccatamente autoconservativa sa in queste circostanze che nessun indumento assomiglia più a una corazza del maglione natalizio, capace di respingere ogni freccia; sono teoricamente protetto, la mia teoria mi protegge e mi ammanta, si staglia in cima alla mia fronte la cresta bicornuta dell’elmo di Date Masamune, il samurai convertito che amava gesùcristo e gesùbambino che gli ricordava il bodhisattva paffuto col bavaglino, e più intimidente del suo esoscheletro appaio io con le mie icone del sol invictus, ne sono certo; eppure non basta. Per la troppa sazietà e per i ricordi di altri fallimenti annaspo, e sento, più forti degli schiamazzi e dei carboni incandescenti e dei messaggi che continuano ad arrivare facendomi sussultare e della musica che riproduco nella mia testa per schermirmi da tutto ciò, le parole distanti nel tempo di coetanei quasi più minacciosi dei miei parenti, appartenenti alla loro medesima specie.

Non capisco cosa rischio maggiormente. La stanza del presente o quella del passato.

E qui mi minacciano anche le aguzze microplastiche dell’albero addobbato, la falsa ceramica esangue delle statuette del presepio ricavato da una grotta di scaffale, i personaggi rivolgono tutti le manine all’esterno e le mie vene all’istante sono attraversate da un brivido di dita microscopiche di umani minuscoli, un piccolo popolo che mi si riversa addosso facendomi un solletico mortale e spolpandomi nel processo.

Guardo le altre cose che mi circondano: qui sono solo, ho accanto il mobiletto che stipa vecchi vinili di diverso genere, musica classica che minaccia la mia ignoranza eppoi Paolo Conte regalato ai miei parenti negli scorsi natali, ho puntati sulle mie membra spilungone gli occhi vacui dei soprammobili allineati sulla mensola del caminetto; qui sono solo in teoria, qui tremo ogni volta che i riflessi arancioni proiettati dai rimasugli del fuoco si agitano eccessivamente annunciando il passaggio di qualcuno, che non viene mai, ma che certamente potrebbe commentare la mia persona oltrepassando perfino la protezione teoricamente inespugnabile del maglione, perché mi scoprirebbe ferito, in questo momento, spaventato, saprà smontare tutto ciò che io sono con poche parole.

Come fecero gli altri.

A un cineforum in cui non furono le mie opinioni quelle più velenose, in cui incontrai gente più velenosa di me e infinitamente più rapida; tornai a casa tremando quel giorno, e pensai che nessun essere umano tremante in quel modo sarebbe mai dovuto esistere, per pietà verso il genere umano tutto, e nei tremiti sentivo accresciute le risate ininterrotte di quelli che erano rimasti al cineforum a parlare di me, quel coglione mai visto, e che erano così svelti nell’adoperare la parola contro i film vecchi sopravvalutati e contro i visionari e contro Sorrentino soprattutto, e che non avevano paura di me che credevo di far paura a forza di proteggermi dalla paura, ebbene scopersi l’inefficacia delle armature.


Perciò anche ora tremo, sebbene io abbia in testa l’eco del vinile di Coltrane & Ellington che ricevetti infiniti natali fa io sento comunque il rumore oltre la porta e quello dentro la stanza che si amalgamano e mi raccontano uno stesso esito, e io mi sfaldo come tessere di domino, come frammenti di buccia di mandarino spazzati via dalle cartelle una volta concluso il gioco della tombola.

Sblocco il cellulare.

Ignoro i messaggi.

Ignoro i suoni che si spargono dal suo stridulo altoparlante quando schiaccio play su una serie incatenata di idiotissimi reel, nella mia testa non è finita nemmeno “in a sentimental mood” che è la prima traccia, la metto in loop per temporeggiare, e intanto l’audio dei reel è soltanto un diversivo per attutire gli altri rumori reali dell’ambiente reale, così sciaguratamente reale, e Coltrane e Ellington insistono ancora anche quando apro un altro video, spezzone di documentario su quell’altro ragazzo-scimmia del jazz di Charlie Mingus, che viene sfrattato dal suo appartamento a New York.

Ho un attacco di acidità per il brodo che ho ingollato e di leccornie che mi hanno infilato dentro per rendermi appetibile e giocare all’eucarestia già scritta nel giorno in cui il salvatore è appena nato, non ha fatto in tempo a frignare per il freddo e il dolore e la separazione dal grembo che già lo vogliono crocifiggere, e pervaso il mio cervello da queste odi alla fragilità e alla disintegrazione, mi si restringe anche il cazzo al pensiero delle giganti palle nere di quel Mingus perennemente iracondo, fino in fondo incazzato nero mica come me, lo sfrattano e bistrattano certo ma faceva comunque paura a tutti con quel corpaccione e quella bile infiammabile, e vedendomi certamente avrebbe riso, gigante di statura e di spirito come mi sono apparsi i mostri del cineforum, e mi addolora che uno spirito grande e pieno di musica come il suo assomigliasse più a quella stirpe, di gente reale con una mente reale, che alla mia, di cui sono ora il solo rappresentante, nella stanza, nel momento miserabile in cui ho scritto dei messaggi e mi rifiuto di rispondere alle conseguenze.


Ho scritto a Mari soltanto: “voglio ammazzarmi”, e ho aspettato che visualizzasse il messaggio per eliminarlo, e lei brutta ritardata che mi risponde pure e continua a rispondermi e chiedermi spiegazioni ma io ho ormai nascosto la mano dopo il lancio del proverbiale sasso, io volevo solo farle del male col mio male -che male c’è?!-, mica volevo starle a spiegare l’interezza del mio stato d’animo e del mio male fisico che cristosanto se non vomito tutta l’anima dentro al cesso al piano di sopra questo natale allora sì che mi qualificherò come il definitivo sopravvissuto, in barba a tutte le inefficacie di maglioni e corazze e musica immaginaria protettiva, che è già diventata un ronzio uniforme ora che i neuroni non riescono più a raccogliere le reminiscenze delle note incise ed emettono soltanto un lineare ronzio quasi assordante, e allora chiudo gli occhi fingendomi morto dormiente sulla poltrona, e tremo all’altezza intermedia e indefinita tra lo stomaco pieno all’eccesso e la cavità vuota della cassa toracica in cui manca il respiro, sento battiti accelerare da più parti del mio corpo nel terrore che nemmeno questa mia tanatosi fermerà un ipotetico passante dallo scuotermi un braccio e rimproverarmi qualcosa.

Ronzio ronzio ronzio voglio ascoltare solo ronzio e allora mi addormento ed ecco che anche in questo natale di anni fa, per sfuggire le conversazioni telematiche in cui mi viene chiesto di confessare il mio sentire, per sfuggire il caos festivo e anche la sua contraria quiete adiacente che mi rende titani i pensieri, mi immergo occhi chiusi in uno spazio cieco, incubo prendimi, fammi vedere gli squali e il mal di mare che ancora non ho visto ma che stanno scritti nel mio destino come il momento in cui mi tireranno il collo.


.


Segue quella che io definisco la mia visione più assurda e irrealistica. E a nulla vi aiuterà il vostro intuito che vi suggerisce che tale clausola sia un depistaggio. Poiché un depistaggio del depistaggio potrebbe annidarsi in ogni grafema. Ma vi accorgerete che non mento. Poiché i fatti descritti non lasciano spazio a dubbi circa la loro impossibilità.


(ora torniamo a me. Tornate a eclissarvi nella nonesistenza, ascoltatori)


Buon anno a tutti! Alla fine suppongo di esser sceso a fare una seconda spesa a un certo punto, perché questi sono pancarrè spalmati di lenticchie informi e distillati di erbe alpine piuttosto solidi e densi rispettivamente, o forse semplicemente me li sono portati come la merenda del rientro a scuola nel portapranzo fin dentro il deliquio di cui adesso faccio parte -sono in altre parole cibarie di visione non meno che quanto mi circonda e sta per accadere, non meno irreali sarebbero le voci che sento spargersi dai balconi, dalla rituale pacchianata della Rai sparata a tutto volume o da quelli che si sono sporti sulle ringhiere con le stelle filanti in mano a cantare il conto alla rovescia, come se un anno nuovo che arriva fosse da accogliere con gran clamare invece che con una pubblica esecuzione, che poi darebbe sfogo alle stesse loro necessità cinetiche e urlatorie. Credo di aver raccolto la mia cena dal pavimento di un supermercato sfondato, in un’altra finzione o in una vita precedente. Fatto sta che l’ho scritto: buon anno!, perfino a lei, perfino con il cazzo di punto esclamativo che mi fa sembrare un cretino o forse sono il solo a pensarlo e nessunissimo al mondo ci ha mai fatto caso, neppure alla mia parsimonia di emoji, che in sostanza mi qualifica come identico a chi ne fa smodato uso.

Che tristezza.

E a questa mia tristezza incarnata lei risponde col messaggiare cordiale e sereno di una persona che ha un rapporto neutralizzato dal trascorrere di tempo e spazio, quello tipico di un animo che un tempo sussultava nel leggere un certo nome sulla notifica e che adesso leggendolo non tentenna affatto, non lo pensa che per il breve tempo dell’interazione, dopo la quale è capace di ritornare ai fatti propri senza più dedicargli una riflessione, non fino alla prossima -se ci sarà- casuale interazione, un rapporto normale e calmo -e io grido, aaah, quanto grido il nome di lei che mi fa questo! Che mi relega a così poca sostanza! Ma è ovvio che non ci diciamo tutto questo e lei non mi scrive che sa benissimo cosa mi passa per la testa, e se non lo fa non è per “non infierire” ma perché, datasi la natura della nostra distanza, che senso avrebbe?


E con la stessa placidità, di una che non ha affatto paura che il tempo le venga sottratto e mai più restituito, si spinge perfino dopo gli auguri scambiati a farmi qualche domanda di circostanza dovuta al ètantochenoncisisente, come va come non va, mah io niente le dico, capodanno solitario perché mi sono beccato l’influenza (mento), ah mi dispiace dice lei, e tu invece?, dico io, così vengo a sapere che sta festeggiando a casa di amici, su al nord, come diavolo sarebbe il nord?, chiedo io, così vengo a sapere che lei vive al nord delle mura, e che la grande città dei nostri studi e domicili non è per lei che la lontana sagoma di una fortezza, opacamente illuminata, fluttuante sulla linea ultima della notte, e che attorno all’aria fredda del suo nuovo anno vede il luccicare lontano di paesini disposti sui colli, masse appena più scure del cielo, sulle cui salite poter immaginare interminati boschi e strade piene di tornanti.

Ma come, dico io, e da quando? Eh già da un po’, mi spiega, sono partita, a bordo di una tartaruga. Nuotando senza sforzo nelle terre come nelle acque, è infine approdata nella provincia settentrionale. Si dice che una ondina vivesse nel lago ammirabile dal belvedere vicino al grande parcheggio del centro. Ora simili leggende non possono sopravvivere: l’ondina, emergendo dai gelidi flutti, si affaccerebbe sulle villette sorvegliate da suv e rottweiler, vedrebbe tra i castagni e i faggi della riva la trafficata salita che va all’Esselunga, e il lungolago stipato di taverne e agriturismi marchiati dal presidio slowfood, assaltati costantemente da turisti che vi arrivano a bordo di imponenti vetture, assimilabili nell’incedere gravoso, soltanto con un intenzionato sforzo da parte dell'ondina, agli uri e gli elefanti antichi che ella talvolta vedeva pascolare nel tempo dei colli perlopiù disabitati. In compenso adesso ci abito io: la tartaruga, la stessa persona che mi ha presentato gli amici da cui stiamo ora, si è fermata al centro del lago. Sul suo guscio, ho la mia palafitta. A ogni mio risveglio m’affaccio sulle increspature cristalline, trasmettono un ondeggiare pacificatore fino ai miei piedi scalzi sulle scaglie del carapace. Sto bene. Il lavoro non è granché. Ma si attendono opportunità migliori. Già è tanto averci una solida palafitta, anche se il mal di mare a volte si fa sentire -sembra fermo, ma il centro di un lago è imprevedibile, così come è noto che in molti vi spariscano dentro, e che mai si deve nuotare al largo e scoprire le correnti e le profondità del camino vulcanico sottostante.

Comunque dai, mi ha fatto piacere risentirti, e rimettiti, mi raccomando, ciao ciao e la conversazione finisce là senza far rumore come era iniziata, pochi minuti dopo il capodanno, che uno potrebbe pensare: che carina Mari che in un momento così mi dedica il suo tempo, tra tutti gli auguri che starà ricevendo proprio con me si mette a chiacchierare del più e del meno, ma in realtà è chiaro che non c’è niente di tutto questo dietro, che è stato un incrocio fortuito di circostanze a renderlo possibile, che sono sempre incroci fortuiti e lanci di monete del caos a uccidere o innaffiare gli incontri, e allora sapete che c’è, andatevene affanculo un po’ tutti quanti, pure Mattarella che fa il discorso, no anzi lui no, come puoi volergli male a lui, lui sì che mette tutti d’accordo. Anche se, di cosa mette tutti d’accordo, questa sera non dovrebbe fregarmi un bel cazzo incancrenito.


E brava Mari che si è “sistemata”! E auguri a tutti, gli empi e gli umili della terra! Buon anno! Buon anno un cazzo buon anno! All’inferno! Dio quanto posso essere cretino! Ancora quella smorfia dopo che invio un messaggio! Quell’euforia del sentirmi per un istante impulsivo e scatenato, manco avessi scatenato le bombe incendiarie contro l’alveare e il capitale e tutte le vespe dei banchieri e della genteprebene di cui io sarei l’uomonero e la postale che per questa mia infrazione, per quest’azioncina che ho commesso di scrivere a una certa persona potrà sempre incriminarmi, potrà sempre dirmi: lo hai fatto, è un’azione irreversibile, sta scritto qua guarda, tu quel giorno hai fatto proprio questo, e come pensi di giustificarti? E mentre viene a farmi gli auguri di buon anno una fresca scarica di diarrea, mi vedo riflesso nello specchio, la mia faccia che ghigna di disagio sotto i capelli che mi si allungano neri e untuosi in tutte le direzioni, la pancia nuda e raffreddata che mi sembra un giorno obesa per gonfiore alcolista e l’altro denutrita fino alle ossa, e in un circolo vizioso mi fanno dare adito a tic di vergogna i vergognosi tic del mio viso, e sarà per me furore e digrignare di denti, tutta la notte sul cesso e poi sul letto e poi sul pavimento, rannicchiato in posizione fetale, dentro la coperta bianca che mi sono trascinato cadendo.


.


Oh merda, ecco fatto: sono di nuovo a casa dei parenti in quell’abominevole sera natalizia! Ma aspetta: sono stato già scoperto? Ci scommetto di sì a giudicare dal prurito in gola e il rossore di orecchie, scommetto che qualcuno mi ha trovato qua da solo che non facevo un cazzo e me ne ha dette quattro, oh ma ancora non ti dai da fare, non solo mangi a scrocco ma pure quando c’è da giocare ci cachi sulla festa a noialtri con ‘sto muso decadentista, ma le palle ce le hai là sotto sì o no (e quando è così di solito le palle me le toccano davvero e con massima serietà, il gesto è repentino e abile, tramandato per via patrilineare), mah senti qua di palle proprio non ce n’è, li conosco a quelli come te sai?, e tante altre carissime cose che si sa, a natale siamo tutti più buoni.

Però è passata.

Credo.

deduco che mi è servito a poco fingere di dormire.

E quanto alla musica: non riesco a ricordarmi ormai una singola nota incisa da John e Duke, e neanche da John e Paul o John e Yoko, se è per questo. Solo, nella mia testa, la mia faccia intimidita mentre cerca di ricordare qualcosa, di pensare a qualcos’altro, e pensandomi mentre penso vanifico ogni sforzo di pensare ed eccoci qua, non posso far altro che il corpo che sprofonda nella poltrona, che almeno questo è piacevole.


Senonché, mannaggia al bue all’asinello e alla mangiatoia tutta, un bambino in pigiama entra in questa stanza e senza dire niente né degnarmi di uno sguardo si mette a sedere nell’altra poltrona.

E io adesso che gli dico?

Non so mai come si fa con questi cosi, se sia giusta la mia paura di rovinarli, se sia rivelatrice di un qualche soppresso istinto paterno, o se invece mi faccio troppi problemi e dovrei prenderci gusto all’eventualità di rovinarli, che forse forse è questo squilibrio di potere che permette a quelli che ci sanno fare di saperci fare.

Mah, che vuoi che ne sappia, bambinetto mio. Va a finire che sono solo un subdotato come te, col tuo cervello infantile. Così me ne sto in silenzio e basta, cercando di ignorare il fatto che quelli della sua razza sanno odorare la mia paura. Per fortuna non mi guarda. Sta seduto sulla poltrona con lo schienale rivolto all’albero e il presepe, così che a volte fa certi contorcimenti ginnici mai visti per poterli guardare (che cazzo ci avrai da ammirarli così ogni volta??) per qualche secondo e poi rigirarsi verso il tavolino e cioè in mia direzione, così, mentre mangia una roba che si è apparecchiato sullo stesso tavolino del cognac, tra una cucchiaiata e l’altra a guardare come cambiano le lucine abbarbicate ai rami di plastica o i flutti elettrici della fontanella dove si abbeverano le pecorelle del presepio.

Si asciuga lo zucchero impiastricciato alle labbra col dorso della mano e appoggia il bicchiere. Vedo che è pieno di un gelato gusto stelle e color blunotte, quasi nero -questo sbafatore seriale si mangia una merenda cosmica. Comincia a raggelarmi che quasi impazzisco la sua masticazione quando sgranocchia manco fossero gli zuccheri convessi dei pandistelle cucchiaiate di astri e pianeti. Poi prende un sorso di cognac per fare il ruttino. Al secondo sorso è diventato cocacola.

Allora mi ritorna il mio falso coraggio bastardo, che non so come chiamare.

Gli dico, sperando senza ragione logica di farlo andare via, che bevendosela sta finanziando il bombardamento di tanti bambini come lui, tutti che sarebbero felicissimi di indossare il suo stesso bel pigiamino con l’iceberg e il mar artico, e che sicuramente ci sarà tra le macerie qualche straccio che per loro ha analogo significato, un analogo abbraccio caldo costante, da portare sempre con sé, per proteggersi, da tutto, visto che tutto è morte piovuta dal cielo.

Il bambino mi guarda per la prima volta. Gli occhi gonfi, inspira profondamente, aspettando che la fitta in fronte scoccata dalla febbre passi. Poi mi risponde:


-lo so. Ma non è colpa mia. Sono gli adulti che hanno fatto le cose intorno a me sempre piene di cocacola. Io non posso bombardare nessuno né impedire che altri vengano bombardati né impedire che la cocacola venga acquistata praticamente senza interruzione, però sì smetterò di berla se ti fa piacere, no anzi, perché smettere fa piacere a me.


E allora merda, secondo la mia logica adesso sono io che me ne dovrei andare. E che devo fare? Annuisco, mentre quello manco mi guarda più e si finisce il gelato. Mi viene da pensare che forse ero infinitamente più intelligente da bambino, quando se per qualche motivo non ero protetto dal mondo esterno la colpa era di tutto meno che la mia e forse sottosotto lo sapevo, forse non con la testa, forse manco col cuore, forse con quel corpo rotondo avvolto nel pile, coi suoi grossi respiri di diaframma e sonori trangugiamenti di materia astrale. Poi però lo guardo meglio in faccia: con quell’espressione, è certamente un cretino.

Sto seduto in poltrona davanti al fuoco e come sempre non so che fare in queste circostanze. Ho l’aspetto di uno con problemi tanto evidenti quanto poco definibili quando, per ammirare vacuamente le scintille, avvicino la faccia così tanto al paraschizzi da scottarmi le guance sul metallo.


.


Hey amico mio, chi non muore si rivede. A parlare è il serpentone nudo come un verme, lo incontrai con un carrello della spesa in un parcheggio lurido, ma adesso sembra averne fatta di strada. Accogliendomi con una frase fatta, non vacilla, ne assapora l’ironia, mi sorride, sincero, vedendomi: non posso non sorridergli anch’io.

Ci siamo incontrati da qualche parte ai margini di quella che si direbbe un’autostrada, non saprei con precisione. E poi è tutto buio. Sarà tra l’una e le tre di notte, non esattamente l’ora in cui mi ambiento, non ci vedo niente. Lui dice che starà qua fino alle undici del mattino, ma che non appena principieranno i primi biancori dell’alba, lui già non sarà più visibile, come fosse già andato -e sarà invece nascosto, camuffato perfettamente nell’ambiente circostante, nella scarsa vegetazione, nelle tane segrete che adornano i margini disabitati tra l’asfalto e le sterpaglie. Sarà, amico mio, sarà come dici tu, gli dico, un po’ scettico, ma anche un po’ ingiusto nel dubitare questo mio amico.

Comunque, gli chiedo, che ci fai qui? Un’altra delle tue imprese?

Mi spiega che si è dato al furto. Qui vicino alla strada c’è la statua di un uomo verde.

Ah l’uomo verde, quelli tipo Bomarzo. Sì esatto bravo.

Sicché sei arrivato al punto che vuoi rubare una statua?, gli chiedo, mezzo incredulo.

No non la statua amico mio, e gli scappa una risatina divertita, così gioconda che vorrei abbracciarmela tutta quella sua schifosa nudità flaccida e piangergli nelle pieghe delle squame, e urlargli perché cazzo sei sparito per tutto questo tempo, perché te ne sei andato e non mi hai portato con te??

Però non lo faccio.

Anche perché fa abbastanza schifo la sua fisionomia e si direbbe molto sgradevole il contatto con le sue appendici bulbose e vive, sembra un organo scoperto, del colore della mia action figure di Majin Buu nella sua ultima trasformazione quando diventa un ragazzino mingherlino, Capretto Buu era in realtà un Serpente Buu gente!, ma basta così, giuro di non scrivere mai più in queste mie righe confessionali un solo paragone tra una figura da me intravista e un personaggio d’altre finzioni o altre realtà.


Mi spiega che non gli interessa appropriarsi della statua per il suo valore commerciale. No, lui anela a qualcosa di infinitamente superiore e irraggiungibile, lui, anche quando sembra pacificato e letargico, coi pensieri che strisciano in maniera semplice attraverso materie complesse, è in realtà tutto compreso dentro questo insolubile bramare, che fu, a suo dire, la sua rovina, perché mai avrebbe potuto trovare qualcosa di degno.

Tranne una cosa, il suo ultimo colpo: la vita dell’uomo verde che riposa eterno e immobile al lato della vena d’asfalto che attraversa verticale come il massiccio appenninico l’intera penisola -e non importa che si spezzi e s'interrompa e diventi altre strade, perché tutte le strade, tutte le linee che strisciano nel nostro deserto d’entroterra non sono che la stessa linea, lui ci potrebbe giurare, lui lo sa con la sua prescienza scaturita dagli occhi fissi che non dormono mai, dallo sguardo che, specchiandosi nella serpentinità di un manto stradale, ipnotizza se stesso, e s’incanta, e solo per questo incanto riesce a vivere -o, perlomeno, sarebbe dovuto riuscire.


Come sarebbe?, dico io esplodendo, che non ci sto capendo più niente: vuoi rubare la vita dell’uomo verde?

Voglio rubare la vita dell’uomo verde che sta incarnata nella foglia, custodita dalla sua lingua.

E dicendomelo, la malinconia lo riempie e fuoriesce, e piange due lacrime, poi una terza, poi basta, e stavolta nemmeno io mi trattengo, a dirla tutta.


Mi sa che piangiamo tutta la notte.

O almeno per l’interezza di quella notte mostruosa e dilatata all’interno di quell’intervallo orario che è soltanto una piccola parte in realtà della notte intera, che contiene altre notti, ivi compresa quella in cui il mio amico compirà la sua impresa. E capisco bene che è un temporeggiare tra le lacrime il suo, quando mi chiede se ho avuto notizie degli amici, e come stanno, e salutameli tanto tanto, senz’altro dico io ben sapendo che non li rivedrò mai più, e lui sorride sapendo cosa ho pensato ma apprezzando infinitamente la delicatezza che io riservo soltanto a lui, quella di non pronunciare nella maniera più disfunzionale possibile ciò che porto in animo.


Si avvicina al limite laterale dell’asfalto bruscamente interrotto, dall’altra parte sono la terra incolta, il rudere delle civette, i corpi e le immondizie sepolte sotto il suolo da invisibili insonni mafie laboriose del buio.

Sento il rantolo prodotto dalla sua lingua, mulinante in rivoluzione e rotazione che captano: sta cercando la statua, e con essa la lingua di lei -s’incontreranno in un bacio e una ne uscirà sottratta del principio vitale, perché l’altra era velenosa, perché aveva dentro di sé il desiderio di rubare.

Trova la statua: lo sento da come il rantolo cambia, facendosi eccitato, quasi un’euforia finale di fiamma che ha paura di spegnersi.


 -Pollo, non giudicarmi.-, mi dice, infine, singhiozzando. -pensa questo: forse è proprio questa cosa, che è mancata a voi… nelle vostre giornate, dico. Per questo siete stati tanto male quando poi per un po’ ci siamo persi di vista…


-la vita, dici?-, gli dico con un mezzo rimprovero che non riesco a mascherare, sentendomi una merda perché nessuno si dovrebbe mai rivolgere a questo ragazzo con la più minuscola particella di asprezza. Ma non è lui che critico: faccio cenno nel buio alla sua lingua e zampetta atrofizzata che cercano di sottrarre la foglia alla lingua della statua. È il gesto, non la persona.


-beh…- tentenna lui, pensieroso. -non la vita. Ma almeno questa brama di rubarla. Questa… goduria cosmica!-, esclama infine e strappa la foglia dalla lingua della statua dormiente, non più trattenendo l’orgasmo, sprigionando dalle fauci un clamore di sibili estasiati, pieni di angosciosi impliciti sessuali che per un momento mi mettono profondamente a disagio. Non c’è tempo però, c’è da scappare a gambe levate adesso, come già un’altra volta, e salutarsi di fretta mentre si fugge, senza nemmeno riconoscersi nel buio profondo di questo addio strano e fatidico in cui accadono cose troppo grosse perché io possa indovinarne enigmi e soluzioni nel mio rimuginare a posteriori, anzi, non c’è nemmeno un “a posteriori”: scappa coglione, corri più che puoi!

Saluto lui che è strisciato già nell’invisibilità dei paraggi, nascosto e introvabile e come in un altro mondo che col mio non ha più ponti, perciò sul mio ponte, sulla mia autostrada vuota e buia corro a perdifiato, lontano dal delitto e dalle cose maledette che mi ha costretto a prendere in esame, esiste ora per me soltanto lo spazio rettilineo: davanti a me, infinito nell’oscurità, il flusso sanguigno della terra che abito, gli imponderabili caselli autostradali dormienti in una notte misteriosa in cui nessuno s’è messo in viaggio, morti e immobili come dopo la scomparsa dell’umanità; i cadaveri degli animali investiti, nella notte il fetore marcescente è seppellito dal friccico umido dell’aria notturna e dalle sporadiche grasse nuvole di concime sublimate dal terriccio dei campi, e poi tratti di strada in cui non è stato distrutto nessun bosco, in cui l’asfalto si getta come sempre imperterrito e diritto attraverso un terreno spoglio che pare esser stato sin dall’inizio dei tempi una cava sterile e priva di vita, e poi di nuovo una timida vegetazione, e poi di nuovo campi e di nuovo boschi deturpati e di nuovo un’uniformità collinare, che vedrò quando starò ancora correndo e ammalato di un sudore che mi si rinfila nei pori dopo esserne uscito e mi ghiaccia le ossa, al primo albeggiare vedrò i rilievi uguali del nord e del sud cogli stessi recinti abbandonati e cavalli bradi e autogrill e incarti oleosi di tramezzini gettati da finestrini e cascine disperse nelle terre di nessuno, e chissà se tutte queste cose assomiglieranno a me quando il caldo del mezzogiorno le ammazzerà e così sofferenti le osserverò mentre procederò nella mia corsa che non si arresterà mai.

E quando saranno il pomeriggio e la sera del giorno dopo, io dove sarò arrivato? Non esiste una risposta e so che avrò da correre finché ci sarà autostrada, e non so questo cosa significhi, per quanto a lungo ancora, e non so se al mattino riprenderanno a scorrere i veicoli e sarò in pericolo di far la stessa fine dei grumi marcescenti di sangue e pelliccia scostati ai lati della strada, o se rimarrà tutto vuoto lo spazio mentre finché ho fiato io scappo, non si sa dove ma scappo ed espettoro disciolte nel fiatone tutte le cose che mi si erano incastrate dentro, e le sostituisco con altre, che mi salgono dalle caviglie, sanguinanti, graffiate, slogate a ogni passo.


.


Mi faccio un bagno e prendo un’aspirina. Mi telefona Croce. Sarebbe veramente da stronzi chiedersi, in un sogno, come faccia ad adoperare un apparecchio telefonico con gli zoccoli. Quindi non mi metto a questionare nulla di ciò che dice né di ciò che implica la sua voce, il fatto che la stia ascoltando. Mi dice che starà via per un po’, forse per sempre, dipende da come girano le cose. Mi dice di non preoccuparmi, che ha sistemato tutto quello che c’era da sistemare e che io non soffrirò mai alcuna ripercussione per il suo allontanamento né per il caso d’averlo conosciuto e avuto come coinquilino per un certo tempo. Ha una voce profonda e calma, raddolcita. Ma Croce è muto: dovrei pensare a uno scherzo, a un impostore.


-va bene, ho capito. Non ti preoccupare.-, dico solo questo, lo saluto, con affetto, e riaggancio. Sto tre ore buone a fissare il pavimento, sconcertato dal dilagante e vuoto nonsenso di un sogno del genere.


.


E con questo dico basta. Ci si vede alla prossima, cioè sempre, perché ci sto prendendo un gusto che ha qualcosa di malsano, scrivere diari a profusione e prenderci gusto come a correre all’infinito attraverso uno stradone che squarcia la nazione, e proprio perché è gusto malsano mi fa stare meglio. Ho forse appena risolto tutti i problemi della mia vita? Sì l’ho fatto.

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