le isole di Brian Wilson (ep.7)
- Milky
- 28 set 2024
- Tempo di lettura: 27 min
Aggiornamento: 11 ott 2024
Il cranio pieno di metafore e la fatica di farle star buone, rappacificare tra loro, diminuirne il numero.
Trascorse su una sedia ore che sono scappate difilate e hanno allungato il brodo del pomeriggio, il sole che atterra obliquo sembra essersi riacceso, nonostante siano le sei passate, nonostante il colore che vira a un istante di grasso grasso miele a precedere appena i più precoci rossori, i raggi si manifestano aggressivi, come fossero stati surriscaldati, pelle presa d’assalto. Faceva troppo fresco in casa. Ed era troppo concentrata su altro, su altri linguaggi che quelli del corpo rilassato, per potersene accorgere. Abituata male. Nell’uno e nell’altro aspetto. Dimenticare la differenza ancestrale e assurda tra il dentro e il fuori. Dentro: al sicuro, fuori: dimora delle pantere e il gelo della notte e il terrore caldo del giorno.
Si rimprovera, ma il rimprovero ha durata irrisoria e le lascia quel margine di soddisfazione di sé necessaria e sufficiente ad andare avanti, cioè farsi un passo alla volta l’ultima rampa di scale, cioè il portone, barre verticali bronzee che si spalancano davanti all’asfalto e il marciapiede otturato da cofani abbacinanti, cioè la cecità momentanea che segue i riverberi, e le iridi da capogiro appese ai margini umidi degli occhi, cioè l’altra parte della strada, e l’altra ancora, e si erge ora, impossibile da ignorare, a bloccare altri immaginabili spazi dell’orizzonte, un complesso cementifero a più piani e incastri di se stesso dentro se stesso, una grossa neoformazione grigia e formicolante cresciuta al centro d’un intreccio di sampietrini, e il sole che, pur morente, o è stato riscaldato da un’ignota forza cosmica, o è rimasto incastrato tra due ore di raccordo tra lo zenit e la discesa.
L’ora di quando lei che passeggia sotto i suoi sfoghi bollenti è salita su per un salto un saluto una telefonata che le ha anticipato sentidobbiamoparlare, su alla vecchia casa dell’infanzia cogli adesivi delle riviste corriinedicola che comprava dopo averle viste esposte, melliflue e serotoniniche, negli stretti scaffali di edicole estinte, e ancora attaccati a quello ch’era stato il suo vecchio armadio stanno tutti gli adesivi rosacheèilcoloredellefemmine, e attaccate al frigorifero le calamite di Assisi coi monasteri e i cinghiali prese alla gita di quinta elementare -cianfrusaglie dal profumo preconfezionato e rassicurante che sono sempre le prime cose che pensa e odora quando le torna in mente quella casa.
Il sole è rimasto imprigionato nel momento prima che rientrasse là in quel reame, in mezzo a quegli oggetti e alle parole che ora non sono che un balbettio confuso nelle sinapsi logore di lunga ancora fresca conversazione, ah ma non c’è dubbio che in un successivo momento di freddezza, da quel nubifragio lei saprà estrarre quanto deve, in una sessione di chirurgia maniacale del contenuto verbale ed emotivo, sì sì si metterà ferma e concentrata, anzi, quasi inconsapevolmente, quasi automaticamente, a isolare gli interi periodi e tutti gli intenti sottostanti, verranno riesumati in autopsia e allora sì che saprà far combaciare tra loro tutti i pezzi anche distanziati, e far apparire il disegno che ci sta sotto, definitivo, e rinnovare così lo scazzo.
Il sole è rimasto incastrato come le cose che, invece, tra sputi e fiato che a forza di parlare ed esternare e confessarsi sembrano così tanto sprecati in squallida quantità, non sono state dette, un prurito maledetto in gola, una sete, un mezzogiorno rimasto confitto come una spina nel fianco vulnerabile del cielo.
Le tempie pulsano. Ricorda di quando le sentiva pulsare in un modo simile ma anche diverso su quel divano, lo stesso che, mentre mugugnando qualcosa di sconfortato in risposta abbassava lo sguardo dagli occhi di sua madre seduta dall’altra parte del tavolo, le invadeva perifericamente e quasi in guisa di intrusivo miraggio la visione col suo panneggio floreale: inerte mobilio di sfondo che la guarda, che la accoglie, in casa vecchia, è anch’esso un genitore che si passa a trovare dopo essersene separati, uno più facilmente gestibile, che sta zitto.
Ma forse a modo suo giudica ed è giudicato anche lui.
Eppure è comodo, morbido, come sempre, anche solo a guardarlo.
Da qui il nostalgico affetto per essere rannicchiata stretta stretta al suo bracciolo d’angolo nelle pieghe d’un vecchio plaid, le febbri gravi, almeno una all’anno, la nostalgia pure per il fastidio dentro la pelle e dentro al cranio, per i mal di testa: ora invece sono nell’aria, diluiti e in rinnovata forma, come l’avessero seguita, dalla casa da cui è uscita, dal portone a barre bronzee verticali, come uno sguardo dal balcone che indugia carico d’apprensione gravosa sulla tua schiena quando te ne vai.
C’è una febbre nell’aria, e qui, sul marciapiede, e ovunque, in questo spazio, nulla si muove come si muoverebbero le cose vive, e una figura che s’avvicina e gesticola e interpella sembra piuttosto come l’ombra proiettata da un fascio d’arbusti, spinosi in rude difesa dall’arsura, e che non si può esser certi che ci siano davvero, che siano reali lì aggrappati a quella roccia, o se la roccia stessa sia reale.
L’arbusto reale parla.
E allora si capisce che non è un arbusto, ma una creatura senziente, che pareva ibridarsi a una roccia per semplice mimesi del suo dorso avvolto in una maglietta sudatissima, con una densa macchia fradicia di forma continentale nel centro, e da quel dorso sguscia una testa, un collo nero lungo e lucido, e la testa viva, la cerca, domandando, cerca proprio lei, con occhi sporgenti, puri, di chi non ha ricevuto nessuna risposta, e ancora chiede.
Mari ascolta, Mari è così tanto tanto brava che si ritrova nell’animo buono da erbivoro e nella testa reattiva da carnivoro una pazienza dei santi, ma i santi pure loro hanno dato forma alle loro segrete sfuriate di tanto in tanto, mica no, che anzi lo sa pure il più sprovveduto dei sostenitori del sensocomune che le sfuriate di quelli che s’ingoiano tutto indistintamente come sprofondando il grugno nel fango sono proprio le più terrificanti, e allora Mari sente che quasi quasi ci si sta avvicinando a quel punto di rottura -questo è quello che sente lei, il quale, le hanno insegnato, con insegnamenti silenziosi e insistiti nonché endovenosi, è sempre deficitario al cospetto di ciò che sentono gli altri. La più naturale delle subordinazioni.
Ma allora, cos’è che sentirebbero gli altri?, gli altri che ha abbandonato ghostato risposto male o commesso altre di quelle numerose azioni che, filtrate dagli strani poteri malevoli insiti nel parlare quotidiano, paiono trasformarsi in crimini imperdonabili e che invece sono nulla di fronte all’immenso e al nulla del tutto, e dell’immenso e nulla del tutto Mari è una che ha sentito anche fin troppo parlare, essendosi sempre scelta o avendo forse attratto (perché forse segretamente anche lei è così anche se spera proprio di non esserlo) amicizie che parlavano di questo, ossessionati borghesi del sublime, smarriti annoiati idolatri del gusto e del riscatto dall’irrimediabile capitombolo del significato attraverso i nostri giorni.
E quindi? Che cosa se ne può concludere? Che insomma lei, stando a come l’hanno vista e giudicata e criticata gli altri, quel punto di rottura in cui ha esagerato, macchiando per sempre la sua bonarietà, l’ha da un pezzo oltrepassato e incenerito tanta era la velocità del suo slancio nel superarlo senza stare a guardare nient’altro del paesaggio che andava mutando e distruggendosi?
Quel punto cioè di trasformazione in qualcosa che non vive più preoccupandosi di compiacere né gli altri né il proprio senso o missione di essere qualcosa che non arreca danno.
La sua sfuriata, il suo spartiacque in cui ha perso la pazienza dei santi e piantato un bel casino, magari c’è già stato?
E ricorda che al catechismo o nelle ore di religione a scuola -mai saltate- portavano i bambini a considerare sempre lo stesso esempio, quando di volta in volta il tipico ragazzaccio che stava lì e non ci voleva stare e ci teneva a farlo sapere con le risatine e gli interventi iconoclasti muoveva l’obiezione che a suo modo di vedere avrebbe dovuto far sfigurare l’intera figura del Cristo, sostenendo cioè che un personaggio del genere così tanto caroebuono e paceeamore non sarebbe potuto mai esistere poiché la vita è amaro deserto e marmorto di violenza, e insomma le suore e personale catecumenale e insegnanti di religione e così via rispondevano sempre con l’esempio di Gesù che ai mercanti del tempio gliene ha dette quattro, e poi pugni e calci e una furia che te lo faccio vedere io se il Nuovo Testamento non ha anche lui i suoi episodi efferati da far invidia alle pestilenze e carneficine del Vecchio, il Cristo furibondo sbava, porca troia a scorrermi nelle vene è sempre quel dispotico Geova del deserto con la sua intrinseca idrofobia da sciacallo, cosa credi?
E insomma Mari forse forse avrebbe fatto bene, in quell’ora serale che prima o poi dovrebbe accorgersi di non essere un postprandiale ronzio di canicola, a ritornare sui propri passi e affacciarsi nei portoncini aperti delle chiese e dei templi, nella frescura vagamente rischiarata da candele elettrificate che s’accendono con pochi centesimi, banconi di legno sussurranti di cantilene, vecchine del crepuscolo incipiente. Affacciarsi sulla scena per assicurarsi di non aver spaccato a calci, in un sonnambulismo già dimenticato, nessun oggetto di valore; che, in definitiva, quello che lei percepiva come un proprio cambiamento in corso (“mi sto prendendo dei sacrosantissimi spazi”) non avesse disseminato nelle esistenze a lei sfortunatamente vicine un senso di minaccia, di non ritorno, di una persona che ormai è cambiata e questo spaventa sempre qualcuno, più di qualcuno, gli altri e forse lei più di tutti, una paura che fa strage perché è un’epidemia emozionale…
(va detto comunque che Mari trova molto più violento e a dir poco terribile un altro episodio dei vangeli. Ricorda la stretta al cuore priva di sbocco che da piccola avvertiva tra le costole, tranquilla sarà un dolore intercostale, era la risposta a ogni avvertenza di male, ma in realtà era lei che pensava a quei poveri porci precipitati da una scogliera, col cervello pieno di demoni, e sentiva tanta empatia per le bestie, o forse per l’annegamento, o forse per la coscienza alterata dalla presenza parassitaria dei mostri, forse per l’esser posseduti e così condotti al suicidio, forse per la caduta, con l’aria che ti sale veloce dentro il respiro mozzato, una verticale vertigine attraverso le narici e pur sentendoti te stesso, con la coscienza spaurita d’un grave, dentro te stesso senti che vai perdendoti, disintegrato nella picchiata… forse per un insieme di tutte le cose. Era una situazione che, presa in ogni suo aspetto, non poteva non meritare la sua considerazione. E anche se un suo istinto gregario, rimasto sempre sviluppato soltanto a metà così che non le faceva mai concludere per bene le questioni con il prossimo suo, le suggeriva di fare il contrario, cioè di domare tali pensieri, una parte di sé non si capacitava di come tutti gli altri non nutrissero le stesse preoccupazioni.)
Riesce a capire intanto che il ragazzo si chiama Wa Log e che parla un creolo suo personale, evolutosi nell’incontro tra gli irregolari e geniali pensieri suoi e le asperità di un mondo circostante che perlopiù non se lo incula. E Mari ha la sensazione che i sorrisi più grossi che di tanto in tanto sembrano voler fuggire dalla bocca di Wa Log come smeraldini pesci vispi da una rete siano dovuti alla bellezza della lingua che trova finalmente qualcuno che l’ascolta, più che per la gentilezza dell’ascoltatrice, dello sforzo di capire di cui essa senza affettazione dà mostra, della forse istintiva simpatia o avvenenza o misteriosa attrazione che tanto per cominciare gli ha reso pensabile l’approccio. Mari annuisce: non perché capisca, ma perché la prima ragione, la ragione reale di questi bei sorrisi, le sembra infinitamente più ammirevole di quell’altra che poteva essere.
(Wa Log sarà un puro? Sputo su questa idea: conduce sempre alla delusione. Non avrebbe capito, no, nemmeno lui, nemmeno lui avrebbe nutrito le stesse mie preoccupazioni, al catechismo, nel campetto dell’oratorio, nella strada, a scuola, e, se solo mi avesse capita, in camera mia, tra le bambole e i giocattoli che gli avrei mostrato a suggello di un rapporto speciale, di persone rarissime che possono pure invitarsi a casa e non sentire imbarazzo per i reciproci spazi e famiglie e impresentabili lati quotidiani di sé, un suggello di amici che senza dichiararlo si professano tali poiché entrambi commossi dall’assassinio delle creature di dio, e dalla possibilità del diavolo…)
Non ce la fa proprio oggi Mari a fermare il treno di pensieri in corsa oltre il bordo della scogliera eh.
Chissà chi sono i demoni che le si sono ficcati nel cervello, chissà che faccia hanno.
Le piacerebbe vederli.
Poterli disegnare.
I demoni sono estetica, l’artiglio e la zanna regale di tutte le religioni, belli belli adornano le gambe degli altari con le grinfie ansimanti verso un vuoto superiore, eternamente dannati. Chissà che misture d’animali portano nei volti deformi e nei corpi smagriti dalla punizione del loro stesso esserci.
Vederli in faccia: e perché no? Anche loro fanno parte degli ultimi.
E lei diventa come loro che le sono entrati dentro.
E, sempre più, avverte scemare la sensazione che le dice di essere una che ha attraversato un processo trasformativo come quello precedentemente descritto, sempre meno le sembra d’essersi appunto trasformata, sempre più le pare d’esser stata sempre ciò che è lei nell’istante corrente, quella cosa che a ciascun istante sta prendendo forma, sempre più le pare di ricordare soltanto in maniera troppo confusa per poterci ragionare le sensazioni di angoscia e lacrima ed eterno insondabile spaesamento esistenziale che l’avevano tormentata e protetta e confortata sotto le copertine di un sonno dell’azione nella sua cameretta, ma adesso no, porca troia le azioni esistono e ti costringono il corpo a sostituire una per una tutte le sue autoindulgenti cellule, e adesso Mari cara sei per strada e non puoi semplicemente svagare di fronte a questo passante che è un passante come te e ti sta chiedendo qualcosa, e non riesce a comunicare e tu ti devi armare di quella tua pazienza dei santi che hai ormai bruciato, a quanto pare, e lo fai, fa quasi paura la freddezza, fa quasi paura che ci stai riuscendo, a essere spietata nella pietà, ad avere un volto quasi serio quasi incazzato mentre, diversamente da altri, ascolti Wa Log.
(e sarà un principio incarnato del bene, un “figlio di dio”, ad aver voluto che mi si ficcassero i demoni in testa, allora? Sarebbe logico pensarla così. Chissà quale santone che predica per le strade di ‘sta Galilea di asfalto ho fatto incazzare col mio comportamento. Forse un processo storico, forse un fantasma che sta nascosto nella carne stessa della storia e vuole che le cose vadano in un certo modo e vuole in questo momento che mentre ascolto questo sconosciuto sorridente e confuso i pensieri miei si vadano a sfracellare, giù nel mare, e seppellire sotto ferraglie e rottami la foce del Giordano.)
Stazione? Questa centrale? No, no, sbagliato. Altra.
(All’improvviso Mari sente pure una specie di senso di colpa per essersi detta nel privato suo monologo le parole “pazienza dei santi”, come se con questo qua fosse scontato che ci vuole pazienza, come se meritasse meno comprensione e umana ricettività di tutti gli altri cittadini?? No senti Mari vaffanculo non puoi stare a temere la censura degli scrupoli morali tuoi o dell’aldilà o di internet o di checazzoneso ogni istante che passa, tu non sei una persona così e lo sai, tu non sei di coloro che direbbero “quello là è fascista ma è una cara persona”, tu almeno lo stai ad ascoltare questo poveraccio, tu almeno ci stai provando, che poi perché “poveraccio”?, forse che, solo perché ha i sandali di gomma rotti ed è uno di quei neri che provengono dalla zona della stazione, allora devi saltare a conclusioni??...)
Superati impedimenti nella comunicazione in certo numero sufficiente a farsi capire tra di loro, viene fuori che il ragazzo del Benin che indossa la maglietta della nazionale brasiliana, pulitissima sul davanti nonostante il sudore sulla schiena, ben conservata in contrasto con i calzoncini e i sandali rotti, non è mica tanto sicuro del suo acquisto del biglietto, è un ragazzo non privo di profonda timidezza, e non solo nei confronti della gente -ché Mari è la prima che si sente di avvicinare nonostante la faccia che appare un po’ più torva e respingente di com’era se l’avesse incontrata un giorno prima-, ma anzi una timidezza generale verso gli oggetti tutti, verso le procedure, verso la possibilità incredibile che le cose stiano davvero filando lisce e quindi è necessario, è molto importante, verificare sempre tutto, il più possibile, ogni volta che ce n’è l’opportunità.
Sicché finalmente mostra a Mari il biglietto elettronico sullo schermo, sissì stazione centrale da qua poi prendi quell’altro treno, sissì sarebbe il "trenino", e dall’altra stazione l’altro trenino interurbano che però esce dalle mura e va’ a nord, ma perché vai là?, e in qualche modo Mari capisce che si tratta di un colloquio di lavoro che lo attende al capolinea della tratta regionale, che non è mica scemo che si presenta così, che ha tutto l’occorrente nello zaino: cioè, quando scende dal treno, entra nel cesso della stazione provinciale e si cambia d’abito ed ecco un gentleman uscire pulito tra le pozze di piscio e le screziate architetture del boom dell’eroina, però, vogliatescusarlo, voleva star comodo fin quando poteva, e cioè nei suoi abiti più comuni e avulsi da occasioni speciali impreviste, gli abiti che potevano essere considerati alla stregua di un suo pigiama, un suo letto ambulante; e cristosanto quanto fila il ragionamento di questo ragazzo-tartaruga: Mari nella sua situazione avrebbe fatto proprio lo stesso. In pigiama fino all’ultimo. Cambiarsi un secondo prima del colloquio. Il ragazzo poi apre lo zaino e mostra a Mari il suo abito che poi si metterà per convincere altri ad assumerlo, per far vedere che ha appreso la lezione della furbizia e la retorica della presentabilità: tira fuori srotolandole maniche e polsini e gambe e quant’altro: così, per un parere, o forse solo perché gli piace mostrarle che l’ha pensata proprio lunga, e per un momento pare quasi tutto contento e raggiante senza esitazioni, ‘sto ragazzo con la maglia verdegialla di fondali fitti d’alghe che gli mimetizzano il carapace mentre se ne nuota senza meta, lui che in mezzo a uova bianche suoi fratelli è nato senza madre o padre sulla sabbia d’un golfo lontano, e infinitamente solo, senza guardare gli altri, che fossero i fratelli identici suoi o i gabbiani voraci, è riuscito a raggiungere la schiuma e l’ha attraversata, e ora è qua, di posto squallido in posto squallido…
Mari annuisce, sissì può andare. È un buon vestito. È bello infatti, strano e lucido il vestito di Wa Log: un completo di velluto bordò, capace al solo vederlo di evocare le guglie notturne di un casinò svettante nella pianura, da autentici pazzi, certo, pazzi che hanno il bordò lucido come pelle untuosa pure sulle scarpe uniformi senza lacci e senza niente; ma è un completo che incanta, e che addosso a lui -Mari riesce a vederlo, trasferendolo cogli occhi sulle membra della figura che lo sorregge- lo trasformerebbe per intero: una rossiccia incarnazione del diavolo. Ma soltanto della sua astuzia, nessuna malvagità. Solo quel minimo di inferno d’astuzia che ci vuole a un ragazzo titubante e perennemente preoccupato per sopravvivere indenne un colloquio. Perciò Mari non può proprio esimersi -è un immenso dovere morale- dal dichiararlo, ferma, convinta:
-è un buon vestito.
E Wa Log annuisce e sorride, dicendo tutto quel che c’è da dire. Con un occhiata in tralice Mari nota, sotto le scarpe e disordinatamente frammista agli altri contenuti del modesto bagaglio da viaggio di Wa Log, una copia di un libro di Sartre in traduzione italiana, e accanto, mezza rotta con la copertina cadente e che pare mangiata da sconosciute falene del fondo-zaino, una copia molto vecchia e sdrucita dell’originale francese; poi un saggio di Mark Fisher tradotto in francese e ugualmente consumato. Ah bei libri quelli, dice Mari anche se di Sartre e Fisher a dire il vero lei ne ha letti altri (è solo un flash, repentino quasi non voglia farsi pedinare, un pensiero che nemmeno riuscirebbe a verbalizzare: una faccia di capra che la giudica frivola, per aver parlato senza conoscere, e non importa che Mari ci abbia dentro di lei un intero universo staccato da una costola di quel Sartre/Fisher che lei ha conosciuto: ha mentito per compiacere, per l’ignobile scopo di trovare un oggetto in comune, un menzognero gusto condiviso che facilitasse un’interazione in fondo ininfluente. Che c'è Mariuccia, il pensiero di restare sola come tutti noialtri ti provoca cotanta disperazione impossibile da sopportare per un solo insignificante momento?, bela la faccia di quel fantasma di bestia. Ma è solo un flash. Una capra d’immagine, una roba morta: una faccia di cui, tra l’altro, inizia a dimenticare i dettagli, per la distanza, per il distacco, perché, adesso che lei sta cambiando, se ne andassero pure al diavolo lui e il suo pizzetto e quel modo di pensare)
Wa Log dice sì, sì, bei libri, e sembra immalinconirsi di colpo, e descrive con la mano un gesto di universale scetticismo e arrendevolezza, commentando: “però, in italiano…”, e di nuovo, reiterato, quel gesto, a significare che gli sembra che non c’è proprio niente da fare, e il bello è che con le lingue lui se la cava di solito, ma c’è qualcosa in questa grammatica qua che proprio… e allora si salutano con poche frasi in francese, Mari prova a ricordarselo dalle medie, e quando si allontanano è così stupita di essere riuscita, nella stessa giornata in cui per due ore filate ha parlato con sua madre, a interagire e perfino quasi chiacchierare con un altro essere umano come lei, e molto più di lei smarrito in un posto sempre più estraneo -così tanto la destabilizza questa realtà, che il suo mutamento attraversa un ciclo completo, e torna a disprezzare fortemente se stessa.
(Non dovrei essere in grado di resistere.
Non dovrei essere indifferente, inscalfibile, in questo modo.)
Il ragazzo l’ha incontrato a poche centinaia di metri dalla macchina parcheggiata sotto casa di sua madre, parcheggiata per restarci, ché dopo due ore di rigurgiti d’irrisolto e cronistorie famigliari l’unica cosa a cui s’è arrivati è la stessa che le aveva detto al telefono: che adesso per un motivo o per un altro ci vuole provare a riprendere la macchina, e che adesso, cioè con accanto un uomo che la fa sentire sicura e protetta e altre cose che hanno provocato raccapriccio al muto e discreto sdegno di Mari, si sente di sfidare la paura e bla bla bla: Mari, sperimentando nelle sue viscere il tumultuare oscuro di un disprezzo che quasi con orrore scopre aver dormito là al buio da chissà quanti letarghi, pensa che tutte le frasi uscite fuori in quel frangente le si potrebbe ritrovare pare pare sfogliando un dozzinale prontuario di soluzioni self-help precotte e preconfezionate da una frequentazione di psicologi e guru lenitivi vari dovuta più a conformismo che a slancio introspettivo; hai voglia a cercar di domare le verminose bocche di ‘sto anchilostoma vivo dentro di lei, hai voglia a dire criticamente a se stessa che lei, come figlia, non è propositiva, e che la crescita l’evoluzione la catarsi sono anche un veder le cose da un punto di vista capace di perdono e di arrestare il pregiudizio e di arrestare l’attaccamento a quella singola parola detta o smorfia digrignata: oggi sono una figlia di merda va bene?, e non ci è abituata a dire così, è una novità, un violento uscire dal tracciato, ed è per questo che un’umidità non invitata le si ammassa all’improvviso nella voce già di per sé flebile e abbacchiata, per questo sotto tutti i convincimenti sempre riescono a sopravvivere in qualche misura le insicure muffe dei loro contrari -ma non ci si può fare niente, riflette poi Mari, certe fratture dell’ego non le risolvi mai del tutto per quanto volitivamente tu possa gettarti nella direzione opposta, ed ecco fatto: anche lei si sente come una che ha appena letto una frase da un prontuario così banale, così senza speranza, così costantemente ripetuto identico in tutti i pomeriggi di genitori e prole faccia a faccia su di un tavolo da pranzo in salotto.
In ogni caso, macchina ormai ferma cristallizzata sotto casa, Mari a piedi, eddai forza che si va subito in stazione a rispolverare il praticozzo per l’abbonamento ai mezzi che non viene rinnovato dai tempi degli esami in sede, e tanti saluti.
Mari è sopraffatta: come può, sua madre, farle questo? Parlarle di sofferenze, di processi, degli inciampi lungo il cammino. Proprio adesso. E non prima. Ammettere che le cose sono sempre contorte, sotto le radici visibili, gli alberi che sotto il suolo prendono convoluzioni e serpeggiamenti d’autonoma esistenza, parassitaria per gli strati della terra, provocano smottamenti invadendoli e attraversandoli, destabilizzano la natura… adesso e non prima! Prima, quando il suo senso di colpa s’era fondato sulle proiezioni (demoni!) di quei pochi suoi amici d’infanzia e adolescenza che l’avevano invidiata, per la stabilità, per l’amore materno, per la casa magari, o per i voti a scuola, per le lodi che il suo carattere aveva ricevuto, per il viso morbido di guance che concedevano soffici atterraggi agli sguardi, ammansendoli tutti. E lei l’aveva odiata, tutta ‘sta merda, negata, soprattutto in quegli aspetti che le precludevano la possibilità di dire a un amico l’unica cosa che avrebbe voluto poter dire a una persona con questo nome -“sto male e non so perché”, e alla fine Mari l’aveva detto a ben pochi, in vita sua, di star male, e invece quello che davvero volevano sentirsi dire, spesso corrispondente al contrario, l’aveva detto, più e più volte -le riconferme, le riproposizioni, la reiterazione dell’immagine che di lei avevano, e che rispetto a lei, rispetto all’immagine che lei aveva di sé, era tanto tanto più importante. Mamma, quanti anni ci sono voluti per ammettere che anche noi siamo di quella specie, anche nel nostro sangue scorre la merda dello stare a questo mondo come tutti gli altri, e che come tutti gli altri serbiamo i peggio diavoli in vena? Cheppoi tutta la merda, scorrendo in vena, si riversa nel cervello, ed è da là che principia tutto. Tutto questo modo di sentirsi.
E le ritornano in mente (stavolta interi, incarnati nella fumigante consistenza del pensiero, non più effimeri flash di giudizio o d’invasiva lettura dei pensieri intimi), dopo mesi che non le ricapitava, Pollo e Croce, e il loro progressivo abbruttimento dell’animo e il loro abbattimento psicofisico e i breakdown a volontà e a lui che era sempre più una capra e a lui che era sempre più un animale d’altro tipo, un concentrato d’epilessie formato mini e tachicardie; e pensa a una delle ultime volte, halloween, la prima crisi, poi gli incubi peggiorati sempre più, poi a lei che non ci sta più, non ce la può fare più, e lo lascia a sbrogliarsi da solo il suo assurdo garbuglio di pensieri acidi, che da parte di Pollo era troppo una carognata pretendere di poterli affidare a lei, alla sua curativa mano, manco fosse stata una fata o un’esemplare femminile della refrigerante natura arborea.
E allora forse lui Pollo o Gallo era un uccello di fuoco, sì, un incendio sciaguratamente provvisto di un cervello inibito e contorto fino al vomito, che aveva atteso, per avvampare, un qualche segnale indiretto dal mondo, dalle cose che circondandolo e avvicinandoglisi talvolta con mano quasi affettuosa gli avevano comunicato un via libera all’attacco, intimandogli di colpire proprio quelle cose buone e vulnerabili che stavano provando a volergli del bene, in tal modo assaltandogli l’invulnerabilità delle fiamme.
E forse non volendo e non sentendo niente di quanto accadeva nel mondo esterno attorno al suo cammino era riuscito a essere un fuoco, perché l’aveva ferita, perché lei aveva capito di non dovergli niente anche se odiava di sentirsi pensare queste parole, e di doversi allontanare anche se odiava pensarsi lontana e indifferente senza neanche girarsi, e aveva capito che comunque l’avrebbe fatto quindi tantomeglio scappare alla prima avvisaglia intercettata dal suo stordito e vilipeso istinto di autoconservazione, e che la mente sarebbe comunque tornata a lui, ogni tanto, con tutto quello che ne conseguiva, con tutta l’altra merda che viene dal non riuscire mai ad distanziarsi del tutto e per bene da una cosa che ha fatto parte della vita e alla quale anche solo per un secondo s’è voluto bene.
Così pensa che loro sono gli unici che l’hanno vista com’era, in quei giorni sull’isola, in quei giorni in cui, forse, lei era stata diversa da come era sempre stata, in qualcosa che non era possibile in realtà vedere, non potendola isolare dal resto, ma era stata in loro presenza la lei che la conteneva, e che era più della somma di sue contraddittorie parti, e quel “più”, quel “più” era diverso, sull’isola che condivideva con lei una parte di dna.
Ne ha ricevuto conferma questo pomeriggio: ma non è che abbiamo parenti laggiù?, rivolge con parole stupide alla madre la domanda del marinaio che l’ha assillata per mesi.
Non sembra assillata colei che la ascolta pronunciata dalle labbra irretite della figlia. Per un istante soltanto ha uno sgomento, un palpito di gola. Poi niente: un cerimoniare rispondere. È una madre che schiude scrigni e segreti, tira fuori dallo sportello di una credenza un album di foto mai visto, con una foto di trisnonna mai vista, pelle rugosa scalfita scottata da isolana, collo palpitante da salamandra terrona. Ma non ha nessuna importanza, Mari stabilisce che è una sciocchezza, dettaglio di colore, di quelli che vengono ricordati assai più intensamente che la sostanza che esprimono, ovvero, non sapere un bel cazzo di chi si è fisicamente e storicamente, in una famiglia, in una linea ininterrotta di lutti e drammi vari, in un’individualità che tutte ‘ste cose, perfino standosene zitte e non facendosi mai e poi mai scoprire da lei fino al momento della sua esplicita e sofferta interrogazione e contestazione, hanno sempre tentato di sottrarle. Dopodiché s’era parlato solo della macchina e di quelle altre cose asfissianti.
Mari cerca, per quanto umanamente possibile, di lasciare le cose asfissianti al loro posto. Non ci riesce. Ma fa qualcos’altro. Nella stazione, sotto il vasto porticato, la luce cade e si imprime sul pavimento senza mutare colore, non importa che ci sia un colossale inganno nel sole attuale, non importa quella confusione di tempo e di spazio che s’è verificata mentre lei era nel salotto, col divano e la madre che la guardavano parlare a bassa voce. Qui le ore sono segnate soltanto dall’orologio fluttuante, dalle tacche arancioni sul tabellone nero dei treni in partenza, dai movimenti diversi dei passeggeri e turisti e acquirenti, dalle file accalcate davanti ai negozi e i kebab e i panini, dal traffico appena fuori dal confine del porticato ma no, non guardarlo, voltati dall’altra parte, dimentica ciò che accade nel cielo: leggi l’ora, un’unica ora immobile, soltanto nel pavimento scuro.
Qualcosa di strano stava già accadendo mentre era in fila. Ma non vale la pena di riferirlo. Solo che… come potrebbe spiegarla, Mari, questa cosa? In fila le capita di vedere e udire le cose più bizzarre, da farle assaporare momenti d’irrealtà non diremmo degna di stupore, ma almeno d’un silenzioso riconoscimento, d’un cenno monologato.
E allora, per ricordarsi che tutto è finzione, basta gettarsi in un nugolo di anime che cercano aiuto presso la burocrazia o che s’ingegnano per una molto agognata partenza, e si vedono figuranti e personaggi e prototipi di folletti da fiaba in tutte le voci intorno, nell’occhio biancazzurro impalatore della veneta che ha bestemmiato in faccia agli scugnizzi che le hanno fatto cadere la valigia inclinata, negli scugnizzi che non ci badano e chiedono scusa e tornano ai fatti loro, nell’indiano con due tipi diversi di barba da un lato e dall’altro, nei bimbi che saranno massimo massimo di seconda elementare e che Mari è convinta di sentir discutere -chissà di cosa parlano in realtà- su quale sia l’apice di Zappa, se “Hot Rats” o “Apostrophe”, e Mari non interviene, non spiega che lei vorrebbe menzionare “One Size Fits All” perché in ogni momento della vita si può tendere ascolto al blues di un ateo convinto che si chiede chi sia Dio, non dice tutto questo anche perché quasi certamente quei due non esistono, anche perché se desse inizio a un’interazione, poi s’affezionerebbe, e si sentirebbe per una dolcezza e fragilità del cuore di dovergli dire, a un certo punto, che non possono continuare così all’infinito con le loro classifiche, perché così facendo prima o poi si trasformeranno in animali da cortile, e dovrebbe scegliere tra l’impulso di dir loro questo, e quello forse più forte di sorridergli e dirgli che “loro è il regno dei cieli”, perché loro lo creano, continuamente, loro è il mondo che essi stessi disegnano come un cerchio, un campo di forze attorno a sé, in cui non esistono che crescendo musicali, copertine di album, icone, sublimi immagini, istanti isolati, salvati dallo scorrere spietato del resto del tempo non salvato. E più tace, più si discosta dalla possibilità del suo ingresso nella scena, più resta fantasma, più Mari sente, ora, che ciò che sta udendo esiste veramente.
Ma il punto non è neanche questo: non sono le cose che accadono, non sono i corpi che riempiono il corridoio davanti al gabbiotto, non i sudori che evaporano e si mescolano generando un afrore di bestiame a bagno nel Gange al tramonto, non qualcosa che si possa identificare con precisione, non l’insieme dei fatti e gli stati di cose che compongono il mondo; stare in fila la stanca. È una stanchezza che non ha legami con le caviglie, né con il labirintico nonsenso insito nella formalità di una pratica da svolgere, addirittura non ha a che fare nemmeno con le ore passate.
Ci dispiace ma non possiamo prendere in carico un documento così rovinato,
dice l’addetto dall’altra parte del gabbiotto al quale Mari è stata indirizzata, o sembra che dica così, la sua voce di minuscoli corvi sparpagliata dal misero spazio d’aria sotto il vetro, confusa tra le domande e le risposte di tutti gli altri attorno nel mondo, tra i passi e la musica di pubblicità e gli annunci ferroviari e il ronzio primario del tutto; l’addetto prende in mano il foglio che Mari faticosamente ha riscoperto tra le sue vecchie carte della triennale, le avevano assicurato che era possibile trasferire semplicemente i dati ivi riportati, ma l’addetto non conosce le assicurazioni e le aspettative false che Mari si porta dentro, e semplicemente cerca con le dita grigiastre di distendere il documento come per dare un’ultima speranza, per farle vedere, anche con la sua espressione da zio arrabbiato e insieme rassegnato alle proteste di un nipotino, che in fondo ci sta provando ad abbonarle quella svista. Distende il foglio quanto può. Rimane stropicciato. Niente da fare. Non può proprio.
Ed è in questo momento che Mari concepisce una fiaba.
Mari non si incazza. Prende vita una fiaba. Che fa così.
Mari ringrazia il signore. Non importa. Ma… no no davvero non si preoccupi.
Mi scuso profondamente.
Un inchino.
Quello apre la bocca tanto non ci crede di aver visto descriversi davanti alla vetrata opaca di ditate un inchino rivolto a lui.
Mari scappa da là, si volta, esposta al lato destro alla luce maledetta del giorno, là dove il porticato si squarcia facendo entrare i rosseggianti odori di una piazza e uno stradone battuto dai taxi, ma non le importa più: schermendosi con le dita un raggio che s’inclina riuscendo a infiltrarsi negli occhiali da sole, legge il tabellone: ma sì. Compra un biglietto. Mi dia un biglietto per il “nord”. Per il posto in cui è andato Wa Log, precisa poi Mari, per farsi capire senza possibilità d’equivoco.
Ah, Wa Log, quel caro ragazzo! E che l’infinita sapienza del diavolo lo assista e consigli nella sua ricerca di un impiego!,
così esclama in un lungo e oppiaceo sospiro estasiato il tizio che è esattamente lo stesso di prima, in un’altra postazione, e all’improvviso tutto il personale di stazione ha il suo aspetto, e tutti sono sonnolenti e rilassati, d’un sonno che continuamente li rigenera, li rende ammansiti al ruolo che occupano, li dota di armoniosa coscienza vegetale, tutti gentili signori-albero che non si separano mai dalla loro natia foresta di cemento e ferraglie.
Però, ragazza mia (è pur sempre un signore albero di una stazione ammodernata), non devi chiedere a me, ma alle macchinette.
E allora Mari è là, dal paffuto rubicondo muso della macchinetta, che stacca un biglietto, grazie macchinetta!, e quella: figurati!, questo e altro per chi finalmente va’ dove è andato Wa Log, a nord delle mura.
Poi Mari compra provviste e accessori da toeletta portatili, una piccola farmacia inseribile e compartimentabile in una borsetta se necessario, e in libreria una sacca capiente per stiparci tutte le altre cose, sulla tela disegnati i gatti di vari film di Miyazaki, e un libro che ha già ma che non ricorda più dove ha messo, e non l’avrebbe mai ricomprato se non per questa situazione, credendo di vederlo saltar fuori certamente, presto o tardi, ma adesso no, decide che non salterà fuori, e se anche dovesse farlo, se anche il libro dovesse decidere di prendere il treno e andarla a cercare, dicendo, “hey ti sei dimenticata di me!”, allora lei gli presenterebbe l’altra sua copia appena acquistata e non succederebbe niente di catastrofico, decide.
Fa un paio di cambi.
Cullata dall’annuncio delle fermate che si appropinquano, che le conferma che il treno è in movimento e lei non è scesa prima che partisse e non si torna indietro, accede al suo account universitario.
Esita, per due secondi che non sembrano né più lunghi né più corti di quelli segnati dagli orologi che improvvisamente per lei hanno ricominciato a scorrere (comunque due notevoli, interi secondi), il dito indice prima di cliccare: interruzione degli studi.
E dopo consecutivi macchinosi procedimenti ecco archiviata, si direbbe, la parentesi della magistrale.
E il nord sparpaglia paesaggi diversi di là dal finestrino del treno definitivo, e pian piano scemano i cantieri, le statue antiche e medievali fintoantiche sui bordi dei ponti, e i graffiti sui muriccioli divorati a metà con le altre scritte dell’archeologia di inizio secolo, e gli spazioporti metallizzati e i concessionari con le loro bandiere sventolate in gloria dell’imperituro tedio, e s’aprono sempre più gli squarci campestri e un fiumiciattolo che li attraversa, e quasi in un attimo, schiene rosse gibbose di bovini selvatici che brucano la campagna, e alberi che s’avvicinano ai binari intrecciando innocuamente i rami ai bei fili elettrici del treno, e sui cui tronchi crescono, sempre più numerosi, i funghi gialli, e s’infittisce la loro presenza fino a quando l’aperta campagna viene invasa da una foresta, d’alberi grigio-biancastri e ingialliti di funghi che quasi per intero sommergono le loro cortecce, e altri funghi ancora che altissimi sgusciano invece dal suolo, e gialli a macchie brune sventagliano i cappelli al di sopra dell’altezza delle felci, e tra esse e le rifrazioni delle chiome soprastanti s’inverdiscono, e il treno si getta veloce all’interno d’un tunnel verde che dorme, che è come una cortina di sonno deposta su di una Mari che sprofondando nel solito solitario sedile blu di Trenitalia è come se fosse caduta in un prato e si stesse addormentando faccia al suolo con l’erba che preme contro le palpebre, e il nord, fatto di sempre più funghi e gnomi e sottoboschi e diavoli saggi, s’avvicina, e certamente prima o poi arriverà e la farà scendere, lontana dalla valle, in cui continuerà forse a esistere, svettando bidimensionale come una fortezza nell’orizzonte, la città grande dei suoi studi e domicili -o come uno sporadico ricordo mai del tutto estirpato-, lontana da Dio e dalla sua inconoscibilità e crudeltà, libera e, non diversamente da sempre, sperduta, ma sana, concedendosi intanto, per quelle ore di fiaba, di riposare.
E la foresta si fa rada, la provincia a nord delle mura è una conca di fontane e vicoli che esce dagli alberi, l’avvicinarsi della stazione, il rallentare per immettersi tra le banchine è uno spazio ampio che si restringe, dietro gabbiotti di un sofferente giallo pulcino sparisce un giardinetto con scivolo e altalena, i cui spettri d’aria spostata sembra continuino a oscillare ovunque tra le pattumiere e i cavi e i sedili della stazione, e quello è il cesso umido in cui un ragazzo-tartaruga s’è cambiato d’abito, e quella una linea gialla pustolosa che riconosce, e un grigio familiare, e la stazione è uno spazio ampio-ristretto che riconosce, ha lo stesso odore normalizzato della pelle d’un parente stretto di cui si tollerano i conati morenti, ed è appena appena percettibile il sentore di gomma bruciata di tutte le stazioni che attendono ferme come cactus lungo le tratte periferiche, quella leggera nausea che lei sa assaporare ormai a fondo, delle altre identiche stazioni sui cui bollenti camminamenti Mari è discesa, è attenta, non salta a giudizi affrettati e poi conferma: quasi non si sente, quell’odore.
E nella stazione identica a tutte le altre posa i piedi mezzi addormentati, e di diverso ha il fluire fluviale e tranquillo delle altalene intraviste, che sembrano infiltrarsi nel visibile come un’implicazione pronta a sbocciare dalle retrovie di tutte le cose create, sono spettri di stazione, e diverso è il monte che si erge oltre le file dei tetti, e i panni stesi a far da palpebre per ciascuna finestrella allineata sembrano pezze che rattoppano le pendici del massiccio, per illusione ottica che rende ininfluenti e stupide le distanze e le differenze, e respirando un insolito sapore dell’aria Mari si avvia per fare ingresso nella città al termine della sua fuga, e non sarà una grande distanza ma si sente irraggiungibile più che se quel posto fosse un’isola del sud, più che se fosse il nord vero e proprio di acquitrini sotto le ombre prealpine e di vento artico e di orsi polari; Mari diversi orsi interpella, tozzi burberi orsi del preappennino, e tanti tanti altri personaggi della fiaba che le daranno indicazioni o inganni incontra, camminando con la sua borsa di tela stretta tra una mano e il torace, conosce gli gnomi e i funghi antropomorfi e i frati francescani col loro incedere a maniche congiunte e inconoscibili occhi in eterno coperti dal cappuccio ricadente e nero, e fanno parte delle ombre che s’accavallano tra un castelletto medievale ben conservato in centro città e un municipio semideserto e una Feltrinelli ampia e che si direbbe fornita, e Mari già acquista un secondo libro e come drogate si sorridono lei e la commessa, che è una gentile mucca rosa bipede, chiacchierano brevemente dell'autrice e scopre in quel momento che Ortese immalinconita da bonacce mediterranee e atlantiche scrisse anche lei di un'isola desolata e di un rettilario d'immagine che attraversa la storia, la commessa sa leggere nel ritmo del respiro di chi acquista i gusti letterari e in un caduco spazio di conversazione estrae il loro sentire, ed è strana e inspiegabile la tristezza con cui si lasciano quando lei esce dal negozio e si allontana nella strada e nell'anonimato di tutti i clienti, e soffia attraverso gli androni prospicienti il pavimento sassoso di una salitella un altro sentore, vago, porcili e aia, crosta di pizza appena bruciata, sigari, piumaggio d’uccelli migratori.
Mari ricorda che “un mondo, per quanto diverso da quello concepito, deve avere qualcosa in comune con il mondo reale”. Si ferma. Da una panchina in mezzo a un’aiuola dilata lo sguardo attraverso vie e luci accese, un traffico ingombro ma placido, fari arancioni e rossi, rivoli viola d’un cielo composto di spifferi e odori lacustri si insinuano tra le sagome degli edifici giovani e antichi. Una parvenza, comunque pungente, di un gelo dell’imbrunire picchietta contro le ossa di Mari, scoperta, esposta al vento. Le vibra in pancia da dentro la borsa un messaggio ricevuto, ricordandosi solo adesso che un flusso comunicativo scorre all’interno dello strumento ch’era stato per lei, nelle ultime ore, soltanto lo strumento dell’ultimo taglio con gli esami e il resto del mondo, mentre ascolta con un orecchio mezzo otturato da un principio di raffreddore la conversazione polisemica di due ghiandaie appollaiate su di un cedro dell’Himalaya, la cui cima pendula ondeggia sotto il loro peso, uno spartitraffico neroverde sopra l’aiuola di Mari da sola.
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