top of page

le isole di Brian Wilson (ep.6,5)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 28 ago 2024
  • Tempo di lettura: 12 min

Aggiornamento: 20 set 2024

In uno dei racconti sulle sue vite precedenti, che riferiscono tra le altre cose di miracoli e avvenimenti impensabili proprio nell’epoca della sua corrente vita, si afferma che la bestia di terra venne al mondo deforme, sola, in una grotta lurida che nessun'altra creatura mai visitava; un antro di sporcizie sotterranee, ceneri dal tanfo inimmaginabile, robacce lunghe e appiccicose e viscose che s’avvinghiavano a chiunque osasse avvicinarvisi; e impervio era il luogo, una brutta apertura, come una bocca ghignante, a metà dello spuntone di roccia, metà strada esatta tra la cima e la spiaggia; e, partorita da una madre che non lasciò altra traccia che una placenta sanguinolenta e screziata come per una furibonda lotta tra la nascita e il nulla, una madre che nessuno mai ebbe visto, la bestia di terra sporse la testa mostruosa fuori dal buco nella roccia: ed era aguzza di irsuto pelo, terroso eppure nero in certe sue spine più dure, e di metalli duri e tossici erano gli zoccoli e le corna, e una lingua urticante triforcuta saettava dal muso, e dalle froge un fumo acre; e discendendo dietro il crine velenoso di là dalla base del collo, frammisti all’orrido pelame, gruppi amorfi di piumaggio d’uccelli, squame di pesce e scaglie di lucertola ammantavano irregolarmente la corporatura fino al punto in cui si denudava lasciando libere di roteare come antenne le code da aspide.


E si dice che un solo uomo avesse osato sperimentare con la propria mano il tocco di quella sostanza, che componeva la bestia e che sembrava maledire tutte le altre sostanze note agli uomini per via dell’interna energia respingente del suo enigma: costui, un vecchio marinaio, alto e forte come un bue, s’era arrampicato sulla sporgenza, avendo sentito parlare della bestia della terra e di quanto terrore incuteva ai pescatori che la udivano sopra le loro teste sibilare e fischiare raccapriccianti improperi di lingue straniere incomprensibili, e avendo desiderato di vederla coi suoi propri occhi, per un breve tempo l’aveva osservata dalle pendici del promontorio: tanto gli bastò per decidere il da farsi. Agilmente, fu già sulla cima, essendo egli avvezzo a tutte le sporgenze del suolo che austere corazzavano il paese -prima che marinaio, era stato un uomo nato e vissuto in quei luoghi, e forse era questa la sua essenza, che c’erano anche di coloro che affermavano di non averlo visto prendere il largo per tutta la durata delle loro vite; approdato che fu sulla sommità, ancor più agilmente procedette verso il basso, facendo aderire la pancia alla parete e il dorso ai venti fastidiosi dell’altitudine, e muovendosi a ritroso come una specie di gambero di montagna calava verso la grotta, coi piedi che con perizia s’andavano a posare spontanei, quasi magneticamente, nei punti più saldi, più naturali che discendendo una scala ch’è opera d’ingegno umano e non degli elementi scultori. Ormai vicinissimo, distese un braccio possente e, dando uno strattone al momento giusto, afferrò un corno della bestia e prese a tirare, costringendola a rivelare l’intera rugosa sua forma, estratta dalla cavità.


Ci furono clamori, applausi, ma anche grida. Erano spaventati da tutto ciò che riguardasse la bestia, anche la possibilità della sua cattura, anche il solo pensiero che si potesse averla toccata, e non semplicemente ignorata, per esempio trasferendosi al capo opposto del paese e ivi sperando che le grotte di laggiù non fossero altrettanto predisposte alla generazione di stirpi di mostri così maledette. E c’era ancora chi retrocedeva all’avvicinarsi del marinaio, vedendolo scendere con la bestia portata a spalla come un agnellino, e chi subito gridò allo sterminio -e certo: ché il marinaio aveva compiuto questa impresa affinché la bestia fosse uccisa. Ma il marinaio sembrava serbare nel suo cuore duro e sconosciuto intenzioni affatto diverse, lontanissime dal sentire degli uomini.


-voglio che tu lavori per me. Starai presso di me per un certo tempo. E se in questo tempo dovessi rifiutarti, non esiterei a ucciderti, qui sulle rocce: non illuderti che io non riesca in questo: so come si fa: i mostri s’uccidono fracassando un punto ben preciso, nascosto tra il cervelletto e il collo.


La bestia, che nel volto non s’atterriva e non si rallegrava mai, conservando infissa negli occhi la feroce e rossa espressione dei terribili pescecani che pareva corrispondere più a una sua costante tortura che a un attacco verso l’esterno, ansimò e poi sibilò acutamente dispiegando le fauci uncinate:


-poiché non ho scelta, accetto. Lavorerò per te.


-è deciso, dunque.-, sorrise il marinaio da dentro la sua dura e cespugliosa barba, e s’allontanò dalla folla sbalordita, con la bestia di terra al suo seguito.


Per vent’anni nessuno lo vide più, ma si diceva che se ne restasse chiuso tutto il tempo nei suoi progetti in una capanna costiera fatta di travi lignee e salgemma e pelle d’elefanti nani e penne di cormorani, e che la bestia per lui eseguisse ogni immaginabile mansione. Il marinaio si procurava nei dintorni una esagerata quantità di legname, l’unico lavoro che non delegasse alla bestia schiava, e immagazzinava i tronchi in una grande stalla prima di sparire nuovamente dentro la casa buia. Fu in quel periodo che, prosciugato per intero, sparì il bosco.


Nel frattempo, sulla cima d’una torre calcarea che sorgeva dalle acque del sud, s’era stabilito un eccentrico uomo piumato, che fermo sul suo trespolo ruvido, vedovo della sua compagna piumata, aveva perduto il dono del volo, e preferiva invece erigere sempre più dure e rudi barricate d’oggetti scorticanti attorno a sé, e al centro di questa fortezza rannicchiarsi e contemplare piccoli insulsi pezzi di ciarpame che doveva aver raccolto per costruirsi il nido -pagliuzze e aghi e rocce e conchiglie, lame scalfite e scaglie di barche rotte e piume sudicie, tutto ciò lo incantava più del mare burrascoso sotto di lui, più della costa oltre i cui pendii s’estendevano infiniti i regni emersi e le strade maestre e le impenetrabili foreste, più delle nuvole tra i cui soffi avrebbe potuto volare… si diceva che, servendosi d’un puntello impugnato da una delle sue nude ruvide branche, tracciasse nell’argilla inumidita dalla sua saliva e dal suo sangue lunghi scrosci di linguaggi incomprensibili:


in una vita passata, o forse tutt’altra vita, che zitta zitta al di fuori di noi è esistita in mondi diversi e sconosciuti, al di là d’incommensurabili distanze così cosmiche che a confronto nulla sono quelle tra i nostri animi, quella stessa estate in cui noi ci siamo allontanati, l’abbiamo trascorsa in una casa al mare.

E rientrammo fradici, infreddoliti dal vento del crepuscolo in cui mai prima m’ero fatto il bagno e tu m’hai deriso, sorridevi stupita, come se sapessi tutto te, della mia immobilità, della mia prolungata infanzia di braccioli e salvagente…

e ti sporcammo di sabbia bagnata l’ingresso e il salotto e il divano, e tu “non importa”, sussurravi, raccontandomi delle altre sabbie qui cadute e senza traccia, delle tue estati di bambina che qui trascorrevi, e il tuo diciottesimo e altre feste di legami squallidi che t’hanno rovinata la psiche fragile di quegli anni, e cose che ti fanno arrossire e volentieri dimenticheresti, e per noi due, lì insieme sul lungomare latinense, al mattino era bello camminare coi piedi nella sabbia bollente e sentire nelle narici le fattorie delle bufale, e alla sera era bello dimenticare ogni odore e affondare lo sguardo e le orecchie soltanto nei bagliori rossi che parevano districarsi da dietro l’antica sagoma quasi magica del Circeo che spuntava senza frattura alcuna da un orizzonte confuso d’acqua e cielo, mentre gli uccelli d’acqua rientravano piagnucolando verso la terra, dietro di noi, che rientravamo in casa e mettevamo sul piatto un vinile di Battiato una notte in particolare in cui abbiamo deciso d’esser sciocchi e leggeri fingendo di ballare ed esser ubriachi anche se non avevamo bevuto altro che lattine di San Pellegrino che con quei gas bollicinosi e mucillagini d’agrumi spolpati erano più di quanto i nostri stomaci psicosomatizzati potessero tollerare, ma scorreva la canzone che cristo parlava di noi proprio di noi, e così credendo, come a un dio di parole, ci siamo dimenticati dell’estate che stava morendo, e degli altri imminenti fuochi d’apocalisse che si sarebbero accesi nel cielo avvampato, diverso da quello che sfolgorava rosso sin dai primi giorni del Circeo e che fino a oggi era durato, da domani no, da domani la terra scotterà così tanto che i nostri rimpianti, i nostri afflati d’amore mancato e la nostra nostalgia per esperienze di giovinezza che non abbiamo mai vissuto svaniranno come schiuma dalla bocca d’un mare morente, perché non esisterà più, già da domani, una terra che non sia così bollente da impedire che i viventi ci camminino sopra, e anche di questa casa, delle sue belle vetrate affacciate sulle onde, dei suoi mobili bianchi e blu adornati da stelle di mare e coralli di plastica, dei suoi abusi edilizi su cui s’è sorretta assieme a tutte le altre tane umane della costa, non rimarranno che frammenti e vetri rotti, spaccati dalla pressione esterna di forze enormi e incontrastabili che imperversano, bombardando i bambini e il futuro e gli alberi e l’aria respirabile, forze che congiurano contro di noi e contro il sogno della nostra unione, per una volta sincera e in cui potremmo guardarci negli occhi e raccontarci che questo noi siamo stati: un ultimo ballo, coi cuori più leggeri dell’aria e tra loro intrecciati in infinite convoluzioni arboree, prima dell’ultimissimo tramonto sulle coste del mondo, coi flutti superstiti che s’innalzano rabbiosi e il fuoco che profusamente cade dagli astri, che in alto lassù nel cosmo ci abbandonano, e allora ci verrebbe da dire, se è così, perché affannarsi?

a che scopo cercar di riparare, di ricucire ciò che avevamo troppa paura non si potesse rimarginare mai, a che scopo affannarsi così tanto per sopravvivere nel mondo in un modo che non sia ripugnante per noi e per il prossimo?

Perché è difficilissimo, e noi tanto abbiamo impiegato a deciderci, ma adesso… a che scopo costruirsi una sicurezza prima materiale eppoi emotiva, nel senso per cui si dovrebbe perseverare in un assurdo, impossibile ma fondamentale lavoro per poter dire d’avere il cuore sereno nel rapporto con gli altri e con noi stessi?

Questa nostra casa al mare, quella dei tuoi ricordi e del mio ballo con te che m’ha salvato da quest’estate e m’ha liberato dal peso di tutte le mie passate estati fatte di calore soltanto disperato e sterile, sparirà per un gesto brutale del cielo e del mondo morenti: che senso ha questo nostro evolverci e uscire dall’usitato per poterci finalmente armonizzare come esseri che finalmente s’incontrano e si conoscono, se tanto la nostra armonia, la nostra realizzazione, sarà recisa sul nascere?

E poi, danzando intanto che, passate le ore nove di sera ancora rilucenti rosee s’avvicina una notte ventosa, ci dimentichiamo anche della nostra vita vera, quella nell’altro mondo, in cui noi due, sulla spiaggia, come cadaveri siamo lungo distesi e non ci diciamo una sola parola, e quei vuoti e quei mortali silenzi da vecchia coppia divorata dall’interno da una muta noia, che si creano tra di noi in certi momenti che sembrano interminabili, sono la cosa che fa più male e più paura in tutta l’esistenza, si mangiano il senso che tutte le altre cose potrebbero avere, e non hanno, e il mare sibila col fiato d’un archetipico serpente funesto le stesse frasi senza rimedio che ha sibilato dall’inizio dei tempi, facendone raccogliere i fruscii alle orecchie di tutti gli amanti ormai distaccati, lungo distesi sulle spiagge…


..e così via, scriveva insensatezze.

Per chi l’aveva visto, la figura dell’uomo piumato lassù da solo eppure mai un secondo zitto, sempre a parlottare qualcosa tra sé come se cogli occhi avesse scorto dentro al sole le propaggini d’un qualche immenso e profetico sogno, era fonte di indicibile angoscia.


Intanto, la bestia di terra aveva servito per oltre vent’anni presso la capanna del marinaio, fino a disimparare come si deambulasse sulla terra al di fuori da essa, sulla terra non distorta da un costante buio come di abissi e viscere. Entrambi seppero ch’era venuto il tempo: quel giorno la bestia sarebbe morta. Da un alto monte dell’entroterra, si levava alto il fumo: qualcuno aveva acceso una pira, al cui centro ardeva il corpo esanime d’un rettile ladro e ingannatore, che coi suoi occhi dalla forma degli astri aveva paralizzato coloro che avevano tentato d’ostacolare il suo strisciare attraverso le strade del paese, e con l’astuzia aveva sottratto ai numi protettori dei superstiti boschi sacri il fogliame magico. Ma infine era stato eliminato, perché era legge che s’eliminassero le bestie ignote, ch’egli apparteneva forse alla stirpe dell’idra mostruosa e assassina, forse a quella del coccodrillo, che si raccontava essere quel grande e corazzato serpente dei fiumi d’oriente; e se ne ardeva la carcassa poiché era legge, per quanto riguardava tutti i ladri e fraudolenti.

E il suo fumo era il segno: sulla vetta si sarebbe dovuta inerpicare la bestia, che per nascita e per deformità degli arti mai visti sarebbe dovuta essere avvezza al raggiungimento delle più selvagge altitudini, ma gli anni di servizio presso il marinaio suo schiavista l’avevano storpiata; e se fosse riuscita, in qualche modo volando, a raggiungere il picco, si sarebbe issata e inchiodata al legno d’un albero sacro, fino a procurarsi l’inedia e la paralisi degli arti, avrebbe abbandonato le sfortunate spoglie di questa vita, per volar via, assieme al fumo della pira del drago, nei cieli alti ove, se la fortuna l’avesse assistita, sarebbe divenuta una pioggia che cadendo altrove le avrebbe conferito una più misericordiosa rinascita.


Il marinaio rideva, e di dietro alla barba la bestia riusciva a scorgere, ché lei più di chiunque s’era avvicinata a capire quell’uomo senza pari, un’espressione che descrivere sarebbe insulso, tanto era terrificante nella sua semplicità, nella sua apparente assenza d’ogni ferocia, e al contempo pervasa dal più grande dei desideri di morte -se altrui o la propria o entrambe, non era dato sapere e sarebbe stato folle cercar di capire.


-sicché, preferisci andar lassù che restare a lavorare per me.- e sorrideva.


-morirò comunque, no?


-oh, sicuro.- e prese a ridacchiare, -se la chiami morte, quella. Io la chiamo una vacanza. Ma è tua, la scelta, sì: sei grande ormai. E allora? Che adulta sarai, mia bestia di terra?


E così dicendo il marinaio dischiuse gli sportelli incatenati d’una credenza: sulle mensole poggiavano, silenti e atterriti rivolgendo all’esterno le orbite vuote, i teschi di numerose bestie, della terra e del cielo, che erano state a lavorare presso il marinaio tanto a lungo e tante volte in successione, e che, ormai era chiaro, erano di continuo partorite da quelle terre maledette, e sfruttate come manodopera proveniente da bistrattati inferi.


-sarai un’adulta vera come si deve, cioè, accetterai il destino della tua promessa quando venisti ad abitare da me? Virilmente lascerai che sia io a cancellarti, e a donare le tue membra alla terra, perché rinascano nelle erbe, nel sangue delle bestie e della gente, nell’energia che muove il mondo? O preferisci quella morte fasulla e vigliacca?


La bestia tremava e si svuotava le interiora perché di fronte aveva la più spaventosa delle creature, un uomo i cui intenti, anche quelli reconditi e lenti a manifestarsi, pur sempre dirompevano dalle braccia sue, senza ostacoli, o dal mondo stesso, che coi suoi tempi pur sempre sottostava alle sue aspettative e le anticipava, obbedendo a comandi muti.


E le aspettative nei confronti della bestia, quali erano? Nel volerla morta, ormai inservibile, sembrava tuttavia indifferente a essa.


-voglio che tu m’abbandoni.- rispose infine la bestia.


-benissimo allora.- sorrise e annuì il marinaio. -e siccome ormai sei storpia, e tanto stupida che pur da storpia ti dici convinta di voler salire, ti lascio la mia nave volante. Sì, hai capito bene: proprio quella che abbiamo passato quest’ultimi anni a progettare e costruire. Ma non farti illusioni, che sei già tanto brava a fartene: non è un dono né un ricordo di me: so infatti che la nave, dopo averti condotto sulla cima del monte che brucia, farà ritorno da me, volando da sola. E tu non avrai che da crepare, lontana da me. Che rimarrò qui, nella capanna, a ridere di te.


Così la bestia di terra partì sulla nave volante del marinaio e non ritornò mai più.


E raggiunse la vetta, ove il mostro a sangue freddo bruciava, e vi trovò, inginocchiati e in adorazione, un uomo piumato e una sacerdotessa, che egli, non sopportando più d’esser rimasto vedovo in cima alla sua torre calcarea, aveva rapito risalendo cogli artigli rapaci le sporgenze dell’entroterra. Aveva abbandonato il suo nido: che crepasse pure, quella dimora di falsi ricordi!, e così dicendosi era certo che sarebbe rimasta immobile e solitaria come un monumento, la torre del suo isolamento, che nessuno avrebbe osato avventurarcisi. E incontrando la sacerdotessa, come lui richiamata dal fumo sacro del monte, le aveva mentito, dicendole d’esser l’emissario d’un dio, ed ella, rimasta senza dèi a cui rivolgere i suoi slanci devoti e i sacrifici dei suoi specializzati riti primaverili, aveva deciso di credergli, poiché era piumato e lucente, e ricordava le leggende delle antiche divinità coi volti di creature della “Foresta”, anche nota come “Deserto”, ovvero il luogo deserto di genti umane.


Ma vedendo la bestia, e vedendola che da sola, piangendo, s’issava dinnanzi al fuoco sul legno d’un albero, esposta al calore del sole e della vicina pira, non trovarono parole che potessero liberarli dal dolore del fallimento della loro fuga in cima al monte, la vetta che avevano sperato corrispondesse al richiamo che il fumo distante aveva loro rivolto, l’aveva chiamati, intensamente, giorno e notte… e cosa c’era lassù? Un sacrificio che non era opera loro, che non li riscattava da quel languore dell’animo che li aveva sopraffatti e resi folli tra tutti i viventi, un sacrificio insensato e deforme; e in silenzio, prostrati, senza più una dimora né niente tra le mani, trascorsero nello stupore impotente dei pazzi le ore rintoccate soltanto dal crepitare del fuoco, mentre una bestia cornuta e con le membra di malnate creature si lasciava morire, rivolgendo lo sguardo al cielo, priva d’ogni certezza: se lassù l’attendesse un volo, un mutamento di forma, o se oltre l’ultima cortina del fumo e del fuoco che avvampavano oscurandogli ciò che vedeva estendersi nel suo campo visivo, di là dai finali sbuffi del suo fumoso fiato rantolante, non ci fosse null’altro, nulla che potesse riconoscere con le sensazioni e coi pensieri che aveva conosciuto nella sola vita di cui avesse memoria, la sua, e che erano istrumenti conferiti dalla forma con cui era nata, lì, in una grotta della terra arida.

Post recenti

Mostra tutti

Comments


  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn

©2020 di DH Jazz. Creato con Wix.com

bottom of page