le isole di Brian Wilson (ep.6)
- Milky
- 26 ago 2024
- Tempo di lettura: 19 min
Aggiornamento: 20 set 2024
Non dovette pensarci più di tanto, anche se di non solito non aiutava le persone, anche se quel caso forse non contava, era una faccenda selvatica esclusa da ragionamenti morali o immorali, certo la natura della richiesta rivelava se non altro un certo astio di fondo nei confronti della legalità e delle sue barriere, certo lui in qualche modo aveva compiuto una scelta accodandocisi -insomma vaffanculo ci stava ricascando a considerare le implicazioni e le infinite strade di pentimento in attesa sicura di là dal gesto, ma fortunatamente per lui e per il cervello lacerato dalla privazione del sonno il suo organismo era troppo demolito da quella settimana di girovagare urbano senza posa né meta, di nutrirsi di fondi di birra e cornicioni di pizza gettati via da quei viventi che desideravano solo il centro condito e succoso e oleante, di non aver dormito mai proprio mai nel caso non si fosse capito, di gambe che a forza di non fermarsi e dolere per il moto perpetuo s’erano assestate in una nuova abitudine per la quale i momenti in cui si sedeva finivano per diventare la vera anomalia e dolore superfluo, come un pesce privo di vescica meglio continuare senza il rischio di andare a fondo, e per tutte queste ragioni, quando qualcosa di simile a un principio vitale tornava a scorrergli dentro nonostante quella specie di morte deambulatoria autoindotta, poteva trattarsi soltanto di adrenalina, euforia risvegliata per la fuga e la reazione d’attacco eventuali, una specie di ubriacatura disinibita ma senza un barlume di vera gioia.
-allora andiamo, uno due tre partenza… no aspe…
Dovevano accordarsi su un segnale, una formula, e poi, uno da un lato e uno dall’altro, accompagnare e favorire l’accelerata del carrello, e scagliarlo contro il supermercato, che l’avrebbero demolito cazzo, era banale fisica era ovvietà era certezza da quella distanza in cui erano stati svolti fatti calcoli precisi, strada in cui raramente passano le macchine, spazio davanti al marciapiede tra due parcheggiate che sembrano star là da un secolo, cazzo gli avrebbero fatto prender fuoco dall’attrito a quel carrello avrebbe potuto bucare l’atmosfera cazzo avrebbero invece bucato il supermercato esattamente là dove a due passi all’interno si trovava il frigorifero e avrebbero sgraffignato il beveraggio senza nemmeno dar tempo agli addetti alla sicurezza di capire cosa fosse successo, non come le altre volte che il tipo se l’erano bevuto per bene quando aveva provato la strada convenzionale dell’entrare dall’ingresso e sgraffignare e darsela a gambe all’ultimo secondo.
Il tipo, un altro abitatore della strada, ma non certo un novizio come lui in questo, e dunque da costui aveva molto da imparare, insomma questo maestro della solitudine d’asfalto aveva studiato per settimane, forse anche per mesi, la parete del supermercato. La sua destrezza tecnica sorprendente a palpeggiare il perimetro cosparso di stampe di prodotti ortofrutticoli con la mano delicata che l’infermiere riserva al suo malato preferito, quello in cui incanala tutte le sue esigenze egoaltruistiche e gli permette di completarsi -nel caso di quest’uomo, a renderlo completo e felice è un piano d’attacco, o l’idea di averne uno, di esser stato proprio lui a escogitarlo senza vacillare, mentre quelli, tutti quegli altri, uscivano carichi di buste dalla giornata di compere e giravano lo sguardo disgustati allarmati evasivi passandogli accanto, vedendolo strusciarsi sulle pareti e carezzarle e avvicinarci le narici e le labbra sbavanti, che pareva fatto di mdma e forse lo era e doveva aver scoperto che quel languore di affettività carente amplificatogli di getto dalla sostanza trovava il miglior palliativo proprio in una parete di supermercato, ch’è colorata verde e abbondante come un frutteto, che è alta e t’abbraccerebbe, che ha dall’altra parte, oltre la sua pelle dura, una promessa di luci perennemente accese e jingle che t’accompagnano per corridoi variopinti di confezioni scintillanti stipate ovunque ai tuoi lati, mica come i rapporti umani che non potrebbero mai prometterti nulla di tutto ciò…
Fatto sta che alla fine c’era riuscito a concludere quale fosse il punto più adatto ai suoi scopi. Fatto sta che incontrandolo per caso doveva aver stabilito che fosse proprio lui il tipo che faceva al caso suo, il complice meritevole d’esser messo da parte del piano: giovane scheletrico e impallidito, di sguardo truce e che sembra aver già perso la capacità di sbattere le palpebre.
E quegli occhi muniti di nuova lente, il loro stesso arrossamento che forse gli filtrava e rivelava nuove cose della città, una diversa visione che attendeva d’essere scoperta e che poteva essere ottenuta soltanto in quel modo, soltanto attraverso quel modo senza patria d’abitare le vie percorse spesse volte, erano occhi che avevano registrato come vaghi ininfluenti spettri numerosi altri uomini coi denti bruni e la barba come una cartavetrata di infiniti puntolini aguzzi argentati, le magliette rosse impolverate e striate di grassi sconosciuti, e il filtro dei giorni girovaganti gli avrebbe potuto ricordare con uno sforzo che a questa immagine, sempre la stessa, corrispondevano proprio quelli accampati sotto le tettoie dei supermercati e nei loro pressi, uno stesso modello umano ripetuto ciascuno con la sua propria zona e nicchia dell’ecosistema, e il ragazzo sa che non c’è nulla di deumanizzante in questo, perché sa che queste esistenze che normalmente non lo guardano e lui non guarda loro hanno camminato tanto tanto più a lungo di lui e ciò rende il loro filtro proporzionalmente più netto e potente, per cui dentro i loro occhi tutti quanti che passano lui compreso, poveri ricchi zecche fasci musicisti balordi bestiedellaterra bestiedelcielo, sono precisamente questo: una ripetizione, una copia, una cellula, un prototipo spoglio di attributi superflui. Forse quando vivi nel ventriglio aperto e vivo della città senza mai proteggerti dentro i sogni, dentro il torpore d’una casa fissa che attutisce della strada ogni rumore e invasione, prendi a percepire come mai prima che la città è un macrorganismo e tutto ciò che ti è vicino e delle tue proporzioni non è che una sua cellulina e non c’è spazio per le identità, l’identità è solo la tua fame e sete e quello che faresti per loro, certo anche prima lo potevi immaginare ma era tutta teoria, o forse non è vero un cazzo e il fatto che lui, girovago di una settimana, stia continuando di tanto in tanto a teorizzare sebbene favorito da nuovi deliri febbrili partoriti dalle alienanti condizioni fisiche, è un segno che non può mai veramente entrare in questo mondo…
Ma riconobbe il prototipo: dentibruni magliarossa barbagraffia e questo era l’importante, era importante apprendere dalla sua saggezza, seguire la mano terrosa cicatrizzata ossuta sporcata da tutte le attività che esistono.
Questo il punto, proprio qui vedi, dove sono gigantografati l’ananas e la noce di cocco, tra queste due macchine parcheggiate, credimi credimi un carrello a quella velocità è più forte d’un toro in corsa, e se non ci credi beh che mi dici di quel tale che conosco che credeva di giocare alle giostre e invece pum è crepato rompendosi l’osso del collo in un parcheggio? Sono macchine incontrollabili, sono forze di natura, te lo dico io, la miglior arma contro il muro che ti guarda e crede d’averla vinta lui, fidati nella città che è una jungle non c’è bestia più temibile del carrello imbizzarrito in carica. E allora veniva da pensare, a sentirlo parlare così, che quando c’hai il filtro della vita acceso da tanto tempo come il suo, a forza di non veder mai passar per strada niente che abbia un’anima e a forza di non veder mai un animale mitologico manco se ti dai fuoco, finisce che scopri negli oggetti urbani nuove mitologie nuovi simboli e un carrello è una nuova chimera di ruote e carapace reticolato, la bestia che forseforse buttera giù con furia iconoclasta il capitale suo padre nella persona di un supermercato, l’ironia assurda dell’esistenza cazziemazzi e cazzo ci sto, disse lui anche se non con queste esatte parole, forse solo a grugniti e cenni, comunque si fa spiegare come deve fare anche se sa benissimo che non è vero un cazzo e che questo qua dev’essere fatto come una cicoria di campo per credere che la forza di un carrello sia sufficiente ad aprirgli davvero un warp diretto al paradiso delle birre schiumose al piscio che piacciono a lui, o magari sa qualcosa che lui non sa, magari gli occhi suoi vedono altro che a questo suo livello prematuro ancora non può vedere, si sarebbe trattato allora di una rottura simbolica, che stava ancora nascosta, un gesto necessario per altri motivi, e allora andiamo, e allora andarono, lui da un lato l’altro dall’altro, dopo aver cincischiato un po’ alla fine le gesta prendono vita e nemmeno t’accorgi della transizione, in un secondo, macché nemmeno, il carrello si schianta contro la parete e le sbarre intrecciate del muso si flettono e rimbalza all’indietro ininfluente facendo un fracasso mai sentito, una cosa orribile un clangore tipo una fabbrica d’aste metalliche che crolla su se stessa come tanti geomag smagnetizzati e la parete uguale a prima, no anzi no, c’è un’ammaccatura al centro dell’ananas e una crepa al centro dell’ammaccatura, e forse rimbalzando indietro il carrello ha rotto un fanale o due delle macchine parcheggiate ma figurati se loro ci hanno fatto caso, non è per questo che scapparono, e nemmeno perché s’aspettavano che a qualcuno fregasse qualcosa di quanto appena combinato, non certo il timore dell’intervento della sicurezza pronto a ricostituire l’ordine stravolto dal loro attacco anarchico, è bastato un istante dopo l’impatto per capirlo e non sarebbe cambiato niente se fossero rimasti fermi là a contemplare: nessuno in quel pomeriggio deserto sarebbe venuto nell’immediato a soggiogarli ma loro nemmeno un millesimo di secondo e scappano, scappano comunque perché c’è da scappare, e così corsero via e risero, uno da una parte uno dall’altra, si separarono lì, mai più si rivedranno, e quando le loro corse si incurvarono verso direzioni opposte e si trovarono sul punto di sparire a lati opposti dietro le file dei palazzi di fronte al supermercato, i loro sguardi incrociati, l’incontro delle loro euforie sorridenti a forma d’ictus comunicava: “ottimo lavoro”.
Pollo tornò a casa quella sera stessa. Non avrebbe saputo dire se ci fosse una correlazione tra l’esperienza del carrello e la conclusione del suo girovagare, anzi diceva a se stesso che non c’era o che non aveva importanza, semplicemente, come la si volesse mettere, adesso gli era passata la voglia. Ma la voglia se l’era soddisfatta, almeno: tante volte in passato, magari guardandosi attorno frenetico in piedi vicino a una qualche fermata d’autobus, s’era fatto la fantasia di starsene almeno un giorno -ed era diventata una settimana- fuori, mai rientrare, mai fermarsi, per dimostrare che tanto che vuoi che succeda?? A camminare per la città senza posa senza meta, il che a sua volta dimostra qualcosa ma non sa bene cosa. Ciò non significa che lo rifarà, ma in fondo chi se ne frega?, e così dicendo si ritorna ai giorni normali coi pensieri normali. Posò sul comodino gli invisibili occhiali che aveva acquisito, il filtro vivo, lo posò sul comodino dove stava accasciata ancora, da una settimana, la ricevuta dell’ultimo esame firmata dal professore, che qualcuno gli ha suggerito di conservarsi le stampate, non sia mai che crasha il portale online dell’ateneo che è fatto col culo, ma a Pollo come la metti la metti quella carta pareva solo un foglio che tende naturalmente a spiegazzarsi e rovinarsi anche riponendolo con massima cura dentro lo zaino, o sul comodino appunto, o nella sua memoria in cui quell’esame s’era già distorto, indistinto da tutti gli altri esami. Era partito il giorno stesso, non s’era fermato da allora, una specie di festeggiamento, e ora il ritorno.
Poco dopo gli arrivò un whatsapp di Mari. Saranno stati dieci mesi che non la sentiva, non poteva esserne certo perché pure il tempo gli s’era sminchiato, eppure non avvertì nessuna sensazione associabile allo strano all’innaturale al funesto.
Hey ti va di passare da me? Forse viene anche Croce 21:12
Ok ✓✓ 21:13.
Così si rividero e non c’era niente di strano, nessuna barriera tra dieci mesi fa e il presente, e se anche ci fossero state barriere e altre masse ingombranti nel mezzo, e anzi, sicuramente c’erano, non aveva nessuna importanza e si sarebbero visti l’un l’altra esattamente nella stessa maniera in cui l’un l’altra s’erano visti nell’ultimo momento prima che, senza motivo alcuno, senza nessun motivo davvero, smettessero di vedersi e sentirsi per un po’. Succede.
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Quando sta nel letto a contare i pensieri non-pensieri che ha avuto nel corso della sua stralunata parentesi di flâneur drogatosi di cemento e asfalto fino a raggiungere lo stordimento che riveste di sublime la loro triviale poetica, Pollo si ritrova a pensare anche ad altre cose tutte mischiate, e il filtro gli si affaccia anche sul resto, e sente forse, in un pezzo di petto che agonizza zitto e muto in maniera subdola, come di non aver mai avuto una casa nemmeno in tutte le altre situazioni, s’autoelegge esiliato eterno, e di poterle riguardare, ‘ste situazioni, con gli occhi diversi, e tutta la rabbia e il disgusto che ha provato, cosa sono stati? C’erano emozioni nuove, impossibili da verbalizzare, che lo hanno abitato come parassiti in quei giorni e forse gli hanno lasciato dentro delle uova, che anche se ormai morte e secche e sterili sono sempre depositi di materia organica viscosa e densa che prendono spazio dentro di lui, e lo cambiano, lui Pollo che odia il nuovo e odia le proprie emozioni s’è riempito le cavità interne dell’una e dell’altra cosa e della loro progenie e nel letto le ripercorre e cristo è come se, fermo con la schiena sprofondata nel materasso e lo sguardo notturno al soffitto come ha sempre fatto da una vita, si sentisse infinitamente più stremato di quando non si fermava mai, o forse ritorna adesso la stanchezza delle caviglie che si son sentite spaesate a star ferme e galleggianti sul morbido, e hanno avuto una reazione, hanno liberato tutto quanto avevano trattenuto…
Nella testa di Pollo prende vita una scena strana. Sarebbe stata la prima di tante. Sono sull’isola vulcanica: c’è Croce che bruca certe strane specie di cactus in cima a una sporgenza fustigata dal sole, e lui e Mari lo guardano da lontano e lo prendono in giro, quand’ecco, un colpo secco di lupara: Croce è stato sparato, il suo corpo piomba giù velocissimo come se la gravità intenda reclamarlo in maniera speciale, carcassa ineluttabile giù nelle onde che fischiano sotto il promontorio, e loro due confusi si girano e li vedono, i coniugi agricoltori assassini uno con la canna fumante l’altra con un impressionante falcetto da tristo mietitore che potrebbe scotennare qualsiasi erbivoro, oh ma che cazzo avete fatto, e quelli sputazzando da facce cotte urlano che si stava mangiando tutto, dovreste ringraziarci, cosi come quello vanno levati di mezzo, non sapete a che pericolo vi siete esposti e così via… dopo un secondo Croce eccolo alle loro spalle, tutto intero senza ferite, la pelliccia che riluce quasi come a ostentare ridicolmente che “non è successo niente” a parte un bagno che l’ha ripulita per bene la sera prima, e capirai, niente di che, lui sopraggiunge alle loro spalle dopo che l’hanno visto chiaramente crepare come un cane come una capra che si rompe le corna sugli scogli e finisce al mare che sotto la superficie è tutto un pullulare di dentini aguzzi saprofagi di pesci e chele che ti spolpano e ti fanno sparire, ma lui sta bene, pare che non è mai stato meglio, anche se l’hanno visto ieri che era nervoso, anche se coi sensi da bestia l’aveva forse intracapito, ma in fondo che sarà mai una morte violenta nella canicola del mezzogiorno, giù da un dirupo nel mare che già tanti ha cancellato.
E loro all’inizio soltanto un po’ sorpresi, più che altro offesi, e che cazzo è successo sei resuscitato o qualcosa del genere??, e lui, con un’aria che ti vien voglia di pestarlo o di farti prestare la lupara dal buzzurro per finire il lavoro, ti risponde: “ormai…”, dice, e non chiarisce a che diavolo si riferisce con quello, “ormai… sarebbe stato più strano se, per una cosa così, fossi morto sul serio”, e riprendono a camminare tutti e tre per l’isola come se non fosse successo niente e difatti la verità si presenta proprio nella veste del nonèsuccessoniente, e Pollo se lo guarda per bene Croce in quel momento, infinita delusione nella faccia cogli occhiali scuri che cerca di mascherare i fremiti comunicativi ma stavolta non ce la fa, mai stato così schifato da un animale, e non è che non glielo dice: “mi fai veramente schifo”, gli ha detto, con un tono scarno come gli enunciasse il meteo perennemente arido dell’isola, e Croce “mi ami mi ami lo so…”, e poi niente di strano fino al bungalow, e quella forse è stata l’ultima interazione verbale tra lui e Croce, non ricorda bene, sono passati più di dieci mesi…
Subito si incatena a quella -anzi no, c’erano state tante altre scene in mezzo probabilmente, sfumate e scambiate di posto e ripercorse- la scena successiva, in cui Pollo è lì: sul letto, nel presente, nel buio, piena notte: a un angolo della sua camera, in piedi, non molto alto, insarcofagato nell’incrocio tra le pareti, sembra guardarlo un ladro, tutto rivestito di nero, il manto di una notte eterna lo ricopre sempre… è semplicemente il suo colore, è così che te lo vedi apparire nella mente, il ladro, un essere infagottato nelle ombre. Gli occhi aperti sono cerchi netti bucati al centro, e il cerchio una lieve fosforescenza che esalta la fissità, come strane stelle che, dall’angolo, fissano Pollo che sul letto si finge morto o dormiente o immerso in un sogno, sì è tutto un sogno nulla da temere, e il ladro, sapendo tutto del suo peculiare oggetto d’interesse, leggendolo dentro, non infierisce: sussurra soltanto: “t’ho scassinato la porta”, e non dice né compie nient’altro, ha fatto cioè detto tutto quello che doveva. Pollo annuisce, segnalandogli che ha capito. Sembra quasi che quello risponda con un piccolo cenno, ma è difficile capirlo. Non gli resta che restare là: nell’angolo con gli occhi di stelle fisse, il cerchio di luce attorno a una pupilla che è un buco nero, ma è col cerchio della sclera che ti scruta, continua a farlo, ogni tanto rigirandoti ti senti lo sguardo indosso, e dando un’occhiata al cerchio bucato semifosforescente nel buio pesto della camera che questa notte aveva sete e s’è succhiata più tenebra del solito dal mondo spento là fuori, ti sembra d’ipnotizzarti quasi, e che ti ritorni il sonno, poco dopo che il ladro è sparito, lentamente, semplicemente, dopo aver fatto tutto, cioè esser stato là piantato come uno spaventapasseri nei campi tremebondi dei pensieri notturni, in una sorta di letargo d’occhi aperti che dormono e non vedono pur non potendo chiudersi, ma senti che la tua presenza, fino ancora all’ultimo istante prima di dissolversi, la avverte in qualche modo, la fiuta, con gli occhi, ne registra il calore corporeo, con una lingua che non vedi, perché il resto di lui è solo strati sovrapposti e incrociati di nero, e quando poco a poco spariscono, cancellandolo da lì, ti sembra quasi che lo faccia con la serenità e la nostalgia di un caloroso saluto separatore, quasi lui avesse desiderato, bramato dal fondo dell’anima, di sparire finalmente.
Eccetera eccetera, sembrano mormorare le numerose scene che si susseguono, e che accompagnano Pollo tutte le notti a partire da quella nottata inscenando ciclicamente parate grottesche di medesima struttura segreta e variazioni in ciò che si mostra, sogni d’oro, sleep pretty darling do not cry, ed è come un rumore di fondo che gli concilia o forse gli demolisce il sonno -disabituato, non sa dire se siano gran belle dormite o al contrario scaglioni di un’insonnia patologica- facendogli risentire tutti i frammenti di canzoni ascoltate, belle e brutte e passive, e di conversazioni e delle forme visive che tutte le cose i rumori gli istinti scaturiti dai contatti assumono nel buio profondo, e insomma, a prescindere da gran dormite e insonnia, è un gran bel casino, c’è un gran rumore nella camera da letto di Pollo e su questo non c’è dubbio.
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Mari aveva commentato di trovarlo malconcio, dimagrito, quasi più ingiallito che pallido.
Qualcosa non andava, chiaramente, disse, mentre aspettavano tranquilli che l’acqua per la tisana sul fornello bollisse.
Pollo non disse nulla riguardo alla sua lunga camminata, ma a dire il vero non era stata quella a ridurlo in quel modo, o meglio, era probabile che Mari avrebbe fatto esattamente gli stessi commenti se l’avesse visto com’era prima di partire, prima dell’ultimo esame. E non era nemmeno colpa dell’esame -figurarsi se Pollo, uno come Pollo, al cospetto di tutti i giorni passati in compagnia di Croce a insegnarsi a vicenda la fuga da tutte le mediocrità sentimentali del vivere studentesco, ancora poteva soffrire di quelle scariche gastrointestinali stimolate da preoccupazioni tanto triviali, ininfluenti, lontane dal ricercato nirvana d’odio e distacco da quanto è umano e brutto a vedersi. Pollo stava male da prima, ammesso che stesse male.
Certo, gli si presentavano immagini, situazioni immaginarie o sensoriali, o di sensazioni soltanto apparenti, che talvolta lo turbavano.
Ma in fondo si reggeva in piedi: occhieggiando di tanto in tanto Mari seduta al tavolo, stava infatti appoggiato allo stipite della cucina, nella quale preferiva non entrare, la cucina della casa di Mari in cui s’era svegliato a notte fonda più d’una volta per scacciare spettri sgraditi e bere acqua fredda dal sapore d’alluminio, la cucina di Mari o meglio della casa d’un suo parente morto che Pollo non ricordava quale fosse e non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederlo, forse persino imbarazzato, in minima parte, d’esserselo dimenticato, di aver ascoltato molto distrattamente quella volta in cui lei gli aveva spiegato come mai una studentessa possedesse una macchina sua (quella la ricordava: gliela lasciava sua madre che aveva sviluppato una forte fobia della guida) e un appartamento tutto per lei… a Mari, almeno a lei, gliel’avrebbe dovuto, pensava.
Ma lei dal canto suo sembrava intuire questi pensieri e non esserne affatto offesa, anzi -ma questa era l’impressione di Pollo, certo un’impressione assai nitida-, in qualche modo, forse coi gesti, con un’atmosfera sua irradiata dalla flemmaticità delle spalle e del portamento, sembrava quasi condonare quel groviglio di sentimenti tentennanti, scaturiti dal non chiedere, dal dimenticare, dal non aver ascoltato, dall’aver l’ansia di tutto ciò ancora adesso… eppure, comunicava implicitamente, non c’era nessun motivo d’averla, quest’ansia: a lei non importava, quando li beccava in flagrante nel loro stereotipico maschile disinteresse, non la seccava proprio per niente, sembrava. E in quei momenti era difficile capire se quella di Mari fosse una passività profonda, capace di perdonare e nutrire tutto come una madre sotterranea dalle lunghe e generose radici, oppure una forza interiore tutta sua, che la rendeva, in realtà, molto più adatta a star sola di quanto Pollo e Croce si vantassero d’esser capaci di stare.
Che seccatura.
-ho sentito che hai dato l’ultimo esame. Bravo.
Pollo fu colto alla sprovvista. Gli sfuggì detto: grazie.
-ma chi te l’ha…
-hai presente Aldo, il coinquilino di Giada e Romeo del gruppo teatrale?
Pollo finse di non ricordare chi fossero questi giaderromeo sciorinati come se niente fosse, come se lui fosse uno a cui frega qualcosa della gente che se ne dovrebbe stare buona e ferma in un mediocre passato da non rivisitare, ma ammise che sì, Aldo aveva fatto l’esame lo stesso giorno, in fila per il turno dopo quello di Pollo, il quale, dopo aver inviato a chi gli pagava le tasse universitarie una foto della ricevuta ed essersi così comprato un po’ di pace, assicurato un prolungamento di indipendenza e poche rotture di palle, s’era immediatamente incamminato verso casa e poi per la sua strada.
-e dove l’hai incontrato?
-al Jazz Club.
-ah, ci sei tornata?
-sì ma non è che lo frequento spesso. C’ero andata con uno.
-ah. Non sapevo che ti stessi vedendo con uno.
(no che non lo sapevi, brutto coglione. Ma sentiti. Come parli???)
-mah guarda, due palle.
Pollo riprodusse come un vecchio registratore arrochito la sua risata simile al verso di uno che riceve un calcio agli stinchi, che Mari riconobbe e accolse, con un sorrisetto forse affettuoso, forse amareggiato da quelle cose che campano di inerzia.
-era peggio lui o il jazz dal vivo?
-no no quello anzi… Art Blakey… o era… Monk?
A quel punto Pollo girò lo sguardo verso Croce, aspettandosi che bestemmiasse e che dicesse che c’era una bella differenza del cristiddio, ma quello se ne stava placido ad aspettare che l’acqua bollisse. Notò accanto agli sportelli dei detergenti una ciotola dell’acqua per gatti in attesa d’esser riempita, per Croce, che si sarebbe trangugiato ogni goccia proprio come un gatto con la lingua rasposa. Se avesse avuto voglia di piantar grane, avrebbe cominciato a dire che anche una tisana notturna rientra tra le sostanze psicotrope che gli danno un umore del diavolo, ma in quel momento, la cosa sembrava non importargli, anzi, sembrava sapere, quasi sereno e uso a un mondo fatto solo di cose ovvie così come appaiono, che nulla gli avrebbe modificato l’umore. Imperturbabile sedeva con la coda schiacciata tra il deretano e il pavimento.
-vabbè, tu adesso che farai?
Pollo sbuffò.
-aspetto un anno. Dirò che sto scrivendo la tesi e che ci vuole tempo e che non sanno come funziona e tutto il resto, così mi lasciano stare. Poi quella la scrivo in una settimana. Intanto, boh. Cazzeggerò.
Mari annuì con inchini profondi, fingendosi ammirata.
-sono contenta che hai preso una decisione così ben congegnata.
Grazie, rispose di nuovo.
La tisana era fatta con l’acqua dal sapore di alluminio della casa di Mari. Menta e liquirizia mischiate al metallo. Sulla lingua Pollo sentì concentrarsi un sapore complesso, d’un corridoio, che pare la trachea scarsamente illuminata di un portapranzo in amianto, refrigerato alla bell’e meglio dalla posticcia fragranza erbacea di un deodorante per ambienti, che poco a poco scema, lasciandosi dietro soltanto una scia paurosamente affine a quella del mappazzone chimico che impestava la scuola elementare dopo il rientro, quando i bidelli prendevano vita.
Ed è strano, perché anche se quel fondo metallico è proprio l’acqua di Mari, la casa di Mari non ha niente di asetticamente grottesco o brutalista o che ti fa pensare a snervanti attese tra i gangli di una burocrazia kafkiana depersonalizzante, e allora forse ci sono luoghi e momenti storici del condominio di Mari di cui Pollo non ha idea, chissà, magari ci sono delle stanze nascoste non ristrutturate dai ‘70, e se ci andasse Pollo vedrebbe a notte fonda accendersi lì una lampadina nel cui bulbo pulsa una luce morente da miniera, da qualcosa di inorganico che viene scavato e rivelato e mostrato in tutta la sua lontananza da ciò che è vivo e respirabile… anche l’esterno, del palazzo, della zona tutta, non avrebbe mai fatto pensare a interni del genere. Eppure, dovevano esserci. Nascosti dentro quegli edifici. Così come ci si nascondono le blatte e i ratti, trovando il modo, scoprendo tunnel che sono ovunque e sembrano non star da nessuna parte. Anche lì, in quella zona, che sembrava una periferia: Pollo non dimenticava i campi incolti, grossi pezzi di terra spinosa, estesi di là dalle pareti e dalla finestra e dalla strada, e che in estate si sentivano certe volte le cicale fino alle prime ore del buio, e tanti altri segnali vicini e lontani -ed ecco il caracollare inconfondibile del treno, attraversò quello squarcio di campagna intraurbana, ad annunciare che, alla fine, il notturno a un certo punto era stato ripristinato.
Croce bevve senza fare una piega, non rilevando tracce particolari nel sapore dell’intruglio.
Mari versò dentro al suo un goccio di caffè freddo conservato in frigo e una strisciolina sottile di Strega, un vero schifo, e seduta con le gambe incrociate e lo sguardo mezzo addormentato mescolò il tutto con una sicumera regale, che nessuno mai avrebbe voluto dirle niente.
Si ribeccano, tutti e tre, quattro mesi dopo, verso halloween, che Mari avrebbe voluto festeggiare con altri che le avevano dato buca, e all’ultimo chiama gli altri, certa che non avessero piani e c’era da ridere solo al pensiero, e propone loro di affittarsi una notte in un agriturismo a un’ora circa di treno e di portare almeno i soliti giochi del cazzo o magari vedersi qualche porcata di stoner movie o fumare davanti al dvd del Live at Pompeii, e fanno queste e altre cose, e a notte fonda sentono Pollo che rantola forte, e lo trovano fradicio e sveglio nel letto, e quasi s’intravvedeva nel buio quello sguardo insanguinato, ma è accendendo la vecchia consumata abat-jour campagnola che lo vedono per bene, sebbene un po’ distorto, reso quasi etereo e più calmo dalla luce particolare come di veli di linfa vegetale, ma nonostante quei bagliori nonostante l’ora tranquilla con la quiete che inchiostra l’intera campagna, lui sta male e su questo non si discute, gli occhi sono arrossati che sembrano pugni di sangue coagulato e la faccia non è da meno, è notevole la mutevolezza della cera di Pollo, ed è rosso rosso rosso il volto come gli occhi, e le labbra gli tremano per le cose che gli incubi gli fanno dire, lo costringono a sussurrare in una lingua inudibile, anche se in fondo non è niente di strano, non si tratta che di brutti sogni, che passano anche quelli, e Pollo sta solo soffrendo di attacchi di un qualche male che in fondo non gli complica l’esistenza più di quanto si crederebbe, tutto qua, e Mari vedendolo così gli fa ommadonnamatustaimaleveramente, e Pollo tremando ehggrazieperesserteneaccorta, che è una cosa strana detta da lui, è un’ammissione, ma in fondo gliela si perdona, perché è un amico. E Mari e Croce lo accudiscono come possono, e lei è contenta che Croce almeno sia ormai completamente muto e questo è un fattore da non trascurare per il modo in cui rende meno complicati quei momenti di montante affaticamento che lei conosce bene in cui ci si sforza quanto più possibile di voler bene a un certo qualcuno che nuota controcorrente al desiderio di volergliene, che le sembra di lavorare non pagata, o sottopagata d’un bene che non è neanche chiaro cosa sia. E anche se una cosa del genere non è mai successa, ha l’inspiegabile sensazione che sia sempre andata a finire così, ogni volta che si sono visti.
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