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le isole di Brian Wilson (ep.5)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 23 ago 2024
  • Tempo di lettura: 23 min

Aggiornamento: 12 ott 2024

L’intera giornata si era presentata da subito uniforme: la comparsa di un essere immutabile davanti ai primi sguardi di veglia.


Una sagoma, una presenza in un angolo della camera da letto, o a un angolo proprio del letto del bungalow, netto come l’odore di polvere che intride materasso e lenzuolo. Presenza alla presenza annebbiata degli occhi semichiusi nel letto, semiciechi come inetti cuccioli che, nella penombra materna d’un nido, non sanno far altro che rotolare d’un lato contorcendo le zampe e la faccia protesa ad aguzzare inutilmente i sensi ancora sottosviluppati, inciampare nei difetti del loro trascinarsi ancora come zavorra dal grembo quella mezza deformità che li rendeva adatti a quel precedente mondo amniotico, a galleggiarvi a mo’ di anonime soddisfatte cellule per un’eternità improvvisamente interrotta da qualcosa di ignoto ed enorme e brutale.


Così s’era vista comparire sin dal mattino la stessa luce che ci sarebbe stata nel primo pomeriggio, e nel pomeriggio tardo, e prima del cielo cobalto e poi subito buio soltanto cinque minuti di fuochi arancioni e fucsia e viola nelle nuvole del tramonto a sfoggiare tutta la pirotecnica celeste della sanguinità meridionale con le sue tinte calde di cicatrice riaperta e strabordante di incanto.

Per il resto, uguale. Compatto uniforme identico fermo. Il cielo e la luce e il calore indistinti, lo stesso gravoso stordimento gastrico dell’ora postprandiale già si affacciava con le prime luci fingendo d’esser lui a uccidere il sangue o il principio di vita dentro i tre corpi malati che si preparavano a svolgere una specie di compito che sì, quello almeno l’avrebbero fatto, perché s’era deciso, perché ormai era così facile finire di svolgere qualcosa con un atteggiamento che ne svelle l’importanza e così l’alleggerisce, cosicché basti muovere qualche altro passo automatico nel paesaggio e il fatto finisce di compiersi da solo, e nessuno potrà dire d’essersi sbattuto inutilmente per nessuna intrapresa scema -e insomma la luce e il giorno e l’atmosfera e compagnia eccoli a mostrarsi così orribili sin dalla prima invasione che espugna il sonno in modo da potersi prendere loro la colpa, la responsabilità d’una morte interna che col meteo forse non c’entra del tutto, magari ci è parente sì, magari una parte appartiene anche a un insieme di tempeste e rivolgimenti inconsulti della materia luminosa e della temperatura dentro di loro, che mai riusciranno a prendere una decisione definitiva, se è peggio ciò che gli fa sentir lo schifo dal di fuori o dal di dentro, e in fondo che importanza ha?

Nemmeno quando staranno a tribunale davanti agli angeli inquisitori che vorranno sapere tutti i perché e i percome avrà importanza, no loro insisteranno nell’indifferenza e nell’ignoranza e che male c’è?

Tanto ora non era a loro che toccava, e se anche avessero deciso che toccava a loro prima che fosse un destino arbitro coi suoi capricci di merda a deciderlo, che male ci sarebbe stato?

Tanto adesso era a S. che era toccata, poveraccio, e speravano che portandolo in cima a un vulcano, inscenando un bel rito primordiale d’addio, ne seguisse che dall’altra parte di “tutto questo”, nell’altro mondo -che sarebbe potuto anche corrispondere alle profondità del vulcano stesso per quanto li riguardava- succedesse qualcosa che mutasse le sorti del suo interrogatorio, del suo eterno nauseato riposo di eterno vomito in gola, senza pace neanche nell’aldilà, eterno riposo d’eterni barbiturici che mica finiscono come quelli della Terra, nossignore di là le cose si fanno in grande e in astratto, tutta matematica niente fisica e niente chimica, soprattutto cioè niente tanfo carbonico di fluidi fermentanti quando ti ritrovano il corpo storto a terra; no no invece è bello il nostro S. dall’altra parte, è brutta invece questa giornata di merda che sin dal risveglio ci fa vedere come camminiamo dentro la caricatura di una squallida vacanza con le sue cartoline di squallida vacanza, fatta di scelte avventate magari, di ripensamenti, di avremmo dovuta pianificarla meglio questa cosa, di ma è mai possibile che si trovino solo informazioni sbagliate io giuro che avevo cercato diceva che la funivia era in funzione, della fatidica menzione del covid e di come con quello sia stato ucciso ogni proposito di rivivificare ciò che da un pezzo era morto, e di investire perfino per far sì che le seggiole e i cavi lì alla funivia desolata non assomigliassero alle scrostate giostrine di un parco giochi vicino a un qualsiasi asilo chiuso che sembra che nella pioggia di novembre che si versa su girotondi e altalene ci sia mischiato il piscio dei bambini che ci andavano a ficcarsi in bocca pezzi di plastica e sbavare su tutte le superfici mai esistite.


Una signora color terracotta stava là, dentro la cartolina squallida, senza speranza che le sue parole e azioni facessero pensare, ai tre che avevano chiesto di salire, che dietro le sue orbite oculari si potessero celare altri mondi, per i quali loro stessi erano parte d’altrettante cartoline, no, signora rugosa terracotta d’azioni e parole che mai mai le farebbero prender vita dall’altra parte dell’appiccicoso schermo della cartolina, è una muta sagomatura nel paesaggio che sta lì stampato, e infatti come stampato e squallidamente solare s’era presentato a loro quando ci erano arrivati ed erano stati per qualche minuto torrido e cicaleggiante a contemplare le seggiole cigolanti sul vuoto dai cavi, il grigio e verdeacqua scoloriti dei piloni della stazioncina che erano una volta bianco e chissà quale tipo di verde scuro. È una statua, la signora seduta là dentro, non è che ci ha un’altra vita, fuori da là, non è manco così vecchia che potrebbe averne viste di generazioni di trii scoglionati di giovani che s’inventano viaggi e missioni più per ammazzare un tempo che per dare sepoltura a un altro.


Ma facciamo in tempo a tornare in albergo per le nove sì o no. Non lo “saccio” o qualcosa del genere. La Opel che Mari usa, la Opel della madre è rimasta a casa, non ce l’hanno fatta salire sulla nave, Mari non voleva, non ha proprio voluto che si insistesse, e chi avrebbe potuto capire quale ragione le avesse messo in testa di non darle il mal di mare a nessun costo a quella macchina?

Contenti loro che si spostano a piedi sull’isola e manco stanno mai a guardare l’orologio, a marciare e basta tutto il giorno.

Poi venticinque euro a testa, poi che altro dice la signora terracotta?, ah sì che lei sta là, spiega, perché è stata avvertita da quelli dell’albergo quelli che ci hanno i bungalow giù fuori dal paese che agli ospiti avevano chiesto che volevano fare e quelli avevano parlato di vulcano e funivia, spiega la signora terracotta che l’hanno avvisata, spiega che se no non ci sta mai nessuno.

E poi arriva altra gente, operatori insomma là assieme a lei si mettono ad azionare tutto il sistema che se no se ne sta tranquillo morto nello sconfinato pomeriggio prima di pranzo e anche dopo, mica tanto statue in fondo visto che sanno far muovere quel coso quel sistema meccanico che pare un mostro e non dev’essere uno scherzo.

Ma la stranezza, l’inspiegabilità degli operosi caronti ch’esistono solo per loro, apparsi inerpicantisi tra i rialzamenti terrosi stritolati dalle radici che nutrono quei rami secchi ripetuti per tutta l’isola,

saliti là per loro solo per loro,

col sudore sulle facce terracotta e rosa e olivastre che luccica come le striature intermittenti del sole sul mare quasi a segnalare visivamente e con eccessiva ovvietà che non sono fatti d’illusione e che stanno proprio là -insomma questo incanto d’imprevisto, come di muti personaggi da fiaba che adesso li fa salire verso la cima d’un vulcano orfano di turisti, nemmeno lo sentono, tanto forte sentono altro, tanto squallida è la squallida vacanza dei tre camminatori stanchi e annoiati che vogliono salire con la funivia e portare in cima al vulcano una scatolina di ceneri che chissà quale parte del vecchio S. erano anzi sicuramente sono un gran casino di granelli che ciascuno viene chi dal femore chi dal lobo di un orecchio chi da tutte le altre parti che non c’entrano niente con quelle che stanno appaiate eppure c’entrano tutto perché un corpo è un corpo, ma soprattutto quando è polvere lo vedi che non c’è tanto da stare a porsi domande sulle categorie, sugli apparati, su quello che erano.


Anche mentre salgono i pensieri si susseguono frettolosi, come inseguiti, come non volessero lasciar tracce.

Osservano dall’alto.

Qualche albero ogni tanto si vede.

Qualche chioma che sembra un ortaggio, come quelle che vedresti dalle funivie del nord, di montagna -chiamarle montagne queste, boh, sono rocce che scottano peggio del carbone, sono uova di draghi spinosi senz’ali, ruvidità terricola.

Eppure sono montagne anche queste, tecnicamente, sono abbastanza alte, sono alte le guglie dell’isola, c’è sull’orlo d’un crepaccio da qualche parte un capovaccaio morto che l’ultimo s’è strozzato un secolo fa col veleno d’un’esca, ci sono anfratti ci sono cespugli di innumerevoli specie di spine.

Salite scoscese, dall’alto sembrano lingue di grigia sabbia lunare, distinte dalla sabbia e dalle terre ocra di tutto il resto del volto del suolo, ocrabrunogiallastro che più di tutti gli altri colori della terra si succhia lo stillicidio incessante del sole.

E su questa terra e sue queste salite e in questo habitat, qualcosa insegue?

Come dal finestrino sfrecciante nella canicola gli occhi di bambino potrebbero immaginare la comparsa di una figura che a balzi e scatti lungo l’autostrada accompagni la velocità della vettura e accanto vi disegni una singola esistenza viva nelle ore morte del viaggio, gli occhi loro potrebbero disegnare per gioco una viva macchia nera sul suolo torrido.

Un segugio nero.

Sulle loro tracce.

Ma non è niente del genere che li bracca.

Non sono tracce di loro corpi, timorosi d’incolumità, o di loro rimorsi, timorosi di ripercussioni, che i pensieri in impennata intendono cancellare, non posandosi mai troppo su nessuna di quelle immagini incontrate, scartolinanti come pamphlet del tedio estivo attraverso i blocchi di quella giornata immobile.


Faceva caldo alla stazione della funivia faceva caldo in cima al vulcano.


Mari una volta è stata in gita sul Vesuvio. Era piccola. Giurerebbe che lassù quello che sentiva era proprio il calore del magma sotto i suoi piedi, sotto la pavimentazione di roccia lavica che era il fuoco stesso per lei, per lei che si sognava mondi di fornaci sotto le scarpette, per lei che nell’idea d’un vulcano ancora ci vedeva una gigantessa dormiente una specie di grande sirena del fuoco e non dell’acqua. Questo no, questo vulcano non conosce niente del calore dentro la terra. Quello che si sente qua, battere sulle spalle e piovere tormentosi aghi di torpore dritti sulla sommità della testa, è lo stesso caldo della stazione, e dell’altipiano del giorno prima, e del porto all’arrivo il giorno prima ancora, e della camminata che non s’è fermata mai e…

E a casa.

Stesso caldo.

Pollo pensò, per un’istante, a un caldo in terrazzo, con la città sotto di lui, un cancro pulsante di ribollitura che è quasi un rumore, quasi un toccare su un corpo la parte ferita o infetta che si surriscalda per una frenetica attività sottocutanea, ch’è un’ansia di protezione in realtà, ch’è in realtà come gli organi della città tossica rovente percorsa da infiniti ingiustificabili fremiti che in circolo vizioso l’arroventano ancora di più e che Pollo avrebbe giurato fosse uguale a quel calore in cima al vulcano, e non importavano le differenze tra la montagna e il palazzo, non importava che nelle scale per arrivarci in terrazzo non si sprigionasse dagli anfratti della salita di tanto il tanto il gineproso sentore di macchia mediterranea, e non importava che sopra i condomini degli studenti e sopra la ritta sagoma dell’ecomostro degli schiavi lavoratori stranieri non volteggiassero i voli di certi corvidi che prosperano sui picchi pieni d’ossa e spine e rocce bollenti.

Cazzo non importava niente: per un istante, per una frazione di tempo imprendibile e totale, quel caldo era stato il caldo di città, la loro partenza un nulla, la loro marcia e risalita nemmeno un passo fatto da dove erano partiti.


Croce avrebbe giurato che se non l’avessero finita presto con quella storia i suoi belati inespressi avrebbero compiuto una rinascita dentro i suoi stomaci e gli sarebbero risaliti a scalzare i pensieri, che come quelli degli altri galoppavano, scalciando sassi, che erano poi gli stessi rumori sbriciolosi improvvisi che ogni tanto facevano eco dai bordi del cratere e scendevano giù giù da dove loro erano venuti, scivolando lungo le lineari impervietà di una terra verticale sulla quale loro, per natura, non sarebbero dovuti poter salire -loro altri, senza zoccoli, senza il segreto alchemico del numero quattro negli arti che poggiano al suolo, presuntuosi bipedi, ignoranti. Che ne sapevano dello sforzo che ci vuole a trattenersi dentro un irrefrenabile slancio al belato? Una dichiarazione nuova, un lamento che diventa qualcosa di mai udito... meglio che se ne resti nell'incompiuto allora, che non s'oda mai.


Non poterono resistere dall’osservare per un po’ l’interno della voragine.


Una gola frammentata in panneggi rocciosi, fori, cunicoli ondulanti a formar la stampa di un orecchio interno osservato con la lente, s’apriva vasta, e subito stretta, instabile, all’interno del cratere spento, per poi culminare in un punto di fondo che non ci si poteva sporgere a guardare. Su una sottostante sporgenza, la stazione superiore -l’unico relitto antropico- posava come una mosca verdastra su un eroso costone di terra polverosa. Da lì, una salita faticosa che avevano percorsa ansimando senza profferire una sillaba.

Senza voltarsi per non perdere l’equilibrio, avevano sentito dietro le schiene l’eco dei fili in moto, qualcuno che saliva, e che altri non erano che certuni degli operatori che erano venuti, perché ci fosse qualcuno anche alla stazione di sopra quando gli unici visitatori avessero voluto discendere.


Lungo le labbra brune del vulcano, da un versante e dall’altro, nessuna distante macchiolina bianca né colori sintetici di scritte di t-shirt o cappellini o zaini spessi a segnalare altri invasori di quel silenzio spezzato dal vento, che soffiava un rantolo pruriginoso e che certamente non soffiava giù al livello del mare, seppure convogliasse anche a quell’altezza soltanto masse d’aria calda, ininfluenti in fondo, s’annullavano nell’aria circostante, diversa solo perché statica. Non attraversata da schiamazzi. In silenzio Pollo, più degli altri che pure stavano zitti, s’ergeva sulle punte dei piedi, sporgeva il collo a guardare, stancandosi dell’azione superflua e nel simultaneo sforzo di zittire il fischio del respiro suo attraverso le narici, così fastidioso, così chiacchierone in un mondo che, almeno in teoria, avrebbe dovuto possedere una qualche forma di pura, incorrotta asprezza, si tratta d’un cratere maledizione, un ingresso d’inferno che dovrebbe esser buona alternativa al parlare dei vivi. Sembrava che nessuno volesse bene a quel vulcano. Ma neanche l’assenza di turisti, che pure dovevano essere esistiti in quel luogo, a diventare fantasmi scoloriti in vecchie fotografie come quelle appese alla bacheca della stazione, a ricordare d’esserci stati -anche l’estinzione dei loro vestiti luccicanti sulla cima e dei loro rumori che parlavano di tutto meno che del vulcano non era riuscita a restituire a quel luogo selvaggezza od orgoglio di natura austera, e più che una montagna ritta in mezzo a quattro elementi sembrava un enorme cantiere, che scarnifica e buca un quartiere in ricostruzione, che soltanto per caso, per certe erbacce per certi corvi per certe anarchie minerali, assume vaghe parvenze di selvaggio, ma pur sempre è un cantiere.


Non che lo criticassero. Sarebbe stato troppo anche per il loro cinismo, insultare un vulcano. Ma sì, glielo concedessero: una minima impressione di lava e di fuoco e di fumo che un tempo si slanciavano dalla bocca, con uno sforzo, la si avvertiva. E il panorama comunque era bello, comunque il mare tutto attorno, comunque gli uccelli e il profumo erbaceo e forse forse anche cinereo se si fa appunto quello sforzo, e la sensazione che l’isola sia quella, tutto quello che hanno percorso nient’altro che una riproposizione del punto focale…


e loro c’erano venuti, ponderata scelta d’un’isola che sarebbe pure potuta sparire dal mare o non esser mai apparsa su nessuna cartina di navigatori né mappa satellitare, e sulla punta bitorzoluta e inospitale erano sul punto di affidare a quel vento cupo una parte delle ceneri di S., che avevano visto in città universitaria e per un periodo l’avevano incontrato per caso sempre gli stessi posti sai com’è i chioschi i caffè le copisterie i negozi lungo la strada e per un periodo avevano detto ah sì lo conosco di vista e perfino sporadiche chiacchiere di dischi al bar accanto al tizio che vendeva i vinili e perfino un paio di volte ritrovati con lui al cineforum che erano state le uniche uscite vagamente sociali di Pollo e Croce che già si conoscevano e trascinavano a vicenda dentro se stessi e avevano partecipato a queste cose solo per criticarle dalle sedie in fondo, e insomma lui S. mentre quelli del circolo si scannavano sul terzofemminismo e se i britannici si sono bevuti il cervello o magari è da ammirare quella loro capacità di riuscire sempre a odiare qualcuno, lui S. in mezzo alle domande velenose s’era innocentemente azzardato a fare una domanda tecnica sul film che era per genuino interesse mica per vantarsi come quelli che dopo un esame di cinema erano tutti uno sciorinare iconici piani sequenza e compagnia, ma quelli manco lo fanno finire che un altro po’ lo spolpano e Pollo e Croce giù a ridere di quella risata che pareva il ribollire d’un logorato stomaco pieno d’acidi, perfino loro a ridere, che qualcuno si sarebbe potuto preoccupare se non ammalare come se a ridere fossero state nientemeno che le schiere di belzebù, e tra loro proprio s’era perfino detto una volta che non era poi la peste quel tipo chiamato S. a differenza di tutti gli altri,

e insieme s’erano perfino fatti un capodanno, Pollo ubriaco che argomentava con chissàcchì e S. che tutta la sera se n’era rimasto in un angolo e il volto mesto che gli amici gli hanno ricordato la famosa scena di Nanni Moretti ma lui niente inamovibile nel suo cruccio alla Joy Division con tanto di maglia bianca di Closer,

S. che Croce una volta l’aveva visto camminare con la testa giù sotto la pioggia senz’ombrello e a chiamarlo e chiamarlo e quello manco s’era girato ma poi aveva attraversato la strada e l’aveva riconosciuto e quello un sorrisone che nessuno proprio nessuno mai aveva rivolto a Croce tantomeno Croce l’aveva rivolto ad altri ma porchiddio gli venne da sorridere anche a lui dopo aver visto capovolgersi come per magia l’umore in quella faccia brufolosa e occhialuta alla Foster Wallace,

che poi pure lui come DFW a un certo punto aveva detto sapete che c’è basta, a un certo punto s’era chiuso in bagno e non era uscito per un bel po’ e anzi non era proprio uscito perché a farlo uscire poi sarebbero stati altri ancor più sbiancati di lui a sorreggerlo tipo apostoli d’un cristo pallido con la bocca sbrattata,

e comunque sì proprio S. quello stesso S. che non si poteva certo dire che lo conoscessero tanto bene ma tutto sommato pareva uno a posto che non ci si credeva e insomma quello là che Mari con la faccia da culo impassibile s’avvicina alla madre al funerale per farsi dare un pezzo di lutto, la madre che al microfono aveva spiegato che S. chissà per quale guizzo creativo aveva lasciato detto alla Soka Gakkai che si sarebbe fatto cremare e la madre tutta incollanata di conchiglie verdi e coi capelli grigi lunghi fino ai piedi da hippie di brughiera era andata dicendo a funzione conclusa che le faceva piacere spargere le ceneri per i posti belli che commuovevano quel bell’animo del figlio ma ancor più le faceva piacere distribuirle tra gli amici epperò così pochi s’erano fatti avanti e allora eccola Mari che si presenta stringe la mano e si fa dare un po’ delle ceneri pure lei e dice alla madre che s’aveva tanta stima del caro ragazzo e la vecchia poveraccia che quasi piange guardando in faccia quella bella figliola che non s’era mai levata gli occhiali da sole ed eccoli, sull’isola vulcanica Mari e Pollo e Croce e S. assieme nella loro prima gita come di quelle per legare e conoscersi meglio e giocare a un gioco di merda tipo Uno in spiaggia e pestare una due tracine e disinfettarsi la ferita e mangiarsi i pezzi di pizza della sera prima e fare una playlist per la cassa bluetooth e averci finanche qualche scazzo per i turni della doccia perché no, ma invece niente di tutto ciò,

no loro quattro stanno in cima al vulcano e S. eccolo che fra poco spicca il volo, lasciando, di quella parte di sé ch’era stata con loro, soltanto un alone polveroso sulle dita magari perché Mari mica si schifa di ficcarci la mano nuda nell’urna di morte,

ciao S. fai buon volo,

comunque sì,

proprio lui quello stesso S. che con la Soka Gakkai ci si era messo più che altro perché gli piaceva una che salutò sì e no due volte agli incontri poi arrossimenti e basta, poi solo parlare saltuariamente di musica tipo i Verme e i Raein e i La Quiete e poi invece c’era rimasto proprio sotto alla pratica e a Nichiren col suo mantra del loto,

quello stesso S. che poveraccio una volta s’era vomitato l’anima a forza di bere Monster Energy per star sveglio a preparare l’esame perché col caffè diventava epilettico epperò non è che quella Monster fosse meglio perché allora l’anima sì che gli era sgorgata dal gargarozzo come un longilineo semisolido bolo verde che s’era srotolato e arrotolato in spire draconiche sul tappeto di uno che manco a dirlo s’era sperticato tutta la notte in un fuoco d’artificio di porchiddii e madonne e tutto,

quello stesso S. che il vento in un attimo l’ha dissolto, l’asfissiante nuvoletta grigia del suo corpo bruciato solo un attimo ha indugiato nell’aria calda sopra il vulcano che loro hanno osservato, un attimo corposo però, sembrava pesarci ancora sull’aria il corpo intero di S., o il pensiero dello stesso, ch’era diventato una nuvola grigia come sassi di cimitero come i fiori del male come il grunge come una poesia lunga di Foscolo del quarto liceo, come una cosa che alla fine li aveva costretti per quell’istante almeno a contemplarle, una serie di questioni, però puff sparito nemmeno un granello si vide più da un versante e dall’altro del vulcano a fluttuare scuro puntiforme macché neanche la minima forma visibile e ciao S. ciao, speriamo che non sia solo un’altra cagata delle nostre, speriamo anzi che quegli altri mucchi di cenere che erano altri pezzi di te si siano sparpagliati volati scomparsi in posti che, va bene soli e un po’ incupiti come lo eri tu, ma almeno si spera un po’ più amati di questo qua, perché se no che diavolo, significa allora che non c’è proprio pietà da queste parti.


.

La stazione verdebianca sbiadita era vuota, eccetto che per le persone che erano salite a lavorarci, per quel giorno soltanto forse, oppure non era da escludere che altri, sparuti turisti o abitanti che al momento si trovavano sull’isola, avessero manifestato il desiderio di visitare la vetta nei giorni immediatamente successivi. Troppo strano che la facessero funzionare solo quel giorno, solo per loro tre-quattro, e cose troppo strane non potevano accadere.


La signora aveva detto: venticinque euro a testa.


Aveva detto di non poter sapere se avrebbero fatto in tempo. Non aveva una faccia da congettura. Aveva la pelle color terracotta e terrazzamenti di rughe solcate a fondo, da fotografia di vecchia amerindiana che guarda fisso l’obiettivo con le pupille enormi e serie. Si trovarono da soli in cima, da soli poi discendendo, esclusi esiliati dagli orari in cui normalmente si dovevano fare le cose -non potevano che camminare come avevano fatto fino a quel momento nel viaggio, se l’erano voluta in fondo, era proprio così che avrebbero dovuto continuare a muoversi in fondo, per senso di coerenza.


Il vento soffiava forte sulla cima, era caldo e polveroso, smuoveva masse d’aria immobili per brevi tratti e passava oltre, come non ci fosse stato.


Un alberello simile a un fico nano dalle lunghe convolute radici abbarbicate a una sporgenza pericolante da una discesa periferica rispetto al cratere agitò il fogliame verde acceso dalla sua postazione sospesa al di sopra del vuoto, e sotto il vuoto il suolo lontano, percorso da movimenti minuti, infinitamente distanti. La corteccia gialla diventava rugosa, s’incavava, accoglieva nei buchi manciate del vento di passaggio come se lo incamerasse un po’ per tenerselo, senza scopo. Forse in questo modo era stato e sarebbe rimasto a lungo, un tempo inimmaginabile, dando l’impressione d’esser millenario, d’una crescita arrestatasi già molto tempo fa a quell’altezza nanesca in cui aveva scoperto la sua autosufficienza, fatta di saldo aggrapparsi, di caverne dentro di sé, di una compensatoria espansione delle radici e delle speculari torsioni dei rami, che formavano gallerie e nodi e spirali e ritorni e svolte, altri luoghi per ospitare creature che venivano ad abitarci e nascondersi e strisciare nella sua ombra…

due rettili svelti uscirono da un buco, s'inseguirono, si rintanarono, lampi verdi. Una nidiata dentro le radici forse, forse buio e basta, buio e sole, dentro e fuori.


Pollo si sporse: cercava di vedere se, col vantaggio dell’altitudine, si potesse scorgere la punta della torre calcarea che sorgeva dalle acque meridionali. A quanto pareva, si trattava proprio dell’estremità ostruita dall’opposto versante del cratere, uno schermo frastagliato di carnagione rocciosa e cicatrizzata, un vecchiaccio dallo sguardo turpe che continuava a rimproverargli quel farsi i fatti dell’isola e a sussurrargli, come un gorgogliante sottofondo al vento e agli uccelli neri vocalizzanti in alto sopra le loro teste, chestaifacendotiatteggipercaso?, e altri simili smascheramenti.


(sono io questo?) (sei tu questo che così arrogante sfida il paesaggio, lo questiona, s’impettisce come se le sue ipotetiche azioni, del tutto immaginarie, potessero avere alcuna influenza?)

(dovrei smetterla di fingermi violento, cioè volitivo, è questo che mi vuoi dire?)


Sarebbero poi tornati a casa senza mai aver visto la torre che era un famoso punto dell’isola.


Volatili di un piccolo stormo volteggiavano e piroettavano alti nel cielo, molto in alto al di sopra del vulcano, eccellenti volatori forse, capaci di nuotare dritti nel sole, forse era un gioco o un bisticcio per una preda, si davano slancio colpendosi le zampe dopo una capriola, volando con le schiene nere rivolte al suolo e presto rigirate, comunicando in schiocchi acuti come risate spezzettate. Croce si trattenne dal lanciare un richiamo vocale, dal testare la sua voce lassù, perché sentiva che gli era cambiata dentro il petto, sarebbe risuonata diversa là sopra, e ancor più se si fosse arrampicato fino alla sporgenza più aguzza, alla più ritta colonna calcarea, ove la forma umana non poteva sospingersi. Nella sua testa disegnò sé stesso, ululante sulla punta d’una croda, il sole e la luna coi volti d’umani pingui a sinistra e destra della sua vetta solitaria.


-allora vado eh.- dice Mari. Senza preavviso infila una mano nuda dentro l’urnetta scoperchiata.


-mph.-, mugugnò Pollo storcendo per un istante le labbra.


Il braccialetto al polso della ragazza galleggiò per una frazione di secondo sulla superficie del mucchio di cenere, sprofondando poi in un cerchio scuro come un segno di hoola hop impresso su una duna. Riemerse grigio, impolveratissimo, come se S. avesse avuto un’incontenibile ansia di aderirvi, e ticchettò plasticoso urtando contro le pareti di quella latta formato mini che la madre di S. aveva distribuito a coloro che s’erano offerti di viaggiare con il ragazzo, con un pezzo di lui almeno, e non era forse stranissima questa donna? La maggior parte delle ceneri se l’era tenute lei certo, ma a quale pezzo corrispondevano? E in quale pezzo s’era immersa la mano di Mari? E le mani, dovevano giungerle? Le giunsero per un secondo -Croce gli zoccoli. Poi le separarono. E così era fatta. Ciao S. e tanti saluti.


La mano ingrigita cadaverica di Mari diede sbuffi polverosi riemergendo, entrando a contatto con l’aria. Tossirono. Scendeva poco a poco il livello della cenere di S., abbondante che pareva infinita pure in quel contenitorino, che volava e spariva tirata via dal vento, certi sbuffi rotolando verso terra e qui confondendosi con la polvere, certi altri involandosi in alte parabole che non si potevano registrare a occhio nudo, ma che, per la velocità del volo leggiadro, per l’immediatezza dell’invisibilità sopraggiunta in sorte fin al più grande pugno di granelli, faceva pensare che, rilasciate dalle dita aperte di Mari, innalzate dall’accorato gesto lanciatore del polso, avessero acquisito una nuova leggerezza, più lieve dell’aria, della sua assenza, dell’ossigeno scarso.


Pollo e Croce avevano visto quel che c’era da vedere: tennero poi, fino alla fine, gli sguardi sul livello della polvere che progressivamente s’abbassava dentro l’urnetta.


Mari all’ultima manciata. Qualcosa da dire? S’è fatta sacerdotessa, in fondo. Non le importa se le diranno se è drammatica e sciocca e quant’altro.

Tanto i suoi amici sono degli stupidi coglioni no?

Comunque sa che non diranno niente. Non se lo aspettano forse no, non si aspettano che lei si senta abbastanza a suo agio da fare una cosa criticabile identificabile come insincera come inutilmente cerimoniosa come il più possibile distante dalla morte che invece loro dovrebbero riconoscere, guardar dritta nei non-occhi, celebrare così com’è e così come si conviene al suo linguaggio cioè in desertificato silenzio, rispettare dunque, come si fa con la natura intima d’un animale selvaggio cui non si attribuiscono i sentimenti umani.

Epperò Mari parla lo stesso: tanto sono stupidi coglioni no?

(e io sono peggio.)

(ma so che me lo dico solo perché non posso dirmi, dentro di me, che sono degli stupidi coglioni e arroganti senza poi punirmi, senza che mi si pari davanti l’immagine di un batuffoloso animaletto disegnato su un quaderno che piange e mi fa “perché hai detto che non ti piaccio?, perché, perché, non odiarmi!”, e in fondo non è questa l’amicizia? Allora buon per te caro S. che non sei stato nostro amico fino in fondo., ti giuro che ti amo profondamente come profondamente s’ama un conoscente superficiale)


Giunge le mani in preghiera. Tra i palmi, serrato un foglio di polvere, l’ultima manciata, stretta nel bacio dei palmi nudi e impolverati prima d’essere liberata assieme agli altri resti già spazzati via, assieme agli stormi, ai soffi del vento sulla vetta che sparge sentori di ginepro e mirto e cose erbose che vivono ancora, faticando nella calura per misere gocce d’acqua nascoste.


L’elegia:

-addio S., e speriamo che ti faccia piacere. Speriamo non sia solo un’altra cagata delle nostre. E se lo è, allora… “la vita è una cagna e poi muori”, e questo è quanto. Come diceva in quel disco… oddio…


-Illmatic.-, suggerì Croce con un mugugno, per non alzar la voce, come per paura di svegliare con un belato troppo ruggente qualcosa che dorme nei paraggi.


-sì quello. C’erano le luminarie nella piazza delle compere nostre. E non mi dispiacevano, porca troia. E non mi dispiacevano gli altri che facevano compere sotto il cielo delle cinque già nero, non mi dispiaceva la fiumana colorata sui sampietrini e i tram e tutto. Uscivo dal negozio del tè buono e delle cioccolate e dello zenzero, quello dall’altra parte della strada, con la busta piena di tisane natalizie. Tu uscivi abbracciandoti al petto il vinile nuovo tutto contento, ti sorrisi, sorpresa e felice di incontrarti, e mi dicesti che te l’eri regalato da solo. Eri molto contento.


Era suonata, più che come un ricordo del defunto, quasi come una confessione di fatti personali.


-che intendi fare con quelle?-, chiese Pollo indicando le mani. La polvere ormai aderiva anche alla pelle, mescolandosi al sudore, sempre più sprofondava nei pori, silenziosamente, convertendosi in un naturale, forse soltanto un po’ malaticcio, grigiore sottocutaneo.


-mmh.


Mari sorpresa: forse non l’aveva considerato quando aveva immerso la mano in un cadavere incenerito.


Altre nuvole dense di polvere si sollevarono da battiti delle mani. Tossirono di nuovo, più forte: ogni volta che le nuvolette di S. s’erano alzate gonfie e dense, sin dall’inizio, tutti avevano avuto la sensazione di aver inghiottito una cucchiaiata del contenuto di un posacenere. Le gole continuavano a prudere e probabilmente non avrebbero smesso fino all’indomani. Era indescrivibile il modo in cui il saporaccio riusciva ad annullare tutto quanto, e nei primi istanti dall’ingestione, a spadroneggiare su tutte le sinapsi preposte anche a tutt’altro, distribuendo a ciascuna delle operazioni coscienti il proprio analogo di quella sensazione di apnea strangolata.


-facciamo così.


Da uno zainetto, una bottiglietta di plastica. Un po’ di polvere passò dal polpastrello alle zigrinature del tappo. L’altra fu sciacquata da rapide e ansiose ondate intermittenti di un’acqua dalla temperatura di minestra, che dalla bottiglietta sbrodolò e permise alle mani di Mari di liberarsi della patina attaccaticcia.


-oh, senti. Vuol dire che una parte se ne va pure con l’acqua e innaffia la terra. Mica tutto al cielo.


Croce scuoteva la testa, senza commentare.


Molto in alto sopra le loro teste volavano strani corvi: per tutto il giorno non facevano altro che rotolare sospesi nelle correnti d’aria, dandosi slancio tra di loro, sghignazzando per un nulla che parevano trovare estremamente comico, gettandosi in improvvise picchiate verso punti del cielo in cui dovevano aver visto volare qualcosa d’invisibile.


.

Mari aveva insistito. Valla a capire. Che poi non è da escludere che tra di loro cominciassero a capirsi sempre meno, una di quelle cose, uno di quei fenomeni in sviluppo che si manifestano in silenzio e s’allungano dentro un certo tubo di tempo e invadono l’intero labirinto delle tubature che scorrono sotto i pavimenti e le pareti della vita e d’un dato periodo, il rumore lo si sente quando ci si accosta l’orecchio, certo non è che si possa fare sempre questa cosa di fermarsi e auscultare, comunque sia, qualcosa s’è ficcato a sua volta in queste tubature, qualcosa di strano, forse solo perché è un essere sconosciuto, che ha preso ad abitare tramite adattamento ipogeo i normali canali e modificarne l’interno passaggio di cose, informazioni abitudini interazioni, il che comunque non impedisce all’acqua di uscire copiosa dal doccino e frangersi in rivoli, iridescenti nello scontrarsi con le montagnole di schiuma adagiate sul pelo di Croce.


Mari, se fosse stato necessario, l’avrebbe obbligato con la forza a mettersi nella vasca, ma non aveva ritenuto necessario nemmeno spiegare, giustificare, dire che puzzava peggio dell’animale che era. Era stato solo un “ma perché”, “tu fallo e basta” dall’inizio alla fine, e Croce, che vallo a capire, non era da escludere che si capissero sempre meno eccetera eccetera, insomma Croce aveva ceduto e si stava facendo fare il bagnetto. Fermo in piedi con gli zoccoli sulla maiolica rosa della vasca, il pizzetto intriso d’acqua saponata che gocciolava in corrispondenza dell’occhio metallico un po’ arrugginito dello scarico.


Pollo stava in piedi sulla soglia a braccia conserte, appoggiato alla cornice della porta scricchiolante sotto il suo peso. Sembrava guardasse divertito, ma senza sorridere. Mari insaponava con dedizione, con foga quando c’era da strofinare: le mani sparivano sotto il folto pelo e qui si tramutavano in una nebulosa frizione, una specie di piccolo temporale localizzato che si lasciava dietro bolle di sapone, che affiorando da stretti cunicoli nella pelliccia avevano vita breve, si dissolvevano presto, senza neanche scoppiare.


Croce lasciava fare. Croce se ne stava buono e zitto. Sulle labbra, soltanto una smorfia fissa da capra o da tursiope. Animale buono: la sua pastorella degli alpeggi lo lava, con premura. Sotto le ciocche grondanti e appesantite, allungate dal fardello dell’acqua, la pancia di Croce tremava: le zampe, ferme sui loro quattro punti d’appoggio, avevano delegato al ventre il tremore scaturito da ciò che Croce, guardando ritto avanti a sé il confine in cui la maiolica passava dal rosa del bordo della vasca ai quadrati bianchi mosaicanti la parete del bagno, sentiva di vedere davvero.


Non stava buono. Croce, nella vasca, era come un selvatico che s’imbatte in un presagio famelico e lì in mezzo a un sentiero s’arresta completamente in un istante prodigioso, e ogni parte del corpo disimpara tutti i movimenti, regredendo a un’immobilità precedente alla vita, primitiva più d’ogni altra cosa, e la paura soltanto sopravvive cauta a quel temporaneo totalitario impero della stasi, mimetizzandosi inosservata dietro la forte parvenza della stasi stessa. Convogliandosi in un punto soltanto, impercettibile. Concentrata, trema da sola.


Ma Croce lascia fare. E Mari esegue, l’ha scelto lei del resto, e Pollo sta là a guardarli, ancora in piedi dopo una giornata in piedi, è quasi mezzanotte e il resto del bungalow è vuoto, gli ospiti sono concentrati nella stanza in cui il fruscio dell’acqua corrente subito echeggia grazie all’acustica delle pareti. Si assiste all’abluzione.

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