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le isole di Brian Wilson (ep.4,5)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 17 ago 2024
  • Tempo di lettura: 9 min

Aggiornamento: 9 ott 2024

Stando alle leggende che circolano, il compositore Brian Wilson portava davvero tanta sofferenza in animo.


Il mondo surfava. La gente scivolava sul mare aggrappandosi a numerosi supporti che s’equivalevano ad altrettante tavole da surf -nulla e nessuno avrebbe potuto estirpare le tavole da surf dalle coste delle terre emerse in quel momento storico, nessuno avrebbe bandito uno stile di vita.


Gente scivolava sulle onde, sperando d’aver controllo del proprio equilibrio, proprio sulle onde che come banchi di grossi pesci indomiti nuotavano contrarie a ogni idea d’equilibrio, e invece no, il tempo giovane prima di venir inghiottiti da ore d’occupazioni ostili a qualsiasi significato lo si trascorre così, ostentando la non-caduta.

Oppure per i più attempati, nella carne ma non nello spirito comodamente equalizzato come una bell’aria condizionata, alla stessa maniera si trascorre il tempo già marcescente, quello che resta negli spazi conquistati tra quelle summenzionate ore di laborioso nonsenso, così che quando si torna a lavorare e lasciarsi putrefare lentamente lo si fa almeno essendocisi cambiati d’abito e di cadavere, un cadavere che ha sfogato certe energie inutilizzate e che ha ancora indosso un certo sentore di sale marino che tutto sommato non è niente male eh, c’è da apprezzare la vita per queste sue piccole cose, sì c’è da sorridere della fatica che concede almeno d’essere dimenticata per due giorni all’anno di galattico spendacciare e di baldoria che danno senso a tutto il resto prima che tutto il resto, tutto il resto che ha sapore di medicina soffocante nel mandarla giù ritorni a prendersi la grossa parte della vita.


Questa era la fiabesca vita dei tempi d’oro.


Scivolavano coi piedi saldi su tavole e ciambelle a forma di plesiosauro fumettoso e di pubblicità di bibite e di stecchi del gelato e di ricordi modificati dalla memoria personale e da quella collettiva plasmata da cinema e radio e dalle voci di ragazzi da spiaggia che, armonizzandosi melodiose, avevano incitato per prime a surfare.

Era stato il manifesto musicato del partito post-edonista che era in fondo la versione smerciabile d’un ben più complesso tomo comprensivo dell’intera nuova filosofia retrostante -mai rilasciato al pubblico, perché troppo ostico per il pubblico, meglio lasciarlo lì, nei vuoti della storia, ché in quest’epoca s’è deciso che certe cose, certi nostri modi di disfacimento o d’adattamento allo stesso vanno lasciati impliciti, per non rovinare la grigliata in famiglia.


Proprio come non fu rilasciato “SMiLE”, il grande progetto di Brian Wilson che avrebbe dovuto ancora una volta rivoluzionare il modo di concepire la musica pop.


(Lo trovi su Spotify registrato nel 2011 in una forma che non si saprà mai quanto distante dall’idea concepita nel ’67, castrata dell’impatto che avrebbe forse avuto, perduta ogni sua aura divina dal momento in cui infine è nata.)


Comunque, tutto questo era il tempo raccontato dalla leggenda, decenni partoriti dai grandi caos di inizio secolo, in vigile attesa di altri caos da venire, in attesa nascosta, o forse già in bella vista, già ignorati, già dimenticati e lontani dal cuore.


La voce di Brian Wilson era stata tra quelle fila, la sua era La Voce anzi, sempre secondo certi cronisti che vivono di leggende e dell’abitudine a magnificare umani realmente esistiti attraverso la parola coi suoi inganni e le sue bellezze e il suo rigor mortis.


Ma leggende dicono che anche quella voce a un certo punto, un punto corrispondente all’uscita sul mercato del capolavoro dei Beach Boys, smettesse di surfare e, di conseguenza, di farsi surfare, di far da tavola sotto i piedi di coloro che assaltavano gli stabilimenti balneari.


Tanta tanta sofferenza in animo a Brian Wilson.


Un noto aneddoto vuole che il compositore Brian Wilson, vessato internamente da sofferenze senza sbocco e risoluzione, si ritirasse sempre più in un suo antro mentale in cui, distaccato, poteva ascoltare una musica che spirava dentro di lui, che necessitava separazione dai rumori del mondo, di amici e fratelli e ragazze sempre più come gente estranea, della costa californiana, della stessa sua voce registrata che ancora rimbombava da un passato in cui a piede libero erano circolate precedenti, forse imbarazzanti, forme di sé.


(Non possiamo sapere se ne fosse davvero imbarazzato o se vi pensasse già con affetto come a ingenuità immature, non potremmo saperlo nemmeno collezionando tutti i possibili aneddoti leggendari intrecciati a formare la storia della musica leggera del novecento; ma sappiamo che la sua voce non lanciava più lo stesso richiamo: non era una voce stando in piedi sulla quale si potesse credere di vivere in equilibrio, su di un’onda o su una qualsiasi altra cosa che nostro malgrado si muove e può ribaltarci: s’era trasformata in una voce che piangendo timidamente forse proponeva, timidamente, che si potesse perfino piangere nei microfoni, senza che ciò arrecasse disturbo a un ritmo di cose del mondo che mal tollera le lacrime: per trentasette minuti questo disco non ti aiuta a dimenticare e invece ti porta le orecchie e la faccia a osservare certe cose che, impensabilmente, non sono brutte, è assurdo cazzo ma non lo sono, anzi, quasi quasi ti ci fai un abitudine a questo sentimento strano, e poi com’è ben registrato, è la cosa meglio registrata e arrangiata che ti sembra d’aver sentito girare su un ottimo apparecchio audioriproducente collaudato, di fabbricazione giapponese o di quella stessa west coast, comunque sia del Pacifico…).


Lo stesso aneddoto sopracitato vuole che il compositore Brian Wilson si facesse portare autentica sabbia di autentica spiaggia del Pacifico per poterci affondare i piedi nudi quando sedeva al piano, cercando grazie a questa ispirazione tattile di varcarsi, attraverso un buio suo personale, un canale che connettesse i suoni che aveva in testa e la tastiera.


E si dice che nulla potesse ascoltare, in quei momenti, di quanto lo circondava.


La sofferenza di Brian Wilson. Per questo era riuscito a cantare i capolavori di Pet Sounds.


Sebbene, a dire il vero, alcuni testi non fossero stati scritti da lui.


Ma non c’era dubbio, che anche quella sofferenza nei testi di qualcun altro, fosse la sua.


Così vogliono credere coloro che credono alle leggende. Devono crederci. Altrimenti nulla ha più senso.


Se non fosse stato così, non sarebbe riuscito, Brian Wilson, a comporre e cantare e registrare “Until I Die”, contenuta nell’album “Surf’s Up”, sulla cui copertina il surf appare in realtà morto da un pezzo, è un cavaliere scheletrico che quasi s’accascia e secca in un crepuscolo limaccioso. Quella sì, l’aveva scritta lui, senza dubbio, sedendo davanti al vero Pacifico inchiostrato da un crepuscolo che gli ingrossava le onde, che lo riempiva, lo riempiva sempre più, innalzando il livello dei mari del mondo, per ingoiare tutti i Brian Wilson seduti sulle spiagge della terra a contemplare nelle acque vaste dell’oceano un’illusione ottica di infinito, oppure per condurre da loro ciò che dorme sul fondale, imparentandolo a ciò che veglia sulla terraferma, mostrando quanto si somiglino, tritoni e terrestri.


Tutto questo fa parte della leggenda, dell’aneddoto, un aneddoto molto noto.


Esiste invece un fatto storico così poco noto che si può quasi dire essersi ritirato dall’esistenza.


Brian Wilson fu un navigatore vissuto a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo, fedele alla corona britannica e devoto alla sua storia. Solcò i mari meridionali quando già si credevano ormai tracciate tutte le terre, esplorato il globo intero, gli atlanti colorati da bandiere europee ripetute più volte attraverso gli angoli più remoti degli oceani lontani dalla cristianità.

Ma una segreta intuizione manovrava la vecchiaia di Brian Wilson, che alla metà esatta del secolo si imbatté in isole sconosciute, un arcipelago remoto e tempestoso nella fascia antartica dell’Oceano Indiano che sarebbe stato battezzato con il suo nome.


Le Isole di Brian Wilson (B.W.I, Brian Wilson’s Islands) sono un gruppo di scogli e isolette completamente disabitate, la cui origine, secondo alcune ipotesi, è da attribuirsi alla probabile attività di vulcani sottomarini spenti approssimativamente da due o tre millenni.


Sebbene la conformazione dell’arcipelago sia di grande interesse per il geologo, l’impervietà del clima ha continuamente ostacolato l’avanzamento degli studi sul campo. L’ultima significativa raccolta di dati risale agli anni ’80 del ventesimo secolo.


La temperatura si mantiene costante intorno ai 7 C° nel corso dell’anno, non superando mai la massima registrata di 10 C° e non scendendo al di sotto degli 0 C° durante le tempeste dei mesi invernali nei punti più elevati. L’entroterra, ripido e roccioso, è per lo più inagibile, nonostante i maggiori rilievi si aggirino sui 300 m slm. Sono presenti tuttavia anche lievi pendii erbosi, provvisti di scarsa vegetazione di tundra. Il vento soffia forte e costante su queste zone. L’idea di costruirvi alloggi per la ricerca temporanea non è stata mai presa in considerazione, e gli studiosi che presero parte alle spedizioni passate ricordano quanto fosse snervante il quasi quotidiano, quasi interminabile tragitto per mare dal porto più vicino. Nessun edificio è stato eretto nel territorio delle B.W.I., e l’unica struttura antropica è il molo della maggiore delle isolette, ricavato a partire da frequenti modifiche applicate allo stesso porticciolo utilizzato negli anni successivi alla scoperta, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, quando gli inglesi vi portavano il bestiame con l’intenzione di predisporre approvvigionamenti per le lunghe spedizioni sulle rotte vicine.


Com’è tipico degli arcipelaghi di questa zona, la flora e la fauna sono povere e contano le specie che normalmente si incontrano lungo le coste della medesima fascia oceanica. Muschi e licheni prosperano sulle sporgenze. Non vi sono specie arboree. Le ossifraghe nidificano sulle scogliere. Vi sono inoltre una colonia di otarie orsine e una di pinguini crestati; già nei diari di Brian Wilson se ne fa menzione, e vi è un breve accenno all’antipatia che i marinai, probabilmente ubriachi e stremati dalla solitudine del clima antartico, serbavano nei confronti di questi animali, frequenti vittime dei loro giochi di morte e brutalità. Brian Wilson menziona inoltre passaggi di elefanti marini e di balene franche australi, sebbene non siano mai stati registrati casi attuali o d’età contemporanea.


Il navigatore e scopritore delle isole riferisce inoltre che un’insolita fauna abitava le colline erbose. Al suo arrivo, spronandosi come in ogni altra intrapresa col pensiero di quella che egli considerava la primaria missione dei suoi tanti e gloriosi predecessori -non la conquista: la missione d’avere gli occhi-, tracciò degli sketch a carboncino, in parte conservati. I fringuelli e persino i mammiferi di ignota provenienza, raffigurati da Brian Wilson al massimo delle sue abilità di disegnatore e in mancanza di approfondite nozioni di scienze naturali, probabilmente sono davvero vissuti sulle isole ma, come spesso è accaduto, l’arrivo degli europei e soprattutto degli animali da macello e da lana, che essi portarono con sé e lasciarono liberi di pascolare nei nuovi territori, comportarono una fulminea estinzione, e con essa l’impossibilità di studiare le misteriose origini di tale vita isolata.


Non vi sono certezze riguardo al numero odierno degli esemplari di razze suine e caprine in stato rinselvatichito. Si nutrono di muschi e delle uova degli uccelli marini.


Si registra una notevole attività sismica.


Le precipitazioni sono molto frequenti ma non favoriscono la crescita della vegetazione.


Il vento è forte.


Già detto questo… sì.


Del clima si era già parlato. Anche della vegetazione, tra l’altro.


Le precipitazioni nevose sono rare.


Che altro…


Sulle isole di Brian Wilson non c’è niente.


Eppure questo è impossibile.


Sulle isole di Brian Wilson non potrebbe mai vivere un essere umano.


Eppure, è impossibile che un essere umano non ne sia attratto.


Guardando le fotografie. Sentendosi respinto da esse. E al tempo stesso risucchiato al loro interno, come da un vortice. Un vortice è una roba mossa da due forze contrarie e chissà da quante altre e chissà in che rapporto stanno tra loro e se ti prende sei risucchiato e finisci in un nulla o un altrove che chissà com’è fatto.


E se non lo fa continui comunque a pensarci, alla spirale ipnotica.


Perché un essere umano continua a pensare alle isole semisconosciute dopo averne letto le caratteristiche?


Forse una parte della sua anima è finita là. Come ci finì casualmente Brian Wilson, navigatore vissuto a cavallo tra i secoli diciottesimo e diciannovesimo.


Sì, forse c’è una chiave, laggiù da qualche parte, un pezzo mancante e finalmente risolutivo della coscienza umana.


Eppure laggiù non c’è niente.


Eppure, ciò è impossibile: per esempio, è impossibile che non vi siano grotte, caverne, un sottosuolo.


Già questo rende le isole simili, uguali, a tutti i luoghi della terra.


Perché il resto è soltanto superficie. Erbetta di superficie.


Alla terra, non è questo che interessa… la terra è altro. Tutte le terre emerse sono le terre emerse di laggiù, di B.W., sì, ovunque ci troviamo laggiù, in quelle isole.


E il vento antartico viene da ancor più giù e ci tormenta, nostro vicino di casa.


Ci attraversa col suo freddo boato.


Ogni tanto si vede qualcosa nell’oceano grigio, poi sparisce e non si rivede più per decenni, forse per secoli, e finisce per sembrare che non s’è visto proprio niente.


Questi sono fatti storici e scientifici. Non leggende.


.

Pollo ripassava queste informazioni nella sua testa dopo averle immagazzinate durante il traghetto d’andata. Aveva letto un libro sul musicista e compositore. Voleva ascoltare la stessa musica che egli udiva sul finire dei ‘60, quella che udiva stando male sia nella sua pelle che assieme agli altri.


Sperava prima o poi di trovare dentro di sé uno spazio simile, come una sala da concerti con sabbia del Pacifico e un pianoforte al centro, e zero ascoltatori, e zero di tutto il resto, galleggiante nel vuoto e nel nero, zero totale di sola musica uguale a silenzio.


Poi, steso sul letto col cellulare in mano sopra la faccia, aveva letto la pagina Wikipedia sul poco conosciuto navigatore.


Fu come aver trovato un libro in una stanza vuota della nave. Come se non fossero semplici informazioni lette per noia da uno schermo. Come se fosse sceso attraverso gli strati concentrici dell’imbarcazione e gironzolando fosse sgattaiolato dietro una porta socchiusa, e qui scoperto i volumi che qualcosa, richiamandolo, sperava che trovasse e leggesse, la nave forse.


Maledetta da spettri di navigazioni antiche, delle generazioni passate che avevano infine partorito la generazione corrente delle navigazioni.


Ogni navigazione è maledetta.


Ha un’eredità pesante.


Non può non attraccare laggiù, alla fine, a un arcipelago di scogli e isolette disabitate e gelide per il vento e la pioggia, tutto attracca alle B.W.I.


Ma se tutte sono maledette, è come se non lo fosse nessuna. Non c’è ragione dunque di sentirsi inquieti.


Fa parte della vita.


Sì.


Ed è affascinante leggere degli spettri e voler a loro assomigliare.


Così pensava Pollo dopo aver letto mentre pensava a Brian Wilson e mentre pensava all’altro Brian Wilson.

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