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le isole di Brian Wilson (ep.4)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 16 ago 2024
  • Tempo di lettura: 24 min

Aggiornamento: 12 ott 2024

 

Che faccio glielo dico o non glielo dico.


Pollo si sentiva in testa tutto uno sciamare di ripensamenti.


Non era questo il modo in cui erano iniziate le cose con Mari. Erano iniziate simili a una meteora: lui che aveva deciso di schiantarsi contro il pianeta Terra, di disintegrarsi nell’impatto causato dal suo stesso comportamento.


Confessarsi, così com’era, alla prima persona che fosse possibile eleggere per lo scopo -uno scopo ovviamente cosmico, dovuto a un movimento infinito di materia… dentro agli esseri sassosi in viaggio attraverso lo spazio c’era un simile anelito prefissato.


Perché così ostinati e volitivi parevano a Pollo gli astri e le robe celesti fortemente convinte di rivoluzioni e rotazioni ed eterne cadute nel vuoto e ritorni alla polvere e oblii, come se in questa impassibile meccanica si nascondesse un qualche scopo segreto a lui ignoto, irrimediabilmente ignoto.


Non restava che scegliere da sé di essere asteroidi. E ritrovarsi così con uno scopo dentro.


Essere asteroidi:

dischiudere a lei, perché lei era capitata, no anzi, perché lei era stata eletta, dischiuderle tutte le cose che, confessate a chiunque altro, a tutti quegli altri che giravano vivi nel mondo, avrebbero comportato soltanto un’agonia, per il confessore e il confessato assieme, ustionati da ciò che è uscito dalla bocca del primo che l’ha aperta, “perché lo hai detto?”, “perché me ne hai parlato?” -lamenti che esistono finché c’è vita.


Così invece, protetti dalla retrostante scelta astrale, era possibile conferire una nuova pelle, nuovi volti in perenne rinascita a quella stessa agonia che altrimenti sarebbe risultata intollerabile. Una metamorfosi di velenosa tenerezza per quell’emozione anfibia. Se a questa persona, questa vittima, spontaneamente mi confesso e assieme agonizziamo come è naturale e precisamente con l’aspettativa di questa natura dannosa -così era andato ragionando, senza controllo, nei secondi di sospensione durante quella chiacchierata al bar anni fa-, nasce tuttavia qualcosa di diverso, ha un nome diverso questa tortura che io infliggo esistendo.


E tutto ciò solo perché l’aveva deciso.


Fidarsi.


Trasformare la sofferenza del fuoco che si sprigiona in quei momenti, superarli più stoici di un monaco suicida.


Attende un Buddha, dall’altra parte della deflagrazione, esserne convinti, c’è un qualcosa che mi darà ricompensa, che attende dall’altra parte del torturante imbarazzo proprio perché mi sono sottoposto alla pratica del dolore. Non può non esserci niente. Non può, altrimenti impazzisco…


Così dovrebbe pensare un sasso che viaggia incazzato nel cosmo.


Ma il meteorite per scelta ormai andava perdendo momento, evolvendosi la propria disintegrazione in una forma diversa e imprevista di disintegrazione, o forse prevista, ma non voluta in quegli anni della sua nascita, in cui era stata impetuosa, raggiante nella decisione presa di mutuale distruzione col pianeta di sua scelta, simile a una connessione scritta nel destino.


Forse allora anche questa convinzione che le materie astrali riuscivano a tener salda nei confronti dei loro movimenti possedeva degli angoli ciechi. Un’inerzia che non visualizzano nel lontano del futuro: la vecchiaia di quando semplicemente scivolano, dissolto il fuoco interno delle origini, e si polverizzano pian piano, perdendo volume, dimenticando com’era quella speranza di disintegrarsi in un singolo istante di sordo boato, un rumore gigantesco ammutolito nel vuoto senza confini.


Pollo è già vecchio? Pollo non riesce a parlarle come aveva deciso di fare tempo fa.

Le parole delle sue confessioni gli stanno incastrate in gola e la strozzano, se la sente tirare.


Mari aveva un tono di voce strano. Sembrava quello di una bimba stanca di aver camminato a lungo, demoralizzata con la testa piena di pensieri di casa al punto da non piangere nemmeno per le vesciche spaccate lungo le caviglie e i talloni.


-mi capita, non è che non mi capita… di chiedermi cosa sia a bloccarmi. Penso: non sarebbe bello, sfilarsi le scarpe quando lo si vuole, e semplicemente fare due passi nel mare, senza stare a preoccuparsi della sabbia bagnata, delle ore che mancano al ritorno in albergo e alla doccia e alle cose da fare per colpa delle quali non si possono avere sul corpo la sabbia e l’acqua?


Ma Pollo non la stava ascoltando. Guardavano le onde sfrangersi contro l’inclinazione d’una spiaggia indecisa se essere sabbia o sassi, e lui pensava a.. ah giusto, a cos’è che stavo pensando? Sarà meglio pensare velocemente a qualcosa, qualcosa che le avrei confessato e che non riesco più a pronunciare, nel caso emerga il rischio di risultare impreparati alla domanda.


-solo questo vorrei. Un momento in cui camminare nell’acqua senza pensare ad altro. Senza pensare nemmeno all’acqua anzi. Camminarci e basta. Camminarla.


Ma Pollo non la stava ascoltando.


Pensava a questo: la natura della realtà è il tutto e l’imponderabile. La natura della verità invece è il nulla e il problema che non si pone.


Se glielo dicessi, sarebbe solo un’altra conversazione soffocata e soffocante, mescolata all’afa di quell’isola mediterranea. Le farei del male, peggio che ignorandola passivamente. Perché la ignorerei attivamente.


E non sarebbe quello che m’ero immaginato.


E che lei sembrava aver accettato. Seduta davanti a me. A sentirmi. A cercarmi ancora dopo, nonostante l’avermi sentito una volta.


E adesso?


Mi cercherebbe ancora?


Ci perderemmo, dopo tutto questo, senza dolore e senza fiamme che odio ma che servono a bruciare, a rigenerare, a farci rinascere cenere in luoghi lontani e per sempre discontinui?


Solo il fuoco di questo sole.


Non il nostro parlare. Non il mio sciogliermi, liberarmi davanti a lei:

perché non è più un impatto.


Non un’esplosione nel cielo, non lui che si tortura parlando e lei che del suo sangue autolesionista si bagna, come una piantina assetata pronta a riceverlo tutto, e a pascersi di tale assorbimento e crescere e allungare le proprie appendici fino ad abbracciarlo e proteggerlo con viticci e foglie sempre più pendule e ricoprenti. E abbracciato a lei, ingurgitato dagli arti di lei lunghi e innominabili, né braccia né gambe né rami e assieme tutte queste cose, lui sentirebbe grattargli sul corpo le pellicine delle vesciche rotte di lei, i filamenti dentellati come corolle cartilaginee con al centro occhi rossi di derma, fanno prurito grattandolo…


-certo, mi dico che ha il suo perché anche rimanere in disparte. Tu diresti che non serve altro. Rimanere qua, ad ascoltarle e basta, le onde. Però… che male ci sarebbe a voler sapere come sono al tatto? Io un giorno lo voglio sapere. Poi però mi viene in mente tutto il resto. Tutti i motivi per cui non si può fare. Per cui è meglio così.


Ma Pollo non la stava ascoltando.


Pensava a questo: una volta discusse con un tipo -secoli fa, a un capodanno, situazione senza nessuna importanza. Amico di un amico. Falsi amici già in fossilizzazione, reperti della transizione tra liceo e università, ultimi strascichi di legami stantii. Le argomentazioni s’erano inselvatichite, andate da sole a ringhiarsi l’un l’altra nelle steppe dell’arrogante pensiero post-adolescenziale, battute da un vento costante. La tesi che Pollo aveva proposto in quel guazzabuglio, ritenendola all’epoca la più interessante e più esemplificativa di se stesso e di tutto ciò ch’era la sua vita, era stata la seguente: l’inutilità e ipocrisia della mutua assistenza tra conspecifici. La ragione per la quale simili impulsi al bene altrui erano da considerarsi patetici e inautentici era giustificata dal fatto che ognuno, in quanto universo a se stante, porta in petto infiniti universi, ciascuno corrispondente a ciascuno dei “fatti del mondo”, completamente diversi da quelli portati in petto da un altro, e questa inconciliabilità, per quanto camuffata dalle situazioni e dai comportamenti, conduce in definitiva a un vicendevole divorarsi e guerreggiare e allontanarsi e darsi fuoco. E questo tizio comparso solo in quel capodanno e mai più rivisto, questo amico fossile di amico fossile, aveva ribattuto qualcosa del tipo: “posso anche concederti che ognuno veda le cose in maniera diversa, ma la verità di fondo è una sola”.


A Pollo era bastata un’occhiata per deliberare che quello aveva scelto di pensarla così perché era una tesi siffatta a liberarlo dal rischio di avere un pensiero molle e poco sofisticato. Ci teneva, a come appariva il proprio pensiero agli altri. Uno di quelli che guardavano i filosofi online e seguivano gli insegnamenti dei nuovi survivalisti ansiosi nel predisporsi contro l’insaziabile insensatezza dei tempi correnti. Quelli che ripudiano la masturbazione e propongono i metodi per vincere le continue distrazioni, per domare i vuoti che in assenza delle stesse si espandono a mucchi di voragini. O in assenza della masturbazione. E allora “quelli come lui” andavano dibattendo, contro i “nichilisti” demodé del calibro di Pollo, che “la verità esiste ed è una sola”, perché più d’ogni altra cosa temevano di essere chiamati “postmoderni”, giudicati frivoli per questo, no, loro dovevano essere un ritorno virile e rigorosamente logico alle glorie del Pensiero. Altro che Foucault!, quel francese che argomentando davanti alla telecamera non sa trattenersi dall'infilarsi le dita in bocca perché è ancora in fase orale e lo stanno guardando dagli schermi dei propri cellulari milioni di aspiranti pensatori che da quando hanno scoperto il video di quel dibattito con Chomsky si sentono incredibilmente esoterici.


Pollo ne avrebbe avuto un assaggio, sì, di quel rigore d’intelletto, e magari l’avrebbe piantata di giocare al cinico, eh, almeno questi erano i piani di quella sera.

Ah, e se sei così furbo, com’è che t’ho inquadrato per intero solo con uno sguardo veloce?

Pollo si piaceva tantissimo in quei momenti. Ma non poteva ammetterlo.


Mari respira sempre con la bocca aperta quando è seduta in spiaggia. È un riflesso che si porta probabilmente da quando è piccola. Per questo sembra che, quando parla, debba riprendere il fiato ogni tanto, dando l’impressione di aver paura di annegare anche a qualche metro fuori dall’acqua.


-o forse è un altro il problema. Forse sotto sotto voglio che sia un altro a dirmelo. Tipo, “prendimi la mano e andiamo a bagnarci i piedi”. Da sola non lo so decidere. E questo mi fa male.


Ma Pollo non la stava ascoltando, troppo preso da ciò che non riusciva più a dirle, proiettandosi soltanto nella mente un monologo ascoltato da una Mari ideale, in un’imitazione di quella scena che, andandosi a cercare all’inizio, aveva fatto sì che si conoscessero: quella deflagrazione data dal ridicolo, dalla sua improvvisa impulsività, dall’assenza di vergogna nel denudarsi e farsi ricevere così come si è, drammatici, seduti su sedie non drammatiche di un bar, a volte plastica con logo Algida, a volte nere d’aspetto vagamente siculo, con sedile di finti vimini intrecciati color polpa di mandorla -non è un bar coerente con se stesso quello in cui si sono parlati nella prima loro scena assieme, la più vicina all’ideale, alla distruzione.


Da quel capodanno Pollo, rimuginando non poche volte sulla discussione di quella sera ch’era quasi diventata una litigata (era il solo dei presenti che la ricordasse e ci pensasse ancora), aveva detto, parlando a se stesso quando non dormiva: d’accordo, ammettiamo che hai ragione su questa verità unica. È comunque nulla. Ed è diversa dalla realtà. Quella è molteplice, è un brulicare di piccoli mondi che esplodono in continuazione, un big bang in ogni particella: non la puoi percepire: la percezione è difettata e limitata in partenza, la memoria, cazzo, è la memoria il problema dei nostri limiti, non ce la fa, non ce la farebbe mai a contenere tutto… perciò se l’unica cosa che si può dire delle infinite realtà che ciascuno vede è che tutte in comune hanno l’imprendibilità, allora la verità non può che essere il contrario di questo dilagante tutto, non può essere che uno statico nulla.


E s’immaginava lo spettro di questo fossile amico di amico fossile a dirgli infervorato: ma sei tu che hai deciso che la percezione non va bene e bla bla bla, parti da premesse indiane, io da premesse greche, e bla bla bla.

E allora cazzo sì sono indiano, denunciami, l’umidità torrida delle foreste di banani ha fatto del mio cervello una poltiglia che s’è andata mescolando a tutti gli altri organi miei e strabordandomi dalle narici ha fatto amalgamare il dentro e il fuori in un singolo fluido senza soluzione di continuità, insegnandomi in questo modo l’identità d’ogni cosa, l’assenza di barriere. E tutto ciò è avvenuto mentre tu te ne stavi a guardare il cielo azzurro da un balcone colonnato bianco a picco sul venticello mediterraneo, e il sole greco ti convinceva con la sua chiarità dell’esistenza del bello e delle certezze e della tua capacità di scoprirle.

E a questa argomentazione il tipo avrebbe ancora ribattuto: ma no ma no ma allora vedi che sei ipocrita, parli della pateticità della percezione sensoriale e poi fai un discorso con premesse geografiche, l’ambiente che percepisci coi sensi, ma allora vedi che…

e invece Pollo con infinita serafica classe avrebbe scrollato le spalle, del tipo “non c’è niente da fare”, e certo che è come dici tu amico mio, mio nemico mortale, altro da me: purtroppo noi siamo esseri che non possono sottrarsi a questi inganni per quanto stupidi, discendiamo dalle scimmie dopotutto. Magari fossimo discesi da uccelli o da rettili!

E quello avrebbe fatto una faccia incredula, sentendosi preso in giro come mai in vita sua, ma come i rettili?

Ah, sciocco idolatra della mano prensile! I rettili li vedi in due atteggiamenti: a prendere il fresco nel fondo della tana, o fuori ad assorbire il calore del sole, immobili in entrambi i momenti: la gola soltanto a palpitare, in un mantra muscolare, costante come un respiro: i rettili, dunque dei piccoli Buddha nati, illuminati di squame, solitari signori di meditazione. Sapremmo giudicare lucidamente tutta questa immondizia del vivere senza far tanto caso a tutte quelle inezie che ci imprigionano, se solo fossimo stati la loro progenie! E mentre loro stavano fermi, vuoti, a ricevere in maniera diretta sui pori rugosi della loro pelle l’essenza stessa del tempo e della sua inesistenza, le scimmie che facevano? Eccole là, a lanciarsi merda dagli alberi. Una di loro grida alle altre, le compagne della sua tribù -non piace star sole, a queste volgari creature collettiviste- che ha capito in quale ramo si nasconde una scimmia antipatica dell’albero vicino, della tribù diversa, ed è proprio là che dovranno mirare, malloppo alla mano. Ecco da cosa proveniamo! E pretendi pure che non facciamo cacare nei nostri pensieri??

E l’altro, l’amico di amico, avrebbe sentito di non essere mai stato umiliato allo stesso modo in vita sua. Sarebbe tornato a casa e avrebbe bevuto un goccio con piglio teatrale e avrebbe bruciato tutti i suoi volumi Einaudi con le copertine monocrome poligonali, avrebbe acceso la Nintendo e allenandosi fino allo stordimento d’ogni processo cognitivo, fino alla perdita del sé e fino allo scivolamento dei residui di coscienza nella sola memoria muscolare delle dita, sarebbe diventato campione assoluto di Mario Kart nei circoli videoludici della grande città, perché era questo il solo scopo della sua esistenza: ecco la sua immagine divina che brucia nell’olimpo impugnando un volante di plastica e una buccia di banana, senza mai più rivolgere un solo pensiero agli ateniesi.

Si piaceva molto, Pollo, quando sapeva con esattezza cosa qualcuno avrebbe detto e fatto.


Mari smette di guardare la schiuma del mare. Guarda Pollo un attimo, quasi gli chiederebbe se può levarle i granelli di sabbia dalla schiena con una manata poderosa.

Vede che Pollo sta facendo un sorrisetto tra sé e sé, che sembra costargli sforzo anche quando è così automatico e inconsapevole, gli tende il collo facendo sporgere grossolani tubicini dalla gola.

Un essere che soffre per una qualche malattia.

E le vengono in mente quelle volte in cui le era capitato di pensare, con un’innocenza che ormai quasi sente scomoda anche soltanto in forma di ricordo, che Pollo fosse il ragazzo più dolce che avesse mai incontrato.


Secondo Mari quel sorriso è una smorfia. Come è tipico dei primati.


I muscoli facevano male a entrambi quando arrancarono lasciandosi la spiaggia alle spalle. Non c’era nessuno che potesse accorgersi di un paio di occhi lucidi quando, molto lentamente, sfiniti dal caldo, superarono il cespuglio di fichi d’india per risalire il basso pendio e ritrovarsi in un attimo sull’asfalto rovente. Sembra roccia lavica. Il calore della lava sale dalle suole delle scarpe e le fa puzzare di pelle squagliata. È passato solo un attimo. Un istante microscopico, dal tardo autunno freddo in cui in tre scelsero quella meta, alle cicale e i ronzii di calabroni, masse di vibrazione che adesso Mari sente inglobare le loro ombre traballanti sull’asfalto della tarda primavera, una stagione già convinta d’essere estate inoltrata quando scende su un sud che ha costanza equatoriale.


.

Vedevano Croce arrampicarsi sulle colline brulle e sassose prospicienti la costa, e pensavano che fosse nel suo habitat. Le rocce e la sua pelliccia apparivano abbacinanti anche dalla distanza, erano le cose più bianco-argentate sotto un sole di intensità e consistenza luminosa che non mutava mai sopra l’isola in cui avevano deciso di portare le ceneri di S.


-dobbiamo passare alla stanza e poi andiamo. O preferite domani?


Non risposero, indifferenti. Pollo prese a calci con aria assente della ghiaia. A Croce si contorse la bocca, disturbato da doloretti poco intensi ma durevoli.


-se preferite aspettare al caldo va bene, vado da sola.


Venne rigurgitata un’ulteriore massa bianco-argentata, dalla forma di uovo, cadde dalla gola spalancata a fatica di Croce e s’aggiunse al mucchio delle rocce. L’indistinto grumo semisolido avvolto in una poltiglia filamentosa di bolo seccò immediatamente e sembrò costituire assieme alle rocce bianche un nido lasciato a terra, pronto a schiudersi per il calore naturale e liberare negli arcipelaghi degli esseri viventi chissà quale stirpe di nuovi ovipari.


-che schifo.


-ma è una cosa che fai di solito?


-ma va’. È questa terra. Saporaccio.


-mangiavi la terra?


-brucavo.


-brucavi le piante?- ghignò Pollo divertito dal pensiero che Croce non riuscisse a dominare quell’istinto. Croce lo ignorò e continuò a guardarsi intorno, il collo proteso a ombreggiare il suo rigurgito ormai solido. Ma nulla nella circostante distesa di suolo secco e brullo o nelle guglie rocciose dell’entroterra poteva dissolvere le sue perplessità, dare una svolta a ciò che non gli tornava.


-c’è qualcosa in questa terra. Le foglie di queste piante… ci si può soffocare. Come se il sottosuolo fosse stato inquinato molto tempo fa.


-sarà il vulcano.


Croce scosse la testa, serissimo.


-no. Nelle terre vulcaniche entra una chimica salubre che fa bene alle foglie e a tutto il resto. È come se…


Croce guardò ancora verso le alture rocciose, soffermandocisi con maggiore attenzione. Era insolitamente ansioso. Mari e Pollo per il momento non se ne lasciavano contagiare. Ma erano come pastorelli delle Alpi, e non c’era da dubitare che avrebbero potuto presto subire l’influsso inusuale, storto, del “loro animale fidato”: chi passava gran parte del proprio tempo in solitudine oppure in compagnia di una bestia da cortile ruminante sapeva che sono di norma estranee all’ansia e che non vomitano, digerendo ogni cosa oppure immagazzinandola senza dar segni di soffrire la ritenzione. Tenaci. Ma la tenacia di Croce in quel momento pareva essersi riversata tutta nell’atto di scrutare la distanza, non rimanendone una sola goccia nelle tensioni del corpo.


-Croce, parla. Io voglio sapere cosa hai da dire.-, lo incoraggiò Mari, pensando che a lei avrebbe anche potuto rispondere in maniera non maleducata.


Croce, riluttante, spiegò una parte di quello che gli passava per la testa, la parte vagamente sincronizzabile ai pensieri umani.


-…come se qua prima ci fosse stato un altro vulcano, diverso. Un vulcano rovesciato. Che sbuffava fumi rovesciati. Rovesciati, intendo, nella composizione e nel comportamento… si sono incolonnati e hanno intriso il suolo invece che il cielo.


Mari annuisce.


-sarà meglio allora che lasci perdere le foglie. Non ti vorrai avvelenare.


-ma l’acqua la possiamo bere? Mi ci sono fatto un tè stamattina.-, chiese Pollo scettico, doppiamente scettico, per nascondere i primi sintomi di preoccupazione.


Croce inspirò profondamente.


-mah, l’acqua dell’alloggio è a posto. Cioè…-, si fermò ancora, apparentemente sempre più lento e affaticato nei pensieri -se è a posto l’acqua di casa, lo è anche quella. Fate voi.


Tutti e tre scalciarono ghiaia.


Aguzzando l’udito si poteva ancora raccogliere lo sfumato e polveroso rimbombo della risacca dietro il muro degli insetti estivi. Un lamento di molte note d’un uccello aleggiò poi a ricoprire le ultime impressioni di eco del mare. L’uccello da qualche parte avvolgeva piedi nudi rugosi, induriti da calli, attorno ai rami corazzati di spine di qualche arbusto basso della macchia mediterranea, e intonava muovendo il becco tutte le implicazioni di una vita in cui riposarsi dal volo nell’aria densa di salsedine significa posare i piedi nudi rugosi sui rami spinosi degli arbusti.


(mi sento stanca di nuovo. Ho perso il conto. Potrei mentire. Lasciarli qua, dire che vado e torno, e invece ritornare per qualche minuto giù, prima di andare. Che male c’è? Potrei dire che ho dimenticato qualcosa, che sulla sabbia mi è caduto il bracciale, quello che ho al polso adesso. Ma quando mai me l’hanno guardato?)


(la mano di lui che me l’afferra, ansioso mi porta giù per le scale. Per farmi sentire qualcosa, per farmi vedere qualcosa che sta sotto casa, cazzo ci pago le tasse da anni ma arriva lui che dice che c’è un rumore che non c’è mai stato. E toccandomi in quel momento se ne sarà accorto? No, come io non mi sono accorta di non essermelo sfilato prima di andare a dormire, di avere indosso il pigiama assieme agli orpelli del giorno.)


(il mondo diventa indistinzione.)


(se scendo giù al mare e ritorno su, sarò mutata d’aspetto, non mi riconosceranno?)


Pollo e Mari guardarono lateralmente verso la discesa del pendio, là dove presumibilmente stavano le onde ormai mute, vedendoci rive in cui s’arenavano mostri marini di epoche di saraceni e colonne ioniche che sorreggono le terre emerse ed eterni templi del caos sotto la superficie profonda dei flutti. Bestie che hanno musi distorti e membra di comuni bestie di terra, incastrati in una natura ittica: code di sirena sguscianti come aperture alari da dorsi di cavalli e buoi e maiali.


Si sarebbe detto che Croce avesse perso in maniera fulminea e quasi inquietante il monomaniacale interesse che aveva avuto fino all’ultimo istante per le guglie dell’entroterra quando voltandosi con una smorfia rivolse agli altri, recidendo per sempre la possibilità che i loro pensieri paralleli si incontrassero e vedessero come riflessa in uno specchio la loro casuale sincronia, una domanda che intendeva essere scomoda.


-dov’è S.?


-l’abbiamo lasciato sulla mensola in stanza.-, rispose Mari senza scomporsi.


Croce pronunciò con enfasi il suono “tsk” dei fumetti Disney italiani, facendosi guardar male da Pollo e invogliando Mari a rispondergli.


-quando siamo usciti di stanza già non ti si vedeva più, eri uscito chissà dove, cosa vuoi?


-dovevo controllare delle cose della terra.


-è un radar, la nostra bestia.- commentò Pollo.


-ti sei disinteressato, sei sparito, e adesso te la prendi con noi?- continuò Mari senza comunque alzare la voce nella sua rara nota di rimprovero.


-sì, mi sono disinteressato del trasporto. Io non la posso portare un’urna, sai com’è.


-sì, e dopo non ti sei nemmeno accorto che noi non la stavamo portando.


Scalciarono ghiaia. Diversamente delle poche altre anime che avevano incontrato percorrendo quel breve tratto di costa, loro non sembravano avere in quei momenti alcuna fretta di fuggire dal sole. Nelle pause tra le discussioni non sembravano nemmeno sudare.


Pollo si concesse una chiosa, quasi una difesa di Croce, o una difesa generica di tutto un modo di intendere la vita.


-come si può accorgere, uno- disse senza rivolgere lo sguardo a niente in particolare -di una cosa che gli altri fanno, quando di suo non ci dedica il minimo pensiero? Non la vede proprio, non può.


Un altro uccello, da qualche altro arbusto spinoso, replicò alla canzone del primo, che ogni tanto si ricordava di continuarla, tracciando un discontinuo zigzag melodioso udibile da grande distanza, impigliato tra i radi intrichi della macchia.

Un uccello predatore ancor più distante lanciò un segnale intermittente che si disperse nell’azzurro arroventato a una grande altezza del cielo senza nuvole, forse là, dalle parti delle guglie rocciose, forse volteggiando in qualche altra porzione del giorno lassù, che l’occhio nudo non poteva penetrare, assaltato da miriadi di vermicelli di luce e calore.


-fate come vi pare.- concluse Mari. Pollo continuava, senza particolare enfasi.


-voglio dire… è come se quella cosa, quell’azione, non esistesse, no?


-non gli è possibile dedicarvi il minimo pensiero.-, puntualizzò Croce.


-facciamo così, ho capito. La funivia la prendiamo domani.- decise Mari cominciando a camminare in una direzione casuale, forse l’alloggio, forse le rocce e la terra spoglia.


-se c’è ancora, la funivia.


-che c’è Cro’, pure quella l’ha avvelenata il vulcano?


-e io sarei quello disinteressato. Nemmeno vi siete informati se c’è, quanto costa e tutto il resto di cui dovreste occuparvi.


-non c’entra niente. Non c’entra proprio niente.


-povere ceneri di S.! E che amici di merda che aveva.


-conoscenti.- puntualizzò Pollo.


Seguirono Mari nella sua bella idea di continuare a marciare a caso con quarantadue gradi di percepita.


.

La conformazione del terreno impediva di fare congetture sull’altitudine e nessuno aveva voglia di verificarla attraverso una delle app preinstallate e mai configurate, e al tempo stesso gli acuti sensori da scalatore esperto dell’animale dovevano essersi inceppati. Poteva darsi che, marciando senza meta, fossero saliti parecchio nell’entroterra, poi discesi, poi saliti di nuovo, in una continua alternanza tettonica priva di riferimenti e pattern, pavimentata soltanto da gibbosità di terra secca, o da colate di sassi sparpagliati di tanto in tanto a formare delle specie di sentieri e scalinate naturali lungo le scarpate cinte tra gruppi di vegetazione spigolosa, rami che parevano esser nati già secchi.

Risalita quella che avevano deciso essere l’ultima scarpata prima di tornare indietro, si ritrovarono in un altopiano tozzo come una testa di cinghiale, nella cui spianata si scorgevano segni di un’agricoltura disincantata, non troppo convinta di aver senso d’esistere, senza scoramento tuttavia, perché non conosceva l’affanno dell’attesa di frutti sperati.

Quattro case non recintate dall’aspetto di vecchi porcili reimpiegati a un temporaneo abitare, silicei e freddi negli anfratti ove ora si trovavano probabilmente vecchie credenze e sgabuzzini, si susseguivano tutte sullo stesso lato, le pareti praticamente attaccate al bordo di orticelli difficili da individuare a causa dei confini del terriccio che presto sfumava con la terra ocra dell’altopiano. Pochi steli paglierini spuntavano in fiocchi scarmigliati dai montarozzi che incubavano gonfiori di chissà quali tuberi resistenti al clima infertile.


Fiancheggiandole a una certa distanza potevano avvertire che in qualche modo dovevano essere usate, sebbene non si potessero intercettare presenze umane al loro interno in quel momento -soltanto una carriola accasciata a un muro aveva l’aria d’esser stata usata recentemente.

D’una casa si vedeva una credenza mezza affacciata alla finestra priva di vetro, dando l’idea di mobilio incastrato a forza in uno spazio angusto.

Un asino uscì fuori da un passaggio stretto tra la parete posteriore di una casa e una collina che s’inerpicava dietro di essa, cingendo il limite dell’altopiano. Ignorando i tre camminatori, percorse a testa china e dondolante un tratto di sterpaglie e scomparve dietro il successivo corridoio tra la prossima casa e la collina.

I tre raggiunsero infine la quarta casa accucciata nella scarsa penombra data da una sovrastante sporgenza della collina, l’unico edificio che fosse indubitabilmente inutilizzato e vuoto, d’una fatiscenza che oltrepassava quella tipica dei porcili abbandonati nelle campagne torride. Assomigliava piuttosto a un nido roccioso e lianoso di serpi e ragni, coi rampicanti dal fogliame folto intrecciati tra loro che, penetrando assieme nei buchi della pietra, formavano nodi dolorosi a vedersi, capelli lancinanti d’un essere vegetale.


In corrispondenza della casa svoltarono verso il parapetto dell’altopiano e in quella zona superarono una foresta di bastoni impiantati con bottiglie di plastica capovolte a inglobarne le punte. Era strano pensare che delle talpe vivessero nel sottosuolo di un’isola in mezzo al mare. Come c’erano arrivate? Avevano scavato il fondale limaccioso dalla terraferma fino alla costa distante, e colonizzato un nuovo cerchio di terra circondato dall’acqua? Come balene, che fanno le talpe degli abissi scavandoli col muso costruito per l’immersione, doveva trattarsi di animali strani… ma più strano ancora era pensare che nelle vicinanze scavassero nella corteccia e nell’ombra moltissime cicale ardite, in una quantità che non appariva giustificabile dalla scarsa numerosità d’alberi nel paesaggio o tantomeno dalla piccolezza degli arbusti e cespugli. Non erano mai state così assordanti. Avrebbero dovuto ricoprire senza lasciar spazio tutti gli alberi e gli arbusti visibili.

Conclusero che le cicale erano una partitura scritta nel paesaggio, non per forza deve avere una forma fisica.


Oltre la foresta delle bottiglie attendeva un muricciolo di pietre giallastre, accatastate a casaccio le une sulle altre, eppure solidissime. Le contorsioni dei rampicanti che ne attraversavano alcuni interstizi non avevano minato gli irriducibili equilibri insiti nella struttura, e comodo in cima a questa fermezza stava seduto un uomo corpulento in mutande e canottiera, con in testa un cappello da marinaio e un sigaro infilato tra certi arruffamenti della barba, in un punto che doveva corrispondere vagamente alle labbra. Le gambe villose penzolavano vicine alle rocce senza curarsi di lucertole e gechi che scorrazzavano sulla parete quasi sfiorando i polpacci coi dorsi fulminei, prima di sparire nei buchi, dietro viticci ondulati.

Il marinaio alzò il capo ai tre arrivati, più per studiarseli sbrigativamente che per rivolger loro un cenno, e tornando a guardarsi i calli neri dei piedi sorrise con gli occhietti porcini.


-conoscete la leggenda della torre?-, proruppe. Scossero la testa. Stettero in piedi ad ascoltare: non era una brutta voce. Bisbigliante e melodica, espressiva in maniera sottile per una totale assenza di qualsiasi inflessione dialettale, che per un istante li fece esitare, manco fosse apparso un grosso animale in mezzo al sentiero.


-ma alla torre, ci siete stati?


Mari scosse la testa.


-la conoscete? No? La torre è tutta contorta, a blocchi calcarei impilati, e sta alla punta meridionale dell’isola. A quei tempi era la zona più abitata… mi ricordo che certi giorni, anche da sopra il promontorio, ci sentivi il vociare delle navi fenicie. Si smerciavano i murici e le lumachine di mare, allora, eh, perché allora, se infilavi una mano nell’acqua, te la ritrovavi piena… ma capitava anche che ogni genere di cosa si impigliasse per caso nelle reti. Una volta ci vidi un delfino. Ma forse non lo dovrei chiamare così… i delfini allora erano diversi: dimensioni da tonno, avevano occhi feroci, pinne striate da pesce, e zanne lunghe lunghe, uscivano tutte ricurve dal rostro, parevano una malattia… quasi che, non smettendo di crescere, potessero incurvarsi all’indietro fino a infilzargli una sciabola spiraleggiante nel cervello…


Il vecchio -difficile dargli un’età, per la corporatura robusta e lo spessore muscoloso delle braccia brune- diede un tiro al sigaro spento, come fiducioso di trovarvi un’occulta brace superstite, a sbuffando poi il fumo stette per qualche istante in riflessione, scavando tra chissà quali ricordi.


Rialzando lo sguardo, vide che i tre giovani lo ascoltavano in silenzio, le espressioni protette da lenti spesse di occhiali da sole o da pupille rettangolari. Fece lo stesso sorriso da satiro di prima, senza bocca, e riprese a raccontare.


-e infatti una volta una donna di mare s’impigliò a una rete. Non di quelle con la coda di pesce. Non erano tanto belle a vedersi, no… i capelli parevano alghe lerce, la faccia di pelle da murena tutta rugosa, zanne da dentice… quando una s’impigliava, era difficile sfilarle, perché con le mani e i piedi palmati non riuscivano a districarsi: non muovevano bene le dita e con gli artigli non riuscivano a recidere i nodi… bisognava aiutarle. Ho sentito che certi pescatori se le portavano via e le vendevano in qualche mercato, a chi cercava schiava o cose stravaganti. Sta di fatto che una di queste la tirarono e tirarono, per una giornata intera, finché, sarà stato tardo pomeriggio, non riuscirono a liberarla e la ripiombarono in mare con un tonfo, e quella subito giù, sparita in un attimo. Una bestia strana assai… epperò Cacciapesce, che se n’era stato tutto il tempo in spiaggia a osservare, bontà sua, se n’era infatuato. S’ingegnò, da quel giorno, per incontrarla, sapendo ormai per certo che sotto i flutti ci abitavano quelle della sua razza… di immergersi fino alle profondità, non si poteva discutere. Allora un giorno se ne uscì con un nuovo stratagemma, e ci si mise ad attuarlo, per tanti anni della sua vita: notando che il livello dell’acqua d’una pozza del bagnasciuga, simile a una piccola laguna, s’era alzato quando un mercante ci aveva fatto cadere per sbaglio un sacco di murici, Cacciapesce aveva deciso di mettersi in cima al promontorio sud e lanciare nel mare certi massi strani che aveva trovato a non finire in una grotta lassù. L’avrebbe fatto finché il mare non si fosse alzato tutto, a portargli accanto la sua amata degli abissi… ma cent’anni passavano, e altri cento ancora, e il mare non s’alzava mai come sperava, riuscendo a rodere soltanto poche spanne dei contorni della costa: a malapena s’era mangiato il molo in cui una volta attraccavano i fenici, ch’era anni che non si vedevano più… però Cacciapesce s’accorse che con questo sistema una torre sta venendo su: tante specie d’uccelli si misero a far nidi a varie altezze, rondini di mare e piovanelli e gabbiani e sule, tutti… a un certo punto, proprio sulla cima che era arrivata all’altezza del promontorio stesso, finalmente si posa una donna del cielo, di quelle col corpo da uccello grifone, con i denti ossei sporgenti dalle labbra, i seni bianchi da morta… Cacciapesce stette due giorni e due notti in pausa, a esitare, a tormentarsi là in cima al promontorio. Mi capitò pure di scorgerlo, da lontano, mentre risalivo il pendio: camminava avanti e indietro a un passo dal balzo, povera bestia in trappola, lanciando a quella creatura che si stava facendo il nido certi sguardi ossessionati, e subito li distoglieva, per non farsi scoprire da quella… ma una buona volta prese una decisione: saltò, colle gambe più forti d’ogni uomo, solo in quell’istante, e così se ne andò a vivere in cima alla torre da lui costruita assieme alla donna del cielo. Si dice che, certe volte, Cacciapesce si sporgesse a guardar giù dal nido e vedesse affiorare dalla superficie delle onde le branche viscide della donna di mare a sgraffiar la torre là dove s’immergeva, e che la donna da laggiù lo guardasse implorante, amante anche lei che in segreto aveva atteso nell’oscurità delle acqua profonde, sentendo il richiamo di qualcuno che, a terra, l’amava… ma Cacciapesce s’era sposato con la donna del cielo, era una vita d’uccello la sua, alta: ignorava le cose della terra e del mare, dei mondi piatti… perciò da lassù la guardava senza dir niente, con una faccia strana di scuse e d’un nuovo disgusto, e poi smetteva di guardarla… se andate alla torre vedete ancora oggi tanti segni rovinati alla base: qua sull’isola diciamo che sono i graffi della donna del mare.


Il vecchio diede un’altra aspirata al sigaro e tacque. Mari e Pollo e Croce stavano fermi in piedi al sole, ognuno pensando alle cose sue.


-bella storia.-, fece Mari.


Il vecchio la guardò con interesse.


-tu hai parenti qua, vero?


-no… siamo qui per altro…


-mh. Hai la faccia di una dell’entroterra.-, spiegò sorridendole- Li riconosco, io, quei tratti. Io sono nato qua, sull’altipiano. Anche se ho vissuto al sud a lungo. Perché era meglio per lavorare in mare, è naturale...


Batté più volte un palmo duro sul bordo del muricciolo, come a sentenziare.


-già, già. Una faccia da isolana! Da gente del centrisola.


Mari arrossì.


-che fine ha fatto Cacciapesce?- si intromise Pollo con tono svogliato.


-Cacciapesce? È morto.


-ah…


Il vecchio sorrise anche a Pollo. Aggiunse, con aria enigmatica, che “mica tutti vivono tanto a lungo.”


-sicché a portarvi qui non è la torre, e nemmeno il sangue. E allora?


-il vulcano-, rispose Mari.


-ah, già, già, il vulcano. Mah, ce n’era di più grossi nel mare. Una volta era un dio potente, ma, ormai… pff…


-ci portiamo un amico morto.-, proruppe Croce, che non aveva aperto bocca, ch’era rimasto, fino a quel momento, come turbato, e ancora lo sembrava quando, dopo aver parlato, tutti si voltarono verso di lui all’improvviso, senza per questo mutare espressione -quello sarebbe stato troppo da sopportare, e in segreto Croce apprezzò tale premura degli amici.


Ma il vecchio parve incuriosirsi.

Osservò Croce più a lungo.

Lo vide.

Gli bastò poco.

Soffermatosi su di lui per qualche secondo, infine, rise. Non con gli occhietti, non come prima: dalla barba sporsero i denti gialli, enormi, una mezzaluna ghignante simile a incrostazioni sulla pancia di una barca.

Tossicchiò la risatina d’un diavoletto che vuol far capire di aver capito tutto in un attimo.


-ah, è così allora! Bravi, bravi.


Rise ancora, più forte. Anche se nell’altopiano non esisteva eco, rise più forte degli insetti, si mangiò tutti i rumori.


-noi dobbiamo andare.- cercò di tagliar corto Mari. -ci dobbiamo riposare per la risalita di domani.


-andate, andate, che è lunga! Bella mia, compaesana, attenta però: attenta che pure voi non finite come questo qua!- con un colpo di collo accennò a Croce, che con aria per metà affranta e a disagio a causa dell’attenzione rivoltagli, per un’altra metà indifferente da vera capra, scrutava in giro per l’altipiano.


-eh, attenti, che non è una vita che va bene per tutti… no, non tutti ce la fanno…


-arrivederci.- disse Mari.


-care cose, ragazzi, care cose.


Pollo alzò una mano senza guardarlo, seguì Mari in fila indiana, Croce dietro di lui, gli zoccoli lenti sui sassi e l’erba, il passo strascicato, come se gli fosse spuntata una nuova pesantissima coda che lo costringeva a schiacciarsi più gravato al suolo.


Tornandosene per la scarpata continuavano a sentirsi lo sguardo del vecchio sulle schiene, immobile a sorridere con gli occhi ancora, e a ridere muto coi denti ogni tanto, così vivido da figurarselo davanti proprio come se avessero ceduto al tremendo impulso di voltarsi indietro. Ignorarono i brividi che di colpo risalirono le gambe e accelerarono il passo, sparendo presto dall’altipiano.


...


Quando Mari esce dalla doccia e, non contenta, immerge di nuovo le dita dei piedi nel bidet, per rimuovere fino alla più vaga restante sensazione di sabbia e terra sulla pelle, è già tarda sera. Sente un buio d’inchiostro fuori dalle pareti, fa fresco adesso. Sente gli altri nella stanza vicina, dove c’è il fornello, che discutono sia della cena, sia di quanto sia stupido preoccuparsi della cena. Si guarda allo specchio e le sembra che, senza occhiali da sole, la faccia le si sia ingrassata fino a trasformarla in un’altra persona. Le viene in mente allora di non essersi guardata in faccia fino a quel momento, per tutta la durata del viaggio sinora, o forse da un tempo molto molto più lungo.

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