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le isole di Brian Wilson (ep.3)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 31 lug 2024
  • Tempo di lettura: 15 min

Aggiornamento: 12 ott 2024

Un bambino piccolo, forse contagiato da una febbre altamente infettiva, si dirigeva verso la cucina barcollando nella notte, simile ai pulcinella di mare disegnati sul suo pigiamino di pile celeste chiaro che al buio pareva fluttuare come una nuvoletta elettrificata, avviluppandolo in una luce dotata di una strana fioca fosforescenza. I piedi nudi erano tutti gonfi, come se la febbre, somigliando a una sostanza globulare, scendesse pian piano dalla sommità della fronte per raggrupparsi lì, e arrossare la pelle, e imbottire le piante e i talloni così da costituire delle naturali babbucce di gonfiore insensibile al freddo del pavimento nudo, e in tal modo proteggere premurosamente i passetti altrimenti esposti a tutti i germi che a star scalzi entrano in contatto diretto… una febbre premurosa, in fondo, preoccupata che il bambino evitasse di prendersi altri malanni oltre a lei. O forse, per lo stesso motivo, una febbre gelosa: doveva essere la sola a governargli l’interno del corpo in quel momento. Ma il bambino era intorpidito forse anche in altri sensi oltre a quello del tatto, e di quella sua febbre che gli faceva venir sete portandolo a svegliarsi nell’ora in cui tutti quelli come lui (ovvero i bambini piccoli piccoli che portano in petto un iceberg galleggiante nel Mare del Nord) dormivano profondamente, quasi come separati in un diverso mondo privo di collegamenti, di quella sua febbre che gli palpitava dentro in maniera lenta e costante lui percepiva soltanto la premura. Infatti scendendogli dalla fronte fin dentro ai piedi, sentiva dietro le cavità oculari come il generarsi ininterrotto e laborioso di un fluido piacevole che andava sgretolandosi in goccioline, diffondendogli nel cranio un alone simile a un sonno carico di lievi e soffici immagini oniriche.

Quindi, anche se un passetto alla volta avanzava in maniera goffa da uccello artico attraverso il lungo lungo corridoio dell’appartamento che per lui era quasi come un labirinto enorme, si sentiva riposato. Una bella cosa, questa febbre.


Molte insidie ci sono, in posti come questo -tutti i posti che hanno poltrone, angoli bloccati da mobili e a un lato opposto angoli liberi in cui s’accumula la polvere, e porte scricchiolanti che non si chiudono bene e tubature gorgoglianti e tante altre cose che di giorno hanno forme chiare e definite e quasi radianti, e che quando il buio le sommerge cambiano natura, sembrano moltiplicarsi le loro cavità, piene di parassiti, cose che possono uscire, fare rumori che spariscono subito, e non si sa quando riappaiono.

Ma lui è coraggioso, ce la fa. Era riuscito ad arrivare in cucina, dove c’era una luce vasta nonostante le ridotte dimensioni della sorgente, un caricabatterie lasciato attaccato a una presa pericolosamente poco distante dai potenziali schizzi provenienti dal lavabo. Un occhio blu sgusciava dalla gobba nera del caricabatterie diffondendo un alone subacqueo sulle superfici vicine. Il bambino già non aveva più paura, anche mettendo solo il primo passo in cucina, dove nasceva quel cerchio di luce dall’ampio diametro.

Non era però la stessa assenza di paura che solitamente lo accoglieva assieme alle luci del giorno. Era una tranquillità diversa. Che avrebbe potuto conoscere, forse, solo svegliandosi proprio a quell’ora. Grazie ancora febbre!, pensava, e quasi sorridendo guardava il modo stregato in cui quella luce, blu scuro nell’occhio del caricabatterie ma azzurrina quasi diafana irradiandosi al di fuori, colorava tutte le cose. Il metallo il legno il tessuto delle presine appese a una gruccia di plastica una patina spolverata di pavimento nel cui perimetro era un tempo esistita una lettiera per gatti. Tutto diverso. E quell’aura presente nelle cose, che pareva esser stata risvegliata e chiamata fuori da un invisibile virtuosistico incantatore di serpenti, s’amalgamava a un’altra che il bambino sapeva essere presente lassù, un po’ al di sopra del suo campo visivo. Dalla vetrata lunga in orizzontale che stava alta alta in corrispondenza del lavello, anch’esso di uguale metraggio, poteva comunque avvertire qualcosa, come un venticello, o meglio, ciò che un colore freddo e scuro sarebbe se fosse simile a un venticello. Due notti si incontravano: quella interna alla casa e insita in tutte le cose, e quella che stava oltre quel vetro e s’univa a tutte le notti del mondo, ed erano lo stesso colore!, pensava il bambino stregato anche lui, sentendosi più vivo di quando non aveva la febbre -o meglio, di un vivo diverso. Il bambino era sveglio nella notte. La luce che lo accarezzava mentre si sforzava di trascinare uno sgabello di legno sotto i piedi gonfi e sporgersi verso il lavello era proprio la stessa luce nella quale stavano immerse tante stelline che poteva immaginarsi a luccicare sui deserti e sull’oceano e sui circoli polari.


In quei momenti il bambino si sentì felice. I mostri non sarebbero strisciati là. In cucina non ci potevano entrare. Il bambino stava fuori, coi marinai e i beduini, sporto da una torre di vedetta o da un faro a leggere una storia dentro il cielo o dentro di sé, un racconto geometrico e costellato che somigliava alla luce elettrica azzurra accesa nel paesaggio della cucina… ed era una storia che somigliava all’addormentarsi di nuovo, un sonno che s’addormenta dentro un altro sonno che è dentro un altro sonno ancora, fino all’infinito. I mostri concepiscono solo cose finite: occupano degli spazi: li si riconosce per il rumore improvviso che fanno: amano il buio degli appartamenti.

Altri mostri invece sono più ingannevoli. Non li puoi semplificare così.

A un certo punto venne Pollo.

Stette fuori dalla cucina, come a studiare la situazione con cautela forse eccessiva, forse invece opportuna, perché alcuni rischi non potevano apparire ovvi a tutte le creature, e contro alcuni ci si doveva premunire anche se s’apparteneva a una specie incapace d’identificarli -la cautela di Pollo in quel luogo cercava di fronteggiare i suoi stessi angoli ciechi, anticipandoli, disarmandoli. Appoggiato a una parete, osservava il bambino che si sforzava così alacremente di porgere un bicchiere di plastica colorato al getto d’acqua, che era riuscito ad azionare sospingendo l’orlo di quello stesso bicchiere fino a raggiungere la maniglia del lavandino, e sollevarla con uno strattone del polso, affaticato ma vittorioso. Glu glu glu, come te la godi adesso, pensava Pollo a braccia conserte, gli occhi torvi puntati sulla schiena imbottita celeste.


Il bambino all’improvviso udì una musica: la sentiva scendere dal getto d’acqua, eppure sembrava appartenere a questo soltanto in minima parte, a una recondita zona interna del flusso che nessuno strumento avrebbe saputo individuare. Era come una cascata di note di xilofono al rallentatore, rintoccate dalle gocce che uscendo dalla bocca del lavandino rimbalzavano sul metallo illuminato d’azzurro. Alzò la testa, e da lì, coi piedi gonfi fermi sullo sgabello di legno, gli parve di riuscire infine a vederla, quella finestra sopra il lavandino: anche da quella proveniva la musica: la notte era una cosa rumorosa, e al tempo stesso quieta, in una maniera che non si poteva proprio spiegare e che tuttavia non si poteva neanche negare: perché nessuno avrebbe potuto negare quella musica fatta proprio di questo ossimoro. O forse qualcuno l’avrebbe potuto fare? Forse era solo una cosa di un momento, o di una notte specifica? Forse, a tornarci altre notti, si sarebbe potuto negare tutto quanto appartenesse a quel fenomeno strano? Ma in quella notte il bambino non credeva questo, no, credeva di star bevendo un bicchiere di tutte le notti mai esistite, anzi, se sono mai esistite delle notti, stanno tutte qua dentro, pensava a modo suo, coi suoi blocchi di pensiero composti quasi interamente da immagini statiche derivate dalle illustrazioni fuorvianti nelle pagine dei libri per l’infanzia, dai disegni del circolo polare sul grande atlante geografico dei bambini o raffigurati sui pigiamini d’aspetto fresco e innocuo, anzi, radicalmente opposto all'idea che ci si possa mai far del male.


Pollo perse la pazienza.


-vattene dai.


Il bambino si voltò. Pollo non riusciva a vederne il volto. Anche il pile ben illuminato e quasi fosforescente, elettrico e pungicante perfino dalla distanza, aveva cominciato a oscurarsi pian piano. Gettando una veloce occhiata sulla sinistra Pollo vide che in effetti la luce del caricabatterie non manteneva un flusso costante, dandosi ogni tanto a variazioni d’intensità che gettavano intermittenti chiaroscuri sulle superfici circostanti.

Nel volto del bambino, l’unico costantemente oscuro, come una nebbia che dipartiva caotica sin dai riccioli in cima alla fronte, sentiva però di distinguere due occhi fissi, peggio di stelle ossessionate da lui, dal suo destino. Una stupida suggestione, certo. Il bambino guardava Pollo: un’ombra alta alta in piedi fuori dalla cucina, a braccia conserte, col volto severo. Pollo a sua volta sosteneva lo sguardo privo di fattezze. Ci vedeva lo sguardo di un animale selvatico. Non un uccello del mare artico: una bestia di peli e zanne, che solleva una testa schiumante di viscere da una carcassa aperta. Ma per sua fortuna -così sentiva Pollo, fortemente- il bambino stava già svanendo poco a poco, obbedendo al suo comando.


Pollo disciolse la stretta delle braccia, preparandosi a prendersi il suo turno non appena quel coso fosse sparito del tutto. Ecco che se ne vanno le gambe, sempre più trasparenti, fino al nulla.. segue il torace, sì, bene… solo quello sguardo. Rimasto un attimo ad aleggiare. Senza occhi che lo ospitassero. Che razza di roba.


-ah, era ora.-, gemette Pollo. Sbuffando andò velocemente a spegnere il getto d’acqua, che il bambino non si era sporto ad arrestare nei momenti in cui stava scomparendo. Avrebbe potuto farlo. Pollo chiuse il flusso anche se l’avrebbe azionato lui stesso di lì a poco. Era una questione di decoro. Chiudere tutti i lavandini e gli xilofoni di questo mondo.


Io c’ho freddo, la notte, pensava Pollo. Non sento più quei suoni tintinnanti magici della luna e le stelle da chissà quando. Non c’ho tempo da perdere.


(Ma guarda te cosa mi tocca vedere.)


Divaricò le braccia a toccare con i palmi piegati gli estremi del ripiano inossidabile. La testa pendeva dal collo in apparente volontà d’accasciarsi, quasi pesasse troppo. I respiri crescevano forti e ampi, duraturi, ma irregolari, frenetici. Non esercitati da tempo, sembrava. Prese fiato per un po’, lo sentiva agitarsi in una zona del petto adibita a fatiscente sala d’attesa.


Decise a posteriori il motivo per cui si era recato in cucina. Non si sarebbe sciacquato la faccia. Pollo cercò un bicchiere. Ne prese uno di vetro ruvido. Lo riempì e bevve un unico sfiancante sorso dell’acqua più fredda che il rubinetto potesse distribuire con poco preavviso, dacché solitamente ci impiegava minuti a raggiungere le temperature estreme (secondo Pollo per un mero capriccio: nessuna reale necessità meccanica).

Gemette ancora, scoprendo i denti in una smorfia di trionfo. Pollo assaporò la selvaggia soddisfazione dell’aver immesso nei reni e nel corpo tutto una quantità significativa di particelle di mercurio e altri metalli, e altre sostanze dannose. Se le vedeva, negli anfratti del suo organismo, a picchiare e demolire e corrodere pareti con strane appendici estendibili dalla consistenza placentale, gommosi tentacoli d’ameba capaci però di scorticare come artigli. Brulicando, vivevano in lui, rumorosamente.


Pollo controllò l’ora. Stette per un po’ con lo sguardo verso l’alto, a guardar fuori dalla vetrata sopra il lavandino. Qualcosa l’aveva svegliato, un rumore. Ma non aveva ancora deciso se fare qualcosa a riguardo. Nel frattempo, pensava ai veleni e alle loro multiformi azioni, al modo in cui s’introducono in un corpo e ne colonizzano i modi di vita, sovrapponendovi i propri -errato sarebbe pensare che siano “modi di morte”: i veleni sono solo portatori d’un principio vitale opposto, che contrasta o annulla quello dell’organismo ospitante. Più che la morte, alla vita è nociva una vita diversa, con un linguaggio diverso.

Tossine, virus, distanze, incomprensioni. Medicine, anticorpi, vicinanze, unioni. Tutte cose viventi, tutte sanno annientare.


Il problema è solo quanto ci mettono a fare effetto.


Dopo quanti anni colpisce un bicchiere di veleno a base di mercurio e smog e microplastiche? Dopo quanto invece si sviene per una boccata d’aria presa in una notte di venti anni fa?


Non c’era che da aspettare.


Il rumore tornò a farsi insistente. Un rumore ottuso e stupido: come un oggetto che cade e che se si sapeva sarebbe caduto, ma non si è fatto niente per impedirlo, sperando che una volta tanto le posizioni precarie delle cose disposte nello spazio non costringessero a delle noiosissime interazioni con gli oggetti stessi. Come se non bastasse, era un rumore attutito. Quasi quasi, Pollo non era sicuro di averlo sentito, e di star sentendolo ancora. Avrebbe svegliato gli altri? A casa non sua? Sì lo avrebbe fatto. Ma senza fretta.


Innanzitutto, c’erano degli elementi non trascurabili riguardo al fatto che si trovava proprio lì, nella cucina di Mari, in piena notte. Occorreva che li osservasse e si lasciasse osservare da questi. Soprattutto la seconda: e infatti con attenzione lo osservavano quegli arredamenti da cucina, quel metallo iper-lucido che lo intristiva, gli faceva pensare a Mari che si affannava a non lasciarvi sopra neanche una macchia, per nessun altro motivo che la noia che doveva aver provato nel corso di quella stessa giornata, che lui già non ricordava più di aver trascorso e in che modo.

Eppure si trovava lì: nella notte, un luogo scuro che aveva atteso al termine di minuti e ore. Tic tac, tic tac, avrebbe dovuto poter udire un ticchettio del genere provenire da stanze vicine, perché sempre è così, ce n’è uno in tutti gli appartamenti scuri. Ma non c’era a casa di Mari. E poi un altro suono l’aveva distratto. E lo sguardo del metallo gli rimbalzava contro, trafiggendogli la pelle. Riportandolo a tutte le cucine della sua vita nelle quali si era ritrovato da solo, in piedi, circondato dalla stessa stoffa di presine da forno, carta semiplastificata di calendari obsoleti, tubi avvolti in fogli d’alluminio, liscezza sterilizzata di piani cottura e lavandini, talvolta brandelli di ortaggi incastrati tra le fauci rudimentali dello scarico. Tutto ciò diventava bruciore d’occhi, assaliti da dietro, nella maniera dell’irritazione che sale maneggiando il sapone per i piatti che corrode il primo strato superficiale e sottilissimo di pelle dei polpastrelli per poi risalire l’intero arto fino a diffondere una calda nuvola di stordimento attraverso alcune zone della testa -gli occhi sono sempre i primi a cedere agli incendi chimici che sopraggiungono.

Pollo ha occhi fragili da uccello. Creatura che li protegge come uova, destinate a cose importanti, piccole uova di visione. Uccello che protegge quanto di più prezioso possiede. Sta in piedi a lasciare che gli si inietti quanto basta il dispiacere che subisce. La cucina lo giudica. Le pareti, e il tessuto di presine e canovaccio eccetera eccetera e tutte quelle altre cose che s’è ripetuto mentalmente più e più volte sentendosene temporaneo prigioniero per la durata di quel gioco martire, eccetera, i mostri qua stanno, a quest’ora esce più convinto il loro spirito.


Croce era sveglio. Nella stanza contigua, simile a un soggiorno dislocato rispetto alla porta d’ingresso, stava con le zampe piegate sotto la pancia innaturalmente gonfia davanti a un balconcino posto sullo stesso lato del lavandino della cucina. Dalla vetrata più alta e ampia rispetto alla finestra della cucina proveniva più abbacinante il bagliore uniforme della luna, piuttosto voluminosa. Sembrava che Croce respirasse troppo a fondo, dilatando a dismisura l’incameramento dell’ossigeno, rallentandolo… lo decelerava quasi fino al punto di arrestarlo, o di incastrarsi in un ciclo di inspirazione ed espirazione così regolare e letargico da compiere un giro completo ed equivalersi a un’assenza totale di respiro.

Pollo s’era avvicinato. La sua ombra rachitica otturava in parte l’influsso della luce lunare coi suoi spettri sul corpo di Croce. Il ventre argentato, su e giù, su e giù, pian piano, gli adescava lo sguardo: lo pungolava trasmettendogli flash, immagini identiche: pance molli e gassose di annegati ripescati da un fiume.


-oh, Croce, non è che vogliamo tornare a casa?- chiese senza nessun motivo, con un tono supplichevole da amico stanco che richiede comprensione ed è fiducioso di riceverla. Cose che accadono solo quando il cielo stesso è il primo a rivestirsi di irrazionale.


Senza motivo Croce non rispose e sollevò un po’ il capo in direzione della luna. In quel momento, a vederlo così, ci si sarebbe anche potuto aspettare che belasse sonoramente, da un momento all’altro.

Chiuse gli occhi e piegò la bocca in una forma che assomigliava a un sorriso, e tenendosi così fermo parve bagnarsi di quella strana rugiada lunare, che in raggi deviati gli lustrava le basi dei corni, assumendo l’atteggiamento di un rettile che assorba il tepore solare.


Senza motivo il contegno di Pollo -sbagliato nelle condizioni normali del loro codice comportamentale concordato e taciuto- era rimasto avvolto da un silenzio tollerante, senza motivo non era scoppiata una lite. Tutto fu dimenticato, di quella domanda che non corrispondeva a quella che veramente avrebbe voluto fare, che non corrispondeva all’intima volontà di Pollo.


Stranamente non era successo niente. Anche se aveva profferito parole senza senso.


Pollo faceva per uscirsene, cincischiare in corridoio sfiorando magari con le dita i dorsi dei libri negli scaffali scavati nel muro, sforzarsi di leggerne i titoli al buio, prima di andare a svegliare Mari; udì però alle sue spalle una voce quasi lamentosa di Croce che continuava a ricevere in pieno la luce intagliata dalla forma del vetro.


-se ne sono andati, capisci? Gli indios dopo aver compiuto l’impresa. Fitzcarraldo è riuscito a portare la nave dall’altra parte della montagna, e loro hanno placato le divinità fluviali… finito tutto, conclusa l’impresa. E loro spariscono: loro sono diventati la foresta stessa, capisci?! E noi perché no?? Perché non possiamo fare come loro?? Merda!


Era una voce strozzata, e voltandosi, poté perfino scorgere una singola lacrima fulgida come una scheggia di diamante, o come un’anima di medusa in ascensione attraverso gli abissi fino alla superficie. Rigava il volto dell’animale, colando spumosa dal bulbo oculare ben serrato tra due fila acuminate di ciglia. Pollo si sentiva così disossato e alieno rispetto a tutto che non avrebbe parlato a Croce dell’episodio, sottoponendolo al sacro e condiviso tribunale del cinismo autodifensivo. Lasciò correre.

La polvere presente sul dorso dei libri in corridoio si rivelò simile al sapone per i piatti e gli intensificò il bruciore dietro e dentro la testa. S’accorse che era molto più diffuso di quanto quel pregiudizio che lo induceva a privilegiare sempre e soltanto gli organi analitici gli facesse credere: in tutto il corpo, minuti blocchi che componevano la sua forma, quasi organizzati a mestiere per intessere l’illusione collettiva di “se stesso”, lanciavano un microscopico inudibile gemito per quel calore, o prurito, o bruciore -impossibile dire cosa fosse, specie a un livello così profondo e basilare…

riconobbe alcuni titoli. Di altri solo i nomi degli autori. Si scocciò presto di cambiare orientazione del punto di vista, di volta in volta girando scomodamente il collo, per accordarsi a differenti regole editoriali colpevoli del fatto che non tutti i titoli erano scritti nello stesso verso. Saba, T.S. Elliot, Fitzgerald. Tra Eco e Pasolini stava incastrato un volume dalle pagine logore e ingiallite di una serie di libri preadolescenziali, molto popolari tra le ragazze della loro generazione, nel periodo tra la fine delle elementari e l’inizio delle medie se ben ricordava. A tener fermo il trittico, una palla di vetro al cui interno la neve simile a grossi pezzi di forfora dormiva su di un’abbazia in miniatura. Accanto, attaccato al legno della parete che racchiudeva lo scaffale, l’adesivo di un circolo Arci in cui Mari era stata a sentire dei gruppi Ska e Hardcore in chissà quale serata. Pollo pensò per la prima volta al fatto che Mari aveva smesso di frequentare quei posti gremiti di gente proveniente dai più disparati background a partire dallo stesso periodo in cui aveva iniziato a conoscerlo meglio.


.

Ma sì vi dico, avrebbe detto confusamente di lì a poco.


Trascinava Mari dietro di lui giù per le scale, le tirava il pigiama all’altezza del polso, ne sentiva una sorta di calore. Le chiedeva scusa mentalmente ogni volta che le dita gli s’attorcigliavano con più decisione alle pieghe della manica lunga, strattonandola. Più forte delle sue mezze frasi di concitata demenza, risuonava lo scalpitio quadripartito degli zoccoli di Croce, che li accompagnava a lato come una specie di cane fedele.


-ma che è che hai sentito?


In ciabatte nel cortiletto freddo, Mari e Pollo facevano girare gli schermi illuminati dei cellulari sulle aiuole incassettate e sulle cassette della posta, sulle recinzioni e sul gabbiotto riempito di secchioni della differenziata, su un gatto che scappò via -avevano intanto iniziato a camminare oltre il portone-, sulle targhe delle macchine, sui fili d’erba che s’allungavano a coprire il bitume. Un singolo grillo infreddolito suonava da qualche parte, dietro uno di quei fili forse, o dietro una spiga a un centinaio di metri, facendo disperdere con l’impalpabilità del suo pianto le tracce della sua distanza.


-vi giuro, era…- Pollo si fermava, non finiva di spiegare. Un suono l’aveva sentito. Che fosse quello…? Davvero, solo quello?


Sicuro? Ma sì, ma sì, vi dico, rimbalzavano domande e risposte senza approdare a cose visibili.


Mari scrollò le spalle e sbadigliò.


-non c’è niente. Se lo risenti, ci svegli di nuovo. Va bene?


Pollo con la bocca ebete e cucita le annuì, abbassando lo sguardo a terra, alle quattro ciabatte sull’asfalto. Croce guardava verso i campi incolti dall’altra parte della strada. Uno spicchio celestino luccicava molto distante, distorto e infiochito, la lunga finestra di un’industria farmaceutica che doveva trovarsi forse al di là di una coppia di binari indeterminabili nel buio lontano, ma certo iniettati là da qualche parte nelle sue viscere, ogni tanto rumorosi e rischiarati da un passaggio improvviso di vagoni. Non sembrava esserci imminenza di transiti ferroviari. L’ultimo sferragliare d’un treno, ascoltato qualche ora prima dall’appartamento di Mari, apparteneva a uno spaziotempo separato. E forse ancora informava la terra con echi di se stesso, da quel suo angolo pietrificato in un eterno post-cena, tra i rumori di lavastoviglie, lavaggi manuali, podcast rumorosi per schiacciare pensieri che formano sciami molesti nel mezzo delle faccende, programmi televisivi, e stanche vibrazioni serali di altre cose del paesaggio che, allo sfrecciare dei vagoni, s’erano tutte scosse, come esposte al vento, come senza mai arrestare del tutto il primo moto impartito da un primo scoppio cosmico. Una prima nota musicale.


-io comunque ero sveglio…-, borbottò Croce. -senti, ma non è che era un treno? Hanno rimesso il notturno?


-no, era…


-ci svegli quando lo risenti. Ok? Torniamo su adesso.


Pollo annuì di nuovo, senza guardare nessuno.


(perché sono in piedi? Perché non si dorme la notte? Io non sono notturno. Perché sono vivo, di notte? Perché accetta che io possa svegliarla di nuovo, senza darle niente in cambio?)


-che domani dobbiamo decidere che fare.


Il grillo diede due trilli consecutivi, deboli, nel silenzio indefinibile che seguì -non certo pesante, nemmeno imbarazzato, eppure da entrambe queste condizioni pareva aver prelevato alcune particelle sottili facendosele proprie, riamalgamandole in qualcosa di nuovo e allucinante, che era preferibile a qualsiasi forma di silenzio solenne da riferirsi al morto che all’improvviso aveva occupato i loro pensieri, in quei pochi secondi prima che il grillo si spegnesse del tutto.


-con S., no? Poi partiamo e lo portiamo con noi. Deciso.


Mari non aggiunse altro e si strinse nel pigiama simile a un accappatoio cercando di contenere i tremiti alle caviglie causati dall’alta umidità. Una nebbiolina lanuginosa, folta, cotonava i contorni dei fili d’erba nei campi e nei vasi vicino all’androne, facendo sprigionare dal terriccio, inumidito sin da dopo il tramonto da uno spruzzatore automatico, una specie di incorporea membrana palustre, che pareva mutarsi in una pallida laguna di linee sinuose assorbendo la caduta dei raggi lunari.


La molla del portone risuonò sinistra e rumorosa, quasi da svegliare il quartiere completamente stordito al centro d'un sonno sordo e irreale, quando se lo richiusero dietro. Avevano tutti cominciato a sentir freddo alle ossa.

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