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le isole di Brian Wilson (ep.2,5)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 21 lug 2024
  • Tempo di lettura: 21 min

Aggiornamento: 13 ott 2024

Qualche ora prima, Mari trova l’appartamento vuoto e si siede sul divano. Legge un curioso post di un blog che parla di Croce. L’ha salvato prima, in attesa di poterlo leggere. E sembra aver trovato un buon momento. Anche se, a ben vedere, è forte la sensazione che da un simile post avrebbe tratto massimo profitto se l’avesse letto in piedi su un tram del tardo pomeriggio, schiacciata tra fiatoni e sudori di sconosciuti, un braccio a una maniglia e l’altro a condurle agli occhi lo schermo, così da non poter vedere il proprio riflesso incorporeo fluttuare sulle vie indaffarate. Pazienza. Se non altro, si trova in una stanza di sua conoscenza. Un salotto dall’odore pregno di cose e situazioni note. Questo è un fattore da non disprezzare. Qui dentro, prima del ritorno degli inquilini, sarebbe stata sola non dentro una stanza, ma dentro un momento: apparecchiato per lei, dalla giornata in persona, il suo riposo. Davanti a quelle poche pagine che in segreto avevano già da prima chirurgicamente asportato un grosso pezzo della sua attenzione.


La mia esperienza con O. e la sua trasformazione


Così si intitola. L’autore si è preso la briga di mettere una maiuscola puntata nel titolo e nel corpo del post, ma nei tag e nei commenti in cui risponde ad alcuni visitatori del blog ha lasciato scritto il vero nome di Croce -manco fosse una celebrità- senza nessuna preoccupazione. Che senso ha? È stata una banalissima inconsistenza? Eppure Mari trova qualcosa di magnetico nella scrittura di questo signor “Anonimo99”.


Se mi metto a scrivere proprio di questo -e chi mi conosce sa quanto a lungo la questione sia gravata sui miei pensieri- è perché, lo ammetto, ho bisogno di farlo. Perdonatemi per aver abusato così dello spazio del blog. Nutro tuttavia la speranza che da questa storia, o meglio, da questa serie di aneddoti, qualcun* possa trarre qualcosa. Perché, diciamocelo, tutti noi abbiamo conosciuto un “O.” nelle nostre vite, o più di uno, anche se, com’è ovvio, non tutti sono andati incontro allo stesso epilogo…


Ma diciamocelo chi?? Di che stai parlando?? -pensa Mari senza riuscire a staccare gli occhi dalle lettere che sembrano velocissime ad allinearsi come puntini che formano un disegno. Quasi come se una costellazione riassuntiva di ciò che Croce era e sarebbe potuto essere per i posteri attendesse da lungo tempo nel vuoto lisergico della non-esistenza l’occasione per nascere. Ed eccola, dalle mani di Anonimo99, in un confortevole tondeggiante smussato spazio virtuale come tanti, in cui i redattori danno descrizioni forzatamente autoironiche di se stessi affermando di amare “il ramen e la birra artigianale e la Square Enix”, e alla cui apertura ogni volta un pop-up rende manifesta la celestiale possibilità di un fantastico sconto sulla versione premium per la durata di due mesi.


Ma tutti abbiamo bisogno di una spiegazione. Conobbi O. al mio primo anno di università. La mia prima esperienza da fuorisede. Ricordo l’emozione di salire le scale che così tante volte avrei salito, per conoscere coinquilini che non avevo mai visto in faccia, e…


Anonimo99 si perdeva a questo punto in un lungo elenco di stereotipiche nostalgie romantiche sulla vita dei fuorisede in cui non si scorgeva traccia di spontaneità. Mari intelligentemente salta a dopo la loro fine. Spietata nel giudicare sia forma che contenuto, al contempo stregata: lei è là, innegabile, l’ennesima lettrice segnalata dal contatore delle visite, un numero dietro il quale si cela Mari totalmente sotto il controllo di Anonimo99 che forse aveva aggiunto certe parti per compiacere una fetta di “pubblico” (questo blog co-gestito ha ancora oggi un discreto numero di follower), o forse semplicemente era a volte un cane e altre volte sapeva interessare, questo Anonimo99 che si cela dietro un nickname scanzonato e un avatar di se stesso in forma “chibi”, e chissà dove possiede proprio un corpo reale separato da quell’agglomerato di pixel.

Un agglomerato di carne che s’era mosso negli stessi spazi di Croce, che l’aveva visto in un tempo in cui aveva avuto un aspetto completamente diverso… o che forse non era mai davvero esistito. Forse uno era sin dalla nascita un binomio firma-avatar che ha forma soltanto sul fondo bianco di uno spazio virtuale, forse uno era sin dalla nascita un tizio che a un certo punto è diventato una specie di capra -ciò che sta prima di quel “certo punto” è prenatale, è proto-esistenza, è cacciata dall’Eden, tempo del sogno. Non compete ai vivi.


Eppure Anonimo99 ne parla. Mari non riesce a non leggervi qualcosa di escatologico.


…e tra loro c’era anche O. Ebbi da subito l’impressione di trovarmi di fronte a una persona interessante. Intenso. Nello sguardo a volte, più spesso negli atteggiamenti, nel peso di alcune parole dosate che gli uscivano di tanto in tanto -tutto questo lo si sentiva già dal primo sguardo. Assieme a qualcosa di anormale. Una tensione che come una saetta silenziosa mi attraversò il palmo salendomi fin sulle spalle nel momento in cui gli strinsi la mano e lo guardai fisso in faccia forse per cinque secondi buoni, forse per molto meno. Più di un enigma si camuffava dietro quel sorriso accennato soltanto per un istante brevissimo, quando mi porse la mano. Presto le labbra avevano rioccupato una evidente posizione di conforto. Era il loro status quo: una neutralità che sembrava propendere naturalmente all’ingiù, manovrata da un qualche cruccio segreto.


Mari crede per un istante di rabbrividire. Mette una reazione a cuore al post. Forse dopo la rimuoverà. Sì, quasi sicuramente.


…difficile vivere con lui, come con tutti gli altri, del resto. A volte. Non starò a stilare una tier list di chi è più “facile” e più “difficile”, per quanto sono certo che Salvo, Fede, Cloud e Nico mi pagherebbero per vederla postata sul blog. Mi dispiace ragazzi, non questa volta. Ma voglio raccontare di altre cose. Impressioni. Momenti con O. che ancora ricordo nitidamente. Di norma circondato da un’aura quasi troppo densa, quasi respingente, inavvicinabile, si lasciava andare a rari momenti in cui era lui il primo ad avvicinarsi, perfino a scherzare. Avrebbe poi negato tutto questo. Avrebbe deciso tutto di testa sua, stabilendo per gli altri, per noi, che cosa fosse importante, e cosa no. E nonostante il suo apparente disprezzo per le piccolezze, per le “mediocrità”, per molte cose perfettamente normali che ai suoi occhi parevano svalutarsi, in silenzio o ad alta voce nel corso delle solite liti tra coinquilini, io non voglio “condannare” O., o perlomeno, Non soltanto condannare. Questo forse deluderà chi, tra coloro a conoscenza dei fatti, si aspettava da parte mia una penna più severa. Ma è passato del tempo e voglio parlarne in maniera più completa di quanto non abbia fatto finora. Voglio restituire di O. una maggiore complessità, una traccia di quello che è stato, riconoscibile per chi lo conobbe quando era umano.


Stila il profilo di Croce quasi come fosse un personaggio da lui creato, un orgoglio nel novero delle sue doti da sceneggiatore. Ma a Mari pare che ci sia una specie di innocenza in questo. E perfino l’arrogante intento di “raccontare O. in maniera completa”, così arrogante da dare il capogiro, pare a Mari preferibile ai commenti maggiormente votati dai pollicioni all’insù, le cui espressioni più ricorrenti sono “narcisismo patologico” e “meccanismi di coping disfunzionali”. Saprebbero tutti loro diagnosticare un quadrupede artiodattilo? Avendo a un palmo dalla faccia i suoi peli pungicanti, convivendo praticamente ogni giorno con il suo sentore di stalla con la stessa assuefazione che si avrebbe nei riguardi dell’ascella estiva di un fratello maggiore durante le vacanze in famiglia? Forse sarebbe da coniare un nuovo e poco carismatico disturbo della personalità per tutto questo. Che coinvolge tanto il soggetto in questione, quanto chi gli vuol bene, chi lo tollera, o qualunque sia il termine strano e profondamente malinconico che sarebbe più corretto impiegare in questo caso, in tutti i casi che coinvolgono loro tre.


(che ne sanno tutti questi? E Anonimo99, che ne sa? È così importante che, se guardiamo i dati scarni e freddi, occorre ammettere che lui ha conosciuto il mio amico per un tempo maggiore? È così importante che l’abbia visto com’è venuto al mondo? Sto rosicando? Una parte di me lo sta facendo, sì, diciamoci che è sempre solo una parte a fare qualcosa, e così ci togliamo il pensiero.)


…ero fragile, come sapranno in tant* che mi sopportano e leggono. In quella circostanza prese la parola, disse che mi stavano bullizzando. Chiese loro di smettere. Li insultò uno per uno, senza gridare e, per assurdo, senza rancore. Eppure era spietato. Hey, voi -sapete che mi rivolgo a voi-, non sto dicendo di essere d’accordo con lui, lo sapete, non ce l’ho con voi per quello che avete fatto allora, come vi ho già detto più volte in privato. Dovevo crescere, e forse anche voi dovevate crescere -non sta a me dirlo-, ma ciò che voglio dire è che O. era anche questo, era animato da un senso di giustizia tutto suo, in cui si riflettevano tutte le spigolosità degli altri lati del suo carattere.


Mari continua a saltare con precisione gli esempi stupidi. Quello che le interessa maggiormente sono le impressioni personali che Anonimo99 si è forse “lasciato sfuggire”, contravvenendo alle granitiche leggi di “show not tell” in uso tra i suoi colleghi, perché evidentemente qualcosa di ignoto a lui stesso voleva uscirgli da una cavità ignota a lui stesso. Quella versione di Croce chiamata “O.” aveva scalpitato per prendere vita. Si era contorta, aveva gridato a pieno diaframma, aveva pianto assordantemente per la fame e il freddo e il dolore e la malattia e la morte nel vuoto di un asettico reparto ostetricia del possibile.


… aveva dei principi testardi, che talvolta alzavano la testa, come un’idra dormiente che pian piano si risveglia soffiando minacciosamente. Ma questo, quando era ancora “umano”. Ripeto, qualcosa di strano c’era stato sin dall’inizio. E nell’intensità della sua persona, nel suo essere quasi “mitico”, e alla luce di come sono andate a finire le cose, io ho creduto di comprendere come un disegno si possa intravedere nelle persone che incontriamo. Nel giorno fatidico, avremmo avuto tutti la conferma di qualcosa che già esisteva. Tanti piccoli indizi. Un mosaico che era stato davanti a noi per tutto il tempo. Ed era soltanto questione di tempo prima che prendesse vita. Ci sto arrivando, lo giuro. Vorrei solo raccontare pochi altri avvenimenti prima di arrivarci. Perché è questo che fa più male. Ripensarci. Ed è mio dovere farlo.


 Mari salta ancora, ma non del tutto: legge soltanto per pochi secondi due stralci di carattere aneddotico.


…quando rimasi a piedi il giorno in cui dovetti correre in ospedale da mia madre (descritto in questo post), fu lui a offrirsi di accompagnarmi. Durante tutto il tragitto non disse una parola.


Quotando questa parte del post, qualcuno nei commenti -uno degli altri coinquilini, a giudicare dal nickname- aveva sentito in petto la bruciante necessità di scrivere un suo pensiero riguardo ai manipolatori dissociati antisociali. Anonimo99 aveva risposto non lo so, rimando il giudizio, il mio intento è di dare un quadro sfaccettato e di riflettere su etc etc etc. Mari sorride. Uno scontro condotto in termini pacati. Parole incerte di cui quasi si sente il tono, sospese tra un rancore e un perdono. Sorride perché le sembra che Anonimo99 sia quasi servile nei confronti di Croce, nel “difenderlo”. Forse perché è quello che Croce stesso percepirebbe leggendolo.


No, forse no. Forse è Pollo che percepirebbe questo. Forse ultimamente le sta diventando sempre più difficile distinguerli. Ed è un problema. Forse ultimamente non riesce a capire chi ha influenzato chi e in quale aspetto. Forse stanno andando tutti nella stessa direzione. Forse si trasformeranno tutti, come Croce, lei compresa. Lui e Pollo entreranno un giorno in casa sua, loro, incapaci di far visita sinceramente, entreranno con qualche pretesto, uno di quelli di sempre, in un giorno già scritto per andare come sono sempre andati i loro piani nati dal nulla, risolti in numerosi nulla incatenati l’uno dopo l’altro, nella vaga nascosta speranza che con questa catena, da loro creata, si sarebbero potuti cingere il mondo e il tempo, ingannandoli per tutta la loro durata… ma quel giorno lei avrebbe avuto un altro aspetto. E un giorno nemmeno Croce sarebbe più stato in grado di parlare, forse. Una trasformazione sempre più grave che non cessa mai.


Mari sospira.


…aneddoto piuttosto curioso: il giorno prima dell’esonero di Metodologia della Ricerca Sociale non ero riuscito a dormire. Era per me un periodo difficile, in cui lo studio e le difficoltà private sembravano non darmi tregua, scontrandosi e collassando su se stesse fino al parossismo. Avevo bisogno di una sola cosa: il balcone. Sentirlo diverso, vederlo mentre respiravo una diversa aria. Quel balcone degli innumerevoli drummini, delle chiacchiere e del cazzeggio più disperato, immerso nel freddo, nel silenzio della città di notte. Volevo vederla dall’alto quasi vuota. Senza indossare il giacchetto. Senza occhiali. Con le orecchie rosse per il freddo sentire una sirena lontana, a occhio nudo vedere le luci dei lampioni e di pochi appartamenti insonni, filtrate da strane vertigini che mi avrebbero fatto vedere ogni cosa come le candele di una chiesa che a un funerale vidi deformate dalle lacrime. Sentire quasi l’incenso frammisto all’asfalto e all’aria di novembre.

Camminavo letargico per il corridoio, dalla mia stanza al soggiorno, con il braccio già proteso come un sonnambulo.

Trasalii. Un raggio spettrale e un movimento. C’era qualcuno. Qualcuno era entrato in casa nostra. Ma non era un ladro. O forse a modo suo lo era…

era solo O. che si girava a guardarmi. Rannicchiato sul divano in una posa scomoda, tutto avvolto in un plaid peruviano, leggeva un grosso libro aperto sulle ginocchia, sparando il fascio luminoso di una torcia sulle grandi pagine zeppe di disegni e testi simili a quelli delle miniature medievali, non prive però di un fascino estetico quasi primitivo, tribale. Non la torcia del cellulare: una torcia elettrica. Vedendomi, sorrise. “Vai pure”, mi disse, “non far caso a me”. Ma io ero sconvolto. Il petto mi scoppiava per lo spavento preso pochi attimi prima, che sembravano quasi continuare a esistere, dilatarsi, a causa di qualcosa che si nascondeva nella stranezza di quella scena... seduto a un metro da me, forse più o forse meno, uno stregone responsabile di incantesimi che mi stordivano. E forse responsabile di tutto ciò di “storto” e “anomalo” che capitava di vedere in quel periodo, sempre più spesso. Vedendomi esitare, aggiunse, a mo’ di spiegazione, e senza dissolvere quello strano sorriso innocente, quasi da bambino, che a suo parere si trattava di un capitolo da leggere necessariamente dopo le tre di notte, trascorsa “l’ora del bue”. E quella, a mia memoria, fu l’unica spiegazione che dette in merito a qualsiasi cosa.


Mari piega le labbra. Strano. A volte farsi i cazzi del suo amico è eccitante, le “scoppia il petto”, come ad Anonimo99 che non riesce a dormire per l’esame e trova un fantasma in sala. A volte, invece, non sa proprio che pensare.


Ma veniamo al giorno fatidico.

Come già detto, i segnali erano stati numerosi. Qualcosa si avvicinava, qualcosa stava cambiando. O. si assentava, litigava, spariva a lungo, non rispondeva ai messaggi. Chiudeva porte. Litigava. Trascurava se stesso e le cose attorno, puzzava, litigava. Disse, giustificando le sue sparizioni: “mi intralciate”. Non ricordo bene in cosa, forse aveva detto qualcosa come “siete un ostacolo per la mia crescita”, e intendeva tutti noi. Ripeto, non ricordo le parole precise, ma ricordo bene la rabbia.

Quanti commenti velenosi, da parte degli altri che si erano sempre ritenuti più svegli di lui, e che forse lo erano, più attenti ai loro progetti, certo: dicevano che O. era un “rosicone”, che lui stesso aveva ammesso più volte di essersi scelto un campo di studi che non gli avrebbe mai dato di che vivere, affermandolo tra l’altro con quell’aria menefreghista così irritante per tutti loro che alzando la voce gli ribattevano sempre: “noi ci sbattiamo, tu invece…”, “occorre progettualità”, “sei incapace di stare al mondo e te la prendi con quelli normali”… potete immaginare. Dicevano che quella dell’ostacolo era solo una scusa, che cominciava a rendersi conto di esser stato inconcludente, che la società va troppo veloce per uno come lui e che o si cambia o si soccombe. Stando a questa teoria, dunque, O. passava le sue giornate paralizzato nel panico oppure cercando di rimediare angosciosamente al tempo perso, immergendosi tutto in qualche progetto senza farsi vedere dagli altri per paura che i loro sguardi gli annientassero definitivamente quell’insostenibile orgoglio ferito. Ma per quanto palpabili fossero i pensieri di questo tipo che i coinquilini serbavano nei suoi confronti, per quanto appesantissero l’aria tanto da rendersi chiaramente visibili come uno smog anche quando non venivano pronunciati, lui li trascurava, lui sapeva andarsene via e ignorare con una sbuffata o una forma di sarcasmo, perché ormai trascurava tutto.

O. trascurava le sue mansioni. Era sempre stato preciso su quelle. Non so se fosse consapevole della cosa e la usasse come lasciapassare per farsi “perdonare” dagli altri l’eterno enigma del suo animo impossibile, frutto di tanti affanni, ma in ogni caso era così che gli altri la pensavano. In qualche modo erano stati anche d’accordo: si chiudeva un occhio sul suo carattere e sull’invivibilità a volte malsana che comportava, quando ci si ricordava di altri coinquilini di cui io avevo sentito parlare soltanto nelle numerose leggende rocambolesche degli universitari più loquaci -sapete, storie su quella gente che ha rotto elettrodomestici e compromesso definitivamente l’uso di cucine e bagni in maniere surreali. O. no, O. era impeccabile, in questo, tutt’al più sarebbe stato lui nella posizione di rimproverare la sciatteria di alcune faccende sbrigate frettolosamente da noialtri, ma taceva, chissà perché, riservandosi il disprezzo accumulato soltanto per i momenti più adatti alle frecciatine sarcastiche.

Almeno fino agli ultimi tempi.

Sembrava diventare velenoso, e quel veleno che aveva in bocca non si tratteneva più, non usciva fuori soltanto per dichiarare apertamente, e come se nulla fosse, le sue antipatie quando c’era da spararle ai diretti interessati nel mezzo delle situazioni più tese, dalle quali si difendeva in questo modo malsano (credo ancora, in cuor mio, che O. fosse molto fragile).

Urticava, a ogni minima occasione… quello era lo stesso periodo in cui i giorni del calendario comune segnati col cerchio dei suoi turni avevano cominciato a rimanersene irrisolti, adombrati da sciami di mosche fluttuanti in circolo. Nessuno vedeva O. uscire dalla sua camera chiusa a chiave (ovviamente, lui era l’unico a non spartire una camera, privilegio al quale nessuno si oppose sin dall’inizio: c’era qualcosa di intimidente nella sola idea di condividere una stanza con lui).

Non andrò nel dettaglio riguardo alle discussioni che si susseguirono. Erano riunioni indette senza la sua partecipazione, e si potrebbe immaginare che dietro quella porta continuasse a far putrefare nel rancore, o in chissà che altro, le stesse imperscrutabili ragioni che ne avevano fatto un recluso definitivo, una nazione membra esclusa dai forum in seguito agli scandali delle sue controversie interne… ma in ogni caso, si parlò anche -ovviamente- di mandarlo via, già premunendosi a contattare la famiglia e il padrone di casa, oppure, fatto forse ancor più grave conoscendo l’imputato, a utilizzare gli stessi metodi forzosi per negargli ufficialmente, per decisione unanime insindacabile, l’accesso alla chiave della camera, impedendogli così di chiudercisi dentro, finanche negandogli la chiave dell’appartamento se gli sviluppi successivi l’avessero fatto ritenere necessario.


Mari avverte una fitta nervosa intorno allo stomaco e si fa sfuggire un rutto malaticcio, che sembra farle salire schizzi d'acidità fino alle labbra. Si guarda intorno e, constatando che, com'è ovvio, non c'è proprio nessuno, chiede scusa per la sua mancanza di garbo.

Mi capitò d’essere in casa in un paio di quelle occasioni quasi violente, di colpi ripetuti alla porta, urla… ma anche i più collerici tra noi arrivavano a concepire l’assurdità di farsi cacciare per disturbo della quiete nel tentativo di costringere uno fuori dalla propria camera -e soprattutto, a un certo punto, nessuno aveva più voglia. Dicevamo: è difficile coordinarsi, già è tanto se riusciamo a riunirci e discutere, e gli esami di uno e i problemi dell’altro, e il part-time e non si sta mai tutti insieme alle stesse ore, compatti, per un attacco congiunto (sic), eccetera. Credo ci fosse qualcos’altro. Ma non saprei dare un nome a quell’arrendevolezza, simile a un inverno, che era calata dal cielo a ricoprire, sembrava, il palazzo intero. Non solo noi: la vedevo negli occhi di altri, anziani e studenti conosciuti di vista, incrociati per le scale… mi riveniva in mente O. seduto nel cuore della notte a studiare nozioni proibite. "Come stregare un edificio", forse. Oppure stregare un "periodo", un certo lasso di tempo. Una dimensione. Per mezzo di una fattura che aveva messo tutto sotto la stessa cappa, e pesava sugli animi, rendendoli malati. Eravamo sconfitti, e qualunque cosa fosse, aveva avuto la meglio anche sugli irriducibili protagonisti delle liti più accese. Capisco sia facile inventarsi una causa esterna, così irrazionale… vorrei aggiungere dunque che, in tutto questo, deve esserci un "mea culpa" da qualche parte, che un giorno dovremo accettare, ognuno di noi. E un avviso a tutti quanti si trovano in simili situazioni di convivenza: avrà nomi e forme diverse, ma può darsi che un simile inverno arriverà anche per voi. E in quel momento cercate di combattere quel senso di sconfitta. Continuate a litigare, oppure fuggite, insomma vedete voi. Ma siate abbastanza attenti da vederla.


(sembra sincero in questo suo appello. Meno quando parla di stregoneria. Croce non ha tutto questo potere. Non è così forte.)


…in questo modo la vita andava avanti e una novità sgradevole, in grado di far tremare tutta l’impalcatura, diventava niente più di un fastidio che poteva presentarsi soltanto nei momenti in cui era invitato, in cui impegni o evasioni di vario genere non impedissero di ricordarlo. Quindi, non era di O. che stavamo parlando, io e Salvo, quel sabato verso le 18-19 (tra l’ora della scimmia e quella del cane: in seguito sarei proprio andato a controllare. Sono strano, sì).


Mari si lascia andare a una seconda sgarbatezza perché è un istinto spontaneo che la incita a farlo ogniqualvolta qualcuno afferma di essere strano dopo aver confessato un'azione che non ha nulla di strano.


Ci eravamo fatti un giro alla fiera. Io ero andato più che altro per far compagnia a Salvo, non certo per struggermi delle mie magre risorse mentre vedevo lui dissipare le proprie in un bottino stravagante, di cui l’esemplare più illustre era assieme a noi, ingombrante e impossibile da ignorare: arrivati alla fermata dell’autobus, camminavamo sotto la tettoia del Carrefour a due minuti da casa, io ridendo imbarazzato, e Salvo tutto abbracciato al cuscinone con la stampa a grandezza naturale di una delle sue “ironicamente amate” (parole sue) ragazze 2D. Capelli rosa, uniforme da liceo giapponese, un singolo canino nella bocca sorridente altrimenti sdentata.

Che scemi eravamo, o forse più leggeri, a credere ci fosse qualcosa di impagabile nel far come se nulla fosse dopo aver ricevuto le varie occhiate dei passanti, confrontandole poi tra noi, classificando quelle del tutto indifferenti in maniera separata dagli stupori in cui quasi sembrava affacciarsi il puro terrore. Insomma: una serata normale. Una sciocchezza, non certo un terremoto. Perché avremmo dovuto pensare che qualcosa stesse per accadere? A quale scopo perverso sarebbe dovuto esistere un “finale” (ripeto che ci sto arrivando, giuro) così assurdo? Non eravamo che ragazzini, tranquilli a chiacchierare, anche salendo per le scale, io ad aspettare le sue cazzate argute, lui che continuava a dire “mia moglie”, “mia moglie”, sperando che qualcuno lo sentisse. Sorrideva trionfante ma senza esagerare, Salvo, mentre girava le chiavi nella serratura, un vero trollone che aveva pensato a tutto, fino al tono casuale del “ciao” che avrebbe sfoggiato di lì a pochi secondi, coronato da una camminata tronfia in compagnia della sua nuova sposa. Ma qualcosa di molto più misterioso e contorto che la teatralità di un calabro-piemontese barbuto e un po’ adiposo (scusa bello mio) aveva elaborato un piano molto diverso. E un soffio strano spirava già appena al di là della soglia,


In questo punto c’era stato un ripensamento. Mari legge nei commenti il passaggio quotato ancora integro nella sua essenza originaria, poi editata in un secondo momento: qualcuno aveva chiesto all’autore di eliminare la parte sottolineata. C’erano state diverse lamentele. Inappropriato. Inopportuno. Preferirei che non parlassi di quella cosa… e così via. E Anonimo99 doveva aver ceduto. Aveva scritto, nella prima stesura pubblicata sul blog e in seguito condannata: “e un soffio strano spirava già appena al di là della soglia, come quello che si avverte ancor prima di entrare in una casa in cui qualcuno si è tolto la vita. Mi è stato raccontato da amici che ne hanno avuto esperienza. È quasi un odore, e allo stesso tempo un brivido, negli istanti dilatati a dismisura prima di trovare appeso a un’asta per le tende il corpo di qualcuno che si è sentito ridere, che si è seduto accanto a noi, e che si è visto peggiorare gradualmente nel suo malessere, senza che nessuno dei suoi cari potesse far nulla”. Assurdo. Fuori di testa. Mari quasi vuole conoscere questo pazzo, questo autore tanto audace e tanto empatico e col petto che così tanto gli scoppia, così brutalmente censurato in un passaggio così importante. Ma poi ne rilegge di altri e le sembra di cancellare tutto ciò che può aver tratto da questa lunga lettura. Figure completamente diverse convivono dentro lo stesso nickname. E forse lottano selvaggiamente. In quel caso, a vincere era stata quella che, avendo dimenticato di cancellare le tracce nei commenti (che a differenza del testo non registravano gli edit), si era sentita rivolgere pesanti epiteti psico-clinici, una volta tanto non indirizzati all’oggetto del racconto, e aveva di conseguenza suggerito all’autore di riformulare il seguito della frase:


facendoci subito accorgere di qualcosa, conducendoci alla causa. La porta della camera di O. era aperta. Io e Salvo ci guardammo senza dire una parola. Subito andammo ad affacciarci, frettolosi ma anche cauti, dimentichi di tutto il resto ma anche titubanti, la presa sul cuscino allentata ma non del tutto lasciata. La testa della waifu strisciava floscia piegandosi contro il parquet. E fermo davanti al letto di O. c’era lui, nella sua nuova forma.


Mari chiude gli occhi e respira profondamente. Diamo soddisfazione a questo drammaturgo che racconta un fatto comunissimo. Bello mio, mio caro pazzo Anonimo99, incasinato così gravemente che potresti quasi entrare a far parte del nostro bazzico, se non avessi avuto la sfortuna di conoscere Croce nel suo passato, che lui certo non vuol rivedere a intralciargli le zampe… povera stellina mia, non lo capisci che è quello che accadrà a tutti noi? Un giorno ti sveglierai, povero fringuello nella lignea casetta per gli uccellini messa ad arredare il giardino, infreddolito, e impossibilitato a migrare. Un giorno mi sveglierò, anch’io, nella paglia, nel fango, o forse ingrassata forzatamente in un allevamento intensivo, a succhiare malconce vitamine disciolte e antibiotici da un biberon incastonato tra bianche sbarre asettiche, e gli occhi accecati dall’elettricità mortale perennemente accesa...


(perché la penso così adesso? Da dove viene questa convinzione, la certezza che proprio così andranno le cose?)


(…da un desiderio forse. Croce si sente solo, o sono io a sentirmici? Chi è che ha maggiormente bisogno di calore umano-animale?)


(…è sempre entrambe le cose, o qualcosa nel mezzo tra i due estremi. Sempre così, e ci si toglie il pensiero. Com’è bello ragionare.)


Le zampe erano piegate sotto il ventre, in una posa quasi serena, quasi sorniona, come ricordasse, in un afflato da anziano nostalgico, d’esserci stato anche lui nella mangiatoia a scaldare il bambinello. Gli zoccoli fessi, da demone, mandavano un acceso riflesso d’oro, e già dal loro punto d’inizio erano seminascosti dalle ciocche lunghe e stoppose della pelliccia lucente, simile ad astracan, sebbene d’argento quasi accecante, una pelliccia mai vista. L’addome si gonfiava e sgonfiava, un mantice d’affanno, e il caldo e acre alito da bestia arrivava fino a noi, increduli ad ammirarlo, ma privi di dubbio: era proprio lui. Fin nel collo lungo, in cima al quale stava sospesa in perenne giudizio, eppure carica di una rinnovata seraficità, quella testa musona. Le minacciose corna di rame con la punta ricurva all’indietro. Le pupille dritte su di noi, a squadrarci da quegli spigoli giudicanti.


(è proprio bello il mio amico.)


… ma non rispondeva alla nostra agitazione, ignorava semplicemente le nostre richieste non verbali di spiegazioni, così come le nostre domande sulle sue intenzioni. Anch’io alzai un po’ la voce, cosa che di solito evitavo. Persino con lui. Non so ancora perché, ma in quel momento mi sentii quasi ferito. E lui aprì bocca soltanto per insultare. …

…che né io né lui potremo dimenticare mai. Chiamò Salvo “porco”, “microcefalo”, disse di me che “mi credevo stocazzo”, e riguardo agli altri che non c’erano, espresse tutto l’odio che non era mai stato un segreto, certo, ma che adesso andava assumendo qualcosa di nuovo e inquietante. Una crudeltà… non saprei come altro chiamarla. E, come sempre con lui, ma peggio che mai, i toni si alzarono, sempre più, fino alle urla, fino a Salvo che quasi gli salta addosso, fermato solo dalla paura (del tipo, “chissà di cosa è capace”. Lo capisco, a Salvo. L’enigma di quel ragazzo complicato aveva preso ora una forma diversa e insensata, ma indubbiamente reale: doveva pur sempre nascondere la forza e l’imprevedibilità di un animale).

E O. continuava, inarrestabile, a parlare, l’espressione fissa, neutrale, freddissima, a sputare tutto ciò che vedeva in noi. Forse il vero O. era morto, forse il posto del ragazzo che avevo conosciuto, difficile ma non privo di una sua forte moralità, era stato usurpato da un animale che nessuno avrebbe saputo definire se selvatico o domestico, né identificare con una specie o razza esatta. ……disse a Salvo: “un giorno infilerai il tuo pisello assetato e unto dove non devi, lascerai terra bruciata dietro di te e chiamerai il tutto ‘ironia’, ‘non si può neanche scherzare’, perché in qualunque posto tu vada, l’unica ragione per cui ti ci troverai sarà sempre la stessa: che vuoi scopare a più non posso, fino a scopare te stesso, stordirti la mente mentre lo fai, e stordire quella della tua vittima per renderla docile, per sottometterla al momento, che è il tuo solo Dio, di forma fallica”. Questo sì, mi sento di poterlo riscrivere parola per parola.


Quando Mari ritiene di aver finito di leggere (le "conclusioni" può lasciarle stare) pensa che se a momenti arrivano Pollo e Croce dirà loro di essere stanca. Senza aggiungere altro, senza battute che avrebbero fatto comodo ai personaggi di un racconto. Per esempio avrebbe potuto dire, dandosi arie di una bagnante accaldata sulla sdraio: "è tutto il giorno che nuoto nei cliché", oppure, "a forza di banalità sono rimasta sotto shock di fronte alle cose notevoli."

Ma questo non è il suo modo di parlare, questo è il loro, o di uno solo dei due. Lei è diversa, in questo… lei sa che la sua reazione al racconto è completamente diversa da quella che avrebbero loro se lo leggessero.

Croce, impensabile che lo legga… come se cercasse di specchiarsi il muso in uno stagno in cui l’acqua è da tempo prosciugata.

Pollo potrebbe non rifiutare di leggerlo invece, e farsi carico di rappresentare un garbuglio di loro sentimenti collettivi, perlopiù corrosivi (ovviamente, Mari non gli proporrà mai davvero di leggerlo. È solo un gioco di fantasia).

Mari pensa ad Anonimo99, che un giorno ripenserà a questo post nella maniera di uno scrittore mediocre ma affermato e autosufficiente che ritorna sulle inesperte fanfiction della sua giovinezza… pensa a un uomo che crede d’essere cambiato tantissimo rispetto a quel ragazzo aspirante scribacchino. Sposato con una donna decisa e avvenente e con lo sguardo d’acciaio, sempre lei a intavolare le discussioni; pensa a lui che esprime il suo affetto per questa donna dicendole cose come “a volte non riesco a credere di essere stato così fortunato da trovarti”… un uomo funambolico sull’orlo della follia, un precipizio sotto di lui che cresce, cresce, palpita e si gonfia come una viva massa di abissi tentacolari che sibilando gli sfiora la punta delle scarpe e poi retrocede, a ritrarsi nelle ombre del fondo, paziente e ghignante nell’attesa sicura della prossima impennata d’energia, il prossimo pretesto, che presto o tardi nuovamente farà lanciare le grinfie nere ad afferrare quasi i piedi dell’uomo-preda, ogni volta più vicino, pronto a mangiarselo.


Mari ha gli occhi secchi, come abbagliati da una luce fissa. Non riesce più a piangere. Non ci riuscirebbe nemmeno se tornasse a casa sua ed estraesse i resti delle cipolle dal secchio dell'organico. Tantomeno ci riesce se prova a rileggere quelle parti così strane e aliene che prima l’hanno quasi commossa. Non ha lacrime nemmeno se si sforza di pensare alle sue mani cicciotte di bambina che raccolgono da un letto di foglie secche nel viale della scuola il corpicino senza vita di un uccello dal bel piumaggio colorato. Se ne sta ferma sul divano e non sente il bisogno di trovare un altro modo per far saltare il tempo direttamente al momento in cui torneranno.

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