le isole di Brian Wilson (ep.2)
- Milky
- 21 lug 2024
- Tempo di lettura: 19 min
Aggiornamento: 13 ott 2024
Croce pareva morto stecchito sul pavimento di Pollo, in quella che si sarebbe potuta ritenere la posa più scomoda possibile per la sua corporatura da bestia ruminante.
Bah, la postura non è un problema rilevante per un morto. Ma lui non è che sia morto, assomiglia soltanto a un cadavere… e allora occorre porselo, questo problema. O forse no: non si deve interferire col libero arbitrio degli altri, vivi o morti, bipedi o quadrupedi; ed è stato lui a decidere di mettersi in quel modo, e compromettersi la colonna vertebrale per la durata di questa vita e delle prossime, secondo un preciso disegno, insondabile a meno di non entrargli nel cranio.
No grazie, pensava Pollo, non entro in una testa che puzza di stalla.
-tutto bene Croce?-, chiese senza convinzione.
-oddio, sta zitto.-, fece quello.
Croce reagiva in modo pessimo agli alcolici e a qualsiasi altra sostanza che possedesse una minima percentuale di proprietà psicotrope associabili a una qualche forma di svago. Pollo, lui stesso incapace di divertirsi, una volta gli aveva chiesto acidamente, come a infastidirgli i fianchi con un bastone appuntito: “hey Croce, ma tu ce l’hai mai un momento ricreativo?”, sfoggiando un sorrisetto, una smorfia colitica che testimoniava tanto la sua volontà di demolire, causata da un prurito intollerabile che gli attraversava il corpo, quanto il ricordo di essersi sentito rivolgere la stessa domanda, con cattiveria di pari livello o molto maggiore, innumerevoli volte. Ah sì quello che chiamano Pollo o Gallo o non so che uccello da cortile, quello che non sa divertirsi, e che quando apre bocca fa finire il divertimento degli altri.
Allora, Croce gli aveva risposto con un belato criptico: detesto tutto ciò che è lieve. Dopodiché si era arrampicato sulla ringhiera del balcone e aveva preso a scalciare contro le adiacenti inferriate, senza perdere l’equilibrio, eppure senza esercitare apparentemente alcun controllo sulle proprie zampe.
Pollo aveva creduto in quell’occasione che Croce minacciasse di farla finita buttandosi dal terzo piano. Non lo conosceva ancora bene, non sapeva che Croce non avrebbe mai fatto qualcosa di così drammatico. O di così “stupido”, per usare la parola che Croce stesso avrebbe riservato per simili imprese: una caduta dal terzo piano era da considerarsi sempre uno dei metodi più sbagliati e inaffidabili; si sarebbe spaccato le corna, e nient’altro. Nessuna immediata cessazione di sofferenza. Anzi, un’ondata di dolore vivo che attraversa fino alle punte gli arti fratturati. Come il moto post-mortem di antenne d’insetto mezzo schiacciato. Lo sanno bene, loro, avanscopritori dell’abisso: non vi è, in un simile metodo, ciò che è maggiormente desiderabile, come potrebbe essere per esempio uno spontaneo liquefarsi incosciente all’interno di un diverso stato d’aggregazione, e tanti saluti e nessun ricordo, una reincarnazione indolore con l’anima che balza inerte di materia in materia. In altre parole: una caduta da un’altezza irragionevole comporta solo rumore fin troppo scricchiolante d’ossa, e non provoca l’agognata recisione istantanea e liberatrice di quel sottile, maledetto filamento che mette in collegamento quell’emulsione di dubbi collassati gli uni contro gli altri chiamata coscienza con il proprio corpo -proprio questo corpo qua!-, avrebbe potuto esclamare quasi con ribrezzo uno qualsiasi dei possessori di corpi di questo mondo riferendosi, con sgomento e uno strano protagonismo accorato, a se stesso. Questo corpo con la sua storia evolutiva e tutte le cellule morte e ricambiate secondo dopo secondo, upload dopo upload del sistema generale, aggiornato incessantemente sin dal grembo, sin dai pesci ossei e sin dai parameci e sin dal primo biberon di brodaglia primordiale surriscaldato dalle materne premurose concavità della terra…
In ogni caso, quello era stato uno dei primi incontri, era ancora presto per sapere tutto. I due sarebbero arrivati a capirsi in breve tempo. Presto capaci di leggere tutto questo l’uno nell’altro. A capire quanto insensato fosse aspettarsi che uno dei due si portasse d’anticipo sull’attuazione di un “insano gesto”, o di qualunque altra cosa potesse essere nominata con espressioni cristallizzate giornalistiche (l’aver appreso durante una delle prime lezioni di linguistica il concetto di “locuzione cristallizzata” non aveva fatto che ispirare maggiormente in Pollo un’iconoclastia di linguaggio, quasi come se, con le parole, si sentisse d’andar in giro a spaccare veri e propri cristalli, a infrangere le vetrine dei negozi del parlare comune borghese e pasciuto di sé. Nient’altro che un’immaginazione di furia anarchica, vivificata dalla mancanza di sbocco nel mondo reale).
Si sarebbero capiti. Avevano, forse, un’analoga costituzione da bestie dedite alla terra, nichilisticamente devote ai suoi lerciumi. Anche se non avrebbero saputo identificare i tratti esatti di questa somiglianza.
Ed ecco Croce giacere lì, sul pavimento di Pollo, ciocche d’argento della pancia distese in lustrini ondulati. Sembrava un emblema araldico o zodiacale spiaccicato su un qualsiasi parquet degli anni ’70, un contrasto assurdo che faceva pensare a una zanzara nell’ambra collocata su una mensola nella camera di un adolescente, a testimoniare muta che è esistito un sangue di dinosauri e d’altri passati ormai ampiamente vaporizzati, disseccati, estinti, decaduti.
-sparami.-, rantolò il non-drammatico Croce dal pavimento mentre Pollo scacciava con una mano simile a una coda di bue gli ultimi indugi di fumo acre che avevano forse già superato il grado di densità tale da far sì che appestassero pareti, tende, mobili e tutto quanto costituiva l’appartamento per una settimana come minimo.
-mmmmhhh…-, si limitò a sentenziare Pollo. Era un’eventualità che andava ponderata. Qualcuno sparisce per mano mia. Mettiamo che adesso apra un cassetto qualsiasi e ci trovi una pistola, finita là chissà come, passando per trascorsi oscuri di chi è già passato per questo appartamento, per queste strade, trascinandosi dietro nient’altro che sangue e violenza; e che io, per costituzione o per una maledizione mia personalissima che mi porto dalla nascita, non sia in grado di rompere la maledizione che affliggeva questo fantomatico tizio: non sono il prescelto. Ciò significherebbe che, prima o poi, dovrei impugnare quest’arma, e far fuoco, anche fosse l’ultima cosa che voglio. E considerando come vanno le cose di solito, c’è da scommettere che proprio così andrebbero le cose: non sarei io il prescelto e sarei costretto ad ammazzare questo stronzo di un animale e rendermi così un omicida, o se non altro un macellaio, o comunque uno che fa muovere le cose, e io non voglio muoverle, e la distruzione -concreta, non metaforica, una distruzione incontrovertibile che lascia tracce ingombranti- di una cosa qualsiasi, come la metti la metti, è la mossa più “mossa” di tutte, il nonplusultra del nonfarsiicazzipropri… ecco, prima c’era un caprone sul mio pavimento, ora non c’è più: c’è una carogna con un po’ di cervella sparse, e una puzza che rimane. Come questo fumo di merda. Ogni mattina per tutti i giorni seguenti starò a spruzzare il deodorante sulle tende e sugli infissi e sul legno e non cambierà un cazzo. Ecco cosa succederebbe, Croce, se io t’ammazzassi come mi chiedi di fare: capra morta e cappa e spray ai fiori di primavera. E io che rimango senza l’unico essere che mi sembra amaro quanto me. Della mia stessa composizione chimica.
-ma quanto ci mette?-, sbuffò irritato Pollo. L’ultimo messaggio diceva che sarebbe passata prima di cena. Croce avrebbe deciso poi se restare o tornarsene a “casa sua”. Anche se era praticamente il coinquilino di Pollo.
-hai paura di restare da solo?-, fece Croce -solo coi fantasmi.-, aggiunse, tra l’altro.
-pure la solitudine scappa via da me a gambe levate.
-che c’è, vuoi un abbraccio? Eh, Gallo?
L’umore di Croce dopo l’assunzione delle sostanze “lievi” che detestava era sorprendentemente peggiore di quello consueto di Pollo, il quale, quando non c’era Mari, perdeva ogni capacità di edulcorare le proprie reazioni naturali, esagerandole anzi, per difendersi meglio, per definirsi meglio, per non cadere in trappola.
-voglio che finiate presto.
-di fare che?
-in generale.
A ripensarci, non ci sarebbe stato alcun bisogno di sforzarsi tanto a rimuovere dall’atmosfera dell’appartamento quelle pesanti particelle grigie, che a odorarle pare di vederle ancora, grosse e pelose come tante tarantole. Perché ci stavano bene, perché questa casa apparteneva anche a loro: parti di un fumo che assomigliava ai due pseudo-moribondi che occupavano la sala. Rimuoverlo sarebbe stato contronatura. E Pollo non può azzardarsi a fare una cosa del genere, e scombinare tutti gli equilibri.
Fuori dal vetro, oltre lo stesso balcone sulla cui ringhiera Croce aveva una volta fatto danzare gli zoccoli in bilico su un cortiletto grigio opaco, nuvole sterili avevano occupato la città, simili a nebbia che scende tra gli edifici. Non poteva che essere una giornata del genere.
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Era stata Mari la prima a parlargli di Croce, e quindi a presentarglielo.
Secondo me ti piacerà questo mio amico, dice, e io ci credo, perché sono ancora uno studentello stupido con qualche inconfessabile speranza, e in effetti succede che finisce per piacermi il bastardo, ciò che non sarebbe successo se sotto sotto non ci avessi creduto quel poco da permetterlo, ciò che non potrebbe mai accadere adesso, nemmeno se Mari se ne uscisse con un’assurdità analoga, ma non lo farebbe mai, adesso, perché lo sa. Ci conosce ormai. Ci siamo sporcati. Sapersi l’un l’altro. Così da che mondo è mondo. Da che le frasi sono cristallo, da che le azioni e le frasi si specchiano ed è tutto un cristallo di merda.
-e perché lo pensi?- chiedeva quel Pollo del passato in un tempo che a riportarlo alla mente sembrava quasi un’epoca romantica, sebbene pressoché uguale all’età corrente.
-secondo me è tanto solo.
-ah.
-e poi ha smesso di andare a lezione.
Stava alludendo a una risposta che Pollo le aveva dato una volta.
Mari era un archivio vivente di cose di cui le persone si sarebbero imbarazzate a sentirsi ripetere, come a ricevere con mani nude frammenti di specchi deformanti, che fanno sanguinare i palmi e cristallizzano in un vetro spigoloso un pezzo della propria faccia in un dato momento storico che sarebbe bene lasciar sparire nell’oblio delle cose eternamente mutevoli. Questa proprietà sconveniente Mari non la nascondeva e la tirava fuori in più occasioni, in quel caso ricordando a Pollo che, quando lei gli aveva dato del “diligente” per la sua abitudine di frequentare tutte le lezioni, anche quelle più trascurabili e collocate in orari scomodi, lui aveva ribattuto: il mio frequentare le lezioni ha lo stesso valore di non frequentarle. La cosa risultava imbarazzante per Pollo per il tono eccessivamente stridulo e accorato in cui gli era uscita, del tutto diverso da come sperava di suonare.
Quindi, sentendola tirar fuori quel paragone tra il suo atteggiamento rinunciatario e quello di questo tizio chiamato Croce, si era ricordato dei giorni seguenti a quella sua risposta stridula e come esagitata nell’intento di volerle dimostrare qualcosa, un chissàcosa di cui nemmeno lui era certo; giorni in cui molte ore se n’erano andate continuando a pensare al fatto che Mari aveva forse colto quell’aspetto di lui, e adesso il Pollo che esisteva dentro Mari era inscindibile dalle implicazioni derivate da quell’impressione, e che quindi non ci sarebbe stato modo di far convivere il Pollo reale e quell’assurdo Pollo di finzione nella testa di lei, quel basilisco coi bargigli squamosi e la lingua biforcuta nel becco che, a trovarselo davanti in sogno o durante una delle sue estenuanti sedute masturbatorie sul conto dei disastri comportati dallo stare in mezzo agli altri, l’avrebbe all’istante avvelenato e tramutato in pietra. Una pietra, manco a dirlo, sconveniente: una statua immortalata in una posa brutta.
Comunque, questo “Croce” frequentava il loro stesso ateneo da diversi anni e in quel periodo stava ancora in una stanza che affacciava su una delle principali traiettorie tradizionalmente usate dagli studenti per entrare in città universitaria. Era il solo occupante rimasto. Non molto tempo prima della partenza dei suoi coinquilini era avvenuta la sua trasformazione.
Pollo ricordava con affetto che neanche un’ora dopo averlo conosciuto era già nata una discussione sul tema del suicidio. Lì per lì, Pollo si era preoccupato della misura in cui aveva lasciato che nella conversazione fuoriuscisse, più o meno segretamente e in maniera gradualmente più incontrollata, la sua debolezza, dovuta all’eccesso di nevrastenia nei confronti degli altri. Un argomento che non gli sarebbe dovuto interessare, in un modo ideale, in un sé ideale.
Per esempio ricordava uno degli esempi che aveva portato: chissà perché, davanti al muso affilato del ruminante, gli era riuscito quasi spontaneo di allentare la serratura a un pensiero che gli era roduto dentro forse per un paio di mesi, da quando aveva ascoltato quelle parole che avevano continuato a ronzare fastidiose ogni volta che incappava nello stesso campo semantico. Universitari, illustri suoi colleghi, certo più sapienti e più intelligenti di lui, certo irrimediabilmente minacciosi. Dicevano: l’autocommiserazione è obsoleta, si cresce, si supera quel solipsismo autodistruttivo, autolesionista, narciso nell’affondare.
Perciò Pollo era stato contento di poter parlare liberamente di fantasie tutto sommato innocenti, in cui poter rivolgere esclusivamente a un’area protetta chiamata “se stesso”, simile a un atollo di esperimenti atomici, tutto il thanatos in sovrannumero che si portava nelle cellule per ereditarietà genetica, molto probabilmente. E in quella bestia si nascondeva un immediato fratello.
Per questo motivo, nonostante si fosse rivelato lamentoso, insicuro, preoccupato dei giudizi altrui e intenzionato a giudicare d’anticipo come misura preliminare, gli era rimasto un buon ricordo di quel primo incontro. Ne avevano discussi gli esemplari diversi e nobili:
il metodo delle corna rotte cadendo da un precipizio, da bocciarsi per i motivi ormai noti, cionondimeno pregnante nel messaggio, sonoro soprattutto; deglutizione di variopinti cocktail della natura e dei laboratori, forieri di vomiti soffocanti, di numerose ineleganze; un vuoto bellissimo che s’estende verticale sotto i piedi sospesi, senz’appoggio, una bella metafora, una bella inquadratura, come piogge di corpi nella crisi del ‘29; un’immagine di splendida palude di sangue, sgorgata da vene al cui vivo e placido contenuto è data via di fuga da una lama sottilissima, per nulla volgare, che apre sui polsi o sull’area preferita un’elegantissima bocca di pianta carnivora che nemmeno si nota se uno non sa che c’è -proprio la palude in cui crepa quel famoso Narciso chiamato in causa da quegli studenti, amanti della pratica di affibbiare una diagnosi alle altrui sgradevolezze; infine armi varie, bianche d’acciaio e rosse di fuoco, anche senza scomodare i vari Mishima che si sventrano e i vari Cobain che occupano il suolo e piazzano basi militari e avvizziscono e si sparano l’eroina e si sparano in garage (o forse li scomodarono, alla fine, forse uscirono dalle loro bocche allentate un sacco di nomi romanticizzati, grotteschi se accostati tra loro)…
-usciamo fuori.-, disse Pollo senza preavviso. Guardava i grigiori baluginanti tra i balconi della via attraverso la vetrata con lo stesso sguardo di un randagio indomabile ansimante dietro le sbarre ruvide e appiccicose di uno squallido canile. Masticava la punta di un filtro di una cicca spenta che aveva recuperato da un posacenere.
-e che è adesso quest’apertura verso l’esterno? Datti un giorno, ma anche un paio d’ore, e vedrai: ti pentirai, ti sentirai ridicolo rivedendoti in questo improvviso getto d’entusiasmo, ti sporcherà tutto il curriculum.
-oh, che si era detto? Oggi niente prediche passate le tre.
-già, lo hai detto, predicando.
-forse non conosci la differenza tra una predica e una richiesta. O una legge, se preferisci. Sì, diciamo legge, se preferisci vedermi dispotico.
-perché non c’è differenza. Poni una legge, bandisci un tipo di morale, ne formalizzi un’altra che prospera negli spazi lasciati vuoti da quella, ci ergi dei palazzi, hai fatto la tua bella città sicura. E una richiesta? Lo stesso: mi predichi un’azione, dei comportamenti da mettere in atto, sottintendendo che ciò che hai in testa, ciò che è meglio per te, sia meglio anche per me.
-non me ne frega un cazzo, ti dico usciamo, non è per passare il tempo, se è questo che ti infastidisce, non ci consoliamo, tranquillo, non comincerò a mandarti messaggi all’una di notte quando mi sento solo e tanto tanto infreddolito. Facciamo così: è per far trovare casa vuota a Mari. Ti piace? Per dimostrare qualcosa. Ben le sta. Che ne dici?
-immagino che a lei non s’applichi il veto della predica. Data o ricevuta.
-andiamo dai. Svelti.
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A Mari brucia il pollice. Si è fatta un piccolo taglietto con il tetrapak da imballaggio di un cartone d’olio di scarsa qualità, eletto prodotto dell’anno dagli studenti che si riforniscono al noto supermercato che li vede giornalmente pattugliarne i corridoi tra gli scaffali tempestati di luce affannata, come leopardi malati di fame che perlustrano un canyon dell’Atlante in cui stranamente risuona, frammista al vento nordafricano, una hit vecchia di decenni con duetto di Elisa e Ligabue.
Mari faceva parte a volte di questi leopardi vuoti e squattrinati, Mari si è ferita una zampa e invano attende -forse per circa trenta secondi- in piedi accanto al ripiano della cucina un qualcuno, qualche animaletto parlante da fiaba che venga a sfilarle una spina dai polpastrelli, a rimuovere chirurgicamente la ferita che la porterebbe a ficcarsi il pollice in bocca, a rimanerci male segretamente per i decenni a venire.
Le brucia perché mentre tagliava le cipolle si è fatta forse investire in pieno dalla suggestione che dall’ortaggio mutilato in stringhe sempre più sottili, più numerose, più ordinate, stillasse un fluido trasparente e urticante, lo stesso responsabile del pianto che causa agli occhi e che, a quanto pare, fa piangere qualsiasi altra cellula del corpo. Il dito di Mari piange. Ma nessuno viene ad aiutarlo.
Prima di ricominciare a tagliare, a “cucinare” un pasto che possa soddisfare la fame profonda di un tempo morto, il pollice grosso e pulsante di Mari scrolla per qualche minuto su uno schermo: coordinato ad altre dita picchietta, cerca su Google il proprio nome, diverso da quello con cui la chiamano, e il nome di persone a lei vicine, anch’essi nomi diversi da quelli pronunciati sempre. Il pollice percuote un’icona a forma di stella e dentro la barra dei preferiti scivola un curioso post di un blog co-gestito piuttosto visitato, piuttosto sponsorizzato. Il post parla di Croce. Non ne nasconde il nome -Croce ha gli zoccoli, non può né scrollare né denunciare, nemmeno se minaccia di farlo, perché ha gli zoccoli, perché è un animale.
Il post lo leggerà più tardi. Per il momento Mari preferisce occuparsi di una pietanza che, si era messa in testa, doveva soddisfarla in qualche modo, doveva farle sentire degli odori, fragranze sprigionate da una serie di ingredienti recisi in più parti, così da liberare, da ciascuno di essi, qualcosa di vivo. Come una casa rurale d’infanzia. Un casale in vacanza: lì sì che si sentiva un odore di campagna. O forse erano solo i nasi di quel tempo a sentire molto, molto di più.
Il naso di Mari non sente niente: niente su cui valga la pena di soffermarsi. Sente solo prurito. Pianto. Mari detesta gli sprechi: il suo cuore piange, come stretto in una morsa d’altre cipolle, quando versa dal tagliere nel secchio dell’umido tutti i pezzetti di cipolla che ha tagliato. Lasciano una scia di lumaca sulle incisioni del legno lì deposte da coltelli di momenti incalcolabili, pietanze da tempo scomparse. Le lacrime rigano il volto di Mari, per la cipolla, per il suo spreco, per l’intima irrazionale convinzione che l’ha portata a questo gesto insensato (ne è consapevole, dentro di sé lo grida, dentro di sé è lei la colpevole di tutti gli sprechi, regina egoista in cima al monte più alto di una discarica che galleggia in mezzo all’Atlantico!): la cipolla stava tentando di avvelenarla. La stava facendo piangere in cellule diverse da quelle degli occhi. Non si poteva tornare indietro, a prima dell’innesco di questa sensazione. Andava eliminata.
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Pollo scelse subito lo stesso tavolo del primo incontro con Mari. Croce, fingendo di sedersi dal lato opposto -in realtà si limitò a scansare una sedia nera e gialla per farsi spazio e appoggiare la gola al tavolo-, lo squadrò corrucciato dalle pupille spigolose. Pollo sedette dove era stata seduta Mari, Croce sedette dove era stato seduto Pollo.
-hai scelto il tavolo.-, brontolò Croce. In quelle parole era insito un intero programma politico, e al tempo stesso un’implicita regola di non parlarne ad alta voce, di non costringerlo a esplicarlo. Loro non scelgono, loro non si comportano da decisori: meglio sarebbe stato se, indugiando per diverse ore in un ping pong di “per me è uguale, scegli tu”, avessero infine costretto a scegliere i posti il cameriere del bar praticamente vuoto a quell’ora, eccetto che per un uomo pressoché invisibile dietro un anacronistico giornale aperto, sotto un televisore da soffitto spento in un angolo dell’interno.
All’esterno, Pollo seduto nel posto che era di Mari girava lo sguardo a sinistra e lo faceva disperdere, quasi ipnotizzato e reso impassibile come dietro spesse lenti scure, sulla strada, forse la stessa da cui erano arrivati, forse un’altra identica.
Rapide di asfalto e cemento che corrono, e che vogliono attaccarlo. Da tutti gli angoli. Non è mai possibile spiegare cosa sia a volerlo attaccare. Che di continuo gli si avvicina con passo predatorio. Cose invisibili. È come quando, fiancheggiando le rive di un fiume reale, si avverte la presenza di belve spettrali, i fantasmi di quei fossili dai denti a sciabola che lungo quelle rive correvano prima di venir sepolti dal tempo. Spettri simili, eppure diversi, popolavano anche quel fiume grigio e multicolore di spazzature e manifesti e insegne, spettri senza artigli, ma che in egual modo sanno fare branco coordinato e in qualche modo sempre gli si avvicinano. Da questa strada Pollo si doveva difendere, anche facendo di se stesso l’unico possessore d’artigli in quel gioco di dominante e dominato, se necessario; gli venne in mente che si trattava dello stesso fiume che scorre attraverso un intero continente, un intero emisfero del globo, da decenni. A partire da chissà quale decennio. Che scandì una fratellanza inscindibile tra sé e tutti quelli che gli succedettero. Un corso d’acque insalubri, dal sapore di gomma bruciata. Gli venne in mente poi una macchina che percorre in loop strade parigine ormai rodate nella ripresa postbellica, intorpidite da un nichilismo pomeridiano.
-in un’intervista, Godard- rispose assente Pollo, continuando a guardare a lato -ha detto che, in quanto regista e in particolare coordinatore degli attori, si sentiva come un generale, un comandante militare: ordina ai suoi uomini di depredare un villaggio. Basta che lo fate, non importa se li fucilate, se li fate mettere in fila per crivellarli o qualcosa del genere. Il risultato è lo stesso. Il villaggio è depredato. L’atrocità è commessa, come si conviene, soltanto una virgola, una punteggiatura necessaria nel copione già scritto della guerra.
-mmmhhh…-, borbottò scettico Croce. -e in questa metafora gli attori chi sarebbero?
Pollo seguì con gli occhi una smart che sparcheggiava da sola nel paesaggio pressoché disabitato. Dietro il velo che gli offuscava gli occhi, sembrava esser passato per un istante uno stupore dovuto alla domanda non banale.
-niente attori.
-già.
-non ci sono umani… nelle nostre metafore. I nostri discorsi sterili.
-mh mh.
-non conosciamo nessuno.
-appunto.
-solo Mari.
-eh. E quell’altro.
Pollo annuì. E aspettò che il cameriere venisse a portare un vassoio, costringendo i secondi che passano a cambiare discorso -il discorso è del tempo, non di chi lo fa passare, o perlomeno è così quando si decide di farlo scorrere davanti a un tavolo esterno di un bar quasi vuoto. Ogni tanto s’udiva attraverso la porta aperta il fruscio della carta dell’uomo dietro il giornale. Non girava mai le pagine: dava scossoni allo stesso articolo aperto da diversi minuti per dissolverne le pieghe. Un vassoio arrivò, ma il discorso parve stagnare per qualche secondo… fortunatamente si trattava soltanto un impressione, e non si parlò più della gente che è morta, non in quel modo sbagliato. Quel modo che una certa possibile serie catastrofica di eventi avrebbe potuto portarli ad alzare i beveraggi dichiarando solennemente qualcosa come “alla memoria del morto”, e così via.
No, occhi offuscati e mente avvoltoia di Pollo preferiscono indugiare su altro genere di materia morta.
Volano in circolo sulla sedia su cui è seduto, in cerca del calore residuo lasciatovi da Mari anni prima.
Lei l’aveva visto e riconosciuto da lontano, l’aveva trovato solo e imbronciato con le spalle che si contorcevano, parevano guardarsi intorno, parevano cospargersi d’occhi carichi di sospetto, mai fermi.
Ciao ti ho visto a lezione se non sbaglio, o qualcosa del genere. E lui aveva lasciato che si sedesse e che bevesse qualcosa davanti a lui e che parlassero, e lui aveva detto: conosciamoci. E lei imperturbabile aveva detto: certo. Ma lui aveva insistito, posseduto da un diavolo: conosciamoci e diventiamo amici per un solo motivo, e cioè che la nostra amicizia finirà, e adesso ho proprio bisogno di quel tipo di sofferenza che ho sempre evitato, ho bisogno di ficcarmi in questa orribile situazione e di arrivare al giorno in cui mi maledirò per aver abbassato la guardia e averti fatta entrare e poi uscire.
E Mari senza dir niente l’aveva osservato, e le era sembrato di vedere qualcuno che all’improvviso comincia a parlare come un personaggio di un film, in una specie di tentativo di farsi esplodere, causare un collasso a se stesso e alle macerie di un mondo attraverso il quale vuole farsi largo -macerie che ha la presunzione di credere aver generato lui stesso.
Ma, seduto al posto di Croce, in quel lontano pomeriggio dopo le lezioni, stava soltanto un bimbo (pulcino?) che aveva da troppo poco scoperto ciò che si trova al di là degli occhi quando si iniziano a strappare i veli della propria timidezza, ritrovandosi così senza null’altro, al centro del corpo, che un urlante bisogno d’inventarsi qualcosa che possa adornare il deserto che resta. Una “narrazione patologica”, l’avrebbe definita lui stesso credendo di ammettere i propri difetti e invece incensandosi i pensieri.
Pollo seduto al posto di Mari succhiava rumorosamente la Tassoni dalla cannuccia e ripensava a com’era quel deserto scoperto da poco, al volto di Mari che in quel momento pareva averlo ostruito, galleggiandogli davanti alla faccia, con l’espressione vacua e gli occhiali scuri e i capelli lisci corti ai lati delle guance sui quali andava sbiadendo un fantasma di tinta rossa mal riuscita.
Ripensò a quel momento in cui aveva visto chiaramente gli occhi di lei oltre le lenti. Non parlavano ma gli facevano male, facendolo entrare. Dicendogli in una lingua muta:
"è facile per te. Con questa strategia. Con questa narrazione e queste battute da film. Ciò che in questo modo adorni e abbellisci è il momento insopportabile in cui hai smesso di mettere filtri tra ciò che hai in testa, che ti è costato tanto scherno, e le orecchie di un altro che possono ascoltarlo, le mie, che tu credi di avvelenare sin dal primo incontro, perché è preferibile vedersi nel dolore inflitto volontariamente in anticipo della rovina, piuttosto che in quello che assale nella rovina vera e propria, il dolore che giunge inevitabile alla fine di tutto, di un rapporto, di un tempo che meschinamente considererai sprecato. Per aver osato farlo cominciare con gli occhi ingenui e stupidi e dolciotti dell’ingenua stupida dolciotta stomachevole speranza. Preferibile il sadico al ridicolo…"
Quando Pollo casualmente smise di guardare la strada e si girò dall’altra parte, notò all’improvviso il cartello con il disegno del cane: io non posso entrare. Poi guardò Croce. Poi lo scontrino sotto il vassoio. Poi di nuovo Croce, con aria ingiustificabilmente sgomenta.
-pensi che si applichi anche alle capre? Agli stambecchi? A che cazzo sei che non ho ancora capito. Un segno di terra? Un’allegoria?
-sono il meno allegoria tra quelli seduti a questo tavolo. E poi che cazzo di domanda è. Mica sono un cane.
-si ma hai quattro zampe e puzzi uguale. E se adesso vengono fuori e ci percuotono con delle mazze?
-il cameriere mi ha visto e non ha detto niente.
-ma magari non ci ha fatto caso no?!?
Pollo ormai in paranoia completa. A volte il fumo gli fa questo effetto anche con diverse ore di ritardo. Croce non aveva ancora deciso se assecondarlo.
-il che vorrebbe dire che ha degli animali fetidi come clienti abituali.
-ma se c’è scritto che i cani non entrano!!
-Cristo ma ti rendi conto, e se anche fosse, secondo te gli esercenti escono fuori con le mazze chiodate quando uno porta un cane anche se è vietato?
-chiodate? Ce le hanno chiodate, le mazze?
Pollo si alzò e afferrò Croce per un corno, allontanandolo dal tavolo in un tentativo quasi comico di violenza. Lanciò sul tavolo la somma letta sullo scontrino e scappò tirandosi Croce dietro. Croce dimenticò di aver deciso di non dargli corda e prese a trottare anche lui, somigliando in questo (disonore!) più a una pecora. Pollo aveva dimenticato che in circostanze normali non-eccessivamente-paranoidi avrebbe giudicato ributtante il fatto di aver saldato il conto per entrambi, come un amichetto che offre da bere a un altro amichetto. Ma una volta tornato in appartamento e trovata Mari da sola e impassibile, non ci avrebbe comunque ripensato, e si sarebbe messo in un angolo del salotto a guardarsi intorno con inquietudine e ribrezzo, quasi aspettandosi imboscate che saltano fuori dai quadri e dalle pareti.
In ogni caso, Croce, essendo una capra o uno stambecco o che cazzo è che ancora nessuno l’ha capito, non avrebbe potuto pagare, giacché pareva che, da quando aveva perso le fattezze da essere umano, avesse perso con queste anche una buona parte dei diritti e doveri che ne derivavano. Perciò era stato un bene che Pollo in mania da persecuzione si fosse dimenticato del suo gesto di spontanea generosità e in seguito non si fosse tormentato inutilmente a riguardo.
Sono stanca, aveva detto Mari. Pollo era stato a sudare in un angolo per un bel po’. Croce si era rimesso nella posizione scomoda di prima. Dopo essersi stancato, si scrocchiò le ossa producendo un rumore sinistro. Mari invitò Pollo a sedersi senza dir niente, avvicinandoglisi e appoggiandogli le dita sui capelli, dirigendosi al divano.
Fecero arrivare il crepuscolo a forza di botte giocando a una specie di Street Fighter tarocco rimediato grazie a una promozione comprensiva di svariati picchiaduro retrò.
Per motivi diversi, tutti e tre trovavano belli quei momenti di pausa in cui il tema musicale della selezione del personaggio aleggiava a vuoto dove erano stati fino a poco prima di staccarsi momentaneamente dallo schermo, sui controller coricati come insetti morti sul tavolino, sugli affossamenti nel divano lasciato libero, sulle briciole di tabacco contorte in pose da alghe arenate.
Grazie al loop di quella colonna sonora, soltanto nel corso di quelle pause, il tardo pomeriggio riviveva i suoi ultimi respiri morenti, come per sempre separato da quello che sarebbe stato l'ultimissimo, sempre salvato un istante prima della sua esalazione grazie alla ricorsività di synth e sassofoni midi.
Poi trascorreva anche quell'incantato arresto. Il tempo tornava a venir reciso da chi lo voleva morto.
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