Lazzaro l'Illuminato
- Milky
- 31 mar 2024
- Tempo di lettura: 18 min
Aggiornamento: 1 apr 2024
Metti la faccia fuori e la scena non è cambiata. Ci avevamo provato, a farla cambiare. Esistevano pratiche nascoste, tramandate in silenzio, attraverso codici, per far funzionare degli avvenimenti di un certo tipo. Questa sarebbe potuta essere una delle cause nobilitanti del nostro ritiro. E adesso sentici, a parlare come scarafaggi: diciamo “noi”, siamo migrazione, siamo esigenza di riparo dalla rottura degli argini del fiume; siamo, infine, quegli scarafaggi che dicevo: bava polivalente, una strategia batteriologica per il respingimento d’ogni impulso alieno che esigerebbe da noi il contatto oppure l’annullamento, un dito armato che s’avvicina a schiacciarci -ma mai nudo, no, per non toccare mai e poi mai, e così ammalarsi di vivo brivido, la corazza nostra viscida. Quella che, chiacchierando vacuamente a proposito del decadimento dei tempi, evocano come ultimo baluardo e memoria della vita che fu, e che sarà ancora in fulgida circolazione nel post atomico. Rappresentanza cloacale di tutti gli altri morti tornati in merda color polvere sotto il suolo. Siamo insomma ‘sta massa brulicante di veleno, ultimo e primo stadio della biologia.
Ho letto da qualche parte che sono in realtà creature molto pulite. Questi sopravvissuti definitivi.
Ho pensato che, forse, ce ne sono altri di esseri così, nei mondi di sotto, che ogni tanto vengono di sopra, a roteare antenne e ricettori d’altro tipo, immergendoli nel fluido chimico-ossessivo dell’aria “nostra” (no, non dei noi che dicevo prima. Nostra di… sì, insomma, quella roba là che ha un nome e una faccia, e viene sempre chiamata in causa. Se ne sta crocifissa su un papiro vitruviano a fluttuare indefinita per gli spazi cosmici a cui non sbatte proprio un cazzo di niente dei nostri zigomi scultorei).
Ho visualizzato, nei minuti precedenti il mio annebbiato risveglio sotto le travi buie, l’operosità igienica nel gesto di un ratto che si umetta il corpo di saliva, immerge il musetto nelle zampe verminose rosa e immerge le zampe verminose rosa nel musetto ch’è in fondo un becco da speziale anti-peste tutto imbottito d’unguenti salivari, ricolmi di principi detergenti per il proprio stesso pelo, per l’educazione olfattiva da presentare presso la società dei ratti. Ho pensato che tutti i medici-uccellaccionero dell’epoca delle pestilenze si portavano nell’ombra, sotto gli stivali, un ratto così. E allora ogni ratto è anche medico, con tanto di maschera beccuta nell’ombra, rattus rattus ovvero la cornacchia malaugurale di tutti i roditori. Mi compiaccio della logica che ho trovato in questo indolente rimuginare nato da solo, si è messo incinto da solo e si è sborrato fuori secondo processo mitotico, immerso nel brodo primordiale delle inconcludenti purulenze neurali del mattino -o qualunque maledetta ora sia.
Comunque, mi accompagnano queste e altre robe del risveglio (tipo un ricordo che non so decifrare, sogno forse, o una roba di mesi fa, forse, non ricordo nemmeno come si chiamasse, quella che mi ha guardato come se ci fosse rimasta male di qualcosa). Come le vecchie mattinate delle colazioni e dei telegiornali che si accendono a scassare ogni pace alla prima occasione, e i tintinnii di cucchiai, le ciglia intrecciate negli occhi a renderti tutto una nube di pelosa indolenza...
Però questo era prima.
Leggi pensi e visualizzi quanto ti pare ma a una certa, secondo il nostro programma -nostro, della nostra quarantena scelta- occorre una boccata d’aria ogni tanto: ossigena e fa rinsavire i prodotti dei nostri isolamenti dentro l’isolamento (non consiglio necessariamente di premunirsi di stanze separate: a volte ce ne stiamo semplicemente ognuno sdraiato sulla sua brandina, e dico, in condizioni d’un certo tipo, funziona a meraviglia, che neanche t’accorgi che nella stessa stanza, entro il perimetro della stessa grottesca sagoma di planimetria, ce ne stanno altri sdraiati a emanare il loro odore corporeo e occupare il loro spazio fisico-esistenziale, a esistere con tutto quel peso superfluo, che noialtri si cerca qui di far diminuire neanche fossimo tanti fachiri dalla pelle ambrata-bronzea in gran ritiro ascetico tra le boscaglie della bodhi per arrivare al gran nirvana dell’inedia, purificandosi il corpo di tutti i fluidi e i veleni dell’area karmica e di tutto il resto che ne fa precisamente un corpo. Nuovi prodigi, lo dichiaro, del mondo della preghiera).
Comunque sia, se si vuole veramente andare in fondo con questa storia che in fondo è solo una strategia che ci è scappata per occupare un certo tempo morto, succede che ogni tanto si mette il muso fuori.
(muso: e penso di nuovo a un altro di quegli spiritosi spettri d’angolo, figli di tutti i proverbiali buchi nel muro. Quasi quasi prima di aprire la porta del balcone mi chino, piegato sulle ginocchia, e mi metto a fissare dritta nell’occhio una di quelle prese di corrente che non utilizziamo, a sbirciare dentro i suoi polverosi tunnel per scorgere magari la memoria di quando da bambino ho fatto la stessa cosa sperando effettivamente di vederci un topastro seduto a guardare la tv nel suo mini-appartamento, in uno di quei buchi che grovieravano il muro di casa non ricordo nemmeno di chi, sempre portato appresso per la manina, io, intruso non invitato del cazzo. “Noi” anche, intrusi della casa che noi stessi ci siamo affittati. Per fare che? Bastardo iddio se qualcuno di noi sa rispondere; doppiamente bastardo se c’è necessità alcuna di rispondere a parole che non siano contenute nei nostri crani e basta, senza nemmeno sapere se concordino tra di noi, quando ce ne stiamo in silenzio a sorbirci le nostre quotidiane dosi di nutrimento come farebbero coinquilini universitari scazzati seduti al tavolo bianco del pranzo squattrinato; chi a leggersi le riviste che si è portato, chi la letteratura schizzata e che poi schizza sui pensieri a notte fonda, chi con i drummini e chi con i videogiochi di quella specie che se non cambi una vitarella o qualcosa del genere succede che dentro la cartuccia la linea temporale dell’universo di gioco se ne va bellamente a puttane.)
E usciamo, dai. Io mi dico, a volte, c’è qualcosa che va bene a questo mondo in cui siamo venuti? In questo che un giorno abbiamo deciso essere il miglior modo di vivere. A disintossicarci da che, qua dentro? Ma da tutto il resto, no? Poi però mi vengono i dubbi. Saranno venuti i dubbi anche a quelle sagome di monaci montanari che hanno deciso di mummificarsi vivi, no? Poi uno di loro, uno di noi cioè, mi guarda, serio o forse allucinato da chissà quale suo personale narcotico -ognuno il suo-, e mi annuisce in silenzio, quasi vorrebbe chiuderli quegli occhi da pesce catacombale della verità assoluta del Verbo, e mi annuisce muto “sì sì, stiamo facendo bene, è giusto così, la sinusoide delle nuove abitudini che un giorno le squarteresti dall’odio che ti suscitano e il giorno dopo te le risucchi tutte con labbra assetate morenti di zanzara, oh sì mammina dammene ancora di questa roba, riempimi, rendimi integro, di nuovo, guariscimi”.
Ma io che ne so.
Appoggio due nocche a uno stipite e m’incanto e poi mi arriva una voce “oh”, come se spettasse a me solo di girare quella maniglia. E che fretta c’è. Me ne sto assorto qualche secondo a contare le uova di ragno ballerino nell’interstizio smozzicato tra il legno e l’intonaco, a indirizzare sguardi ciechi e distratti verso il poster artigianale che mi sono incorniciato tra le cianfrusaglie degli altri, nel vicino angoletto angusto di un ennesimo spazio comune, dove vedi collocati senza continuità, e all’improvviso straordinariamente simili, Gramsci grigio con gli occhiali anti-egemoni, il modellino di un mecha con tutti i blocchi di plastica perfetta ben sagomata e fragrante di triangolo industriale, la scatolina vuota delle pastiglie agrumate, e infine il mio: quando mi si ruppe il vinile strappai la copertina ed eccola là, appesa tra le altre cose, Sanders il Faraone del sassofono che ho messo là, a meditare in eterno nel dimenticatoio, mi sa che è morto pure lui e non inciderà più lunghe improvvisazioni, chissà se è volato in un altro piano esistenziale a cercare la pace.
Ma io che ne so. Usciamo fuori, compagni.
E che trovi fuori? Dal solito balcone le solite cose. L’edificio del pronto soccorso è gigante, un pastiche di materiali da costruzione visibili e invisibili. Quella bestia morta apre le costole rivolte al cielo, come una magnifica, desolata corolla che in primavera sboccia odorosa e ormonale e si fa regina della landa spoglia. Un fossile che dona sé stesso al principio delirante del rinvenimento, periodico, incredibilmente fragile e mortale, padre d’ogni archeologia e paleontologia: lo troveranno così, in uno scavo tra gli strati della terra precipitati agli inferi in cui saremo noialtri, poi se ne dimenticheranno, e altre lucertole terribili di cemento e alluminio sorgeranno sulla superficie a crepare stecchite nella stessa identica posizione, a riprendere il posto di quelle già fossilizzate, nelle vie cittadine con quell’inestinguibile puzza di qualcosa di simile a cloro…
(quanto sei morto, in effetti, tempo nostro, peggio di un ospedale che ti assomiglia assai.)
Scintillii di depressione luminosa scivolano svelti lungo le travi (che ne so come si chiamano, non sono un architetto, per me ogni merdata di quel genere è una trave), prendono slancio e colpiscono gli occhi di noialtri che guardiamo manco avessimo nelle pupille dei bersagli concentrici con tanto di punti segnati. Una finestra malata si sorbisce il fluido che le scorre attraverso, iniettato da chissà quale flebo invisibile nascosta nella città affinché continui a sopravvivere, sorreggersi così com’è nonostante tutto, per tenere oliato il meccanismo. Sembra star tranquilla nella sua convalescenza, quella finestra informata del principio che tiene in piedi l’ospedale e tutto quanto. E infatti è uguale a sempre. Chissà dentro, oltre il vetro, quali cellule di carne e vestiti e affanni irrisolvibili la abitano, vivendo quale convalescenza, sopportata grazie a quale nettare.
Scintillii su altri metalli superflui. Costole nude rivolte al cielo. Struttura ospedaliera, una cosa che non ti aspetti somigli a un bestione morto, carcassa piena di disinfezione e germi e malati che sono in fondo una riproposizione carnosa dell’intera questione (sai quanti ce ne sono, nei corridoi flaccidi della gente, di scontri bianconeri tra i globuli dell’ipocondria e le torme pestilenziali delle influenze esterne, strisciate dentro, maestre, infallibili, cazzo di maestri indiscussi della sopravvivenza e dell’evoluzione, tutti gli esseri di quella specie schiacciata). Quasi mi riempie un moto d’orgoglio per essermi definito scarafaggio prima e aver poi trovato un barlume di orgoglio blattoide in altri pensieri che mi faccio, cantata e suonata, InsettoVettore è il nome d’un fanciullo greco dei miti che vide la sua sembianza riflessa in una pozza di vomito e ci affogò dentro nel tentativo di limonarsela, dando per sempre il suo nome al fiore di sventura a sei zampe e antenne rotanti che ancora oggi noi tutti conosciamo.
(un ospedale rivolge ossa morte alle nuvole che non si vedono. Il cielo è uniforme in quest’aria. Proprio quello che ti aspetteresti. Ci direbbero, vedendoci così a scoglionarci nella stanza di nostra scelta, che il mondo diventa un logoramento dal momento in cui è la tua stessa mente a logorarsi, e a logorare, ed essere essa stessa un logoramento in tutte le forme e direzioni; ma hey, sarebbero poi gli stessi che ci rimproveravano, non potete sperare di cambiare il mondo e cose del genere, il mondo è duro e se ne frega di quello che tu provi e cose del genere… e allora scusate, pretendete forse che a causare quel cielo di schifo siamo stati noi?? Noi che siamo dei sacchi di monnezza così inutile da non poter combinare proprio un cazzo di influente? I non invitati -e con sollievo- alla festa del causa-effetto? Chi cazzo l’ha fatto quel cielo così, così grosso? Sono io il responsabile, che lo vedo marcio? Può darsi. Ma tutta mia, la colpa? Il cento per cento? Allora sarà vero che non esistono gli altri. Nemmeno queste altre bestiacce ascetiche in balcone.)
Come se non bastasse, c’è un parcheggio. Non molto distante. Ci si riflette dentro il faccione digrignato dell’intero cielo, coi contorni delle nuvole ormai indistinti dal resto e dai fumi selvatici liberi di volare per le sue tratte, l’intero suo volto cristologico riflesso nel suolo di bitume, e il colorito della sua carnagione è grafite fradicia, spompata dalla muffa in una matita lasciata sul banco di un’aula delle elementari in cui la pioggia ha piovuto a oltranza perché il capoclasse s’è scordato di chiudere quello spiraglio apparentemente innocuo di una finestra a vasistas e verrà retrocesso per questa negligenza. Il parcheggio risponde specularmente al cielo, restituendogli una scena simile, ma incomunicabile, indecifrabile secondo i canoni nostri che si servono di scolari e bambini e matite e pioggia e altre cose intellegibili: questo parcheggio comunica un messaggio chiaro e forte senza che tu ti renda conto esattamente di che cazzo ha detto e del perché ti faccia così tanta impressione sui nervi, specialmente quelli deputati a trangugiarsi senza fiatare tutta la stanchezza di campare ancora in questo posto che sia possibile racimolare in giro, girando gli occhi ovunque, maledicendo la loro apertura che come una febbre da tossico non smette di chiedere ancora l’intruglio sensoriale ch’è causa stessa della sua disintegrazione, graduale, inesorabile. La sensazione che ti senti dentro è la stessa.
E noi ora abbiamo le frattaglie condivise. Chi sarà il primo a sputare dal balcone? Senza colpire niente. Innaffi la foglia malaticcia d’una pianta mezza tropicale mezza mangiata da punteruoli composti al novanta per cento di metafora, che prima stava al pianerottolo e poi l’hanno messa fuori perché cominciava a diventare grigia, e adesso è tornata verde ma è un verde che è quasi peggio del grigio che aveva prima, e accoglierà in una foglia incavata e sbilanciata dal peso un nuovo sputo, nuova condensazione di bava biancastra, una nuova galassia: se un occhio coleottero la guardasse da vicino, s’incanterebbe dei frattali descritti dalle volute filamentose dall’altra parte della sua trasparente parete globulare, una cupola di architetture salivari schiumose; un insieme di nebulose fluttuanti, distanti, ravvicinate e condensate nello stesso punto dallo sguardo d’insieme d’un dio che magari nei sabati vuoti se ne rimane a guardarle incantato e senza scopo, come se fossero -e lo sono- la sua stessa sputazza; oppure, ancora, sono le stesse sezioni auree di ipnotica morte descritte dalla detonazione di Little Boy vista al rallentatore. E il resto è storia. Sprigionatevi, miracolo economico e kaiju radioattivi, dalla pianta malata in vaso che hanno messo in quel giardinetto stretto, di erbette asfissiate negli spazi tra il mattonato e l’innaffiatoio riverso su un fianco.
Una serie di macchine continua a passare -ma dov’è che ve ne andate, eh?-, neanche hanno le luci rosse che da piccolo te le avrebbero rese amiche, quella loro congiuntivite del giorno che muore e se ne torna in una qualche tana, in fondo a qualche strada che quindi deve percorrere, e quindi eccole che ti passano davanti perché sei lì, spettatore, a esserci in un punto qualsiasi del loro tragitto di vita, vanno e girano in fondo a una via, in fondo a qualche sogno, in fondo a qualche fiaba, la fine di qualche labirinto… niente, in questi giorni manco le lucine. Ovunque solo luci color corridoio di supermercato, succhiaelettricità che nemmeno la sprecano per le cause giuste e nobili, nemmeno danno un valore a questo silenzioso e ineluttabile armageddon energetico, nemmeno i faretti belli e melanconici ti accendono, per darti un senso all’esistenza della luce. E queste macchine fanno un fracasso di decibel stridenti il cui livello non verrebbe raggiunto nemmeno se stessero per crollare da un momento all’altro, tutte loro, così, tra una pausa nel traffico e una ripartenza, all’improvvisamente sfaldate e rottamate in uno sferragliare da farti venire il mal di testa.
E noi ce le sorbiamo.
Un gabbiano con la pancia gonfia di scarti umidi pescati sotto un citofono poco distante scivola su una curva d’aria sopra noi e s’impenna, se ne va via, bianco grigio cancrena, a farsi inglobare nel volto del cielo, diventandogli foruncolo, poi normalissima pelle, della stessa consistenza del resto, del mare coerente in se stesso che sciaborda lassù. Emettendo uno strano silenzio d’un’altra lingua, magari la stessa del parcheggio, e che silenzio non è.
Anzi è un rumore fortissimo, per quanto mimetizzato, per quanto ti sembri smettere d'esistere. Ti trapana le parti del cervello o qualcosa che c’era là prima di lui, che non ti ricordi nemmeno più come si chiama ma che sei certo, là sotto i vermoni attorcigliati dei tuoi ragionamenti, starà agonizzando come una mano tagliata e gettata nel fuoco, che a poco a poco si deforma e squaglia rattrappendosi tutta, facendo sparire nella poltiglia di se stessa quei suoi petali di dita.
(e tanti saluti alla mano verminosa rosa carnosa del ratto, quel guanto viscido del Mickey infestato di pulci, vettrici del virus, portatrici di democrazia e di fienili pieni zeppi di cadaveri ammassati gli uni sugli altri.)
E noi ce lo sorbiamo, questo frastuono. Ronza la città, dalla gabbia toracica spaccata del pronto soccorso, coi suoi bastioni di ferro che riesce a riflettere la luce anche senza quel sole maledetto, anche con la pioggia maledetta, anzi neanche quella, perché nel linguaggio egemonico e onnipresente del parcheggio non c’è neanche una metafora di pioggia, o di coleottero o di qualsiasi cosa abbia in sé un umidore, una frescura e un bisogno della stessa.
Ho la gola secca e mi sa che sputo -non è che sto a farci troppo caso, a cosa ho fatto o non ho fatto, stiamo cercando di fare i veri e propri fantasmi noialtri; mi sa allora che son stato proprio il primo a battezzare la pianta o il piano di sotto o qualunque cosa si trovasse a tiro.
E allora se non ce l’hai come fai? Questa esigenza di refrigerio, dico. A cercare l’ombra, a cercare il riposo. Va a finire che non ti fermi mai e finisci per fare lo stesso frastuono che senti tutt’attorno, diventi tu stesso i parcheggi e le macchine che non si stanno ferme e che fra un po’ crollano sul loro asse separandosi in mille organi di fuoco e acciaio, e diventi quell’altro ronzio che non sai proprio da dove viene, e non sai perché, ma tutt’a un tratto pensi che ci sia una buca, una specie di cratere vulcanico o atomico che si è squarciato nel centro cittadino recando la memoria di un’esplosione e di molte morti simultanee, appena qualche strada di là da questa, in qualche via vicina in linea d’aria, ostruita dalle sagome navali dei palazzi che riempiono tutto, galleggiando fermi sull’acqua morta del nostro asfalto portuale.
(una repubblica marinara fantasma approda e c’invade, recando la peste dei suoi sottoposti, sgattaiolati nella stiva a nutrirsi di granaglie e gallette; uscendo, la torma di pelo nero porta estinzione alla fauna endemica del nostro suolo colonizzato.)
E noi a sorbirci tutto questo, le macchine e ogni scroscio di pneumatici come se ci passasse in gola. E facciamo pure finta che sia una gola unica. Rivolta allo stesso obiettivo. Che facciamo qua? Si sparisce per un po’ dalla circolazione, dalle vene del cemento, ironicamente immergendoci nel cemento stesso per nasconderci, diventandone componente -una componente che almeno se ne sta zitta, però, si spera. E che siamo?
Quattro cadaveri vivi che stanno a guardare all’orizzonte un cadavere morto. Come un ciclope caduto che col corpaccione vestito delle trame tubolari d’un gilet brutalista ti ostruisce pure la vista della stazione, quei suoi mattonati fascisti di tedio perfetto che soltanto un po’ vengono contrastati dalla nostalgia sospesa dei fili elettrici, della boscaglia adiacente ai binari sopraelevati, del vagone verdastro che se ne va via, lontano da qui, cercandosi magari altrove un’altra stanza che non sia questa nostra, un altro mondo di respiro, sempre asfissiato certo, ma almeno cercato, e trovato, alla fine di una giusta fuga… macché, non riesci a vedere manco quello.
Quattro cadaveri vivi di fronte all’alba, la prima che vedono sorgere -qualsiasi ora in cui si mette il naso fuori è da chiamarsi alba, quando si esce dagli angoli polverosi del parquet in cui una tenebra speciale ha fatto tana assieme a noi, raggrumandosi in palle pelose belle soffici e dense, quasi che un gatto vecchio e prossimo alla fossa si aggiri assieme a noi per le stanze grondando pelacci instabili e spruzzando ammoniaca da tutte le ghiandole. Quattro, di fronte all’alba che è lo scheletro aguzzo e sacrificale d’un mostro, grande bestia del mare e delle montagne che s’è abbattuta un giorno sulle strade a sputare raggi nucleari, e poi s’è accasciata, accogliendo nel gozzo i pazienti gravi, chissà come vedono la stessa scena da dentro quelle finestre di vetro e metallo, chissà se le strade appaiono loro come un indistinto mercurio, un mondo visto da dentro le onde d’un mare di velenoso argento liquido.
Quattro di fronte al cadavere morto, scheletro, e siamo anche noi ossa, ecco, ci presento: uno è osso di una delle otto braccia che abbiamo immaginato appartenere a un essere il più possibile completo di tutti i nostri difetti; uno è osso della coda, perduta in qualche bivio della lunga strada evolutiva; uno è osso del polmone, che se ci fosse stato avrebbe forse facilitato o forse peggiorato -difficile a stabilirsi- questa storia qua della boccata d’aria; e infine io. Che si sarà capito. O forse evito di menzionarlo perché… beh, anche loro, sarebbero nella mia stessa situazione, a parti invertite. Voglio dire che chiunque sia ad avere quel ruolo di annotare le cose finisce sempre così, quando è il momento di presentarsi. Insomma, è quello che succede quando si scrive “il diario” e se ne straccia poi la pagina per gettarla in un angolo che è il proprio personale cestino, a un passo dal cuscino, con la polvere che ti sale nel respiro fischiante del sonno, che s’aspira proprio tutto, anche le cazzate che hai vergato sul foglio, impressioni che, come ci è stato chiarito -da tutte le voci che ci hanno incontrato in vita nostra e dai frastuoni di frantumi di macchine vive e morenti di questo mondo-, non cambieranno proprio niente. Comunque sia loro, gli altri di noialtri cioè, non sanno d’essere l’ottavo braccio e la coda e il polmone. E io allo stesso modo non sono certo d’essere l’animale che mi sono visto essere.
(chi scrive il diario crede d’essere esoscheletro, per legge non scritta, crede d’avere parti molli, tanto tanto tanto fragili, da proteggere al suo interno. Chissà se anche in quei meandri, come nella bava, sta nascosta in agguato una malattia infettiva.)
Questo nostro sole di questa alba andata a vedere senza scopo è sorto anche troppo in alto in questo cielo senza luce. E mentre in silenzio tiriamo boccate dell’atmosfera disciolta che ci manda fin qua, erogandola densa di particelle e significati di cui si potrebbe fare a meno, mi chiedo che ci sto a fare ancora qua, e perché mi gratto nervosamente un gomito mentre esito prima di rientrare e andarmi a stendere, benedetto, sul materasso pieno di cimici, a farmi mordere in eterno da sciami di esagoni che puzzano e mi fanno battere i timpani quando li vedo, per naturale reazione di repulsione, cosa che mi perdonano perché sanno essere la stessa che gli suscito io nel momento stesso in cui s’ingozzano di una zona gelatinosa succulenta tra i miei pori.
Bella storia, uno guarda l’alba perché dice che ti ossigena, che ti serve a far ordine nelle pensate che ti fai in questa meditazione prolungata senza parlare con nessuno, spenti tutti i contatti, solo altri tre defunti che, almeno, si seccano pure più di te ad aprir bocca. E il risultato? Quell’alba è proprio quello che ti faceva star male al principio di tutto. Gli attacchi epilettici e le crisi d’astinenza, ti faceva venire. Ti ritrovavi a tremare all’improvviso come il cuore implodente d’un pollo da batteria che ha tentato la fuga, cercando di volare, ricordatosi in una fantasia isterica delle ali dei suoi progenitori; e tutti quelli che ti trovavano, febbricitante a terra che non c’era più niente da fare, a darti calcetti e dirti “oh tutto bene, ma che cazzo hai da tremare?”, che era come dirti che il diritto di tremare e di stare sul punto di crepare per cause invisibili uno se lo deve guadagnare o con il lavoro o con motivi scritti e convincenti, ufficialmente riconosciuti da regolare contratto stipulato dal vivere comune.
A ossigenarsi ci si ricorda di tutto questo.
Vorrei solo rientrare. Dimenticare neanche so più cosa. Quale parte di quello che vedi affacciandoti è una poesia necessaria? Quale parte uccide invece tutta l’altra poesia che ci sarebbe potuta essere, se le parti non fossero state tra loro in collegamento, di modo che ogni contagio e cancrena s’espande attraverso i tessuti fino a coinvolgere ogni cosa? Visualizzo un albero, bello, di linfa fredda e rigogliosa, con le sue radici che abbracciano un mondo, un pianeta sotto le radici che tessono eleganti intrecci al di sopra dei continenti, cieli di lignei palchi di cervo, ma ecco, un bianco granuloso come di corallo in fin di vita tocca una punta di radice, e comincia a moltiplicarsi e salire, salire, su su per le convoluzioni complesse, e ormai è tutto così, di quel colore, che ha pure smesso d’essere un colore…
(un bellissimo dio a otto braccia generato dai nostri corpi donati alla decomposizione della terra. Sotto le assi del nostro pavimento, che abbiamo vissuto e sudato e pisciato assieme a gatto e ratto immaginari, le nostre ossa sepolte, e un epitaffio: coloro che qui giacciono sono diventati il satori d’un nuovo sutra suburbano, in ode ai naga morti; s’erano messi d’accordo, come fossero stati amici, come avessero avuto, prima del distacco, un qualche attaccamento. Un qualche legame. Con questa terra. E i suoi palazzi. I suoi bastioni. I suoi metalli. I suoi fuochi assassini e veleniferi, nelle viscere di tutto.)
(erano amici davvero, forse, per una cosa: avevano tutti un gran mal di testa. La casa l’avevano chiamata il lazzaretto.)
Quando l’abitudine chiamerà un’altra uscita a prender aria e farsi due tiri e guardare l’orizzonte otturato, com’è da prassi stando alle nostre nuove regole, mi rifiuterò. No, so già che non è vero. Non lo farò.
P.S: (a proposito, continuo a pensare a quella cosa che prima mi è saltata fuori nel cervello, fastidiosa, che dicevo, non so se un sogno o una realtà di mesi fa già defecati dal tempo. C'entra con quella cosa che dicevo tra me e me, di mondi spermosi che si fecondano da soli, 'sti depravati. In pratica mi torna in mente di questa, amica o conoscente di uno di loroaltri; o forse era un sogno? Forse mi sono sognato solo quella parte in cui si mette a sfogliare e leggiucchiare certe mie cose trovate chissà come, lei, questa tipa insomma, l'Anima in persona, e io all'improvviso arrossisco: mi ricordo che in quella storia ho usato a un certo punto un linguaggio, come posso dire, come quello che ho usato prima... doveva avere un certo impatto, portarsi dentro quel mio intento comunicativo che già in partenza partiva imbestialito sapendosi incapace di mostrarsi, inadeguato in qualsiasi lingua. E già me la sentivo a dirmi, ma come, tu, così serio e sobrio e frigido come una spugna di mare, che cosa vai scrivendo?, e allora parto a dirLe com'era la questione, a spiegare la concezione di un'arte che scortica e un impatto e un disgusto totale dato da idealismo infranto esprimibile solo da immagini schizzanti bulbose palpitanti di fluidi osceni, come osceno è ogni contatto, ed è come l'arte di quei grandi cantori nervosi, urlanti di dolore astratto, da Ningen Shikkaku etc. ai russi e i tedeschi compresi tutti quelli che non ho letto insomma tutti quelli incastrati nel cortocircuito tra queste spoglie mortali di neon consumistici e l'essenza di una terra fondamentalmente ombrosa, colonizzata da bagliori vacui... ebbene questa qua, dopo che le ho esposto cotanta teoria estetica, prendendomi un rischio enorme, come se ne esce, se non con un: "perché cerchi di respingermi?", e allora mi annoto tra gli altri miei appunti questo avvenimento, cercando di dargli un senso postumo, chi se ne importa se onirico o accaduto, non cambia che sono arrivato a un punto tale di autoreferenzialità da vagabondo che dorme soltanto nei ponti dentro se stesso perché non conosce altri postacci in cui passare, che non capisco nemmeno quanto gravemente mi sia ficcato dentro il mio stesso.........).................
Non lo farò.
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