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i quattro figli dell'affittuario/quelli sono i miei giocattoli

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 16 dic 2022
  • Tempo di lettura: 26 min

Aggiornamento: 18 dic 2022

Parlava soltanto dei suoi giocattoli.


-non vedi che questi sono i miei giocattoli? Non ti ho dato il permesso di giocarci.


-ma stiamo già giocando.


-sì ma questo te l’ho già detto.


Q. fece una specie di analisi logica e grammaticale delle frasi di Z., e concluse che pur mancando di senso avevano qualcosa di suadente, quasi persuasivo e piacevole all’udito. Per esempio, “sì ma questo te l’ho già detto”, cosa intendeva? -in questo genere di domande si profondeva il pensiero di Q. mentre con lo sguardo partecipava con intensità incendiaria a quello che, come giustamente aveva osservato, era un gioco da tempo già incominciato. A separarlo dal tozzo corpo di Z. -concentrato di prepotenza in recipiente stretto-, c’era la distesa verde e blu del tappeto della sua cameretta. Forma e colore geologici. Esalazioni vulcaniche di polvere che inesorabilmente vorticava e si depositava sul pelame del suo impero, in cui Q. non era che un ospite e invasore, un temporaneo compagno di giochi. Ma se avesse dovuto dare un nome a quel gioco, avrebbe certamente contemplato il campo semantico della guerra. Trincee da cameretta scavate a ogni partita, a ogni “facciamo che”. Sacrificabili reclute di plastica: vari giocattoli ammassati negli scatoloni tirati fuori per l’occasione da sotto il letto e i mobili. Da un lato e dall’altro. Z. ne diceva di cazzate, ma erano tutte parte di una strategia. Nella quale si poneva a capo: marmocchio che si piscia addosso rivoli di gerarchia, dopo averla distillata in gestazione dentro di lui, dopo aver assorbito giornalmente iridi di violenza in tutti i suoi colori possibili (linguaggio e animazione e azione calcistica e azione videoludica e scambio di sguardi aggressivi e idolatria precoce degli ormoni e.......).

Z. con la schiena protetta dal muro dietro di lui continuava a sostenere lo sguardo arroventato di quel loro intenso scambio, sorreggendo in una mano il suo giocattolo preferito, rimpiazzandolo in un’indecisione camuffata da strategia calcolata con altri raccolti dal mucchio che aveva fatto e prostrato ai suoi piedi. Q., dalla parte opposta, allungando la mano sinistra avrebbe potuto raggiungere ed estrarre da uno scatolone altri possibili combattenti, per comporre il proprio esercito nello scontro che s’apprestavano a simulare con gesti e parole -senza vere ferite, soltanto concettualizzate come polveroni vorticanti al di sopra del tappeto dove si sarebbero potuti picchiare davvero come su un ring-, ma sempre con i giocattoli di Z.: quella era casa sua, roba sua. E nonostante quello dicesse di no con una frase senza senso, il fatto che Q. prendesse temporaneamente in prestito i giocattoli e ne facesse emissari della furia che Z. si augurava di sollecitargli, era già stato accettato. Ma sì, ragionava Q., che faccia pure la sua asserzione di dominanza, il suo rito. Ogni sua frase, che parla soltanto di ciò che possiede, è il ringhio feroce d’un cane che deambula in cerchio, è una danza da guardia una danza da caccia una danza poliziotto una danza da riporto del maltolto una danza da compagnia perché si sente tanto tanto solo se non ha nemici. Avevano poco tempo. Q. non sarebbe rimasto in quella casa tutto il giorno.


Z. fece scattare in avanti, come spronandolo a sputare una fiammata dalle fauci, il collo di un rettile biomeccanico impugnato dagli attorcigliamenti delle dita sudate. Q. raccolse un cavallo pezzato del west, soldatini, un falco in picchiata con piume di polietilene ruvido sporgenti in scaglie irrealisticamente spesse sul dorso nero, un subacqueo muscoloso dotato di gadget versatili. Li afferrò e li conobbe come conoscenze opportunistiche in quegli istanti prolungati, quei pochi secondi che non volevano saperne di finire.


Polvere e legno, infissi, muri, umidità seminascosta tutt’attorno come cospargendosi dal misterioso e oscuro ed estremamente vago mondo di là dalla finestra da cui, in un modo che trovava per qualche incomprensibile motivo raccapricciante, strisciavano sottili sciabole di spiragli gelidi intrusivi tra fessure microscopiche sotto il telaio… tutto questo, a Q. pareva di sentirlo e vederlo respirare. Aveva respirato, assieme alla massa senziente, l’imminenza dello scontro. Tutto l’immobile era un cervello terribile. Oltre il corridoio si mosse nell’aria, a punteggiare il sottofondo dell’immobilità, una vibrazione, nata dall’unione di clangori attuti di bicchieri e cicalecci di un dopopartita trasmesso dal decoder di lusso della tv accesa a vuoto, quasi sovrastante altre voci del tutto indifferenti al programma, lasciato vivere solo per far rumore.

Ma “oltre il corridoio” non era altro che un sottofondo -cercava di distrarlo, come quello spiraglio nella porta accostata. Filtrava perfino quel mezzo fetore chimico e umidiccio come di saponi schiumosi e qualche frammento di escrementi caldi in carta di giornale, esalato per suggestione -o qualcosa di più profondo- dalla semplice presenza del cagnetto, lord dei corridoi. E la luce spenta lì dentro. Al confine con le luci accese, dove era la vita: sala, cucina e… ma no, ma no, il respiro più forte, da far tremare l’universo incastonato in un polmone, era quello che permeava la stanza di Z., e Q. ci si trovava dentro. Tutti i granelli di polvere e gli odori e le presenze invisibili che ogni giorno avvolgevano Z., e costituivano il suo mondo. E vivevano Z. più di quanto Z. vivesse loro, perché continuavano coscienti a circondarlo nelle sue lunghe pause di incoscienza, il suo sonno di otto ore prima della scuola, il suo sonno vegliato soltanto dall’inadeguata sentinella rappresentata dalla cartella per l’indomani, già preparata e collocata sulla sedia della scrivania a premere contro il grembiule lì appeso. Q. respirava all’unisono d’un fiato che pareva andare a rubare un’intimità. Q. sentiva puzza d’intruso: la propria. E ne ebbe una strana vertigine, un po’ spaventosa e un po’ inebriante.


Tutto quanto si mescolava all’odore di Z., il proprietario della stanza, illuso d’esserne il capo, maggiore abitante. E “vincendo” -non sapeva nemmeno a cosa, in quel gioco imprecisato e così imbecille- Q. avrebbe strappato quell’odore dalle sue rocce, le sue guglie alte sulla montagna. Il picco simbolico che più di tutti s’elevasse dal planisfero del tappeto, l’asse del suo mondo. Avrebbe precipitato il re della montagna. Non credeva di volerlo, no: ma di nuovo, qualcosa, di suadente e persuasivo contenuto all’interno del gioco, subdolamente lo spingeva ad accettarne le condizioni, a usare all’occorrenza anche la rabbia che provava nell’esser costretto a desiderare suo malgrado di detronizzare l’avversario, a usarla proprio per aiutarsi nello stesso gioco al quale di per sé non avrebbe mai voluto partecipare. Facciamolo, va bene. Desideriamolo.


Inalava i disegni stessi che le letargiche cadute del pulviscolo, sceniche nello scandire i secondi del loro prolungato sguardo reciproco e immutabile, tracciavano nell’aria immobile.


Solo una colonna di luce, diversa dalla luce giallo chiaro della stanza. Un singolo verticale giavellotto di giallo più scuro si ergeva come un obelisco lacerante verso il soffitto, era uno spazio strettissimo e di forte lucentezza tra la porta e il muro. Quella luce, vicina eppure distante, si riempiva di voci: pressanti, alte alte, sempre a incombere come si generassero tra i riverberi di catarro e fumo dentro i toraci tanto più spessi e torreggianti dei loro. C’erano eco di discorsi d’una natura che pareva sforzarsi di farsi oscura, e sbeffeggiare qualunque cosa rimanesse al di fuori del cerchio costituito dal loro scambio, cerchio d’ombre alte alte su pavimento reso arancione da lampade e faretti, pavimento di tappeto, pavimento di scarpe coi tacchi e scarpe monocromatiche unte dagli stessi lucori che smerigliano le ali corazzate di un coleottero elegante.


Un’altra puzza d’intruso: quei discorsi “dei grandi” erano discorsi che mai avrebbero potuto interagire con i discorsi, più atrofizzati ma più veritieri, cui era concesso d’esistere nella cameretta con la porta accostata. Ah, quelli là non conoscevano nulla di quella tensione che cresceva alta fino al lampadario che ogni giorno sorvolava la testa di Z. sul cuscino.


Mah, forse facevano esattamente lo stesso gioco. Di là, in quella che non era una cameretta, ma un salotto di pareti tinte ocra dalle luci della sera velocissima a calare, forse c’erano dei proprietari capi che dirigevano i discorsi, e dalla parte opposta degli ospiti/intrusi invitati a rispondere, secondo certe regole che concedevano un momentaneo diritto alla difesa. I genitori di Q. e gli altri amici che erano di là, presenze invisibili di vagheggiati e spettrali toraci arroganti, puzzavano d’intruso nell’occupare lo spazio -e presumibilmente un altro tappeto di colori meno cruciali- in cui si stagliavano su mensole e mobilio fotografie di madrefigliopadreecane con le schiene rivolte a uno sfondo di portabagagli spalancato, sfondo di vacanza. Vaso di giunchi finti in un angolo. Incarti stracciati di Pocket Coffee sul tavolino. Macchie a forma d’impronta digitale sul fondo di bicchieri rastremati, liquido denso e dal colore caldo come una minaccia di veleno nei pigmenti della natura. Da lì le labbra adulte avevano bevuto. Spoglie silenziose delle chiacchiere e del giorno trascorso.


In un singhiozzante e a modo suo sfinito respiro, Q. inghiottì anche tutto questo, dal poco recepibile in immagini residue proiettate fin lì. E nella glottide ogni cosa gli diventava spettrale, grossa, minacciosa senza giustificazione. Presente e passata e imminente.


“sei sempre così calmo e presuntuoso” -, gli sembrava di leggere così nel pensiero di Z. e di tutti quelli come lui. O era un ricordo. O credeva di ricordarselo, mai vissuto. Ma chi era il più calmo? Q. in verità era sempre nervoso, sempre pronto a ricevere il prossimo attacco. Il mondo là fuori -di nuovo rabbrividì sollecitato dalla finestra, nella parete là accanto che diagonalmente lo osservava, occhio vitreo di quartiere borghese e sera invernale-, era un posto vasto e caotico in cui gli avrebbero chiesto di giocare. Scegliere il dinosauro di plastica che con il più vanaglorioso sfoggio di violenza si sarebbe distinto nel compito e obiettivo di prevalere.


Z. sollevò gruppi di suoi giocattoli molto belli e costosi. Gravidi di pile, energie chimiche ribollenti nei ventri dal forte sentore petrolifero. Avevano casse di risonanza, organi articolatori da cui si dipanavano a un semplice tocco frasi di minaccia, vittoria, autoaffermazione.

Q. afferrò, per difendersi, gli altri meno appariscenti giocattoli di Z. che questi aveva precedentemente disposto nella scatola che, sapeva, avrebbe costituito l’arsenale dell'avversario Q., perché lui, padrone di casa e del bel tappeto dagli stessi colori del pianeta, avrebbe scelto per sé il lato della stanza fortezzato dalla parete e la libreria.


Cominciarono. Al suono immaginario di “facciamo che”. Le voci si alzarono e accumularono, in file dispiegate in un tempo di gioco accelerato, esclamazioni sempre più barbariche per sovrastare l’altro brusio, altrettanto insensato e indiscernibile e privo di contenuto, che proveniva strisciante dal sottile obelisco di luce infiltrato tra porta e parete.


Non esistevano salotti e corridoi e appendiabiti e vasi di giunchi e robot-aspirapolvere acciambellati in un angolo come draghi da guardia dormienti. Non esisteva altro dalla pangea verdazzurra del tappeto, il suo multifocale odore di mille polveri. Le alte pire fumogene del suo campo di battaglia e rituale.


Il cielo di Laggiù non era mai stato tanto vasto e pieno di invisibili continenti d’aria come nel giorno della sua fine, chiamata Incendio. L’avevano osservato, in quattro sul ciglio del cratere, raffrontandolo agli alberi millenari, alle montagne dove il verde lentamente si faceva mutevole, per l’avanzare dell’ombra, per altri fenomeni più complicati che posavano le ali a terra in quel giorno morente. Nessuno, nemmeno un contadinotto e futuro scriba di un’improbabile dinastia superstite, avrebbe saputo dire se fossero commossi. Sembravano solo automi.


I quattro figli dell’affittuario si erano radunati lì, pochi passi prima della linea che tracciava l’origine del campo -il più vasto e fertile dei poderi in possesso al padre, Signore Cauto Della Terra E Ineguagliato, rispettato per il suo raziocinio che l’aveva fatto opportunista ma senza avidità: era rimasto ciò che era, non aveva conquistato con discorsi e imprese le anime dei connazionali, limitandosi a diventare solo il più “grosso” (ma l’avrebbe negato con gesto da scacciamosche) tra quelli come lui, il più abbiente e rispettato se non altro (“per quel che vale”, avrebbe ironizzato lui). Certo una cosa aveva pur fatto, scappando da una terra lontana, di alberi stranieri, diverse architetture, diverse costellazioni nel cielo. Ma stabilitosi a Laggiù, presto ritrovò nel suolo rigoglioso (e in certe effimere bluastre elettricità dell’aria che col naso captava nei pressi di foreste e templi, ma questo a nessuno mai l’aveva raccontato) un principio vitale che, nella patria abbandonata, aveva sempre sentito fioco, come moribondo dalla nascita. Nato imprigionato in ultimi respiri. Ma risvegliandolo in un nuovo clima, l’aveva fatto crescere.


Lo stimavano, l’avevano pianto. E nel giorno pattuito i suoi quattro figli erano tornati, per dissotterrare ciò che per loro aveva lasciato. Il campo ancora fumava, reagendo alle azioni dell’affittuario anche dopo che era morto. Perché era stato per il campo il padrone più vicino e più autorevole, anche più del proprietario terriero, perché quell’affittuario come non ce ne sarebbero mai stati altri era il solo che fosse in grado di alterare l’ambiente circostante, e ricevere da questo il rispetto di uno sconfitto onorevole. Il campo fumava perché doveva essere la dimostrazione solida del fatto che quel diavolo dell'affittuario, se gli veniva il ticchio di far così, anche da trapassato poteva far ardere qualcosa nel mondo dei vivi. I suoi figli avevano attuato senza errore quanto era scritto nelle istruzioni che egli aveva lasciato per loro, e al centro del campo s’era aperto quell’enorme cratere. Un varco dopo una password. O dopo riti officiati da un esperto sacerdote. Piccoli tizzoni lucenti come lava traballavano tra fili d’erba anneriti in cerchio perfetto e sottile attorno al cratere, labbra dall’odore di carbone. Al centro della buca di terra scarnificata e abbrustolita giaceva l’oggetto bitorzoluto dalla forma a mandorla, traversato orizzontalmente da una cerniera ossea e ondulata che lo faceva assomigliare a una specie di ibrido tra un nocciolo di pesca e un mollusco bivalve. Forziere. Lì dentro, qualcosa.


La pausa contemplativa dei quattro figli dell’affittuario non poteva sopravvivere a lungo. I lavoratori della terra, le raccoglitrici dei mazzetti di riso, i conducenti dei carri trainati, prima di scappare avevano accolto con occhiate amareggiate e apprensive l’arrivo degli eredi turbolenti. Quante ne avevano viste, di litigate di quei marmocchi, quando erano dei nanetti, tutti boria dalla testa ai piedi… Per la spaventosità delle circostanze, pochissimi avrebbero potuto assistere al dispiegarsi delle loro tensioni quel giorno. Uccelli neri si posavano su ramoscelli sporgenti dallo specchio d’una risaia abbandonata in rovina. Qualcuno sulle vie terrazzate dei colli prospicienti la scena fermava per pochi istanti la corsa dello zebù al traino del carro. Poi smetteva d’osservare, e riprendeva a scappare per salvarsi la vita.


Pozzanghero, come maggiore, se ne stava con un ginocchio proteso, il più vicino al precipizio tra gli steli appassiti e bruciati delle messi, ma serrava ogni protesta nella chiusura ermetica della dentatura da rettile sporgente dal muso affilato. Gli artigli s’aggrappavano alla roccia e informavano la muscolatura di vene affioranti, che innalzavano, conferendo baldanza, le scaglie sporgenti della lorica: esprimevano al posto di invettive i suoi pensieri palustri, tutta la perentorietà di un predatore alfa. Swarmerto si fece avanti, esibendo la sua solita spalancata di braccia vampiresche, che terminavano scomponendosi in pipistrelli vivi.


-non ve l’ha mai detto! Ma ero io! Il suo prediletto. E voi sapete che papà non l’avrebbe mai scritto. Ma era lì! Nelle sue parole, nascosto eppure esposto per chiunque potesse vedere, il mio nome.


Bugiardo, imbroglione, imbonitore. Ancora una volta nella campagna verdeggiante di Laggiù volarono gli stessi insulti dei giochi d’infanzia, degli inseguimenti lanciati fino all’orizzonte del pomeriggio sbiadente appresso ai gracidii di raganelle, ai tesori scoperti al confine tra campi e foresta. Echeggiarono lamentele stridule di quattro uomini mentre il cielo crepava malato, e sulla terra giganteggiavano divinità della distruzione. Ma i fratelli sembravano avere altre preoccupazioni.


-non sto mentendo!-, protestava Swarmerto umettando di tragedia il tono della voce, modulato con maestria da attore -e se pensate che menta, beh!, chiedete alle mie braccia: loro, per costituzione, non possono mentire.


Cretinate, stupidate, eccetera. Parole scatologiche terminanti in “-ate”, perfino Pozzanghero Il Tanghero non si risparmiò. Swarmerto non aveva intenzione alcuna di fare uno sforzo per muoversi nell’ordine di idee dei suoi fratelli i quali, a differenza sua, non necessariamente dovevano aderire a una filosofia che fa un pilastro della nobiltà di parola dei chirotteri, stirpe di esseri che a Laggiù formano moltitudini grandi come oceani, dormendo in caverne e svolazzando sotto raggi di luna come dèi minori inviati a mandar messaggi criptici.


-e secondo te la parola di quei cosi quanto vale, eh?? Sono pezzi di te!-, si lagnò, facendo il suo ingresso da una vettura che presto sfrecciò via, il berciante avvocato di 猿のタカハシ, il terzo fratello, samurai intento a sistemarsi gli occhiali e studiare la situazione.


-ah! I loro occhi e il radar, non conoscono bugie! Splendidi figli della notte!-, sospirò Swarmerto senza più guardar nessuno, facendo fare un voletto ai suoi avambracci che uscendo dalle maniche se ne andavano sbatacchiando il patagio di qua e di là, in masse nerastre crepitanti di pelle e ticchettii di ecolocazione.


-il tuo è un errore logico.-, sentenziò Ipotenusa J. avvicinandosi senza lasciare impronte nel terreno che mai più l’aveva imbrattato da quando i suoi piedi avevano trasceso la dimensione materiale. Ma il suo elevato ragionamento, in profusione verbosa e numerica da labbra di triangoli e nastri, fu interrotto da Pozzanghero: gorgogliando con lo stesso risucchio cavernoso degli acquitrini in cui presumibilmente faceva affiorare il muso e le fredde pupille verticali nelle sue perlustrazioni di caccia, aveva ricordato a Swarmerto che precisamente di figli dovevano parlare. E che tra i figli ce n’era uno maggiore, l'unico capace di esercitare una pressione mandibolare di una tonnellata e mezzo.


-ma se non sai nemmeno masticare da solo senza rotolarti e fare un macello come un poppante mezza sega!-, disse una voce misteriosa.


-chi cazzo ha parlato!?-, ruggì Pozzanghero. L’avvocato fece pochi passi tra le parti in causa, facendo tonfare le scarpe di pelle strappata via a cuccioli di esseri purissimi. Sul suolo che i piedi giunti lì dalla capitale recepivano con un brivido alieno, come si trovassero a percorrere il deserto di un altro pianeta. Nel giorno d’una finale tempesta solare.


-ormai è chiaro: ho cercato, con la mia presenza, di indirizzare verso altre soluzioni il problema, ma sembra, e mi rammarico in tal caso di dover dichiarare lo svantaggio che avete rispetto al mio cliente, che non ci sia altro che lo scontro armato, a questo punto.


L’avvocato si godé i rumori scroscianti alla sua destra e sinistra dopo il bel discorso, artigli e armi sfoderate a inaugurare discorsi d’altro tipo, mentre il suo cliente, samurai con braccio di droide, carezzando senza significato l’elsa della katana di neon, rimirava la distanza dell’orizzonte, il suo confine con la ferita aperta lassù: lo incantavano le ondulazioni viscose del cielo che continuava a somigliare a un sottile alone di gelatina sempre più rossa, come un bruciore d’occhi. Non ci sarebbe stata nemmeno la notte, il cielo era preda di flussi magmatici, ipnotici e belli come riflessi iridescenti catturati dalla patina superficiale di una pozza di catrame. E qua e là il calore racchiuso in quel mistero di forme e colori, raggrumandosi in cose veloci e piccole che precipitavano dalle quattro direzioni del cielo, si sprigionava soffiante nelle fiammate sulle montagne, estinguendo per quei tratti il rigoglio fresco e rorido della foresta. Attorno alle pire, braccia disperate di monaci e taglialegna fuggitivi, grida di elefanti e scimmie… ma più distraenti ancora erano per lui i movimenti delle nuove creature giunte a popolare il mondo per come sarebbe dovuto essere da quel giorno in poi -se nessuno fosse riuscito a scappare con la certamente straordinaria eredità in cui certamente il loro defunto padre aveva versato tutte le cause ed effetti del suo successo d’uomo agreste, era ovvio. Ma che quello stesso padre, così diverso da loro e ormai distante più che mai, non avesse calcolato quel giorno proprio per farli ritrovare sotto la terrificante cerimonia d’apertura dell’Incendio, e metterli in difficoltà ancora una volta? In vita, ne aveva fatti di scherzi del genere. Quell’uomo che dicevano saggio e umile. Quel tarchiato scimmione dispettoso.


Sulle lenti di タカハシ si rifletterono, tatuando il volto quasi affranto in riflessione, i movimenti della marcia delle Pantere dell’Estinzione. Sulla muscolatura sconfinata di quei titani erti in conquista inesorabile dell’orizzonte visibile, il pelo nero lasciava intravedere una maculatura quasi invisibile nel manto di notte vuota e definitiva. A ogni zampata divampavano altri fuochi, balzavano altri alberi recisi alla base del tronco e frantumati in scaglie esplose in stelle di corteccia, a ogni passo un terremoto, e di quella musica dissonante -così pareva al samurai- godevano gli yaksha disegnati dalle macchie nere nel nero, yaksha vivi che erano i pensieri stessi dei giganti, tracciati in sequenze come bassorilievi sui loro corpi per mostrarsi nudi, avendo in odio ogni vergogna. Come attendenti delle Pantere dell’Estinzione, giganti minori marciavano sulle colline più vicine attorno ai campi coltivati, frantumandole con passi di lucertolone. Da quella lontananza già caduta nei mutamenti che avevano afferrato il mondo mentre loro, fratelli separati, badavano ai propri affari ognuno sulla propria isola, si spargeva e avvicinava sempre più quella musica di distruzione, in cui i velenosi squittii degli yaksha bidimensionali, sillabando orribilmente “Sri” e poi “Lanka”, “Sri” e poi “Lanka”, facevano da coro per sbeffeggiare quelle montagne un tempo sacre, il legname dei loro templi che in un istante finiva incenerito o polverizzato.


Una pietra lanciata rintoccò sulle pregiate placche che proteggevano le spalle di タカハシ con un’armatura high-tech stile Ashikaga. Come se non bastasse, il fatto costituiva un affronto al suo onore e immediatamente l’avvocato ricominciò a sgolarsi per proteggere il suo cliente laddove l’armatura si era rivelata niente più che un oggetto tangibile e scalfibile, indegno d’affrontare le implicazioni dialettiche e psicologiche di un buon vecchio sasso che vola imperterrito dalla mano al bersaglio. Nemmeno タカハシ nascose l’irritazione e finalmente sguainò l’arma, ma Ipotenusa J. aveva qualcosa da dire.


-ci uccideremo a vicenda in seguito: non dubitate. Non si può dubitare di un teorema. Un grave posizionato inerte sui miei lati inclinati, senza margine d’errore scivolerà verso la linea di terra.


Con sospetto e in silenzio gli altri guardarono la “testa” fluttuante di quel senzavolto e senzacorpo, il fratello minore, che sputando tetraedri e diagrammi di galassie rimpicciolite riusciva chissà perché a smuovere la polvere da terra, sporcandosi gli ologrammi peggio della salopette di un bifolco.


-ma prima di ucciderci dobbiamo collaborare. Giunge in nostro soccorso dalle grigie sabbie delle Lande del Pensiero, più alto tra tutti gli Enti Euclidei, il Teorema del Servo e il Padrone con i Due Carabinieri e altri simboli del Potere che permea in eterno i Piani Akasici.


-certo, adesso lui abbellisce le sue parole in questo modo, le manda in mondi astratti tanto più belli di noi,- interruppe Swarmerto -ma io me lo ricordo ancora quando aveva il bavaglino pieno di moccio e inciampava correndoci dietro. Cadde nella risaia e noi a trascinarlo fuori coperto di melma, puzzava peggio di un verme!


Qualcosa di simile a risate generali si frappose a ringhi carichi d’odio, e Ipotenusa J., ammutolito, non riuscì a contenere una singola flebile catena di lacrime esagonali, mentre volgendo lo sguardo lontano al cielo dolorante ripercorse con la mente la sua umiliazione. E capì allora, e si avvelenò del ricordo: nulla c’era stato in tutta la sua esistenza -e in quelle di tutti gli esseri senzienti- di più maligno di quanto aveva subito a opera dei fratelli; mai c’era stata una sofferenza profonda come quella che s’era sparsa dai suoi pianti sotto il cielo di quel giorno lontano, quando la melma gli si era incrostata in un esoscheletro arroventato sulle braccia e il pigiamino del vecchio corpo, sotto i raggi caldi di mezzogiorno che accendevano le sterrate attorno alle risaie dei loro giochi in un accecante ronzio di insetti diurni, afrori di piante germinanti, sudore. Senza altro conforto possibile, Ipotenusa J. guardava dentro sé in cerca delle Lande del Pensiero, dove si profilava lontano e poligonale un monte che era il nasone di un matematico persiano, al quale Ipotenusa J. chiedeva, “è vero o non è vero che nessuno ha mai sofferto come me quando questi idioti derisero la mia puzza di melma?”, e il matematico rispondeva, come invariabilmente faceva a ogni domanda, “sì”.


Nessuno aveva mai sofferto come Ipotenusa J., che era caduto nella pozza tanto fredda e tanto lercia.


Adesso sì che Ipotenusa J. era incazzato, e forse non aveva più così tanta voglia di collaborare. Ma タカハシ, con la katana ormai scintillante fuori dal fodero, sapeva che era necessaria prima di tutto la forza per aprire il forziere a forma di nocciolo dentro il cratere, ed era necessario che intervenisse per placarli. Non prima però di aver risistemato le cose all’interno di quello che secondo lui era un certo ordine -un ordine chiamato caos fraterno- in cui era lui a conquistare l’ultima parola, dicendo un paio di cose a quel vanesio di Swarmerto. Colpendo punti che nemmeno l’eloquenza dell’avvocato poteva raggiungere.


-fossi in te non me la prenderei con chi si fa bello dimenticando il passato: ricordi chi era che ancora andava cercando il latte materno quando i fratelli minori già studiavano per andarsene soli nel mondo? Ora è chiaro, devi esser stato tu a farla scappar via: chissà che impressione, ad aver dietro senza mai scollarsela quella tua faccia pallida, quei canini da sanguisuga! Chissà quanti incubi le hai provocato.


Swarmerto credette di svenire, si sentì male: nessuno aveva mai sofferto come Swarmerto.


Le braccia di Swarmerto impazzite si avventarono senza più alcun controllo in tutte le direzioni, costringendo il samurai a menare fendenti ai pipistrelli, e Pozzanghero a lanciare morsi e graffi nell’aria che tutt’attorno si riempiva di macchie nere virulente. L’avvocato gridava qualcosa circa l’oltraggio e l’indecenza e invitava Swarmerto a tornarsene alle proprie piantagioni di tè perché un professionista del suo calibro formatosi a forza di dispute legali in seno a floride aziende di high-tech appartenenti al trust del suo cliente avrebbe sempre schiacciato i relitti del passato di obsoleti modelli industriali, di cui Swarmerto era patetico esempio. Ipotenusa J. piangeva guardando all’ingiù mentre i pipistrelli gli volavano attraverso bucandogli ologrammi e paradossi.


-tu, se nostro padre vedesse a cosa ti sei dato!-, singhiozzava Swarmerto tra gli stridii, pieno di vendetta -Nei tuoi palazzi shogunali con le porte automatiche e gli screensaver rimbalzanti e i bonsai sintetici! Ah, ma a me e alle mie braccia non si può nascondere ciò che accade al buio… è vero o no che quando cala la notte, componi un numero, e fai venire nel tuo ufficio certe signorine discinte? Ti piacciono giovani, eh? Con la pelle liscia, come bambole. Del resto, i gusti non cambiano: fui proprio io, ma forse hai rimosso il trauma, a scoprire nascosti tra i tuoi giocattoli, tra archi e spade e action figure di kongō rikishi, quelle bamboline tutte infiocchettate a cui cambiavi i vestitini. Ti facevi certe guardate, lo studiavi attento, quello spazio vuoto in mezzo alle gambe di plastica! E ancora tanti anni dopo, quando c’era la luna piena e diventavi nostalgico, invece di comporre haiku, come facevi credere, tornavi ad accarezzar loro i capelli, invocando “mamma”!


Nessuno aveva mai sofferto come タカハシ il penultimo quando Swarmerto, il secondo, aveva scoperto che gli piacevano le bambole. Per questo motivo con spada e arti marziali e arco e frecce タカハシ disintegrò con violenza demoniaca tutti i pipistrelli che trovava a tiro, ignorando le rimostranze dell’avvocato che già impallidiva e con una mano messaggiava con luminari di diritto animale per scoprire se fosse incriminabile in quel contesto l’uccisione di specie protette.


Pozzanghero ruggì un terrificante “basta” che pareva provenirgli da oscuri abissi in fondo alla gola, e tutti i pipistrelli, avendo captato in quella voce il tuono di un carnivoro ancestrale che ha visto nascere e morire i mammiferi, si ritrassero intimiditi dentro le maniche. In pochi istanti di quiete si udirono il tonfo di lontane macerie che crollavano nell’acqua delle risaie e il fischio di fiamme ormai inarrestabili tra foreste ed edifici lignei.


-idioti. Lo siete sempre stati… nostro padre, credete che volesse questo??- soffiava e ruggiva il maggiore dei fratelli, abbandonando il suo silenzio a sangue freddo -degli idioti, che non meritano nessuna eredità. Avremmo dovuto solo capire come unire le forze e aprire la serratura. Ma lo vedo: con gentaglia come voi, anche questo è chiedere troppo.


-ah, è così che la pensi?!-, piagnucolò Ipotenusa J. senza più contegno, le linee dritte che gli diventavano pian piano storte, scriteriate, indecifrabili, come se spogliandosi di rivestimenti rigorosi rivelassero un nucleo di roba informe, che si sarebbe detta originaria non di deserti di frattali, ma di un ventre molle e caldo e impacciato, e tanto tanto spaventato, in cerca di cose da toccare, abbracciare, stringere con manine sudaticce.


-puoi giurarci che la penso così!


-ah, e che ne sai di cosa voleva nostro padre? Di un po’, lo vuoi sapere perché ti hanno sempre chiamato “fratello maggiore”? Eh?


-e tu che ne vuoi sapere?!-, sibilò Pozzanghero con le squame e le scaglie all’improvviso pallide.


-hah! Io ho visto la matrice stessa di tutto l’esistere! Stupidi idioti! Io vedo stanze di controllo d’altre dimensioni riflettersi nel latte&logaritmi che mi sorbisco a colazione! Vuoi sapere perché sei il maggiore? Perché quando quel filibustiere di nostro padre ancora non aveva cominciato ad affittare le sue terre di Laggiù, quando se ne stava ancora nel suo vecchio paese a perdere i giorni e fantasticare di mondi esotici, s’era regalato tutto un assortimento di tartarughine carnivore e coccodrillini da mettere in un terrario! Prima che si stufasse e liberasse tutte quelle nidiate in un canaletto. Ma uno no, un appiccicoso bisognoso marmocchio rimasto inosservato gli si era aggrappato ai pantaloni, per seguirlo fino all’isola tropicale e lì annunciarsi, “papà sono qua con te”! E allora quel furbo e subdolo d’un vecchio decise che gli avrebbe fatto comodo, per intimidire i competitori di Laggiù, un bestione rugoso come figlio, piazzato in modo soltanto simbolico a sorvegliare i campi, con quel grugno così brutto da far scappare tutti.


Nessuno aveva mai sofferto come Pozzanghero, che essendo imparentato a coccodrilli e alligatori non assomigliava molto, nelle fattezze, all’affittuario suo padre, se non per la stazza.


Pozzanghero era in fondo una bestia. Nemmeno l’avvocato, così indignato all’apparenza, negava in cuor suo di potersi aspettare qualcosa di diverso, quando si ritrovò anche lui come tutti a dover danzare sul posto per evitare i morsi del maggiore dei fratelli che all’improvviso s’era messo a quattro zampe, sferzando rapidissimo il terreno in cerca di sangue.


Su quella scena di caccia selvaggia il sole stava quasi per tramontare, dietro il velo d’apocalisse che aveva avvolto il cielo in una membrana collosa e rosseggiante. Le Pantere guidavano eserciti di yaksha sulla loro pelle, chiamando l’imminente caduta di asteroidi e piogge di palle asfissianti di caldo torrido. Sarebbe giunta la cenere, e l’Incendio inestinguibile e i livelli innalzati del mare avrebbero convissuto trasformando la terraferma in un pavimento di fuoco e burrasca oceanica, dal quale emergevano inalterate e solenni soltanto le vette delle montagne più alte. Questo era il mondo che s’affacciava dopo gli eventi di quel tardo pomeriggio, inosservato dai quattro fratelli e l’avvocato aziendale di タカハシ, tutti impegnati negli affari loro.


In quel momento accadde però qualcosa di talmente strano da farli fermare, le armi e le zanne a mezz’aria. Di fianco a loro, proprio dal cratere fumante, sembrava si stesse sollevando assieme ai pennacchi bianchi un suono ritmato, inconfondibile. Una risata ascendeva e cominciava ad appallottolarsi in un fluttuante globo di luce dorata. I quattro fratelli si guardarono, e in silenzio decisero di sporgersi per guardare oltre il bordo del cratere. Il nocciolo si era appena dischiuso e dall’apertura sottile sprigionava bagliori abbacinanti, che incolonnandosi verticalmente alimentavano la formazione di quell’essenza galleggiante. Questa si contorceva, era tutta un turbinio luminoso di movimenti di braccia e testa pronti a sgusciare da un torso umanoide rifulgente d’oro, ormai riconosciuto dai quattro fratelli.


-hahahahahaha! Mi sono proprio divertito!


Volava alto sopra di loro, inarrivabile, trasformato in una specie di jinn. Nel riverbero aureo della nuova luce che lo ammantava, riconobbero i tratti che aveva avuto così tanti anni prima della morte, come se desiderasse mostrarsi loro soltanto nei suoi lineamenti più vitali. Per umiliarli. I lunghi capelli che ricadevano in ciocche da re sulle spalle e sulla rotonda pancia sporgente. Il mezzo sorriso di chi se la gode, che sempre aveva reso supponente e altezzoso ai loro occhi quell’uomo stimato saggio e mite.


Quell’uomo non aveva mai desiderato altro che scapparsene in un posto dove godersi in santa pace le idiozie di questa terra. Scintillava come un bodhisattva, dopo aver trascorso cento giorni rinchiuso in un grosso nocciolo di pesca ed essersi seppellito nei suoi ettari più affezionati. Cento giorni a dormire e sghignazzare.


-aaah, figli miei. È proprio andata come volevo. Vi ringrazio per aver allietato il giorno della mia ascensione. Ora andate! I vostri averi, sulle vostre isole, nei vostri paradisi, vi attendono. Per un ultimo saluto, si intende, prima che tutto si disintegri! Hahahahahaha…


E fu tutto un aspettate padre, aspettate padre, il vostro successo terreno, i vostri segreti, diteci, eccetera. Sentendosi in trappola タカハシ si voltò in cerca dell’avvocato, ma era sparito, scappato via da un pezzo. Girò rapidamente lo sguardo sul paesaggio: pioggia di fuoco su villaggi lontani; mostruosi gatti titanici e ciclopi con zampe di lucertola rimodellavano coi passi il territorio; foreste appassivano, risaie vuote, tutt’attorno a loro, e al centro un cerchio, un campo mezzo bruciato con quattro disperati in ginocchio davanti a un cratere. Non c’era altro. Gli uccelli erano scappati dai rami caduti nelle risaie. Nel cielo rovente non c’era nulla di vivo.


-il mio successo? Stupidi idioti: il mio unico successo è stato sin dall’inizio scapparmene qua, senz’altro desiderio che quello di piantare qualcosa, ascoltare canti d’uccelli al mattino. E intanto continuavo a passare la vita inquieto, a chiedermi dove andare, allo stesso tempo senza muovermi da questo posto in cui ero giunto ancor più inquieto, la meta del mio viaggio, la mia fuga… sono contento di esser stato vicino alla terra. Di averla carezzata, capita. Prima che morisse. Sì, è stato bello, anche grazie a voi, e i vostri giochi nei campi. E i vostri giochi più scemi che continuate anche adesso. Sapete, per un genitore, i figli sono sempre bambini. Sono contento di non aver mai capito dove andare, dove acquietarmi, circondato di queste cose. Ma ora mi riposo, finalmente. È ora che torni da vostra madre.


-e noi, padre, dove possiamo andare? Dove dobbiamo andare? Sta crollando tutto!-, urlarono in lacrime i quattro orfani.


-aaaaah…-, scosse la testa lo spirito dell’affittuario, sollevandosi sempre più verso la volta celeste -siete le solite bestiacce! Nemmeno una domanda su vostra madre, dov’è, come sta dall’altra parte… ma immagino che voi non possiate capire. Vi saluto, adesso! Fatemi sapere poi chi ha vinto al vostro gioco della guerra! In premio al vincitore, un vecchio rugoso nocciolo di pesca! Hahahahah…


-padre, non andare! Dove dobbiamo andare noi, diccelo!


-affanculo! Hahahahahaha…-, disse sbiadendo l’affittuario, bodhisattva della maleducazione.

-sei un figlio di puttana, pezzo di merda, i tuoi enigmi sono merda!


-non si dicono le parolacce, brutte testoline di cazzo!-, rimbombò dall’alto dei cieli.


Stanchi e senza via di fuga, combatterono prima di comprendere cosa stesse accadendo. Zanne e artigli, ali infuriate, spade e frecce, raggi di cateti, tutto quanto s’avventò sul fantasma intangibile del padre che continuava a ridere e ascendere, sparendo poco a poco. Con un ultimo gesto del dito, emise raggi di luce che impattando il suolo si trasformarono in buoi fatti dello stesso oro della sua nuova forma. Poi sparì. Forse raggiungendo la sua compagna, la madre che i figli sembravano aver dimenticato, rimanendo per sempre in ricerca spasmodica, senza mai ritrovare frammenti di sé che forse nemmeno si accorgevano di aver perduto (“o forse non c’era niente di così complicato: sono solo rimasti i quattro deficienti che erano, quando bisticciavano e s'imbrogliavano a vicenda nei loro giochi…”, avrebbe banalizzato, in vita, l’affittuario, con gesto spazientito e chetandosi in una posa simile a un buddha sornione circondato da scimmie discepole sedute a gambe incrociate).


I quattro orfani combatterono furiosamente attorno al cratere nel campo, contro l’esercito di buoi spettrali del padre e tra di loro, sotto i cori e tamburi di battaglia degli yaksha, Sri e Lanka, Sri e Lanka… per ottenere il nocciolo, per una fame incontenibile che volevano soddisfare -a nulla importava che avessero ormai capito che quell'oggetto non avrebbe mai potuto sfamarli davvero; tutto ciò che importava loro era che avessero un pretesto, per lottare in nome della fame.


Ma nessuno seppe mai chi fu a conquistare lo strano scrigno, incubatrice della rinascita del padre. Nemmeno coloro che avevano assistito e generato gli eventi.


Rimase, sotto la musica del cielo mutato in inferi, una battaglia senza esito, nel cuore dell’universo capovolto.


-è ora di andare a casa…-, insisterono voci alte da toraci arroganti. Q., pervaso da uno stupore che non sapeva spiegarsi, veniva trascinato per il braccio. Muto e incredulo guardava Z. scalciare e prendere a pugni l’aria, quasi colpendo la libreria attaccata alla parete, “no no no no no no no no!!! Ancora ancora ancora ancora cinque minuti!!!”, un vero diavolo.


Nel mondo in cui era stato intruso -le pareti che vedevano addormentarsi quell'esemplare di "amico fraterno", la puzza di cane, le fotografie, la consolle costosa attaccata al televisore piatto-, Q. lasciava un pezzo di sé, nell’indiavolamento di Z., che avrebbe continuato a scalciare, come regredito a un grembo materno troppo stretto, che voleva perforare, far sanguinare. Q. credette di prendersi una piccola soddisfazione, e lasciandosi portare via, sul pianerottolo e attraverso le scale che avevano un odore diverso dalle scale di casa sua, riuscì a concedersi un sorrisetto. Ma c’era qualcos’altro che lo angosciava, una strana presenza nel basso ventre. Somigliava a un pezzo di puzzle nero lucido rimasto con le bocche e gli agganci a penzolare indefinitamente nel vuoto, eternamente incompleto e incastrato là senza poterlo far cadere né risalire.


Z. con la guancia arrossata si sentì dire “in punizione!”, sentì sulle ditate bollenti rimaste schiaffate alla sua pelle i residui del pudore di mamma e papà, che ritenevano opportuno colpirlo se dovevano proteggersi dal senso di vergogna, di "non averlo educato bene”, come brontolavano certe volte scuotendo la testa con aria delusa. Z. rimasto chiuso in camera prese a pugni stipiti e mensole e pouf e letto e libri e cartella, frustrato perché “avevano vinto loro” e nessuno aveva vinto la partita, l’ultima contesa tra i due generali conquistatori, importante come la morte del mondo. In lacrime e col torace sconquassato dal fiatone, Z. rannicchiato al centro del tappeto verde e blu rammentò l’apice della sua breve vita di scalmanato, proprio nel momento in cui li avevano acciuffati, per essere portati a casa o in punizione. In catene come mostri o sentimenti esiliati dal monte degli dèi.


Q. sul sedile di dietro si macchiava di luci in processione attraverso i finestrini, lo sfioravano simili a nuvole di plancton bioluminescente. La macchina attraversava la città già buia, si allontanava verso la statale. Era avvolto dall’odore familiare, dal familiare borbottio pieno di banalità pseudopedagogiche proveniente da davanti, dalle mani aggrappate al volante e il retrovisore in cui si ficcavano di tanto in tanto riflessi d’occhi giudicanti. E ripensò all’odore meno familiare, che aveva imbrattato -soprattutto in quel momento, proprio quando li avevano acciuffati- l’apice della sua breve vita di chirurgico lettore degli altri esseri umani: in quella violenta e improvvisa interruzione del loro gioco, i loro sguardi erano tornati a incrociarsi e a infiammarsi. E seppero entrambi che l’altro stava immaginando la stessa cosa. Seppero entrambi di star immaginando, sotto gli sguardi impotenti e ridicoli dei genitori strisciati lì dal loro salotto di chiacchiere confusionarie, il finale più grandioso della battaglia. Solo qualcosa di indefinibile li aveva fermati, per pochissimo. Il loro grandioso finale: un esplosivo lancio vicendevole di tutti gli oggetti più contundenti che fossero riusciti a trovare nella stanza di Z., dagli animali della giungla ai mostri gotici, dagli androidi guerrieri ai righelli di scuola. Avrebbero colpito per farsi del male, annerirsi gli occhi.


Aah, quel maledetto Z., uguale identico a quei cagnetti come quello che ha in casa, così piccoli e composti al 100% di superbia e tremori.


Q. dette pugni ai sedili, alla cintura, alla maniglia sopra il finestrino.


-torniamo subito indietro! Te le scordi le patatine!-, ammonì una voce mediocremente alterata dal posto di guida. Nella foschia di luci urbane impiastricciate in un’unica caotica scena all’interno del parabrezza si disegnava la sagoma incombente del grande centro commerciale, i bagliori dell’insegna del fast food attraversata internamente da incandescenza elettrica. Q. odiava sapere già che per una frustrazione d’origine ignota non avrebbe apprezzato la cena di quella sera in quel posto dove andavano di rado, e che avrebbe ugualmente odiato tutte le volte in cui gli avrebbero proposto d’andarci con l’intento di premiarlo o forse corromperlo -insomma, Q. odiava che le cose non fossero andate proprio nella maniera che voleva lui. E quando l’illuminazione esterna, riverberante del colore malaticcio d’asfalto e transenne, mutò dapprima in penombra stantia e poi in luci da galleria in un parcheggio sotterraneo che aveva risucchiato la macchina in una spelonca di cemento soffocante, l’alternanza di fastidiosi flash e oscurità delle viscere del centro commerciale trascorse senza pietà sul broncio dentro il finestrino. E al suo portatore parve che in quel broncio fosse sintetizzato tutto il proprio essere, che mai era stato veramente se stesso prima di scoprire di potersi imbronciare in quel modo, per l’eternità da quel giorno in poi, dentro tutti i parcheggi, dentro tutte le sere di sconforto della vita sua.

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