Gli Appunti Del Fango- tre nubi a Carano
- Milky
- 3 lug 2021
- Tempo di lettura: 20 min
Qual è il senso di questa cosa?
Già, sempre a chiederti quale sia il senso.
Sì, e non solo, sono anche gli altri che chiedono a me, il mio ordine è il loro caos, e viceversa.
Gli altri, gli altri, sempre a batterti con gli altri.
E con chi, altrimenti? Con nessuno.
Già, con nessuno, e allora vuol dire che ti piace batterti.
No, è solo che esistono.
Eh, già, gli altri, gli altri, sempre pronti a colpirti, non è forse così che credi sempre?
Preferisco essere previdente.
Li chiami gli altri e dici che esistono ma non sono altro che una nuvola nera di traballanti ombre disegnate. Eccole, si agitano in una zona compresa grossomodo tra i corridoi in mezzo alle orecchie e il naso, la nuvola sale alla fronte e la appesantisce, produce l’emicrania e un’ombra sotto gli occhi.
Cosa importa? È una nuvola che esiste, e se si manifesta in questo modo, vuol dire qualcosa. È così che arrivo alla verità.
Non sono vere persone, capisci? Sono una nuvola. Una nuvola non è le persone, che esistono fuori di te, hanno altre anime dalla tua. Una nuvola nera è solo prodotto residuo di una scissione da un pezzo d’anima tua. Costola, carne riprodotta, carne gassosa. Non solida.
Vorrebbe forse dire che le persone in carne e ossa non sono davvero capaci delle cose che la nuvola mi mostra, mi anticipa? Dai più piccoli gesti innocui, le più normali curvature istintive di sguardi a una prima reazione alle cose, fino ai più pressanti sospetti, giudizi, frasi pronunciate?
E questo vuol dire che tali cose si verificheranno? Non sei un veggente.
Preferisco predispormi al loro verificarsi.
È un insulto ai cuori delle persone che vivono indipendenti da te, il tuo pensiero, la tua fortezza. È insano.
Non voglio battermi, non è degli altri e con gli altri che voglio parlare adesso.
Anche il tuo ritirarti dalla battaglia è incredibilmente antagonistico e capriccioso come un bambino un principino che non accetta il mondo fuori dal proprio schema di ramificazioni tutte serpeggianti verso se stesso, tutti i cordoni ombelicali che lo nutrono. Fastidioso, eh?
Anche questo è essere previdenti: ascoltare la cosa più fastidiosa, la peggiore, e così giustificarsi. Adesso: la domanda era: qual è il senso? E la faccio perché la devo fare sempre, anche in quei momenti in cui il mio corpo è vuoto e affonda e non se ne cura perché non si cura più di niente. E la faccio anche perché, è vero, in quei momenti sarò vulnerabile agli attacchi. Verranno, diranno, nulla di ciò che fai ha senso, anche tu ti arrendi al nonsenso, sei ipocrita e poco determinato al tuo scopo, altrimenti non te ne staresti mai fermo a non fare niente, a non indagare, finto osservatore. E allora, qual era questo senso che andavi cercando così forsennatamente, così fermo sulle tue posizioni? E a salire domande sempre più concrete, più conversazionali, meno di nuvola e più di carne che in realtà è sempre nuvola perché è la nuvola che io chiamo “gli altri” e che non è mai gli altri veri e propri, domande tipo, qual è il senso del modo in cui ti esprimi, che non si capisce niente, è confuso, è caotico? Quello che per me è un tentativo di dare ordine al caos che tutti gli esseri vivono e sembrano accettare come se fosse normale. Cose che hanno un peso e una fisicità, materia, Informazioni, corpi, particelle, cambiamenti, evoluzioni, linguaggi, onde, vibrazioni, tutto intorno. Non è tutto ciò a essere estremamente caotico? Non è assurdo solo pensare di ritenerlo normale, razionale, semplice, essenziale così com’è? È normale tutto questo? È allora anormale quello che per me è il senso? La nuvola dice che anche loro chiederanno, qual è il tuo senso?
Già, qual è il senso. Il senso di cosa?
Di qualunque cosa faccia, direi. Per esempio, parlare del Fango…
Un’altra idea fissa.
Un senso, intanto, potrebbe essere quello di trovare un equilibrio. Un punto in cui l’osservatore possa sostare, sospeso e immobile, a metà tra se stesso e il mondo circostante, senza esporsi fuor del suo muro divenendo addome molle lacerabile dagli attacchi, ma potendo comunque guardare e capire e per quanto gli è possibile accettare.
Senza toccare, ferirti la mano o sporcartela.
Questo è linguaggio. Di chi ha fastidio per il mio proposito, linguaggio di nuvola nera, d’altri. Sciò.
E cosa cambierebbe un equilibrio tra te e il mondo? Continueresti a sentirti senza un posto. Perché non rassegnarsi al fatto che “un tuo posto nel mondo” non c’è? Vivere e basta, senza presunzione.
Cosa cambierebbe? Mi sembra l’unico modo.
L’unico modo di che?
Di arrivare al senso…
Quindi il senso è quello di perseguire il modo di arrivare al senso.
Credo di sì…
E ti lamenti se ti dicono illogico.
È logico è giusto è perfetto è respiro è anima il volere questo. È sogno, è bellezza.
Bellezza?
Come un’alba buia e glaciale a Carano, il risveglio delle cose dal gelo. Osservatore in piedi, sospeso tra se stesso e il mondo circostante, in un punto di equilibrio.
È male fissarsi su delle stupide epifanie.
È l’unico modo per sopportare questa città. Vedervi una palude di epifanie. Anche se abitata da una forza indifferente o maligna.
Epifanie di bene e di male. Il Fango è cattivo, ma ami il gracidio che si sente, ignorando che le rane vivono secondo la sua legge.
Non lo ignoro. Loro lo ignorano.
Il tuo cuore non dovrebbe cercare quel suono per mettersi in pace. Non dovrebbe mettersi in pace con niente, se davvero come afferma mal sopporta tutto questo, tutto il male e il dolore che esistono.
Un equilibrio deve esistere, da qualche parte, deve, deve! Un equilibrio grazie al quale non ci sarà contraddizione, nel desiderare e trovare questa pace, per nessuna anima di osservatore del Fango e della sua legge folle e maligna.
E dove, in un’alba a Carano? Nel territorio di Aprilia?
Per esempio.
Ma non ha senso.
Eppure in quel momento sembrava l’unica cosa che ne avesse.
…
Erano i primi secondi minuti e ore del 2018. Calendario umano. Trascorrevano davanti agli occhi, in ticchettii sfruscianti le orecchie, davanti occhi di scimmie diurne, disabituate all’apparire del giorno attraverso le tenebre e le nebbie. Capodanno. Casa di R.phas, detto DK, casa grande, prato e campagna, molte persone, molte persone ubriache. Caos: di sensi miei, troppo rumore e troppissimi sguardi; dei sensi degli altri, manipolati, sovraeccitati; della notte, animata di impercettibili movimenti già nei fruscii delle piante del giardino, sopraffatti da Spotify toccato a turno da tutti (qualcuno ha chiesto anche a me, inaspettatamente gentile, ho messo Massive Attack e Talking Heads, nonostante poi preferissi il silenzio, e altri mettono Chinese Man, MF Doom); nella notte che vive sempre in questo modo, ripetendosi, violenze e guerre nascoste sotto gli strati del buio e lontano da esseri di tana, attorno ai quali succedono ignorate, incomputabili, infinite cose; di macchine che sfrecciano attive sulle strade dalla campagna alla città e viceversa, rombo di festeggiamenti, gli umani celebrano il tempo.
Era così prima di venire. Una nuvola nera, “gli altri”, sapeva tutto questo. È quella nuvola che misura il tempo e misurandolo può festeggiarlo, intervalli scanditi di risata, selvatichezza, follia, il gioco che riformula la realtà. Stasera saranno offensivi, inoffensivi, ignorabili? Non è che la gente sta a pensare di scardinare le tue protezioni per divertirsi, sai?- me lo dico per tranquillizzarmi prima di andare. Hanno altri modi per divertirsi, sai? Lo so, non è per questo, non è per un obiettivo che lo fanno, quando capita: è come giochicchiare con una cosa che sporge. Punzecchiare uno che è allettante punzecchiare perché gira con barriere, che intaccate produrranno per forza una reazione. E loro vivono per le reazioni: accettare il mondo: è forse questo? Non reputarlo un caos insopportabile per quanto è inconcepibile, ma adeguarsi al suo essere fondamentalmente un’infinita concatenazione di reazioni. Trovarle divertenti. Cose che si muovono. Una cosa lanciata, un fracasso che si produce. Alcolico ingoiato, bollore sanguigno in corpo capace di movimenti profusi sulla superficie della terra, il posto in cui si afferma di essere vivi.
Era stata portata molta terra bagnata in casa, il bagno era una zolla di striature marroni umidicce. DK avrebbe in seguito passato in una faticosa pulizia generale la mattinata schiusa fuori dalla prima notte dell’anno, maledicendo chi ha messo le scarpe nella sporcizia ed è entrato. Non sta bene che la sporcizia esterna entri nelle case. Terra di Carano in una casa di Carano è inaccettabile, ma è perdonabile che lo si faccia, per goliardia, in poche serate d’anarchia decise dal tempo. È il terriccio calpestato dai gatti che stanno a casa di DK, ora al riparo dalla folla e il trambusto, nascosti sotto la casa o lontano tra gli arbusti di campagna là fuori. Terriccio smosso da una talpa, dalla crescita di un gambo. Inumidito da gelo cadente dal cielo, si posa adagio sulla terra dell’inverno. Il Fango, molto sotto, deve crepitare anche lui per il ghiaccio di cui s’ammanta in questo periodo, lo indossa fieramente, come s’abitua a tutto. Dove saranno i gatti? E la talpa e i gambi che crescono? E com’è questa notte di Carano sulla pelle? Quanto freddo fa nelle campagne apriliane d’inverno? Voglio uscire. Andare a osservare questo posto, in un altro tempo, fuori da qui, da questa frangia: penetrare in un interstizio sottostante questo spazio e questo tempo, raggiungere lo stesso luogo in un’altra sua forma attraverso una ferita aperta sulla sua superficie. Dove si trova il diaframma, il passaggio? Se sapessi dove sono i gatti, potrebbero guidarmi. Li seguirei attraverso un varco e vedrei dove vanno a finire, in quale mondo di notte oscura e uditi affilati, flussi percettivi nel tunnel vertiginoso del buio. Apprenderei come fanno a dileguarsi, saprei sparire a mio piacimento dal mondo degli umani.
Un nostro amico è sparito: Schröter non si trova da nessuna parte. Accadde nei momenti successivi allo scoccare della mezzanotte. Scherziamo, diciamo: Schröter non esiste nel 2018. Le solite stranezze, li chiamiamo glitch dello spaziotempo. È un buon segno: forse lui ha trovato il punto di fuga. In un altro momento, abbiamo cantato, urlato, almeno in dieci, Viva La Vida. È comparsa una ragazza in rosso danzante dal nulla, personificazione del vino, che ha lasciato me e Gid, accanto a me sul divano, sopraffatti dal surreale. Hanno fatto un torneo alla Playstation 2 ricordando con nostalgia i giochi di un passato condiviso da tutti. Il cotechino con lenticchie non è stato toccato da nessuno e marcisce in una pentola stantia. Qualcuno, immancabilmente, vomita. Di un altro tizio dicono che abbia pippato prima di venire, quella tipa ha portato per la mano due ragazzi più attempati ad ammucchiarsi in camera di DK.
Tutto questo, troppe cose insieme. La realtà, il susseguirsi del tempo, inventato dagli altri, da una nuvola, è un caos di per sé. È un’illusione di ordine: raccontarlo vuol dire restituirne il disordine. Tutte queste cose accaddero, caoticamente, in un nido di caos. Non si può arrangiarle in un senso che sia comunicabile a tutti. Manifestazioni estrose ai sensi assaltano da ogni lato. E infatti devo uscire. La pace, l’equilibrio, che devono stare da qualche parte, in un’altra frangia, rendono meno stancante una ricerca di senso. Cantare la canzone è stato divertente. Altre cose sono state divertenti. Ma tutte queste cose, in eccesso, incontrollabili, accadono a capodanno, e ciò vuol dire che accadono ogni momento, perché in maniera sempre uguale il tempo che hanno inventato sempre trascorre. Ogni istante è un’ondata di tali movimenti, reazioni, possibilità di attacco. Devo andare altrove, proteggermi. Schröter è tornato a esistere nel 2018, io cerco il punto in cui è scomparso per un po’. Uscendo, spero di non udire rumori orgiastici dalle fessure della persiana chiusa sulla finestra che dà sul campo del retro, sparso a grigiore bluastro vasto nella notte, dalla Carano accostata alla strada a quella delle campagne d’entroterra.
…
Sentivo ancora le voci di quelli che parlavano mentre facevo il giro intorno alla casa per andare sul retro, alcuni che fumavano e chiacchieravano sotto il porticato, e ho sentito il processo per cui quelle voci si sono fatte sempre più fioche, più distanti, irraggiungibili: lasciarsele alle spalle, appartengono a un paesaggio altro da quello in cui mi addentro. Si fa una barriera tra l’ultimo strascico di linguaggio udito e l’ultimo passo di là d’una soglia introvabile. Mi hanno visto? Come si vede un vago movimento cui si dà il nome tentativo di fantasma, una cosa scura che fluttua nello scuro. E ora? Non so se è qui che si va a finire se si seguono i gatti che si allontanano dalle feste e le luci degli uomini. In fondo, è soltanto il retro della casa. C’è un pianerottolo sul retro della casa di DK che dà direttamente sulla terra lavorata, denudata. Un lastrone di cemento ruvido ghiacciato dall’inverno, un lastrone di ghiaccio sul quale mi rizzo piedi, anch’io congelato -ma non sento freddo. Di solito lo patisco molto: allora non ci sono tatto e corpi, qui. Sul retro di una casa in cui sono stato molte volte, ma è possibile? Sul retro di Carano c’è un simile sortilegio. Non distante, dietro una finestra e nel calore, c’è un vorticare di corpi sudati, e ancora dietro la porta in un corridoio un vagare e commentare e deridere di altri corpi sudati, permeano la casa, il loro dominio. Sto qua fuori: non fuori sul davanti, fuori sul retro. Cosa vedo, cosa ho visto venendo, è una domanda per identificare l’allontanamento, il percorso compiuto, il viaggio senza lasciarsi le briciole dietro per ritrovare la strada. Nella campagna di fronte a me, oltre il pezzo di terra divelto dalla famiglia di DK, dietro bordi d’alberi e recinzioni e pollai e sgabuzzini, in questa oscurità fitta nel cuore della notte non ci sono luci tangibili -se non bagliori lontanissimi che giungono stremati, potrebbero addirittura essere le case sparpagliate sugli Albani. Vedo altre luci non visibili, hanno accostato il percorso, il sentiero nel buio. Traballano sulla scorza della mente, ci sono e non ci sono anche per questa, che le identifica solo per una volontà attiva di vederle, di concentrarsi su quella parte del loro vacillare in cui paiono “accese” e non spente, non mere illusioni. Il campo è pieno di luci, pieno di vite minuscole. Sublimano dai solchi e i montarozzi, palle di freddo. Curvano nell’aria, lucciole di un lontano passato, come tornassero in una frangia apposita in un preciso momento, un loro festival, in cui non dominino lo smog o qualunque altra egemonia diurna e concreta. Senza roteare la testa osservo senza vedere un’adunata di puntolini luminosi d’una luce inafferrabile, fori nella matrice. Giungono da un lato del campo banchi di nebbia. Raccogliendo reconditi riverberi di raggi lunari nascosti dietro alte coltri, riflettono un pallore, sono condensa che brulica delicata ed elegante come il nuoto d’una medusa, un movimento che è la cosa più visibile all’interno del buio. Sul perimetro della casa si accasciano continuando a ondeggiare e scorrere nei propri contorni questi mucchi nuvolosi, bianchi freddi, di tanto in tanto s’allungano, tentacolari rasi sul campo, come sbuffassero. La notte è piena di fischi. Movimenti, passetti, rametti rotti, echi. Un volo senza rumore da qualche parte proietta una lugubre predatoria presenza fin dentro i ciuffi che rabbrividiscono per trasmissione dai roditori che in questi stanno acquattati. O rabbrividiscono solo per il freddo. Altri scricchiolii glaciali, sembrano dipanarsi pure nell’aria, frangibile a banchisa piena di crepe. Comincia il guaito ritmico di una volpe. Sto fermo sul lastrone e sento quell’emanazione selvatica, chissà dov’è, scandire con regolare schiocco di gola la trasformazione della notte in mattina, celata al sonno dei molti esseri rintanati nelle case. Dall’altro lato della casa, dentro, molti quadranti e schermi indicheranno il numero cinque. Assisto al paesaggio dall’altra parte dei numeri e gli schermi. Fuggito da un inferno mentale, fatto d’anime umane, per andare all’altro mondo dove l’oscurità soltanto riempie il concreto. Il resto è rumori animali e spauracchi della mente.
Si popola piano di gracili ritmi. Crepitar d’erba e legno e ghiaccio, ratti sotto i cunicoli gatti sotto i cunicoli gatti nei cespugli topi tra le erbacce volpi nei margini gufi negli alberi distanti passi felpati leggeri nella notte e uno scavare frullante sotto la linea della terra. Loro sono la moltitudine segreta che s’insinua agilmente tra gli interstizi, fluida compie il passaggio tra un mondo e l’altro, tra le diverse sfere sensoriali. Si attivano altri spettrali ricettori, penetrano le regioni cupe della mente e dei cunicoli con diverso e strano acume. Corre una creatura di sola sagoma svelta dietro i punti ciechi, di sola nebbia scura elusiva ai sensi e i giudizi. Veloce, corsa fuor dell’umano. Mi eccita la fantasia di avere un corpo reattivo agli istinti e al mistero del buio, rapido tra gli elementi: mi ipnotizzo, mi identifico. Sei un paio di occhi che vedono al buio e ci sfrecciano dentro: afferra la terra, strappala, lacerala, iscoia e isquarta questo stupido inferno. L’inferno fa schifo, come il Vietnam, la morte il calore la guerra le zanzare. Oscurità e dannazione. Dante e Michael Herr hanno scritto lo stesso libro (dall’eccesso di Hip Hop della festa lasciata alle spalle mi porto del citazionismo. Coltellino nel viaggio selvaggio…). Sono partiti per il nucleo della brutalità e della redenzione, hanno osservato e sono risaliti a parlare agli uomini. Dovrei raccontare le immagini di Carano? Bella storia. Quale sarebbe il senso? Ha senso il mio stare qui, hanno senso i pensieri, ha forse….
Ma ecco che la nebbia si accumula, allucina, sostituisce il senso. Schiocca la volpe, i banchi freddi si accumulano sempre più reagendo al richiamo, intessendosi sul suo procedere che parrebbe infinito, proietta quella notte nell’eternità. Vedo il laboratorio che mette a reazione la rugiada mutandola in brina, ne ho udito lo scricchiolare metamorfico come un bisbiglio celato sotto gambi di bassa vegetazione, eco di civetta e merlo, pipistrello che incurva, una specie di respiro come se la nebbia fosse un fiato. Un altro suono c’è in sottofondo a tutto, non il sangue che scorre in me o nelle piccole vene di altri piccoli esseri pulsanti, perché qui non c’è tatto. Non il ronzio ininterrotto della città lontana, del Fango sotto di essa. È la terra che respira. Ricorda uno scroscio d’enormi acque e vapore attutito dietro una parete di roccia. E, ruggendo, nuovi fiati si addensano.
L’oscurità intorno si infittisce. Il guaito entra in sordina. Accade qualcosa. D’improvviso, la velocità dei banchi si moltiplica e striscia nei solchi del campo più vicini, mi circonda. Contrasta più ampiamente con i paraggi ottenebrati impenetrabili, brilla un nuovo biancore. È qualcosa che giunge. Mi appaiono delle nubi.
Nubi, quella specie in gran quantità prodotta dalla mia mente, proiezione di “altri” o di fossili che giacciono sul fondo… delle nubi, tre in numero, percependo l’essenza spettrale evaporante dal terreno d’etere e nebbie, escono fuori, mi appaiono una dopo l’altra davanti, plasmandosi un mondo galleggiante e incorporeo, comodo tra i tormenti dello spirito e il suolo scuro e smosso e gremito d’erbacce del campo. Vengono incontro, grosse bestie d’aria, sul percorso mio immobile.
Sono separate ma unite in continuità, la scomparsa dell’una è intrecciata in trame fumose all’inspessirsi dell’altra, a ghirlanda di lembi allacciati si dispiegano davanti a me. Anche tre teste potrebbero essere, che parlano in modi un po’ diversi. Aguzzo lo sguardo negli schermi di fumo che stratificano la prima, ne individuo il contenuto. Dalle sagome vacue che si proiettano dentro la nebbia proviene un ulteriore scroscio, più piccolo, una parte d’un rombo che arriva univoco. Sono molte orme che affondano nel fango, ritmicamente. Vedo soldati in marcia. Distinguo teschi scavati, occhi insonni che galleggiano in forme sbiadite. Pieghe dell’aria dove ci sarebbero pieghe di divisa, morti avendocela indosso, indossata sapendolo. Si mescolano un po’ ai movimenti d’ombre che si muovono nelle altre due nubi adiacenti, ancora più vaghe, le prossime a rafforzarsi. Altre forme umane, ed altre ancora più distanti alte e mostruose. Ma è facile vederli ritornare sempre nella prima nube, quella che si è posata adagio da qualche parte verso la sinistra della visione, la direzione di un arbusto a un angolo del campo, dove si sente uno sciaguattare acquitrinoso di un fossato fetido insinuato tra i terreni della prima e la seconda fila di abitazioni. Mi rivolgo a loro, mando una voce inconsistente, forse udibile soltanto agli spiriti della mente ma ignorata anche da questi.
-(Dove siete?)
Mi risponde una voce dentro al cranio come eco in un grottino, una nicchia, una trincea. Siamo nella terra tutt’intorno, nelle battaglie che ci furono, sembra rispondermi. Si nascondevano, uscivano, sparavano, fuggivano, erano punti dalle zanzare, ammalati, sporchi, ritornavano a nascondersi, morivano scarnificati da dentro e da fuori. Mi chiedo se siano apparsi qui perché proprio su questo campo ci fu uno scontro, una fossa comune.
-(Dove sono le vostre ossa?)
Non si fa sentire la voce tra le pareti del cranio. “Sotto i tuoi piedi”, forse, sarebbe la risposta appropriata, qui e ovunque, dalla periferia nella notte incantata o in fila alla spesa, nel traffico, tra nubi d’altro genere.
Passi di stivali e rimbombi di lievi voci. È il linguaggio del passato, un dialetto che appartiene solo ai morti o alle genti d’un altro tempo di questa terra. Parlano tra loro prima che la prima nube si accartocci e appiattisca al terreno, scomparendo in una massa d’altri cumuli vaganti; non parlano a me eppure il tono sereno delle voci, calde one d’orizzonte, sembra raccontarmi la loro inoffensività e quella di tutti. Tutti, come noi, diverrete forme senza forma immerse nelle nebbie d’umidità di questa terra, tutti periti in molte guerre, diverse da quella nostra, ognuno nella propria, tutte uguali con lo stesso finale.
Le seconde forme della seconda nube, quella centrale, assomigliano molto alle prime. Dietro, il contorno delle case lontane e nere, cupo ai confini di boscaglia e prati incolti, si profila quasi minaccioso. I passi sono più scoordinati e non sono uniti in un’unica marcia né in un’idea univoca. È difficile dirne la natura. Ma anch’essi, nelle pieghe che portano sui toraci rivestiti d’abiti non militari, recano tracce di fango veloce a seccare, veloce a sommergerli. Di nuovo mando una voce, e questi qua, oltre a capirmi, sembrano anche ascoltarmi. Rispondono, da dentro il cranio e da ciò che mi sta davanti.
-Chi è che ci guarda?
Parlano un linguaggio più vicino. Troppo vicino: sembra lingua corrente, soltanto un po’ disturbata da una risonanza che non saprei riferire a chi non l’ha udita.
-Chi siete voi? Che fantasmi ci sono a parlare questa lingua del presente?
-Ah! Ti sei addentrato fino al punto in cui puoi interrogare le tue visioni. Sei convinto di riuscirci?
Non rispondo a questa domanda. I volti, ammassati nella densità spumosa, mai fermi, non hanno un teschio scavato. Sembrano, per il poco che si capisce, come fuoriusciti da un rivestimento di terra e paglia, come si schiudessero da un bozzolo di sepoltura. Nelle espressioni, meno rarefatte di quelle degli ormai quasi nulli soldati alla loro sinistra, colgo un’accettazione del mio silenzio. Uno sbuffo, un sorrisino.
-Ma come, chi siamo noi? Non hai forse mai sentito parlare di quello che succede nelle campagne di Aprilia? Hai solo sentito certe frasi, “ah, non voglio sapere cosa succede di notte nella periferia di Aprilia”, “ah, noi crediamo che va tutto bene, ma nelle campagne dietro casa…”, e ti sei immaginato i cadaveri mai scoperti nei fossati, reticolati impossibili da mappare del tutto sotto la terra, sarcofaghi dell’impero del Fango tutto intorno a voi creature ignare. Un fossato a lato di una strada può allargarsi sotto l’asfalto. Collegarsi al sottosuolo, le cavità, le cloache… potreste essere circondati da corpi senza vita come i nostri, e dai corpi vivi e arricchiti di quelli che ci gettano via, roba di cui disfarsi. Ma non sentite niente.
Quel discorso macabro me ne riportò in mente un altro, di quella stessa casa. Halloween da DK, stesso anno, spari assordanti in lontananza. DK ci spiegò che facevano delle “ronde” nel vicinato. Ridevamo di quanto fosse assurdo e terrificante. Ma anche ad Aprilia c’era una criminalità, sotterrata e mai dormiente. Alcuni, sulle reti stradali più lontane dal centro, tentavano di rispondere, proteggersi con metodi che apparivano lontani decenni o secoli dalle abitudini dei frequentatori di piazze e bancarelle. A Carano c’era gente che girava col fucile in mano. E c’erano dei morti, accanto a quelli lasciati dalla malaria, la guerra e la fondazione della città, capaci di apparire impressi nella foschia di notti intense. Ripetevo il quesito, se mi si manifestassero lì perché era proprio in quel campo, un camposanto, che erano scomparsi, annegati.
Alla mia sinistra i soldati, i coloni fondatori, sono quasi spariti. Rimane qualche foto storica patinata di grigi e marroni in locali vari nei pressi della piazza, mille braccia contadine tese a Mussolini, medaglie sui petti di famiglie prolifiche, fascioni di fieno adiacenti a buche salmastre d’acqua putrida e bufale. Qualche monumento qua e là, tutti distanti. E gli spettri se ne vanno. Si affievoliscono anche le proiezioni centrali, di quei corpi che nel presente, movimenti oscuri di questo esatto momento, vengono scaricati sotto la sporcizia del contado lontano dagli occhi. Si intensificano le ultime forme, quelle della terza nube sul lato destro.
Le pendici vorticanti da cui sorge la nube finale strisciano a partire dalla recinzione molle e strappata, dove sta addossata una struttura fatiscente d’assi pietrose e scaffali di legno marcio. Un vecchio pollaio, o porcile forse, un nido ora di polvere e incalcolabili granelli neri, uova di esseri brulicanti. Ragnatele, ronzii, rovi. La sommità del nebbione s’incurva in gobbe, le figure che occupano il banco sono alte. Ho un brivido: queste non sono umane. Incutono un timore diverso da quello che proviene dai morti alla loro sinistra, spoglio di malinconia agrodolce, spoglio di cose familiari e di nostalgie. Un gelo, nell’aria, si affila e mi scalfisce, richiamandomi a metà, dove persiste un po’ di tatto. Ricordo che sono in un luogo che è parzialmente fisico. C’è un rintocco costante di un animale di pelo e vibrisse che è là fuori da qualche parte, ci sono galli che cominciano a cantare in lontananza. Ritornerò in quel mondo, dopo averle viste. Ma le ho già viste, e quel freddo fulmineo è stato molto spiacevole, alieno.
Le essenze aeree di enormi corpi deformi dai lembi lunghi e sottilissimi, strascicati dietro ad addomi pulsanti e pungiglioni con vitrei occhi reticolati, corrispondono a esseri di precedenti incubi. Cantano anche da dentro la nebbia la canzone senza fine della palude, il ronzio affamato di sangue e umidità, l’unica nube che non si estingueva mai dalla preistoria fino alla bonifica. Mostri o zanzare, sono troppo grandi, troppo incombenti, visti di fianco a quelle piccole anime di umani dispersi e dimenticati. Mando una voce.
-vi vedevo già in un’altra visione. Qual è il suo senso? Perché il futuro ha il vostro aspetto?
Sembra che la nebbia rida. Altri brividi, torno sempre più cosciente dei pori agitati della mia pelle sotto i vestiti invernali. Mi cedo a un timore fisico, per l’incolumità del corpo e di spossatezza post incubo, così da essere meno vulnerabile allo smarrimento in paure meno solide e senza via di uscita. Così tremo.
-sai interrogare le tue visioni?-, ridono anche loro come i morti di prima. La lingua della loro specie giunge marcescente e tossica alle orecchie della mia. Si sente il primo odore della notte: misto di sangue secco tra fauci scoperte e alghe sul fondo d’un vaso stagnante. Volpe e galli là fuori. Cerco calma: ci saranno altri odori… terra umida.
-allora, a te che cerchi il significato di vaghe immagini, dirò soltanto questo: l’unica certezza di un mondo che ci sarà dopo questo è il nostro ritorno. Nel mondo da cui vennero gli spiriti della prima nube, nel tempo dei loro corpi vivi, furono prosciugate le nostre cove. Fu tolto il fango a manciate dalla terra più superficiale: non lo si può rimuovere dall’aria! Questa sempre richiamerà le sue figlie. E non lo si può rimuovere dal sottosuolo, il suo abisso, la sua sovranità: il luogo che tu chiami Aprilia è schiacciato tra il sopra e il sotto. Il Fango chiama, romba, trema.
Detto questo, scompare l’ultima nube. Pochi banchi di nebbia sono ancora visibili, piccoli, sperduti e separati, incoerenti. Si indeboliscono insieme all’umidità e il lento ritorno della luce.
..
Sto ancora in piedi, non mi sono mosso affatto, e adesso quadranti e schermi dentro la casa segneranno il numero che diventa sei. Rintocca, rintocca, il guaito della volpe. Poi sparisce. Cambiano la luce e cambiano le voci che si odono intorno al mondo, e io osservo e mi nutro.
..
Rientro ma non presto attenzione alle persone. Dovrei scusarmi con chi tenta di parlarmi. La nube tornerà a criticarmi più tardi ma non importa. Penso e ricordo, respiro come la terra. Anche al capodanno precedente era apparsa una volpe. In un casale lungo la Pontina, tra fieno e puzzo di fabbriche chimiche. Chiacchiere d’odio immaturo, non più adolescenti, irrorarono la mattinata del 2017. Dalla finestrella spalancata il quadro della volpe che si intrufolava longilinea e rinsecchita, sottile a serpe con le zampe corte, nel giallastro degli steli più alti. Il pelo fulvo e rossiccio si anneriva lungo la coda poco folta, era il colore in forma animale d’un campo secco chiazzato qua e là di bruciature odor carbone. Era il campo, era il suo spirito guardiano. Sparì dall’altra parte di una misera collinetta cilindrica, altura annaspante nel terreno apriliano, sotto il sole lampante della mattina, e sparì per sempre, lontana, agli occhi di noi in piedi in riga davanti alla finestra. Cercava qualcosa rasoterra, avrebbe continuato a cercarla nell’ombra di un boschetto, nella tana nascosta chissà dove, o nel nulla, fino ai confini della nonesistenza.
E anche quello di cui sentivo il richiamo è uno spirito di campo. Spirito di solo suono: dov’è, come può esser fatto? Un concentrato d’onde e vibrazioni, sottolineatura del percepibile troppo irruento, oppure una nebbia come quella sul campo. Una volpe di nebbia. Cosa sono queste volpi che appaiono, mi seguono, al limitare degli anni, negli spazi vuoti? Attendono nascoste, escono fuori, svolgono un compito? Poi scompaiono quando è finita. Anche il richiamo della volpe sparì con l’ultima tenebra, sostituita da un lucore violaceo negli angoli più tardivi del cielo tra le fronde dell’orizzonte. Livido in fondo, s’apriva un cobalto d’una scurezza sempre più flebile al di sopra delle sommità di alberi e comignoli, s’irradiava sopra le teste, pochi ma presenti raggi obliqui si vedevano solidi come colonne nei punti più alti, prendevano il sopravvento. Quando i richiami degli uccelli si fanno marea, sottofondo amalgamato all’essere come il rumore incessante ma nullo del sangue che scorre nelle vene, si può dire che è giunto il silenzio. Silenzio vitreo alla vigilia del sole, regnante il freddo. Perché appaiono le volpi? Il senso, ecco! Si fanno vedere o sentire per qualcosa di importante, lo sento. “Noi ci siamo”. C’è una forma, immaginaria forse, che può esistere negli angoli tenuti nascosti, nei punti ciechi del vivere, che compie un movimento forsennato, che sembra senza ragione eppure mai si arresta, che può comparire solo perché certamente scomparirà; e in un altro inaspettato, o aspettatissimo e già vissuto momento, balzerà di nuovo fuori dal vuoto, per poi rituffarcisi, e così nel ciclo del tempo, sempre ripetuto, ogni notte che muta in giorno, ogni secondo, ogni capodanno.
E poi il crescendo dei battiti i respiri della notte, e il silenzio, orchestrato dalla campagna per me che posso ascoltarlo. È sublime, sto meglio, sto bene. In equilibrio, all’inferno o altrove.
Ci fu vaga e fuggevole presenza di volpi anche in prossimità di capodanni successivi. Ci furono incanti, d’una palude, d’un ecosistema che risponde all’occhio osservante producendo teofanie solitamente rese flebili dall’esoscheletro della città, innescando forme o nubi d’incubo e sogno. Nubi di gente vera, o solo la paura della stessa, o di ciò che è già scritto nel terreno. Nei corpi che contiene, nel tempo che c’è già stato, uguale a quello che vediamo.
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