Gli Appunti Del Fango- quattro bestie guardiane (pt.2)
- Milky
- 18 mag 2020
- Tempo di lettura: 19 min
Aggiornamento: 29 mag 2020
(segue alla parte precedente)
LE QUATTRO BESTIE- si manifestano al viaggiatore che frequentemente percorre avanti e indietro, più volte indefinitamente, le vie che risultano collegate all’estremo sul quale sorge il liceo Meucci. Questo è altro luogo nei cui pressi si trova una prolifica vita spirituale, demoniaca, e in generale di creature particolari o individui degni di interesse per gli scopi degli Appunti. È di certo una struttura -o sarebbe meglio dire un insieme di strutture- che custodisce al suo interno un peculiare magnetismo, che forse addirittura agisce e pensa come un’ambizione sola; ciò non toglie che molta di suddetta vita che fiorisce o sibila nei dintorni, per quanto influenzata da questa presenza, ne sia in molti casi fondamentalmente indipendente: non tutto ciò che è misterioso e che si muove nei pressi dei numerosi nuclei di mistero che puntellano la nostra geografia, si è necessariamente generato da essi (ciò detto, un luogo come può essere il liceo non manca mai di spiccare come un monte, facendo sfoggio di tutta la sua inafferrabile e superba carica energetica, in qualità di elemento portante degli sfondi nei quali agiscono questi altri esseri. Un’imprescindibile presenza nel paesaggio, forse almeno in parte scollegata rispetto alle cose che si muovono al di sotto, ma non certo inutile o invisibile; e ci tiene a rammentarlo).
Si incontrano lungo queste vie, ma non si può dire che si trovino nelle immediate vicinanze. Cionondimeno gli studenti e tutti quelli che percorrono quegli stessi passi sono proni a camminate anche più lunghe, ed è anche per questo che incrociarli non era affatto insolito. Eravamo tutti dei viaggiatori a modo nostro, ogni tragitto un’avventura. E non c’è avventura senza che qualcosa si presenti sulla via, qualcosa che magari presiede a un ben determinato territorio.
In ordine di vicinanza rispetto alle scuole, elenco gli animali in questione. Al Nord Jerome, conosciuto come “Il Valoroso”, un insetto alato di difficile identificazione; poi nell’Est Il Signore Delle Salsicce, un cane bastardo di piccola taglia; a Ovest Il Gatto Che Capta, o anche “Colui Che Capta”, un rachitico soriano; e infine, a sorvolare un anello che ha come capi le postazioni degli ultimi due, e oltre i palazzi della via verso i suoi cornicioni arroccati del Sud, Il Maresciallo, un massiccio gabbiano reale. Rispetto agli altri, i cui tragitti si sovrappongono frequentemente, il primo rimane piuttosto discosto, ed è improbabile che si siano mai visti. Non dubito però che si conoscano, che posseggano una certa notorietà. Non nego che la relazione che traccio tra i quattro sia qualcosa che ha a che fare con l’esperienza mia e di altri che li hanno incontrati nel medesimo percorso, rimanendone colpiti, ma oltre a questo, di sicuro se ne potrebbe discutere anche in altri termini, insomma, potrebbero esserci molte “spiegazioni”. Ne avrei in mente diverse, ma per il momento preferisco non parlarne. Forse sono necessarie altre esperienze prima che una di queste possa rivelarsi con la chiarezza adeguata a una leggenda. E intanto gli esseri continuano il loro corso.
JEROME IL VALOROSO -lo si osserva appena fuori dalla rotatoria all’inizio di Via Carroceto, al centro della strada cui si accede dall’uscita che si dirige al liceo. Mi capitò per la prima volta in una mattina primaverile, ed è quella l’ora in cui è più comune che si manifesti, specialmente se nel corso della notte precedente c’è stato un temporale. Benché soleggiata, la neonata ora del giorno diffondeva un freddo pungente e statico, l’aria che si avverte galleggiare al di sopra delle tane sparse sulle alture che incamerano i venti tra i propri cunicoli. Jerome non disdegna le basse temperature (sebbene quel giorno i raggi del sole cadessero decisi inclinandosi contro l’asfalto, completamente investito nel mezzo della loro luce). Si dice che sia capace di recuperare o immagazzinare energia attraverso il contatto con l’umidità, motivo per il quale si reca allo stesso luogo anche dopo il crepuscolo -ma è una zona in cui è difficile che passino molti esseri umani quando fa buio. Prima e dopo l’insorgere dei temporali egli basa la sua esistenza, concetto questo che assume la connotazione di una totale, strenua, incessante lotta. Assistervi, per un essere come me che queste cose può solo osservarle senza mai avvicinarsi al vero cuore battagliero, è stato fonte di una forte emozione. Ero con M.P. detto T., un umano mio amico, con cui spesso condividevo lo stesso tragitto, dove anche egli entrava in contatto con i misteri tesi dalla via, dotato com’è di una sensibilità che può fargli notare molte di queste cose -probabilmente grazie a certe intense e in parte recondite connessioni che si notano tra la sua persona e, per dirne solo alcune, l’elemento dell’aria, gli extraterrestri, ma soprattutto molte specie di uccelli di alto acume. Vagamente depressi come eravamo spesso in quei giorni, cercavamo un segno. E dal marciapiede che costituiva punto di ritrovo mattiniero per molti, riconoscevamo tacendo che era probabilmente un segno di “rivalsa” di cui avevamo bisogno. In breve venne identificato nell’insetto che arrancava lacerandosi il molle addome contro la ruvidità dell’asfalto, resiliente, intento a chissà cosa; appariva ormai allo stremo delle forze, e al tempo stesso riusciva a trasmettere che finché gli fosse rimasta anche la più insignificante quantità di energia, l’avrebbe usata come ne fosse stato pieno. Molti altri insetti amanti della pioggia soffrivano lì per terra, a causa del passaggio delle macchine o per il trauma che gli esseri più fragili incontrano quando sono strappati dal proprio elemento, posti in un ambiente dalle cui regole possono soltanto essere devastati, senza possibilità di apprenderle. Temperature sconosciute, abbagli e secchezza, corpi massicci di conformazione ostile e contusioni mai prima esistite, facevano sì che si disperdessero contorcenti come lisce fiammelle scure e lucide, zampe all’aria guizzanti senza speranza nell’inferno. Per la maggior parte si trattava di formiche alate. Jerome assomiglia a queste, ma è diverso e si nota subito che non può appartenere alla stessa specie. Ricorda certamente le stesse formiche, in un certo modo in cui il corpo appare nettamente diviso nelle sue parti, e nella prodezza delle affilate ali trasparenti; eppure qualcosa nella forma lo rende simile a un altro insetto, di cui non conosco il nome, anch’esso nero e alato, anch’esso con l’abitudine di diffondersi all’esterno frescamente toccato dalle precipitazioni. Più lungo delle formiche, ma di aspetto più tozzo, il corpo come una singola tessera e la testa schiacciata, le antenne che spiccano. In Jerome si incontrano queste due nature. E mentre gli altri soccombevano inermi, Il Valoroso avanzava, privato di una zampa, cosparso di ferite che stillavano linfa ora verdastra, presto trasparente, presto vapore odoroso d’ortica, presto nulla. Subito capimmo che Jerome si batteva contro le automobili in corsa. Si precipitava opponendosi agli pneumatici folli nel roteare, oppure attendeva che lo intercettassero, e resisteva, e resistendo sperava di infliggere a sua volta un colpo contro le superfici che si dimostravano incapaci di sottometterlo. Incredibilmente, si rialzava dopo che due ruote dello stesso lato di una macchina lo avevano completamente attraversato, e di nuovo arrancava, incontro alla nuova avversaria che la rotatoria non tardava mai a rigurgitare, senza sosta nei pochi ma densi minuti che incanalavano la gente verso l’ingresso della giornata. Sprezzante, con più sdegno quasi dei vigili che alle stesse macchine volevano rimproverare una velocità ingiustificata in quel punto del traffico, ma Jerome quella velocità la odiava non certo per amor della legge, e chissà per quale motivo. Così moltissime domande si generavano nelle nostre menti mentre con zelo da tifosi non staccavamo gli occhi da Jerome, ansiosi di seguire i rivoli della sua drammatica vicenda, della sua mitologia: “perché lo fa? Vuole verificare di cosa è capace, vuole mettere alla prova se stesso? Spera un giorno di diventare così duro e forzuto da poter distruggere le auto, verso le quali prova forse sentimenti di vendetta? Segue un ideale che lo spinge a comportarsi così? È il brivido del combattimento? O è semplicemente matto?”, e insomma, tante altre domande così che si possono immaginare. E delle parti di noi, testimoni sbigottiti, cominciavano ad accogliere timidamente l’idea che nulla di tutto quello che credevamo ci affliggesse fosse, inerentemente e di per sé, pericoloso o spaventoso o irrimediabile; che era solo il modo in cui volevamo che le forze avverse ci trattassero, a elevare la loro capacità annichilente al roboante fragore di un’automobile che tutto schiaccia sul suo percorso; e invece Jerome decideva forse di non vedere le automobili, le avversità come tali, e di resistervi, tutto perché doveva avere qualche motivo (insomma, a vedere quella scena era normale pensarlo: deve avere per forza un motivo, altrimenti come si può solo pensare, come?...). E noi volevamo che vincesse, questo motivo, qualunque fosse, “avanti, piccoletto, mostraci all’alba di questo giorno che qualcuno ce la fa a vincere in questa vita!”, e credevamo di vedere le macchine esplodere da un momento all’altro. Finché non venne un fuoristrada che lo schiacciò al suolo. Era inerme, giaceva, apparentemente annullati i suoi incredibili sforzi, reso identico a tutti gli altri insetti che quegli sforzi non li avrebbero mai compiuti, tutti distrutti come ricordi sul ciglio di un baratro senza fondo. Un patetico “nooooo” esalava dai polmoni miei e di M.P. detto T., un diniego non deluso, bensì rammaricato e reso buffo da una strana autoironia, come se fossimo stati sciocchi ad aver voluto vedere un dispiegarsi del destino in quell’epica dal finale amaro, come a ridere di noi stessi nell’aver osato troppo con la speranza di un finale diverso. Con questa amarezza ci incamminammo verso scuola, ma dentro di noi eravamo grati per ciò a cui avevamo assistito, e sapevamo che l’avremmo raccontato a tutti quelli che erano in grado di comprendere, rendendo immortale la memoria di Jerome. In una parte di noi, forse la stessa che in futuro avrebbe tratto una lezione da questo, capivamo inconsapevolmente che Jerome non era necessariamente morto. E in seguito lo capimmo anche in altre maniere, quando riapparve lì presente, più e più volte, in mattinate simili, sotto il sole o sotto le nuvole, gonfio dell’acqua piovana che gli irrorava il corpo di indomabile volontà. Jerome Il Valoroso ricomincia ogni volta la sua impresa, e ogni volta non ha memoria della sua impresa precedente, non ha memoria di aver vissuto; ma ha memoria di tante altre cose -il sole, la luna, il suolo, gli esseri- e soprattutto deve possedere un’inscalfibile memoria interna della propria missione, l’organo che lo mette in moto. Perciò non sembra esatto nemmeno affermare che egli resuscita… in qualche modo, “muore ogni volta”. Eppure, oltre a questo, innegabilmente “vive ogni volta”, spuntando da chissà dove, il suo precedente cadavere scomparso nel nulla assieme a tutta la carneficina. Forse nell’annullamento di questa contraddizione sta la bellezza del messaggio di Jerome. Non importa perché lo faccia, importa che un perché ci sia, e che quale che sia il contenuto, può farlo. Alcuni hanno notato come l’impatto di Jerome, frapposto tra le ruote in corsa e la strada, abbia l’effetto dilungato nel tempo di deviare il corso e lenire la portata di alcune vibrazioni che dalle macchine si propagano attraverso il sottosuolo, stravolgendo delicati equilibri. Ritengo che questa sia soltanto una conseguenza, un meccanismo che per quanto necessario rimane tuttavia estraneo a Jerome, il quale probabilmente ne è consapevole senza interessarsene. Che ciò avvenga o meno, per lui fa poca differenza. La lotta di Jerome contro i veicoli sfreccianti è sua, sua soltanto, personalissima, e non cesserà. E un’altra leggenda circola, per portare questa verità alle sue estreme conseguenze: si dice che la rotonda sorga su un flusso energetico che esiste dalla notte dei tempi, antico quanto tutta la terra della nostra città; e che da esso in un tempo precedente alla civiltà si elevasse una strana collina, una tana in effetti, un castello; e che per procedere oltre esso il passante dovesse affidarsi al giudizio invisibile di un funzionario lì incarnato, forse il dio dell’altura stessa, che concedeva pedaggi soltanto in chi ravvisava certe doti spirituali, o sufficienti abilità per affrontare bestie e spettri attanaglianti i successivi tratti di palude e fitto di boschi acquitrinosi, distendentisi verso gli irraggiungibili monti dell’orizzonte; dicono appunto che in Jerome vi sia un’incarnazione di questo spirito comparsa in tempi relativamente recenti. Ma se Jerome e questo emissario corrispondono alla stessa cosa, egli certamente non lo sa -conosce solo il suo sforzo.
IL SIGNORE DELLE SALSICCE- la via che prosegue oltre il semaforo del grattacheccaro è lunga, punto in cui molte delle strade dei corpi in esodo si separano. Tra le varie possibilità, ce n’era una che si presentava come più o meno frequentata a seconda dei giorni. E penso che dovessero esserci alcuni agenti a regolare la scarsità di flusso in quelle occasioni in cui l’assenza, nettamente sentita, di movimenti umani, spargeva un’atmosfera colma di tensioni inafferrabili. Talvolta io e M.P. detto T. percorrevamo la via dove dimorano il cane e il gatto di cui parlerò, io per accompagnare lui, in cambio delle volte che lui accompagnava me lungo una parallela di poco precedente. Ci si accorge a volte della sua subitanea apparenza, come si materializzasse dal nulla, proseguendo in maniera da costeggiare il giardino noto come “La Pinetina”, nella sua parte orientale. Si rivela correndo fuori dai margini di ciò che è catturato dalla coda dell’occhio, una corsa che sembra un volo in discesa su gradini di nuvole, e abbaia all’improvviso, non esplicitando mai da quale anfratto sia uscito, come se aleggiasse già in un punto cieco della coscienza. Ma una volta incontrato, il suo comportamento irruento fuga ogni sospetto di appartenenza alle tribù degli spettri, erroneamente immaginabile a partire dal modo in cui appare dal nulla (invece il modo più certo per riconoscere i poteri spettrali sta nel modo in cui essi comunicano, mai netto e fisico come quello di questo cane); oppure, se l’aria è densa di bagliori strani che con facilità accentuata di sortilegi distanziano la mente da ciò che la circonda, lo si vede apparire come un miraggio nella lontananza, man mano che avanzando le cose si fanno più nette, e in genere in questi casi ha usurpato il posto del gatto che preferisce la parte occidentale della Pinetina. Il Signore Delle Salsicce è il più frenetico dei quattro guardiani, e nei suoi spostamenti sono sempre ravvisabili le tracce del caos. Non sembra voler far questo per ristabilirlo a discapito dell’ordine che l’ha sostituito, né si comporta come una divinità ingannatrice. Sembra piuttosto comportarsi nella maniera che più lo diverte, cosa che a quanto pare comporta spesso delle azioni le cui conseguenze producono un clangore fragoroso, cancellando ogni idea di inerzia. Un cane di piccola taglia, dal pelo irsuto e a tratti sparpagliato, strappato in poche e piccole macchie dovute a una probabile malattia genetica della pelle o forse a cicatrici che si è procurato da solo per non fermarsi mai a considerare i rischi delle imprese che intraprende. La livrea calda, di sfumature che vanno tra il giallo-beige e l’arancio, ricopre interamente una corporatura grassa, a forma di barile. Nella corsa è buffo per il modo in cui le zampe tozze sbucano dal torso eccessivamente tondeggiante e lo spingono goffamente verso l’alto, dando allo scatto un movimento galleggiante o saltellante. Nonostante questo è sorprendentemente veloce e non avverte stanchezza, cosa che rende gli improvvisi balzi e inseguimenti contro oggetti mobili intorno a lui una delle sue attività preferite. Non l’ho mai visto assalire gli umani, nei confronti dei quali sembra a volte nutrire l’interesse di un circense che apprezza lo sguardo del pubblico. I suoi latrati sono squillanti e dall’eco potente, sempre lanciati in moltitudine e sequenza, e spandono una sensazione di elettricità. Come tuoni alzati di pitch, o saette lanciate dalla gola. Se questo non bastasse a intimidire chi occupa il suo territorio, sarebbe sufficiente la prospettiva di affrontare l’impatto devastante causato dalla sua carica, che trasferisce sul bersaglio tutto il peso contenuto nel corpo pingue e addensato di energie eccessive. Spadroneggia così su Via Degli Oleandri, mettendo in fuga gli uccelli, spaccando a testate gli arbusti agitati dal vento, divorando come una cellula le cose più svariate (morte o vive) che voglia in un dato momento, e sfidando i cani più grossi che la gente porta a passeggiare nella Pinetina, allontanandoli in pochi decisi e soddisfatti gesti quando questi, lasciati senza guinzaglio a scorrazzare tra i cespugli e gli aghi caduti, trascinano il loro olfatto sulle zone impregnate dal suo odore acceso, uno strano miscuglio pungente di alga o fungo, di escrementi e di affumicatura. Non tollera Il Gatto Che Capta e se, nello stesso momento in cui sta pattugliando il suo personale “campo da giochi”, gli capita di vederlo intento alla sua attività solitaria dalla parte opposta rispetto a quella in cui sembra sempre apparire, non perde tempo e si lancia abbaiando. Il Gatto, i cui poteri risiedono in ben altre cose che la forza bruta, e poiché non ha intenzione di immischiarsi in conflitti, un po’ rancoroso non ha altra scelta che quella di interrompersi e andarsi a nascondere chissà dove, in attesa di un momento per captare indisturbato. Così lo vedemmo la prima volta, colpiti e divertiti dalla sua energia che pareva spensierata e ridicolmente senza controllo alcuno, un’ode alla caciara. Il Gatto invece lo conoscevamo già, e quella fu la volta in cui apprendemmo che era capace di scomporsi. Il che mi porta a parlare di lui.
COLUI CHE CAPTA- poco distante dai balconi bassi delle case popolari in fila, muraglia tra la Pinetina e l’apertura in cui si incontrano strada e spiazzo, si va a posizionare questo animale abitudinario, pare sempre nello stesso punto ben preciso in cui si direbbe che la sua ombra, per effetto del prolungato contatto con le piastre di cemento, vi sia scivolata al di sotto e si sia lì stanziata, a svolgere chissà quali compiti di oscurità e sottosuolo, in attesa della prossima volta in cui per un certo tempo si ricongiungerà al padrone che lì ritorna così di frequente. Come accennato, a interromperne la precisione sono soltanto eventi improvvisi come le incursioni del Signore Delle Salsicce, anarchiche e sempre imprevedibili. Ma per il resto Il Gatto Che Capta è un animale dotato di eccessiva e innaturale percezione di un concetto simile a quello di “tempo”. In ciò risiede sì la sua fragilità, separato dalla gran parte degli altri animali alle quali azioni spesso non sa come rispondere, ma dalla stessa difficoltà che ne deriva egli ricava un continuo affinamento delle sue capacità nascoste. Se ne sta anche per ore, fermo su quelle mattonelle con la schiena diritta e le zampe composte, senza far altro che disporre i suoi organi di senso a una ricezione ossessiva, agitatissima (benché composta all’apparenza) nella frenesia di una maniacale volontà di controllare e immagazzinare astruse implicazioni. Sgusciò muovendosi snello e grigio cenere dal lato destro del mio passeggiare, deambulando in un ossimoro di sveltezza felina e continentale lentezza che è inutile tentare di trasmettere a chi non l’ha visto (a meno di ritrovarsi la testa riempita di una ingannevole foresta di incastri mal combacianti dove è facilissimo perdersi come ubriachi nel fitto surreale, buio e ribollente di instabili estasi). Si guardò intorno brevemente, ruotando circospetto la testa, e si erse come il pilastro zoomorfo di un portale rituale a svolgere il suo lavoro. Del primo incontro, così simile a tutti gli altri (oppure lo trovavo già sul posto) ricordo l’impressione suscitatami dagli occhi: oltre la membrana umida, tutt’intorno alla sottilissima pupilla verticale, si apriva un profondo cosmo verde, pieno di cose invisibili e spaventose, e di altre enormi e sublimi. E ricordo le grandi orecchie, inclinate e aperte come diagonali voraci puntate in direzioni opposte, così vistose da risaltare ulteriormente la magrezza della testa e tutto il resto. Sotto i bassi balconi e lungo le pareti si trovano talvolta scie di striscioline di tonno oleoso, vagamente imputridito, mangiucchiato qua e là dai gatti che frequentano i cespugli vicini, oppure di altre mezze cibarie lì lasciate dagli abitanti del caseggiato, che bonariamente e tacitamente si accordano a considerare quei randagi un po’ come “propri”. Sembra però che Colui Che Capta non si unisca a questi pasti, né la notte tende agguati alla piccola vita ondeggiante sotto i lampioni che perennemente ingialliscono le intricate chiome dei pini; nessuno lo ha mai visto mangiare. È sufficiente poca esperienza di queste cose però per comprendere come l’attività statica del gatto richieda in realtà un enorme dispendio di energie, che taluni sostengono si procuri esattamente nello stesso momento: secondo tale teoria, è proprio dietro quegli occhi e quelle orecchie, nell’incrociarsi delle immense complessità al di là del suo naso e tra i pensieri che formicolano oltre le pareti del cranio, che si consumano le più intense battaglie, fondamentali alla sua sussistenza. E nel frattempo capta, immagazzina, esamina, quanto più possibile. Le chiacchiere degli umani, l’umidità traballante, i conflitti e le tranquillità del mondo, le catastrofi e le cattive intenzioni a tutto invisibili eccetto lui, le particelle deposte su piume di piccione svolazzanti e batuffoli di polvere. Vidi il riflesso di tutto questo addensarsi e agitarsi come acqua in subbuglio nei chiaroscuri di quei bulbi oculari, conferendo al suo sguardo un’ombra talvolta capace di intimidire in modi inspiegabili. Questo non sortisce alcun senso di allerta soltanto in chi, come il cane suo “rivale” autodichiarato, non ha alcuna voglia di soffermarsi sul peso che certe cose possono avere, preferendo rispondere con una carica sregolata quando pare e piace. Ma sebbene nel quotidiano non si avvertano assennati motivi di temere Colui Che Capta -che, se non del tutto indifferente, nei confronti di un umano che si avvicina è più timoroso che altro-, ritengo estremamente incauto sottovalutare l’enormità dei suoi misteriosi poteri in vista di uno di quei momenti in cui accadrà che “ciò che di strano sta accadendo ad Aprilia” si presenti a noi sotto una forma cui nessuno era preparato. È impossibile dire se a quel punto il gatto interverrà per difendere, per attaccare, o forse per continuare a assimilare nello stesso modo di sempre: ma ciò di cui sarà capace sarà straordinario. Si è caricato il peso di concepire il tempo, che interpone troppe e strane cose in mezzo alla nascita e alla morte: ne esce debole ma lungo quest’asse che egli esperisce come uno dei sensi, dispone ciò che gli altri sensi hanno catturato, per tessere nel suo teschio una storia, una teleologia in perenne cambiamento e disordine, mentre il suo corpo grigio e tigrato agisce nel mondo come una meridiana; alle ore stabilite prende posto come una torre che spicca verso il cielo, e sotto i cuscinetti impuntati ondeggia l’ombra nella sua tana, fredda cripta a un filo dalla superficie, o caldo sarcofago investito dal sole che così spesso si abbatte con violenza sugli spazi ampi di Via Degli Oleandri.
IL MARESCIALLO- come per molti altri volatori, non lo si osserva indugiare in uno stesso posto senza rialzarsi per una o più giornate; si stabilisce in certi punti soltanto per appollaiarsi e come una polena celeste dominare l’area per il tempo che ritiene necessario, anche un tempo lungo, ma sempre si rialza in volo a percorrere manciate di città in pochi secondi, occhiando il suolo con giudizio e fermezza. Eppure, sempre perché ipotizzabile per i volatori, necessariamente deve aver costruito da qualche parte un nido dove ritirarsi nelle ore notturne, il quale però rimane inaccessibile e di incerta collocazione per chi non può raggiungere le altezze dove operano regole e gerarchie sconosciute ai terricoli, dove spirano venti carichi di una strana maestà piumata. Credo che il luogo del riparo del Maresciallo si trovi da qualche parte tra i tetti più alti di Via Marconi, nelle elevate soffitte semiaperte in cui non salgono gli addetti alle pulizie dei condomini. Ambienti bui, saturi di piumaggio vecchio e guano, asfissia e gelidi spiragli intrappolati dietro rimbombanti porte sbarrate che non verranno mai aperte e davanti alle quali i bambini a zonzo per le scale si fermeranno e fantasticheranno: solo qui osano costruire gli uccelli grossi e aristocratici, dove non li si potrà mai scovare vulnerabili con le zampe poggiate e con un ostacolo sopra la testa. E, dall’esterno, i cornicioni (forse quelli rossi sanguigni riparati ai lati in una conca di palazzine, o quelli grigi a inizio della via?) proteggono la vista di queste dimore che rifuggono l’immaginazione degli esseri senza ali. Ciò che Il Maresciallo mostra, ma questo è comune alla sua stirpe, è lo splendore d’efficienza e maestosità del corpo che si muove agiatamente, sicuro nel proprio elemento; apertura alare magnifica, membrana palmata sfoggiata a penzolare in fondo alle zampe di un giallo brillante perfetta salute, petto gonfio sempre all’infuori come a cozzare e perforare il paesaggio sottostante, mentre all’interno distillano schiamazzi assordanti e prepotenti. Colpisce la muscolatura di questo gabbiano: quando lo vedemmo spuntare per la prima volta dal contorno dei tetti lontani, io e M.P. T. non potemmo trattenere un’esclamazione colpita. Doveva essere il gabbiano più grosso di tutta Aprilia, un titolo di gran prestigio. E viveva proprio lì, di modo che potesse manifestarsi, fradicio di raggi solari accecanti come un dio vanitoso, sopra la via che percorrevamo tornando da scuola, il più lontano dalla stessa e il più massiccio. E intanto in altre zone dell’area pontina altri gabbiani, sì imponenti e superbi come tutti gli appartenenti alla specie ma certo più piccoli del Maresciallo, governano forse piccole legioni, spadroneggiano su certi stuoli di frequentatori di discariche, di predoni da piazza o parco, atteggiandosi a comandanti, questi uccelli di forza rispettabile ma senza nulla di “speciale”. Il Maresciallo non è un capo militare, non è un bullo, non un “capetto” della strada e della gang; egli potrebbe richiedere, se lo desiderasse, un qualsiasi ordine ai suoi “sottoposti” -vale a dire tutti quelli che è possibile censire nel suo territorio di preferenza (dall’ipotetico nido fino in fondo a Via Traiano, verso De Gasperi)- ma non perché abbia mai dichiarato potestà o rivendicato questo diritto e potere: semplicemente questa ubbidienza verrebbe percepita come naturalmente conferita da quegli intimoriti che gliela tributassero. Ispira rispetto, o di stargli alla larga. Non ha cattive intenzioni, e non è presagio di sventura, ma per qualche motivo la creatura che si muove a terra preferirebbe non trovarsi a camminare in corrispondenza della sua traiettoria sopraelevata, preferirebbe fuggire la sovrapposizione con le sue orme invisibili -come ci fosse un brivido, una suggestione che, per quanto priva di principi negativi, è da evitarsi (un gelo fulmineo come di magico denudamento , come a sentirsi in un baleno esporsi all’aria tutti i propri difetti e incapacità, simili a un addome molle e ridicolo). Quando abbassa il volo di quota o va ad appollaiarsi su una superficie molto vicina alla strada, sembra di avvertire nell’aria il propagarsi di vibrazioni diffuse da tanti insignificanti esseri che fuggono come orde di blatte sparpagliate a ventaglio, lontano dal perno costituito dal becco marcato che protrude solenne sul cammino. Il Maresciallo non gode nel vedere questi effetti, semplicemente li riconosce, senza domandarsi se abbiano senso, e verifica tra sé che tutto rientri in un ordine naturale definito secondo parametri sconosciuti ad altri. Pattuglia, dunque, esegue un compito di polizia, raramente intervenendo per il timore che tutti hanno di lui, un’ansietà che non scomparirà mai perché mai sapranno quante e quali azioni, fatte in che modo, costituiranno uno sgarro. Obbediscono a una legge che non conoscono, irradiata da un tutore che non la esprime e non la conosce in quanto legge (forse come banale esistenza?). E sbalordiscono quando Il Signore Delle Salsicce non reprime le sue volontà distruttrici se capita che il Maresciallo stia sorvolando l’area in quel momento, o di come quest’ultimo non consideri tali comportamenti degni di intervento; o sbalordiscono di come Colui Che Capta non mandi un tremito di vibrisse nel percepire il suo passaggio, recependolo come un insieme di dati equivalenti agli altri. È vero che il cane potrebbe anche ingaggiare una lotta non del tutto senza speranza se nascesse tra i due un disaccordo, ma difatti questa idea non passa neanche lontanamente nel cervello di nessuno dei due. Chissà, magari agli occhi del razionale gabbiano anche la turbolenza del cane ha un ruolo ben determinato, un caos che esiste per far funzionare chissà quale ordine; e il cane d’altra parte non sente minacciato il territorio che designa per sfogarsi, non vede l’uccello come un conquistatore e anzi, probabilmente se ne dimentica nei secondi successivi all’entrata del suo odore nelle narici iperattive. In fondo anche per Il Maresciallo è lo stesso: tra tutti i gabbiani, una specie territoriale e aggressiva, l’esemplare che meno di tutti ostenta tali tratti è anche quello che ne trarrebbe il maggior successo. E forse questa è la sua vittoria priva di politica, è l’inamovibilità di un ruolo stabile all’interno dei delicati equilibri della città che tuttavia non richiede di esser continuamente e strenuamente difeso attraverso i rischiosi mezzi del comando e la guerra. Un battito di quelle ali assurdamente nerborute basterebbe a cambiare molte cose, ma di queste si serve solo per scivolare sui venti e mantenere uno sconosciuto equilibrio, forse sconosciuto a lui stesso, come una macchina (non priva però dell’orgoglio degli uccelli). Alcuni umani identificano nell’eburneo piumaggio e la massa statuaria un buon auspicio, che porti fortuna nelle loro vite se lo incrociano recandosi da qualche parte. Sostengono che un po’ della sua forza e volontà vengano trasmessi a chi lo osserva nel momento giusto, particolarmente in giornate di sole. Lo associano anche a valori come il coraggio, la tenacia e la difesa degli ideali, ma quanto a questa cosa, c’è da ricordare che il modo di vederla degli umani trova poco spazio nelle vite dei quattro guardiani, dove le morali e l’etica hanno un peso tutto loro e ignoto, che all’osservatore sensibile risulta neutrale, vagamente minaccioso e affascinante al tempo stesso.
Per il momento sono queste le cose di cui mi è venuto da discutere riguardo ai quattro, per così dire, guardiani. Non sono affatto gli unici esseri notevoli che possiamo incontrare nella nostra città, ma poiché hanno avuto per la mia formazione di osservatore una grande importanza, e per il momento particolare in cui mi sono stati “di compagnia”, riservo sempre nei loro confronti quasi un particolare affetto, e sentirò sempre una strana nostalgia ogni qual volta mi ritroverò a parlarne ancora.

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