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dove c'era un paguro- capitolo 8

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 25 dic 2022
  • Tempo di lettura: 27 min

8


Dii si ricordò di una sera in cui aveva sentito bussare, o così gli era parso, sulla porta della capanna in cui dormiva da solo. Ma non sapeva perché ricordasse proprio quella scena.


In piedi, scrutava con una specie di equanime serenità riflessiva le distese di luce proiettate dalla luna. Delimitava con lo sguardo le zone già delimitate dall’orizzonte, i suoi confini ammantati di raggi. E presto il ritmo dei suoi passi sulla sabbia tornò a scandire il tempo.


Dii non riusciva mai a trovar strana una cosa per più di pochi istanti. Eppure, se si fosse trattato soltanto di prime impressioni, si sarebbe potuto dire che avesse una tendenza a giudicare strane molte cose. Era un fatto però che tendesse a dimenticarsene. Così non era strano che svegliandosi a notte fonda avesse cominciato a trovar strane diverse cose, tra cui la natura di quello stesso risveglio. Era strano essersi svegliato, lui che dormiva profondamente, o che al contrario rimaneva sveglio senza affannarsi. In che situazione si trovava? Non riusciva a ricordare, e non era più sicuro di come si fosse comportato nelle notti precedenti. Non avrebbe saputo dire quando fosse stata l’ultima in cui si era svegliato in quel modo, con lo stesso senso di vago mistero aleggiante nell’atmosfera, per poi uscire a bagnarsi di nettare lunare le braccia nude e il ventre un po’ gonfio lasciato cadente e a riposo come un uovo deposto fuori di lui. Nel suo volto c’era tutto questo, nelle sue mancanze, nelle sue valli aride di impassibile curiosità, come avesse al posto della testa una singola grufolante narice, un organo captante di cui si potevano immaginare soltanto occhi molto atrofizzati -non per questo però minacciosi o estranianti, anzi, con qualcosa di gentile nella loro semplicità tutta inscritta nel ruolo. Occhi vicini alla terra, da questa attratti.


Un volto del genere veniva osservato da qualcosa sugli alberi, su certi alberi più alti degli altri, probabilmente di quelli che in certe sere rituali venivano usati, lì ai margini tra villaggio e spiaggia, per tendere stoffe, stendardi, bandiere, da risaltarsi col fuoco delle torce. Qualcosa viveva su quei rami, con l’elusività di superstizioni di anime dei morti diventate arboricole e notturne.


Non un crepitio, non un calore traballante a segnalare una dimora o un senso d’appartenenza a qualcosa in quella notte. Poteva sembrare soltanto una notte scollegata da tutto, o al massimo, se fosse stata collegata a qualcosa, soltanto a una notte successiva a una festività isolana, i cui significati catartici cominciassero tuttavia a venir disintegrati, mentre per reazione tutto quanto nel mondo circostante potesse creare minimo dispiacere -il freddo di gocce di rugiada, i graffi dei passi di insetti, i movimenti bruschi di ombre sconosciute- finiva per venir enfatizzato come spettri sempre più gonfi, proprio per il contrasto dato dal nulla del dopo, dalla caducità servita in maniera totalitaria dalla notte intera.


Dii non si accorse affatto di cosa lo guardava dai rami.


Seguiva sulla spiaggia i passi, si chinava verso i granchi. Strano modo di camminare lateralmente. Si abituò presto a quella stranezza, dimenticandosela. Ma la registrò, la reintegrò tra ciò che lì doveva essere il suo archivio d’informazioni e doveva essere abitudine, e doveva essere perno per il costante processo di riscrittura di tutto il resto. Granchi e gamberi, piccoli molluschi, piccoli crostacei svelti che schizzano sparpagliandosi in caotiche direzioni all’avvicinarsi dei passi, tutti quanti si muovono come se qui la terra girasse in un’altra maniera. Le piante crescevano in maniera anomala. L’anomalia si cancellava presto. Il risveglio notturno infatti non provocava nessuno scompenso alla psiche di Dii, ai modi peculiari di condurre il proprio lavorio che per se stessa aveva selezionato. Attraverso un processo evolutivo indipendente dal suo portatore. Come lo sguardo di un esploratore di arcipelaghi e atolli del pensiero, che distendendosi su una spiaggia remota rimanga a osservare le conchiglie per indovinarne la storia, i nidi di tartaruga per indovinarne la volitività proiettata alla vita e alla morte, le venature delle foglie di vicini boschetti per indovinarne il respiro, i fruscii della schiuma per indovinarne i moti nascosti.


Per la seconda volta ricordò qualcosa senza sapere perché, qualcosa di distante. Una volta, nel tempo lontano prima di quest’ultima avventura (forse sentiva vagamente che c’era già in atto qualcosa di fatale), Hr gli aveva gridato contro, con molta violenza. Non era accaduto spesso, né che Hr lo facesse con lui -anche se lo faceva più o meno però con tutti- né che, in generale, qualcuno gli si rivolgesse in un modo del tutto privo di pazienza, privo di cortesia. Aveva indicato poi agli altri, sollevandolo con fare manesco, il braccio di Dii, così esposto a quello che Hr evidentemente riteneva dovesse essere il pubblico ludibrio come in un becero rovesciamento dell’annuncio di vittoria d’un campione. Guardatelo, guardatelo, l’evirato. Dii si era rifiutato -sebbene non secondo le modalità di un rifiuto proprio esplicito- di essere della compagnia composta da Hr e due affabili signorine, vestite di bianco e marrone scuro, dai grossi petti e la pelle cosparsa di varie malsane escrescenze, piccole grandi tenere ripugnanti -Dii i dettagli li registrava e ricordava e li sigillava in nicchie prive di ricamature superflue, e in questo consisteva il massimo del suo possibile amore in una notte d’amore, e in questo consisteva la sua idea d’amore che avrebbe potuto anche chiamare rispetto, senza affannarsi nel tentativo di comprendere che per qualcun altro potesse esserci una differenza anche profonda tra i due concetti. Ma mentre davanti e tutt’intorno a lui aveva percepito galleggiare nella poltiglia limacciosa dei fiochi lumi bruni della locanda tanti modi d’amare separati e del tutto irraggiungibili, Hr aveva gridato, e gli avventori s’erano voltati in piedi o sugli sgabelli, in nuvole di fumo e in ammassi incoscienti di schiene allineate sui tavoli, con Kiy che guardava distratto i riflessi vitrei simili a occhi freddi d’orribili pesci abissali su un boccale posato casualmente sul tavolo al posto di fronte al suo. E tutti erano vivi, tutti avevano conosciuto quella scena che Dii ricordava, senza motivo. Gli venne lo stranissimo pensiero che potessero esser stati proprio loro, i “fantasmi”, a fargli ricordare. Mandargli un qualche loro influsso. Proprio per il fatto che quella scena l’avevano vista, che era un momento che ancora lo teneva collegato agli spiriti di tutti loro -Dii non credeva agli spiriti, perché le sue narici captanti, che s’erano svegliate nella notte così da poter meglio percepire con precisione di cinghiale tutte le variazioni del suolo e dell’aria, non li potevano recepire; ma forse i loro spiriti s’annidavano nei paraggi, in tutti gli angoli rimasti oscuri per opporsi a quel mare di luce spettrale incantevole? Quell’isola li aveva chiamati. Dii non credeva a queste cose mistiche, queste cose stranissime, ma non perché fosse come Hr. Lui credeva solo alle superstizioni da marinaio come si crede, pur sapendole false, a tante frasi che si sentono pronunciate dagli altri, in maniere spesso identiche o poco variate, in tante circostanze in cui si è all’interno di un gruppo. Dii non dissacrava niente, c’era devozione nel suo ateismo.


Vennero un ruggito, graffi acuti del vento. Un richiamo lugubre che non aveva mai sentito. E la risacca, che non aveva mai abbandonato la sua spiaggia. Un tonfo, certamente frutti di scorza dura cadenti sulla sabbia. E i passi, che ricominciarono a seguire la linea della costa.


Crostacei piccoli come ragnetti si sparpagliavano, sparse famigliole di pochi membri, stanche nella lontananza dalle ore del giorno che avevano riscaldato nei loro organi interni l’acqua di mare raccolta e filtrata attraverso complessi listelli pulitori. Una testa di medusa, brillante, figlia viscida della luna arenata. I piedi di Dii avanzando sfioravano tutto questo. Un’anemone anche, pure lei morta e spiaggiata. Se si fosse arenata lì una creatura più grossa, vi avrebbe forse scorto una singolare disperazione, dovuta alla perdita dell’orientamento. Dii pur redigendo senza sosta mappe e carte mentali, sapeva che quell’isola era ormai già al di fuori da qualsiasi mappa, qualsiasi carta nautica, qualsiasi forma d’informazione diffusa. Eppure non avvertiva contraddizioni in questo: il cuore gli balzava già, avanzando diligente insieme ai passi e pompando sangue in salute, ben al di là degli smarrimenti dovuti al contatto con ciò che anche lui inizialmente trovava strano. Ateismo magico.


Dii, rientrato verso la soglia della foresta e ritornato a marciare senza affanno lungo il suo perimetro, senza affatto percepire le spire di stanchezza che gli si andavano attorcigliando ai calcagni, rallentò sotto un’arcata di fogliame lungo e cadente, simile al fare lacrimoso dei salici, e fermandosi lì, quasi vezzeggiato dal fruscio, vide Hr e una donna indigena, su una spiaggia distante, seduti a conversare (per quanto fosse Hr soltanto a parlare, Dii sentiva che nessuno avrebbe potuto negare che anche lei fosse parte di qualcosa che si poteva chiamare “conversazione”, e forse era capace di diventar parte di tutto ciò che voleva, senza affanno, aspettativa, sforzo). Stette fermo in piedi, senza stupore, senza curiosità o senza imbarazzo. Ma stette fermo, a guardarli da lì.


.

-non ti avvicinare, sai? Eh, guarda che, un altro passo, e il bestio ti acchiappa. Non ti lascia più le gambe con le sue grinfie di bestio. Chi è il bestio? Ma un cane, ovvio. Un cane rabbioso. O una specie di scimmiaccia lurida che va per mare. Ogni sporco bastardo sputato dalla fica di questo mondo coperto di bava è, per la gente di mare, un cane, nientemeno. So anche ringhiarti, contro i tuoi fianchi belli e i tuoi capelli profumati, che pensi? Di comprare la mitezza di un cane? Per favore, un cane se ne va in giro sempre pazzo e inquieto, e nulla può mai comprargli la furia che non l’ha mai e poi mai lasciato, da quando ha cominciato a ribollirgli nelle palle. Farmi vendere tutto questo? Che vai a pensare… disprezzi queste parole? Disprezzi la natura allora, amica. Ma no, non è che un gioco: tu non disprezzi, vero?


Il dito indice della ragazza, perpendicolare al terreno, tracciava ondine. Costanza perfetta nei suoi ritorni, negli attorcigliamenti che ripercorreva con una precisione così minuziosa, così carica di rispetto per ogni singolo granello. Altri granelli, compatti senza disegno, li schiacciava col ventre premuto come ad abbracciarsi la spiaggia intera come meglio poteva nei limiti della sua fisicità, sempre, eternamente impreparata ai desideri gigantistici della coscienza.


Il dito diceva che lei “non andava a pensare niente”, rispondendo educatamente alla domanda retorica di un tipo assai poco retorico. Una guancia si accoccolava nell’ombra flaccida dell’incavo d’un braccio e pareva farsi più rotonda lasciando che s’adagiassero sui suoi pori frammenti di luce lunare, simili a polvere che in sottili strati avvolge di peluria una pesca.


-guarda che io sono uno che fa male alle donne. Così hanno detto. E sarà pure vero. Te però non scappi. Dal cane rognoso con la rabbia nei denti colanti di saliva. Sono i denti di un padre, che non lo sai? E da dove credi che venga quella bava sulle fiche che vomitano fuori i cuccioli sporchi e bastardi e sperduti di questo mondo? Vaffanculo sono ubriaco. Di cosa? Non ho bevuto niente. A colazione, tre o quattro vite fa quando non c’era la notte che dura un’eternità come al polo, ho bevuto poltiglia da un cazzo d’uovo bucato. E poi? Ah questa merda d’acqua di mare, ma cos’è, il vino di voi altre? Questo mare ti ubriaca e ti fa dire le peggio schifezze, che fanno pensare a certi tipi che io… ah ma è il vomito che ho dentro, sì. M’è diventato schiuma bianca ribollente, lo sento qua in gola, e rimanendoci chiuso m’ubriaca sempre più. S’è avvelenato quando per la sete mi sono fatto una sorsata lunghissima del mare, che starà pure dentro me a volermi ancora bucare, tutto pieno dei suoi squali tigre e pesci scorpione e altre bestiacce fatte di lame che fanno a brandelli e aculei imbevuti dell’istinto di trapassarmi. Ma vinco io, ho bevuto, ma mica sono pazzo io! Io bevo perché so che il mio fegato vince, il mio fegato!, senti qua, il mio fegato è quanto più si avvicini a un dio nella mia cosmologia. E un domani sarà un mio altro organo. Ora ascolta… questo mare mi sta bucando dentro, anche al mio dio sta dando difficoltà pestifere peggio d’un diav… ah ma basta coi diavoli! Ti parlo di fiche, parole che voglio usare.. l’ho già detto no? I peggio cagnetti sporchi che quando nascono sono ratti da nave e peggio dei ratti da nave, fradici di pelo nero lucente che pare si ficchino appena possono in ogni cosa viscida e marcia, li vedi che scappano con quegli orribili saltelli nella cambusa tutti in migrazione verso le poltiglie schiacciate là in fondo, nelle ombre. Tutti così nasciamo, viscidi addentatori di tette marce. E secondo te di chi è quella bava? Viene tutta dalla fica del mondo? Non basta, no, ci sono io, e tutti quelli come me che ci sono mai stati, che si chiamano padri e che ci hanno messo la bava fetida delle loro zanne! Perché? Perché sono, siamo, bestie, animali. E ci devi vedere quando, incazzati col mondo e con la luna, guardala!, come ci guarda dall’alto con quella sua faccia senza faccia, che nemmeno guarda ma sembra che ti guarda e allora ti vuol far credere che sei un pazzo e illuso come quello stronzo del nostro “signor capitano” troppo delicato per sentirsi chiamare così, e quelli come lui. Ci devi vedere, a noi che siamo tanto tanto meno delicati, quando una roba come una luna del genere, e come tutti gli altri dei che si sono inventati a stare nel cielo, ce li sbraniamo a forza di urla e ringhi incazzati e impotenti da in mezzo alle nostre zanne bianche sporche di marrone di bava di schifo. Ecco chi siamo! E dalle fiche del mondo usciamo con la bava dei padri.


Ogni tanto un suono piagnucolante molto attutito sorvolava chiome lontane, irraggiungibili, nella foresta oltre le loro spalle, come una scimmia svegliata dalla violenza delle parole. Che lei ascoltava, senza mai trascurarle, o ritenere di dover dimostrare con cenni o commenti la sua attenzione. Ma a Hr questo non interessava.


Un’altra scimmia in piedi aveva ascoltato, confusa -per quanto poco tollerasse di sentirsi in questo modo- con un fianco adagiato a un tronco, lontano e ottenebrato come un altrove senza legami rispetto a quelle schiene piccole disegnate chiare contro il fondo di burrascoso nero del mare. Nell’aria aperta ogni suono si propagava e diventava ruggiti, diventava qualcosa che era più dei ruggiti di Hr, era ruggiti già esistenti nell’intessitura dell’atmosfera, in attesa d’esser sprigionati dal passaggio d’un loro comandante. Se Kiy fosse stato lì, pensò Dii -cioè la scimmia in piedi-, avrebbe saputo vederci qualcosa. Carpire forse anche un mistero, implorante d’esser liberato, nel comportamento di Hr. Dii sapeva provare rispetto per le capacità del suo “signor capitano”.


Un drago svolgeva le sue spire di nervi e fuoco dalla gola dolorante di Hr, e riattorcigliandosi in volo coi muscoli squamati sferzava e apriva voragini nell’aria sempre più fresca e tintinnante della notte.


-..ecco, io almeno lo so. Come me ce ne sono miliardi di altri, ce ne sono stati, ci saranno. Questa è la forza. Questo è avere il mondo. E ognuno di noi è suo re, chissenefrega che ci sono altri. Questo uno come Kiy… no, non lo capisce proprio, deve essere unico. Che poi, non vuol dire altro che sulla tua cazzo di isola impero non hai nessun obbligo d’ammazzare gli altri re uguali a te per vincere. Perché sei solo sin dall’inizio. E lui… mah, se gli piace così! Io, e cento di me, se ne possono prendere cento, no anzi, miliardi, di te! E averti, e sentirti in ogni cellula, come se stessimo violando la notte stessa, la luna e il mare!! Ti ho violata, o no?!? Lo diresti? Faccio male alle donne? Siete mie prede?? Eeh? Ma che ne sai, te, di discorsi così… miliardi come me, che stringono i corpi di miliardi come te! Sulle sabbie di mare o di fottuti deserti senza più un cazzo di niente…


Lei non trascurava nulla. Delle cifre, con quei loro nomi alieni, intuiva qualcosa, quanto bastava, cioè pochissimo.


-io faccio male a quelle come te, uguali a te. Dissero. Quando prendemmo quelle donne in quel porto. Nessuno sa che successe nella stanza di Kiy, con quella là, per esempio, e che male c’è? Che pensano, che ci ha fatto un rito, sacrificandola alla Madre dell’Oceano o nonsoché? Porco diavolo se sono ubriaco.


Hr forzò orribilmente un conato. Parve aprirsi nuove cicatrici nel collo nel tentativo. Un lungo sottile rivolo d’acido gastrico gli penzolò dal labbro inferiore lasciato inerte a sbocciare come un fiore carnoso e cadente. Senza dirsi in testa i nomi -per lei inesistenti- dei numeri, l’ascoltatrice si divertì a contare i globi vischiosi accesi color perla dai raggi lunari che si formavano a ogni scissione del lungo filo umido e puzzolente.


-però sono lucido su tutto. Sempre così sono da ubriaco. Di mare e uova di sule pazze. E me lo ricordo bene: eravamo malati, e andavamo con le malate, che ne sapete a terra di cosa succede a uno in mare? In quel porto ci si voleva sporcare. Uno dei nostri, uno dei morti, a terra nel suo vomito e nel fango e nella schiuma fermentante rovesciata dalla mattina alla sera dai pitali, affacciati alle finestre delle bettole a dire il loro buongiorno e buonasera puzzolente. A dire tutto quello che si può pensare di questo mondo, della città, del giorno che rinasce. Tutto strisce di fanghiglia su tutte le strade e nelle linee tra i sassi del lastricato. Ecco come funziona. E le puttane sifilitiche che ci siamo andati a cercare. E così di me hanno detto questo, per il modo in cui colpii quella, che non mi piaceva come parlava. Con quei denti che pareva di stare a sentirsi dare dello stupido da un cavallo uscito storto dalla cavalla. E di Dii invece a dire che è un invertito e per questo quella notte in camera sua niente di niente da poter raccontare, e tutto il resto, perché un invertito non fa niente se ha timore del giudizio divino, o se ha una ciurma attorno, che è la stessa cosa, mentre invece, se fa qualcosa, né la ciurma né un dio qualsiasi vorrebbe saperlo… e tutto il resto… ah e sai che dissero? Me lo ricordo così bene che giuro.. dissero proprio, “e se non fosse invertito, probabilmente non sarebbe così bravo in quello che fa!”…. hahahaha! Ma ti rendi conto, mia dolce puttanella dell’isola del paradiso.


Hr accompagnò le sue parole più dolci al suo assalto più dolce, torace e braccia spalancate solo per lei, verso il pavimento sabbioso del mondo. Vicino al rigurgito, e alle nudità di lei rivestite dal suolo.


-e ti dico pure che va bene. Ci avrei potuto chiedere, “e che vorrebbe dire?”, ma quando senti certe sparate non puoi proprio chiederlo, è contro le regole del trucco. È il trucco di tutti i detti che nascono sulle navi, figli illegittimi mezzi abortiti, ah ma quanto li si vezzeggia, ripetendo la loro sostanza a ogni occasione, cantando i ritornelli nelle cantilene da mare, ti ripeto e te lo giuro, ripetendo sempre le stesse massime manco ci fosse a costringerti la maledizione d’un uccello morto che porta male. Se senti una roba detta in questa maniera, devi per forza credere che è proprio così che funzionano le cose, e che ci sono certe verità che.. ah ma basta, basta. Hahahaha… Dii l’invertito e Hr il cane rabbioso che fa il pericoloso con le donne. Le donnine come te. Non ti spaventa fare la fine delle ossa? Morsa solo per gioco.


L’ascoltatrice sorrise al proprio dito che disegnava sulla sabbia, e il dito a sua volta in qualche maniera sorrideva all’uomo grosso che si schiacciava a terra affianco a lei e aveva nell’alito qualcosa che pareva morto.


Dii fu attraversato da linee. Un formicolio, o qualcosa di simile, cresceva dai talloni per metà affondati nella sabbia fresca, che in qualche sua parte conservava ancora il calore di cui s’era impregnata molte ore prima. E sembrava che una marea di calore e frescura si mescolasse e risalisse da ampolle segrete dentro quella sabbia, e gli entrasse dentro, per raggiungergli il cervello dove tutte le sensazioni immagazzinate si rimescolavano e tornavano a galla. Ma senza mai annegare, Dii, che forse più di tutti era marinaio, all’occorrenza il miglior nuotatore, riemergeva dal turbinio cognitivo che il suo corpo andava sollecitando contro il suo stesso volere, e avendone totale padronanza si metteva a osservare con un certo distacco le linee affiorate, i loro percorsi, il punto in cui per la prima volta erano diventate delle linee archiviate in lui , quando l’impulso in loro racchiuso era stato intensissimo. Dii era in quel momento -pochissimi istanti di rievocazione in realtà- come uno che tra le onde senta urlare da qualche parte vagamente in alto sopra di sé, da una nave ormai irraggiungibile, “uomo in mare! Uomo in mare!”, ma che dopo qualche prima bracciata d’angoscia già arresa, s’assesti, e cominci a confondere quelle grida distanti per il semplice ronzio formato dal boato del vento, stridii di gabbiani, acqua che a ogni ondata sembra versare un crepitante liquore nelle orecchie. Il busto annaspante di Dii, uomo in mare, nel suo mare improvviso di vertigine, presto esaurisce ogni affanno di respiro e bracciate, e per l’incanto d’una calma in cui fulmineamente s’identifica, si trasforma in un uccello marino col ventre di piume bianche che galleggia placido sulle onde, senza alcun timore dell’acqua.


Dii ricordava e faceva rotolare nei suoi vari sensibili depositi dentro la faccia tracce di quanto Hr aveva, pareva quasi accidentalmente, rievocato nel corso del suo racconto, discontinuo, maldestramente nascosto in certi suoi tratti, e più maldestramente sfoggiato in altri, una storia che anche raccontandosi da sola obbediva all’istinto e l’ordine del suo declamatore di far passare macchie opacizzanti sopra le vulnerabilità. Ma per Dii non erano che udito, e l’intenzione non aveva valore: eventi tornavano a visitarlo, denudati d’affanno e allarme, plastici. Erano per lui linee. Osservarle era come osservare tratti su una mappa, su una corteccia.


(notte odorava di felci raccolte in mazzi per adornare l’ingresso dei nuovi alberghi. Puzza di pesce volevano far sparire con le costruzioni che avrebbero dovuto rinnovare le vie del porto, per compiacere l’aumentato traffico di passanti. Per metà nascondere quello che era: vecchie locande di zuppa e nient’altro, pavimenti di lische. Felci senza odore, sento perché conosco bene. Pochi fiori in quell’isola. Bastoni da passeggio in un angolo all’ingresso. E felci. Quadri appesi, dipinti creati da uomini della terra, che si sono avvicinati alla costa il giorno in cui avrebbero potuto cogliere la tempesta, alta e lontana sulle lame nere della linea d’orizzonte. Tempesta diversa da come è laggiù, sulle navi. Bei quadri però. Si può ammettere che a volte grandi cose sono compiute dagli uomini della terraferma. Tutto ricordo di matite e pennelli sulla tela, ma non saprei mai tracciare nulla di uguale o simile: distanza tra mente e mano. L’occhio che ho in mente non saprebbe rifarle ma le vede ancora, le sente sibilare. Quelle schiume bianche di chissà quale vernice e tecnica. Ah e poi c’erano denti di pescecane aperti sulla parete. La parete voleva morderci e mangiarci. Chi eravamo, io, e, ah sì, il gruppo di quelli che avevano pescato il pescespada -erano andati a venderne le parti, per le vie fetide di quella città portuale, città che chiamano così perché non vogliono che abbia altra ragione d’essere, si vergognano di quello che si potrebbe dire del suo odore se non venisse specificato il suo ruolo sulle mappe: stazioni di passaggio, a cui è permesso puzzare e marcire; pochi vivono per sempre qui, e quei pochi sono immobili, e non conosceranno mai una brezza in cui non spiri mai qualcosa che è resti di qualcos’altro, decomposizione o stagnazione. Queste non sono mie opinioni. Questo è scritto nei luoghi stessi. Sempre. Hr parla nel modo in cui parla perché i suoi luoghi erano dentro le altre persone, dentro le altre donne: questa non è mia opinione: l’ha detto lui. La sua vita è nei corpi e per questo li strappa, per estrarre quanto celano nella miniera di tesori che hanno dentro. Urlò la sua sete e fame inesauribili, notti in cui si trasformava e non poteva stare col suo corpo come lì appeso all’aria e allo stare al mondo, senza dirigerlo in posti che era nato per perlustrare spasmodicamente, posti di sangue.)


-cosa è stato??


Un tonfo improvviso distolse Hr e la donna di cui Dii non sapeva il nome dal loro riposo nella sabbia. Sotto la luce lunare, Hr appariva affannato, fatto di pelle tremante. Palpitava a un ritmo che faceva pensare fosse stato spaventato da prima, o nervoso, e che la natura ruvida del rumore si fosse limitata soltanto a lasciargli tracce difficili da ignorare, come graffi sulla schiena, di quel qualcosa fatto di brividi che l’aveva abitato da un momento già dimenticato, fatto inghiottire da oblio nero invischiante.


Anche Dii fu interrotto, ma da lì non si mosse. Unico rimpianto: non poter cercare la sorgente di quel rumore. Sembrava avvicinarsi, e Hr a ogni tonfo urlava più forte, come impazzendo per quella cosa che faceva schiume nell’acqua anche dove l’acqua finiva. O creando pozze illusorie dentro le orecchie, dentro parti di sé -era in questi casi più che mai che Hr credeva di impazzire.


Dii in un brivido che scacciò via da sé come una mosca rintontita, attribuito a un principio di sonnolenza (e dimenticandosi che essa stessa sarebbe stata normalmente qualcosa di insolito nelle sue operazioni vigili), avvertì forme molto vaghe sugli alberi che lo cingevano. Ombre che avevano condiviso selvatiche stirpi e profondi legami di lignaggio con quegli stessi rumori, e assieme formavano una baia in cui lui, ignaro e ingenuo e curioso fino a mettersi in pericolo senza scomporsi, era finito al centro. Ma sentiva d’avere motivi forti per non allontanarsi da quel “rifugio”, avvicinandosi cioè al centro vivo e angoscioso delle grida crescenti di Hr, e dei rumori arcani simili a schiuma che le risvegliavano.


Dii non si distrasse. Stava ricordando. Le sue dita non potevano raggiungere la cosa che era diventata schiuma e che avvicinandosi minacciava. La notte era un mistero carico di enigmi di luce ingannevole. Lui non era che uno sguardo isolato nel buio, distante dal contatto d’ogni altra cosa che vicino a quel buio s’aggirasse senza poter entrare nelle sue nicchie più segrete, dove attendevano e vegetavano tutti gli altri esseri ognuno rinchiuso nella propria impermeabilità. E Dii era memoria inespugnabile. Non era che una memoria che continuava a funzionare nel buio.


(Hr quel giorno urlò a Kiy di uscir fuori, e Kiy stava male, il suo corpo rigettava ogni pasto di quei giorni fermi, in ogni modo, da ogni orifizio. Sollevò Kiy da un materasso di sudore, lo trascinò. Disse di andare a cercare quel suo luogo che doveva essere una fica simile a una fogna. Hr gridava per rendere minacciose le sue parole, Hr era secondo alcuni un pesce che mangia i profeti e sembra gigantesco visto da sopra la superficie, ma sa benissimo che l’acqua in cui s’immerge rende più grosse e spaventose le cose e quindi anche la sua massa, i suoi denti.)


Si poteva vedere, nella notte strana, un uomo forte, che muovendosi trascinava la sabbia in vortici capricciosi, mucchi di granelli presto sfranti e ricadenti a terra al ritmo del suo cuore quasi smembrato dall’affanno crescente. Hr scalpitava laggiù, correva dalla parte opposta rispetto a dove gli sembrava di sentire l’avvicinarsi di una schiuma invisibile, una caduta nel nulla.


-io non voglio morire!!!-, e la ragazza, carezzandosi una ciocca, finalmente s’alzava, e avvicinandosi lo guardava quasi ammaliata, come un essere terrestre che scopra per la prima volta la poesia. E faceva per toccarlo, lei, devota a ombre saltanti in segreto e inespugnabile invisibilità tra le chiome degli alberi, lemuri del loro giorno di festa. In Dii risaliva dai calcagni la stretta della sonnolenza che gonfiandosi si mescolava al ricordo, generando quasi eserciti di diavoli.


(Kiy dopo tanta violenza l’aveva seguito, e con loro c’erano anche altri. Io ho visto la città. In quel momento, io non so dove siano andati e cosa sia successo: ma di sicuro dei loro posti e avvenimenti ho conosciuto l’anima più vera, perché ci sono passato. Tutto ho attraversato. E mi sono riempito di quel liquame nerastro che in quell’ora buia e gelata per il vento rumoroso pareva ricoprire tutte le cose, tutti i marciapiedi, tutte le strade, gli angoli intrisi di piscio e acqua di mare e macchie unte di ratti spolpati. I gatti e i ratti neri m’avevano seguito e io accarezzato coi polpastrelli ogni testa, di pelo sottile o crespo e avvelenato. Un cane m’aveva chiesto di dargli teste di pesce. Non le avevo con me. Mettevo in tasca solo l’odore e l’idea che quella città stessa potesse esser fatta di teste di pesce. Nulla che potesse masticare. Ma seguendomi trovò con me una botte nel retro d’una casa. La rovesciai e mi ringraziò col rumore del suo muso nella roba vischiosa e putrida. Assorbii tutto di quel posto. Sono una guida per ogni terra che raggiungo. Le mappe vengono prima di me. Gli avvenimenti anche. Trovai Kiy sfinito, svuotato di liquidi, era una carne secca tenuta in piedi da stecche d’ossa, ricoperto di qualcosa che luccicava, come fossero quelli gli ultimi liquidi che s’era espulso addosso. Sotto alcuni bagliori molto effimeri di stelle quasi del tutto ricoperte da una coltre di nubi e venti tanto forti da risultare visibili, il gilet pareva luccicargli momentaneamente e assomigliare alle calotte polari. Ma non aveva forza per reggere tutto quel ghiaccio, e vacillava, lì in piedi, con Hr che lo colpiva per sorreggerlo. Kiy non sentiva il dolore di quei colpi molto forti e violenti al petto e alle scapole. Hr vedendomi mi odiò -è stato quello l’unico momento in cui l’ha fatto. Credo. Vorrei poter cancellare questo pensiero affiorato da solo, grasse bestie di dubbio. Io non penso nulla che non sappia. E queste sono quelle cose, che per me non hanno nome e non hanno un diario d’appunti che possa decifrarle, sono quelle uniche cose di cui non possa essere certo. Nascoste dietro gli occhi e i movimenti facciali di Hr come anguille che si rintanano in uno scoglio di fondale, così a fondo da far dubitare che quello scoglio sia mai stato effettivamente bucato da una tana, abitato da un essere che palpita di branchie. Vedo altre anguille io, che tengo distese tra una mano e l’altra. Vedo tutti i minimi solchi nei tranci di pelle viscida spalancati a ghirlanda, vedo le trame pulviscolari del sangue aperto sotto le loro ferite respiranti. Io quelle cose non le so. Mi era parso che Hr odiasse me in quel momento. Per la mia assenza da ciò che per lui è il centro della vita. Questo è un avvenimento che è accaduto e che nessuno affronterà. Hr, davanti a tutti coloro che tra noi marinai erano finiti in quell’angolo di puttane, sotto un’insegna sbatacchiante a forma di rana pescatrice che faceva diventar matti alcuni e inferociva le loro reazioni, proprio lì Hr afferrò da una tasca una cosa grossa e dura avvolta in un panno -dicevano un sasso con delle escrescenze simili a bava congelata, altri una di quelle conchiglie che s’usano per ascoltare dalla bocca il riverbero del fondale, altri ancora un’oloturia fossilizzata-, di certo era qualcosa che aveva rubato dal comò del posto in cui avremmo dovuto dormire. Il comò di Kiy. E in quel momento, quando cioè con una zampata -Hr è molto forte, è un valido combattente all’occorrenza- sbatté quell’oggetto sulla mascella di una ragazza più alta di lui con una puzza strana sui denti mezzi scoperti, Kiy sembrò uscire da uno stato confusionario e rivolse per la prima volta il cerchio vuoto e secco delle sue labbra a qualcosa che non era il malessere del fiato che da alcuni degli ultimi giorni di sudore gelido gli aveva invaso i polmoni. Guardava Hr e Hr gli urlò che non era stato lo schizzo parabolico di sangue della puttana a svegliarlo, offenderlo, allarmarlo, “qualunque cosa significasse quella sua cazzo di insensata faccia”, no, era stato il furto del suo soprammobile, e Hr aggiunse, con una rabbia piena di ramificazioni fitte e complicate che nemmeno il loro generatore avrebbe mai potuto capire, che Kiy era un avido, il re degli avidi. Kiy incattivì gli occhi, concentrando lì tutta la frustrazione che appartiene a chi a lungo si abitua a credere che nulla possa esserci in essi di minaccioso più di una geometria da rapace concentrata attorno agli occhi, caricata di energie distillate nel profondo per allontanare, intimorire senza muscoli e autorevolezza, ma solo con lo sguarfo. A lungo si guardarono, a lungo Kiy che ignorava i volti nel conversare sostenne la furia, restituendola con specchi che parevano all’improvviso acquosi, unici ricettacoli di liquido in un mondo disidratato dalla malattia. Le saette all’interno del vetro rifiutavano il concetto d’un se stesso avido e soprattutto di un se stesso re, mentre l’incandescenza che si auguravano di far scaturire sembrava imporsi su ondate d’aria desertica che potesse prostrare sulle dune masse intere di sudditi. In quel momento io vidi il mio “capitano”, Kiy, come un grande e morale re.)


Dii vide la ragazza mettere una mano sul petto di Hr, il palmo aperto aprirsi su quell’ampio petto, la stella marina che coi tentacoli annaspava per il respiro sottocutaneo, i battiti così forti che a Dii pareva di sentirli da là sotto le fronde. E lei? Doveva sentire quel petto come nessuno mai l’aveva sentito, nemmeno Hr, che per disgrazia se lo ritrovava incastrato tra il collo, lungo le cui escrescenze arteriose colavano i rivoli del sudore prodotto dalla testa, e il rigonfiamento ventrale, e l’inguine, e le gambe, e tutte le cose che erano il fondo, in cui distillava, innaffiandole e incendiandole per propria scelta, tutte le sue pulsioni.


Dii contravvenendo ai suoi principi pensò in un baleno a come dovesse essere un’esperienza sconosciuta, il contenuto di un tocco ignoto. Immaginò di traslare se stesso nei sensi sconosciuti d’un’altra creatura. Ondate serpeggianti di calore che s’ammassavano, in vasi sanguigni, là sotto quelle dita di ragazza straniera. Reagendo alla pausa dettata da quella mano il sangue di Hr, impazzito e spaventato, s’arrestava, rinunciando alla propria fuga infuriata.


Dii vide Hr aggredire la ragazza e fallire, i suoi colpi menati all’aria. E la ragazza nella sua maniera, nel suo feroce affetto lo aggrediva di rimando con mani aperte, in volo per posarsi attorno al torace e i fianchi. In un campo di luce lattea si contorcevano, circondati da invisibili spettrali agguati di puro suono, e nell’irrealtà bianca e blu e nera e di rumorosi frammenti i loro corpi flessi emergevano, come sovrapponendosi all’improvvisa comparsa nell’aria dello schizzo preparatorio d’un quadro di bestie chimeriche e atleti nudi, che a Dii sembrava essersi materializzato come dal nulla da un fondo ancora inspiegabilmente inesplorato dei propri ricordi.


-tu non ricorderai niente di domani. Sei buono, sei. La quiete non ti è sconosciuta.


Hr ascoltava così per la prima volta fino in fondo la voce della compagna di quel tempo strano, compagna di chissà quante altre notti che si erano susseguite in un precipizio diretto da nessun’altra parte che un cumulo di macerie delle altre notti. Non era forse questa una scena già accaduta? Non era forse possibile che quella compagna, così simile in quel momento a una ladra e a una bestiola nociva e a un trucco magico, gli avesse sussurrato allo stesso modo parole che avevano in sé qualcosa di morboso e capace di torturarlo? Ma Hr non era preparato ad affrontare domande e rumori di cui fosse impossibile capire la provenienza, e a ogni terrore racchiuso nel mondo che mai prima d’allora era stato capace di sopraffarlo, non poteva far altro che strattonare tutto quanto possedeva, il corpo e i suoi paraggi, e cercare di colpire la voce sempre meno concreta vicino a sé, quasi capace di allontanarsi e non venir più dominata dall’ineluttabile e variegato potere corporale di Hr.


-dimenticherai. Di aver detto. Di aver fatto.


Hr non era bravo con domande e rumori di sorgenti inesistenti. Così tanto da non capire più, perdere l’altro potere che in lui si inscriveva, come una pelle di riserva, dentro le stesse pieghe del potere dei colpi: quello della ragione. Non capiva più se a farlo muovere come un animale, d’una specie totalmente derubata del coraggio nobilitante dei mostri e lasciata a destreggiarsi solo con un panico scriteriato, fosse la verità -cioè che avrebbe dimenticato, come era stato reso noto e accettato ormai dai tre che viaggiavano insieme, e insieme sostavano in un’oasi apparentemente eterna- oppure ciò che dietro questa verità avveniva, rimanendo per sempre irrecuperabile.


-dov’è?? Strega! Siete voi, maledette, schifose, con questi rumori! L’isola perfetta di quell’invertito è questa!! Perfetta per quelli come lui!! Che non dominano il mondo, che dal mondo sono dominati, roba loro i rumori senza vita, senza carne, senza…….!!


Dii credeva d’aver passato quella notte intera, una vita intera, a osservare Hr gridare e dimenarsi, Hr e altre sue proiezioni, identiche a lui, tutte lui. Le immagini che Dii aveva di lui: per la prima volta si sdoppiavano, per la prima volta, almeno la prima volta in uno stato ancora semicosciente forse per un qualche incantesimo diabolico che l’isola irradiava permettendo che si vedessero le follie dei sogni danzare libere sulle spiagge, per la prima volta Dii concepiva grazie a questo fenomeno che ciò che recepiva in maniera spuria grondava d’ombre che al passaggio dell’informazione sgattaiolavano via lontano da essa, per andare a complicarsi, sgusciare ramificazioni contorte, e nessuna di queste era meno verità della verità madre, e il fatto che tale verità madre racchiudeva tante verità figlie era confusione, era dispersione. Dii si stava per addormentare a cavalcioni sotto i tronchi degli alberi, non visto dai personaggi del quadro che viveva, più che mai viveva, distante da lui. Il terrore è vita. Ci si allontana, sotto un rifugio di fronde, per non viverci dentro. La stanchezza d’origine ignota come il rumore, che anche lui sentiva senza poterlo ispezionare, l’aveva preso alle gambe, costringendolo a retrocedere verso il suolo con gli occhi ancora aperti, che si riempivano di cose -per la prima volta- che lì non c’erano: in un disegno, Hr e la “strega” al centro d’un cerchio di leoni e centauri rampanti, si strappavano la pelle e i muscoli per superare in brutalità il destino che l’aveva condotti a quel momento che partoriva miti, pazzie, un mondo più oscuro in confronto al quale perfino la notte si presentava come un regno solare, suo opposto e gemello.

Dii si addormentò sapendo con la certezza di un esperto lettore di menti altrui -un’abilità aliena- che quello che Hr chiamava “invertito” nel suo impotente ultimo ruggito non era lui, ma Kiy. Il suo re morale e forte, odiato dal suo suddito più vicino, il suo suddito che gli entrava nelle viscere e lì lo smuoveva con morsi e calci.


-ti piace quando ti porto qui?


Chiese la regina.


-io non capisco perché mi fai questa domanda…


Rispose Kiy, melanconico, pervaso da un sangue di diverso colore, che lo rendeva sopraffatto dal mondo, e del mondo gli faceva leggere le cose più strane. E le cose più strane, uniche tra tutte le cose, lo invogliavano nonostante tutto a vivere, muoversi, profondersi nei cunicoli che con agitazioni deformi scavavano.


Kiy e la regina erano in un incanto, che l’aveva portati sulla cima di una rupe. Erano le montagne? Non erano le montagne. Non era la meta dell’ultimo grande sogno, quello in cui Kiy e la regina s’erano conosciuti, toccati le costole nude. Kiy si voltò a rimirarla nelle intessiture del plenilunio cadenti obliquamente attraverso il cielo, quanto di più solido esistesse in quella vista: gli sorrideva, canini aguzzi scoperti nella labbra che lateralmente le lacerava una guancia, sotto una maschera di fogliame e corteccia attorno agli occhi, come il trucco serale di una nobile. E non era uno scheletro, né era vestita d’ossa. Percorse col movimento degli occhi, ipnotizzato, uno strano pallore che le si dipingeva a S dai fianchi lungo la gamba.


-è il tuo posto preferito, vero?


Anche Kiy dimenticava. Di essere stato già portato lì -poco importava che fosse irreale, e che forse fluttuavano nel vuoto sopra la foresta e la spiaggia, fingendo d’affondare i piedi nella cresta d’una rupe che non c’era mai stata. Assieme Kiy e la regina si bagnavano di luce, di cui Kiy sentiva d’un tratto il sapore: e da questo seppe che quello era il colore che aveva da sempre immaginato nel mare quando per la prima volta da bambino ne aveva sentito raccontare, senza averlo mai visto.


Il mare è la luna. Nella realtà. E nell’irrealtà anche. La luna è il ponte.


La vista era magnifica e totale. Sul fondale del mare lunare, palpitanti sulla spiaggia, i tre corpi, di Dii come addormentato, cullato sotto curve d’albero, alghe premurose; di Hr, la pancia che cresceva, e si sfiniva, crescendo verso il cielo, come un dito che faccia gesti d’insulto al cielo; e quello rannicchiato e agile di una ragazza silenziosa, che attorno a Hr mandava fiati di caldo respiro perché sul petto biancheggiante gli si posassero, sancendo la sconfitta dei suoi tentativi di ribellione e vittoria, sancendo la stanchezza che l’aveva vinto e fatto arrendere in quella posizione di mollusco, mentre lei gli asciugava con le dita la bava accumulata attorno alla bocca semiaperta, incapace di contenere altro che fiatone. L’affanno di Dii rimaneva senza compagna. In un sogno unico e destinato a morire e non avere eredi, si ricordava d’essere il campione dei castrati, proclamato da Hr. E contemplava l’idea innaturale che qualcuno avrebbe forse potuto avvicinarsi al cuore di quell’uomo, fargli delle domande sul suo modo di porsi. Spenta in una spirale di sonno in qualche altro suo anfratto, la ragione di Dii sapeva che al contrario si passava sulla terra e si moriva senza aver risolto i cuori e i conflitti degli altri, avendo, al massimo, raccolto qua e là certe tracce. Pezzi d’anguilla di molle poltiglia dentro tutti i viventi, che diventano macerie e robaccia raccolta in tasca.


.

I tre uomini dormivano in mondi senza legami quando la regina, mascherata di fango e corteccia e foglie per onorare la festa isolana degli spiriti morti, appena trascorsa, s’avvicinò, piena di grazia, alla sua figlia e sorella, alla sua bestiola piena di dispetti da ladruncola e folletta, che aveva ammaestrato così bene la furia dell’uomo, del forestiero. S’incontrarono e sorrisero sulla spiaggia, circondate da corpi comatosi per metà uomini e per metà capodogli spiaggiati, unti di olio lunare, e da tonfi di schiuma che erano parole portate dal vento nella notte in cui s’aprivano i varchi, e da ombre di salti di lemure sugli alberi, pronte ad ascendere. La regina era contenta della sua figlia e sorella, e la sua figlia e sorella era felice come può esserlo -lo sapeva bene la regina- solo una che ancora è ragazza, e ancora non è metà viva e pulsante di un’isola, di una storia, di una cosa che pare quasi divina. Devota e contenta come solo una ragazza commossa può essere, lì sull'isola che sa che sono limitati i giorni in cui potrà celebrare e veder trasformarsi i suoi morti.


-buonasera, regina.


Buonasera, rispose la regina col sorriso di denti acuminati, cristalli di luna. La seguì per vederla filare via, leggera e veloce, in corsa dalle spiagge alle capanne addormentate. Attorno fluttuavano in incorporei vapori vulcanici i respiri degli uomini che dormivano circondati d’umidità. Un misterioso uccello notturno mandava i suoi lugubri lamenti e a ogni eco li attutiva, ne faceva spiriti che lasciano la terra e la salutano rendendosi sottili fino a diventare nulla, scomparso nel fogliame, nella schiuma, nelle stelle sopra tutto quanto. Il richiamo si indeboliva ai primi bagliori arancioni del sole, in saluto alla regina in piedi davanti al mare del nordest.

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