dove c'era un paguro- capitolo 10
- Milky
- 19 feb 2023
- Tempo di lettura: 29 min
Aggiornamento: 23 feb 2023
10
Ferite assorbivano ogni cosa, bocche assetate. Le tre paia di gambe sprofondavano nella superficie terrestre e nell’area cieca immediatamente sottostante, l’anticamera d’un sottosuolo di progressione verso cose ignote e più agitate; e sprofondando allora avrebbero trovato artigli, dita urticanti, conformazioni calcaree atte a scorticare. Nell’immediata oscurità sotto lo sprofondo delle sabbie mobili pareva crescessero cose simili a coralli della terra. Oppure si trattava di qualcosa di più spaventoso. Torme di cervelli pervasi da istinto predace di mangiar loro la pelle che accorrono assumendo forme incontrollate, impossibili da vedere o immaginare nelle ore in cui i toraci sguazzavano stantuffando un cacofonico risucchio dalle increspature della pavimentazione a metà tra sabbia e melma. E le stesse sabbie mobili, una ferita nel suolo, una ferita inferta al tempo imperioso nato dal mezzogiorno. Una scivolata li aveva portati a precipitare in un’insidia squarciata dall’isola. Un formicaleone, anemone vorace della terra, è una ferita. Delle fauci sono una ferita. I crepacci sono una ferita. Il mare è una ferita per la terra, sgorgando tutto il sale di lei, l’isola è una ferita per il mare, cisti esternante del suo segreto fondale immerso. Il mondo era ferite, nel cui sangue si agitavano grassi i corpi come uova deposte da una vespa, simili a bulbose suppurazioni biancastre. E le bracciate non bastavano a liberarli, ognuno nella buca in cui era intrappolato.
Dii fu il primo a fare un’associazione che si sarebbe detta immotivata da quanto stava accadendo. Ricordò il suono proveniente dalle montagne, quando marciando in quella stessa giornata s’erano fatti ombre frastagliate abitanti d’un sottobosco rado e arido resiliente sulla sabbia, sotto il sole allo zenit. L’aria aveva tremato per una vibrazione che non apparteneva alla calura, non smuoveva i contorni delle cose per accompagnare i passi oltre la soglia di un sogno torrido. Aveva invece rombato fin dentro le vene, facendo dubitare, per l’impatto sismico del rumore, che fosse il battito cardiaco a essersi risvegliato da un sonno di drago millenario, e tutti i cuori della specie non erano stati che l’eco attutita d’un vero battito imprigionato… ma fu tutto di breve durata. Il rumore era cessato come era apparso -certo, lasciando forse più tracce di sé di qualsiasi altro rumore, così come un elefante, più dei ruminanti naneschi ai suoi piedi, modifica il paesaggio. Dei sassi avevano rotolato contro i bordi del ghiaione del sentiero, uccelletti neri odorosi di ammoniaca s’erano levati in volo da chissà dove sentendo gridare la montagna lontana. Eppure c’erano stati istanti di cessazione d’ogni rumore, anche il più grande. Anche il tuffo che s’era aperto dentro di loro, all’unisono, il simultaneo risveglio della sostanza umana che li accomunava. Simile ai respiri fratturati in sincrono di bambini diffidenti che, per la prima volta, scoprano la fiducia nel momento in cui scoprono la paura, e rifugiandosi sotto incavi di radici e felci si stringano assieme e tacciano per farsi impercettibili ai sensi di lucertole mostruose a caccia per la giungla del mondo. Erano forse loro i primi uomini, incatenati ancora alla primordiale pavidità da topi selvatici dei lontani antenati? Cresciuti, fuoriusciti dalla forma abbandonata nel passato di quei bambini terrorizzati. Erano loro i primi tre, che ai margini ultimi del mondo dove comparivano i presagi prima che compissero un’intera rivoluzione attorno al pianeta, entravano in contatto con quell’emozione ancestrale, quell’esito che sarebbe precipitato ugualmente dentro tutti quanti, ridestandoli da un’ignoranza ch’era soltanto destinata a sparire alla fine del suo tempo, come uno svezzamento, come una banale transizione?
Dii ricordò che nessuno di loro aveva detto niente. Che si erano guardati. Quante volte si erano guardati nel corso del loro marciare lungo il profilo di spiagge, ammassi di roccia, margini boscosi? Avevano guardato i propri reciproci passi, davanti e dietro, le ombre, le sgradevolezze taciute. Ma avevano mai davvero letto la paura nel volto dell’altro? Non avevano ritenuto opportuno in quel momento parlare del ruggito che avevano appena udito scrosciare nel mezzo di altri echi attutenti e troppo lontani dalla direzione in cui le montagne, i loro picchi inferiori più spogli e rocciosi, cominciavano a intravedersi, simili miraggi lontani pasticciati da una mano infantile immersa in un vasetto da pittore di tempere foveali per sabotare direttamente il visibile. Qualcosa che stava venendo ucciso, pareva, una vittima sacrificale d’alta quota, offerta al cielo, il sole, l’ombra speculare alla terra, una qualche dea o ombra speculare di regina o qualunque altra cosa si credeva potesse esserci nel paradiso di quella gente -le donne che avevano lasciato, decisi ad accettare il giorno in cui avrebbero potuto dimenticarsene, per poter proseguire, secondo scelta escludente ed eterna, lungo i sentieri di ciò che non avrebbero voluto dimenticare.
Kiy anche aveva visualizzato quell’immagine. In una radura montana. S’offriva qualcosa, un corpo, teso da mani verso ciò che volava. Forse, in fondo, quelle donne credevano, come si scopriva a essere in grado di credere anche lui, che il dio più grande e importante fosse una specie di uccello.
(Gabbiano di presagi. Scendi di nuovo e annegami, poi salvami dall’annegamento, con le tue parole, risposte orfane di domande, enigmi insolubili. Il tuo occhio scintillante di smeraldo, il mare in tempesta che ha ucciso tutti loro e ucciderà noi. Ma tu non sei qui. Tu voli alto nel cielo. Posso incontrarti qui solo se sei morto, già caduto, putrefatto e confitto nel cratere della terra assieme a esiliati diavoli. Oppure posso qui incontrarti se il suolo è come il tempo. Cadono le rughe del vecchio per sbucciare un corpo nuovo, liscissimo e membranoso di palpiti anfibi nelle vene quasi luminescenti nella trasparenza, nel riverbero rosso umido che avviluppa nell’utero, improvvisamente racchiuso attorno al sonno senile. Il tempo si rannicchia su stesso e incontra solo se stesso. Sotto il suolo può esistere un secondo spazio aperto, un ritorno ciclico di quanto è sopra, sotto, attorno alla stratosfera. Solo se c’è un’oscurità del genere potrò veder volare te, più alto volatore del cielo, apertura alare di fasce d’asteroidi.)
Kiy invocava affogando nella terra una visione che potesse liberarlo, anche una qualsiasi, purché da quel mondo, lo stesso mondo da cui era provenuto quel primissimo gabbiano che come un profeta gli aveva parlato dentro al cuore, come un padre e una madre l’aveva fatto rinascere dentro se stesso e in armonia con se stesso quasi custodisse nelle viscere il punto in cui mare e terra combaciano e diventano uno -purché da quel mondo potesse uscire anche qualcosa che non solo fosse responsabile della sua esistenza, ma che dal terrore di questa, in costante trepidazione per l’apparizione delle labbra e il volto della morte, potesse liberarlo.
Dii, e in seguito Hr che poco dopo gli aveva raggiunto le preoccupazioni in inseguimento inquieto, ripensavano al tipo di rumori che può esistere nelle montagne di un’isola straniera.
Un soffio policefalo di mare e vento, come un’idra deforme strisciata alle loro spalle per sbeffeggiarli nell’imminente sconfitta con uno sghignazzare di veleno biforcuto, imperversava indifferente da qualche parte nella distanza dietro di loro, rimescolando i granelli delle orme che svoltavano verso la trappola celata dalla macchia spinosa laddove il crepaccio marino s’ergeva sbarrando il cammino. Prima che cadessero, Kiy era diventato, in brevi istanti raggelati dai lievi ma numerosissimi veleni delle spine intessenti impenetrabili rughe nell’intera rada vegetazione, un cane in allarme: aveva ricevuto in fondo a sé la caduta intirizzente di un brivido denso come un muco gelido alla bocca dello stomaco, appena un passo prima di cadere in quella che sembrava una buca inerte, facile da evitare, sarebbe bastato che continuassero in fila indiana lungo il bordo, facendo attenzione. Aveva saputo, con le dita dei piedi nei microscopici e infiniti roveti costellanti il fogliame color lichene mischiato alla sabbia di quell’area semidesertica, che invece quella buca aveva una volontà, e che cercava. Attirava. Che non bastava mantenersi sul bordo per salvarsi, e pur sapendolo, non aveva fatto niente.
Perché il cane allarmato decide di camminare nella tana del pericolo? Che ne è dei suoi istinti di autoconservazione, della tenacia muscolare subito tradotta in fuga, in ululato espettorato verso le minacce del mondo? Tutti e tre, come non avessero potuto presentire nulla, giacevano in una buca profonda che con dita fruscianti di sabbia li aveva trascinati sul fondale in cui altre buche s’aprivano, innumerevoli vive bocche come altrettante ferite. Forse in fondo credeva che non esistesse impedimento per nessuna disgrazia, e per questo, in molte situazioni di cui conosceva la sofferenza e il dolore, si limitava ad attendere che si posassero sul loro trespolo scelto, con i battiti d’ala lenti e grassi in discesa verticale d’un volatile grasso e regale. Un angelo forse, con piume nere a striare le ali. Forse Kiy aveva un intero pantheon dentro il torace, non solo di uccelli. Idee, credi numerosi, riposavano in anfratti muti come fantasmi. Ma era un silenzio fittizio, erano cose che appena di là dalla loro fuggevole e mite forma si aprivano in enormi abissi, popolati di bestie predaci, e tese al punto d’accender luci di batteri arroventati in fondo alle loro appendici così da potersi guidare nella cecità abissale, farla esplodere un giorno, segnare nel buio dell’inizio le prime sillabe della luce e un verbo nuovo. Chissà, forse un giorno si sarebbero accese, quelle creature nascoste che intanto procedevano tentando di sparire, credendo forse che il loro sparire da qualche parte significasse un più forte e grave apparire in un altrove segreto, connesso al tutto mediante passaggi, tunnel suboceanici tra tutti i laghi profondi vigilati da plesiosauri e tutti i mari salati dove il punto più basso è disabitato, è un nero vuoto di gorgoglii astrali. Il mare assomiglia al cosmo. Il cuore è peggio di entrambi: qualcosa si immerge per la prima volta, cala al suo interno come una punta di freccia avvelenata, un proiettile che attenta alla compattezza delle sue cellule grumose d’ossigeno ed esistenza, fisica ed emotiva, simbolica d’ogni paura tremante nel petto. È un vivente che si fa luce nell’unico buio assoluto che è possibile trovare. Il filamento protratto dalla sua fronte, grigia come teste di capodogli alieni che nuotano in mari sassosi di pianeti lontani, accende un lume globulare in fondo alla sua terminazione, brucia la microvita che esplode in miliardi di soli ogni istante. Un genocidio ogni istante per poter procedere, genocidio della vita incosciente. Loro, batteri, permeano ogni cosa che s’attraversa. Noi cosa siamo? Il genocidio di chi? Il carburante di quale percezione di quale cosa più grossa che ci contiene? L’isola è un mollusco, un crostaceo, un bullo nel parcogiochi del mare?
(L’unico buio assoluto che è possibile trovare. Lo vuoi cercare? Allora sappi che devi scendere. Dovunque ti trovi, nei tre elementi che hai possibilità d’attraversare impunito, finché non ti sarai unito in perverso e annientante amore alle divinità aviarie così da poter volare nell’aria, e nel fuoco bruciandoti nel sole -finché rimarrai nei tre restanti elementi della terra e l’acqua e il cosciente, potrai trovare quel buio perfetto soltanto in un modo, soltanto calando, nelle profondità, c’è un inferno in ciascuno di questi tre mondi abitabili.)
Kiy scende in uno dei possibili inferni. Come ogni abisso, è abitato da forme che si agitano. E hanno sempre spire, sono rappresentazioni stilizzate di un muscolo vivo. La forma più semplice dell’organismo. La forma più semplice dell’ipnosi. Sagome serpentiformi, munite di incalcolabili zampe, tracciavano spirali che perdevano regolarità, che irosamente fuoriuscivano dalle loro formule armoniose, destabilizzandole.
Kiy s’immergeva in simili riflessioni nel momento in cui il suo corpo oltrepassava il punto di non ritorno di quell’insolito processo di sprofondo. Hr gridava (come suo solito agli occhi di Kiy, forse predisposto a ricordar di lui solo le idiosincrasie appartenenti a una comunicazione selvaggia), s’agitava emergendo dalla sabbia della fossa. Un geyser d’addome gonfio, ondeggiante nella canicola. Un tonfo vivo risucchiò con più decisione Kiy nel primo livello degli inferi. Trascorse pochi secondi nella totale oscurità, poche centinaia di migliaia di anni forse. Gli sembrò che l’abituazione dell’occhio al buio durasse per l’interminabile ricircolo di un anello fatto roteare da un dito, rappresentante un ciclo vitale, e al tempo stesso che si trattasse di una longevità illusoria, quella sperimentata là sotto, pari a un battito di ciglia incosciente di sé come una farfalla che salta dal mezzanino nevicato di polline di una corolla e l’istante seguente, senza avvedersene, perde ogni mobilità, ogni soffio vitale dentro la proboscide e le ali di carta.
Kiy vide presto le prime cose che si muovevano nel primo livello sotto la superficie, richiusa su di lui senza alcun segno d’esser mai stata aperta, un soffitto compatto (forse, squarciando il buio, sarebbe apparso d’un colore violetto scuro, una massa, cristallizzata in tavola, di sgradevole polvere malata). La sua caduta, attutita da conformazioni, calcaree al tatto, che gli laceravano gli stracci e la schiena, lo collocava semisdraiato e con gli arti inerti ai lati, quasi condannato esposto al ludibrio di chissà quali raccapriccianti astanti potessero annidarsi tra un cunicolo e l’altro. Ma così scendendo credeva d’essere uno spettatore, un testimone prescelto perché gli venissero fatte vedere le cose dell’altro mondo. E così, senza nulla temere, osservava, le cose che gli sfilavano davanti, la parata macabra delle cose possibili.
Quel giorno Kiy vedendo danzare le cose esiliate in quella particolare forma dell’unico mondo sotterraneo, esteso a ogni reame nel funereo sottofondo d’un sottile e nero velo materno, provò la paura che si cancella da sola di fronte all’ineluttabilità di ciò che teme, la paura di quelli in procinto di soffocare che sentono il numero dei respiri diminuire a ogni fiato sottratto. Chi è chiuso in un sarcofago non può indugiare in qualcosa di tanto confusionario e instabile come la speranza, chi è condannato a non respirare più non cerca spiragli tra le pareti che lo comprimono. Chi non riesce più a respirare è chi ottiene finalmente una risposta. Kiy ricevette in dono una sublime paura, la fece abitare in sé e l’accolse con la sollecitudine di un anfitrione amorevole nei confronti delle anticaglie del suo palazzo e dello sguardo che si affaccia a sfiorarle da occhi sporgenti di ospiti illustri. Anche il suo corpo era un sarcofago, anche lì c’era una capienza limitata di respiri. Lì sotto tutto era buio, quasi irrespirabile… creature che s’avvicinavano veloci e tremanti in convulsioni di potere incontenibile, ancora invisibili nonostante l’abituazione all’assenza quasi totale di luce, premevano ai lati della coscienza e anche fuori di essa spargevano una firma assordante di sé -ammesso che ci fosse un “sé”, altra cosa confusionaria e instabile, no, doveva essere qualcosa di simile a un sé collettivo, più dinamico, più ordinato, più simile alla disarmante razionalità che sboccia nel mondo soltanto quando si affida ai riflessi argentei d’un banco di pesci rispondente a un solo cervello. Le creature là sotto conquistando paura interna e campi di battaglia delle profondità mai viste esercitavano presa velenosa su tutti i reami, e Kiy ,quasi segretamente inebriato per quella forma antica di dolore, sentiva penetrargli verticalmente nella mente un pungiglione rigonfio d’uova, caldo organo di una scolopendra che avrebbe continuato a figliargli dentro nidiate dell’immaginazione, condannandolo al ricordo incancellabile, alla macchia vischiosa che non si dissolve mai nel primo strato impressionabile oltre la fronte. Esistevano le nidiate già schiuse e adulte. Erano insetti serpenteschi come li aveva immaginati prima di sparire là sotto, identici alle miodesopsie di lancinante bruciore che gli rimbalzavano nei momenti di anticipato terrore nella camera confinante tra il retro degli occhi e le grotte del cranio.
Scolopendre giganti di mille zampe come coltelli correvano nella fosca vacuità crateriforme che s’apriva là nel sottosuolo che asfissiava, e contorcendosi a ogni frustata del corpo ricoperto di tossiche scaglie, raggiungevano qualunque luogo desiderassero deturpare. Lo spostamento fatto di sinuosi ma violentissimi arabeschi di spire faceva pensare a dei saggi dragoni volanti di distanti leggende di montagna che avessero commesso una colpa tale da precipitarli laggiù e corromperli, corrodergli la giustizia interna fino alla metamorfosi. Ma non erano stati prole di un intento così programmatico, non credevano nel destino, indipendentemente dalla forza in cui si manifestasse confermando la propria esistenza e azione. Erano esecuzione, erano organi e morbi d’un cervello, fettuccine di singolarità. Questo appariva logico, anzi, quasi bello: erano le viscere, rivestite di corazza, dell’isola. E come questa non conoscevano parti, sottogruppi, attributi -erano un principio, un solo principio, un clan inaccessibile di concetti. Erano contenuto di quella terra strana. Su e giù, in sinusoide che disegnava colline di là sotto: le schiene mandavano, esse soltanto, qualche scintillio in tutta la tenebra, catturando con le placche quel poco che riuscivano da tenui gocce di luce, stillate come residuo zuccherino d’un miele dai microscopici fori nella sabbia della volta rinchiusa, bocche di minuscoli formicaleone. Ogni cosa ripeteva sé stessa, lì. Grande e piccola. E le cose enormi riuscivano ad attraversare l’ambiente, senza accennare bracciate, senza far altro che rendersi uguali al circostante.
Kiy, insomma, vedeva nuotare delle cose che esistevano nel suolo. Come negli abissi. Ma se tutto era abisso, allo stesso modo, e se tutti i mondi possedevano scavata in un fondo ancora dolente l’aperta cicatrice di una porta conducente a quegli antri di follia, allora perché Kiy lì, soltanto lì, avvertiva infilarglisi nella pelle una tale certezza che c’era un’anima diversa, un avvenimento d’altro significato? Che cos’era quella mancanza di respiro che l’intossicava non appena volgeva lo sguardo offuscato verso i muscoli ed esoscheletri irrazionali del gigantismo abissale di terraferma? La verità era un differente prezzo ceduto dai vivi nel momento in cui annegavano, in quell’annegamento differente, perdita di respiro dentro un gigantesco grembo, sarcofago di terra.
Il formicaleone capo, sconfinata ghiandola fetida di carni in putrefazione palpitante sul fondo d’un antro di sabbia, apparve all’improvviso aggredendo l’oscurità coi suoi sanguinolenti colori, distinguibili più del volo forte delle scolopendre numerose che in quel momento, agitate in nastri attorno alla sua stazza, si rivelavano essere piuttosto delle sue banali appendici. Riavvolgendosi dentro il luogo da cui scaturivano, viscide cavarne dei ventricoli di quella ghiandola, afferravano l’atmosfera asfissiante con le zampe acuminate, a mezz’aria le contorcevano in un’alternanza di incontenibili epilessie, tale da innescare brividi gelidi nel profondo di predatori feroci. E afferrando il buio, come nastri risucchiati da un marchingegno roteante volevano trascinar con sé qualcosa, appigliarsi alle prede che si fossero avventurate nella cecità assoluta. Kiy, precipitante e molle mosca carnosa, preda, apprese così che il formicaleone aveva due bocche, due trappole per catturare il morituro: una fuori, alla luce desertica del giorno, seminascosta dall’inarrestabile, sempre uguale caduta dei granelli di sabbia su se stessi e sulle colate gialle lasciate dal sole sulla crosta terrestre; un’altra là sotto, una seconda morte che era necessaria a quella della superficie per potersi sostentare: lassù il destino di quel richiamo all’annientamento in fondo alle buche era incarnato dalla forza di gravità che come un traghettatore invisibile conduceva le cose soggette alla caduta verso la sagoma elusiva del carnefice, in agguato oltre la parete più prossima del nonvisto e della coscienza, e mentre alimentava quelle fauci subito ritirate nell’oscurità sotterranea dove non potevano esser distrutte da alcun principio di luminosità e ordine, queste dovevano ricevere nella più grossa parte del corpo, impiantata là sotto insieme ai giganteschi miceli dei minuscoli funghi, un continuo impulso a continuare quell’opera di morte. Un carburante proveniente dalle continue prede ricevute dalle braccia urticanti e vive, le scolopendre che afferravano ignari nuotatori ciechi dell’abisso ipogeo. Materia di nutrimento per continuare a nutrire l’atto del nutrimento stesso, la consumazione del vivente si alimentava incessantemente di numerose altre consumazioni -così come in vita le cose non conobbero mai l’ebbrezza spettrale e privilegiata di poter continuare a esistere senza distrugger nulla, anche nella morte dovevano continuare a far morire altre miriadi di cose assieme a loro, dalle singole cellule senza identità della propria costituzione, alle colture batteriche del proprio oceano interno, alle prede il cui unico scopo era sussistere lo sforzo di dilaniamento e masticazione del formicaleone gigante.
Kiy apprese così la verità sotterranea dell’isola, di tutte le isole potessero esser raggiunte attraverso i mari e i continenti dopo aver visto questo: la morte era duplice. Moriva il corpo e moriva l’anima. Kiy aveva visto così la più cruda traccia dell’inconfutabile esistenza dell’anima. Il suo sforzo di ricomporre i compagni, narrato nei segreti esperimenti alchemici che avevano reso folli i suoi ideatori, era forse futile, insensato? Sarebbe bastato recarsi nel luogo in cui certamente l’anima, dopo esser stata separata, infine affiora, brilla come un miraggio che passeggia placido ed etereo in fondo a un paesaggio di dune. Non sarebbe stato necessario il passaggio della ricreazione simbolica della sembianza, il rinvenimento della sabbia magica che avrebbe ricomposto particella per particella i teschi, le ossa. Sarebbe bastato allora che si facesse catturare da quelle orripilanti braccia, penetrare egli stesso nelle viscere di quel meccanismo che da una parte consumava il corpo, lassù nella superficie che è il mondo illusorio di tutti i corpi, e da un’altra doveva pur attuare una scissione violenta dell’anima, officiata dalla continua offerta di altre prede, altre vittime sacrificali del proprio peccato più grande, quello di esser esistiti. Sarebbe bastato che s’offrisse egli stesso come sacrificio, sporgendosi dalla traiettoria discendente della sua lenta e spettatrice caduta lungo le superfici dilanianti degli stalagmiti -sebbene anche così continuasse, per qualche ragione, a venir ignorato dalle braccia insettoidi-, in pratica dicendo di se stesso, “sono un’anima, prendetemi, portatemi dalle altre”. Era già questa la fine del suo viaggio? Era l’azione definitiva che l’avrebbe risvegliato dal torpore, che avrebbe finalmente dato un senso ai giorni interminabili di malinconia senza sbocco e senza forma, che l’avevano agguantato dopo aver visto sbuffare davanti a sé nelle schiume sanguinolente della tempesta l’insensatezza brutale della morte, l’insensatezza totale della vita? Avrebbe dato un senso a quei giorni, e a tutta la zavorra d’esistenza che s’era susseguita prima, nella quotidiana manifestazione di infiniti misteri e poche apparenti risposte, senza mai riuscire a sfiorare il solo mistero che contasse, impossibile da ignorare perché confitto tra le viscere come un pugnale? Tutto finiva: sarebbe bastato veder lì qualcosa, una nuova scena.
Ma l’anima non faceva una bella fine. Era questa la scena che vedeva: dalle cavità carnose, le ventose schioccanti uno sgradevole frastuono di risucchio in cui i corpi lunghi si rintanavano inghiottiti da una demonica forza di trazione, non si spargeva altro che sangue, brandelli degli inerti vermi catturati nel loro nuoto cieco della terra. E non c’era nient’altro. Non andavano a finire da nessuna parte. Dov’era l’anima? Kiy fece finta di non poter rispondere. Kiy cancellò il suo precedente ragionamento, si dette aperto e disponibile alla riformulazione degli assiomi non appena vide la conclusione di quelli che era andato costruendo nel suo viaggio d’oltretomba, non appena la trovò inaccettabile. Kiy in questo era solo un uomo. Aveva visto che, se quello scempio significava la separazione della morte del corpo dalla morte dell’anima, allora l’anima era questo: una nuvoletta di sangue triturata in fondo a una cavità divoratrice. Presto scomparsa. Una momentanea macchia rossastra, nella forma più terribile di un mondo più impenetrabile di quello racchiuso dentro le palpebre. Poi niente più, nemmeno goccioline di rosso vapore.
Non tutti cadevano dritti nel pozzo sotterraneo che era quell’insetto-ghiandola. Si vedevano prede mancare le mandibole, altre divincolarsi dalla presa, e lassù nella volta nera che costituiva la cupola di quella cattedrale di condanna, assomigliavano a momentanei baluginii di pelle nella notte. Ricadendo disordinatamente, chi attraverso il vuoto sottostante chi venendo intercettato da rocce e malloppi di terra coriacea dei livelli inferiori, erano come tante scintille già ricolme e traboccanti del principio della loro incombente scissione. Kiy si aspettava di veder tra loro i suoi compagni, presto. Sarebbero diventati scintille: non era un brutto modo. Scintille corpulente chiare nell’oscurità. Ma ancora non si vedevano, ancora non precipitavano. Forse erano troppo adatti a vivere? Solo chi è storpio e inabile, in una sua irraggiungibile parte, ha diritto a diventare belle scintilline, diritto a quella metamorfosi quasi carezzevole, quasi indicante un’ultima morente possibilità di vedere le cose da un punto di vista diverso nel luogo centrale dell’ineluttabilità. Erano bravi a sopravvivere lassù? Allora proprio per la loro adattabilità alla vita, la loro morte sarebbe stata priva di quel lucore. Lo stesso degli spettri della mente, che aveva ammaliato tutti gli uomini stanchi del viaggio e slanciati nel desiderio ancestrale d’un negromante primitivo di veder affiorare nel sole nascente sulla savana un volto di orribile ciccia e ammaliante fuoco. Lo stesso lucore della poesia, della logica e del sentire, del sognare e dell’annegamento delle tante immagini passate immagazzinate, come congelate in cornici dell’istantaneo fibrillare del loro momento d’esistenza -tutti questi fenomeni Kiy li sintetizzava, erano a suo vedere secrezione di un’unica terra intangibile. Una terra non dissimile in alcuni aspetti da quella in cui si trovava. Ma aveva ancora un corpo… una zavorra che per le sue difficoltà gli aveva però garantito d’assistere a ciò che era là sotto, alla verità che potesse disintegrarsi in modi sempre orribili, ma di cui alcuni, almeno, conservavano in sé versi poetici, pennellate, liriche, tunnel onirici, geometrie, ricordi gravidi di fiatone -tutto questo, nella sua innaffiata di scintille, aspergeva le aree abbandonate dall’aria estinta nella massima clausura.
Ma era davvero bello? Kiy osservò meglio. Vedeva che dopo l’istante di luminosità chiara le prede cadevano incontro a devastazioni dolorose di se stesse, dei loro resti appena prodotti, subito frantumati ancora, fino a farsi impercettibili agli occhi dei corpi eccessivamente grandi. Doveva far male. Caduta contro i blocchi di terra e mineralità ruvida. Erano stati soltanto, nel farsi illusoriamente belli, la stessa cosa che si vede quando con occhi di anemone s’osservano dal fondale effimeri ventri di foche e pinguini in nuoto a pelo d’acqua, rifratti in macchie bianche diurne permeanti il tetto della massa acquea in reticoli semoventi come una lebbra dell’oceano. E la notte e l’abisso, in congiunzione dall’alto e dal basso, si precipitavano a racchiudere e cancellare quelle parvenze abbacinanti, far dimenticare la loro durata insignificante e povera di capacità di oltrepassare i propri confini.
Quelli scendevano e affogavano. Si sfracellavano. Materia asfissiante nei tratti respiratori, scogli che vogliono rivoltare le superfici e le interiora, strappare il velo delle protezioni. Quelli che parevano aver vissuto istanti di distruzione lirica, lucente nelle tenebre della mente, si ritrovavano i polmoni pieni di terriccio. Altri, appena di là dalle pareti del mondo della terra, nel confinante mondo dell’acqua avevano esperienza di una caduta identica, con polmoni pieni di bolle esplodenti l’una dopo l’altra in terribili ustioni, immaginabili solo da chi dentro il mare è già morto e resuscitato, ritornato per ricordare il dolore. Soltanto una linea di confine tra la crosta solida e il mondo amniotico e salato attorno a lei. Soltanto due identici soffocamenti dentro e fuori dal grembo. Chissà se anche nel confine tra l’aria e il cosmo avveniva la stessa cosa. Sì, doveva essere così.
Quelli che evitavano lo sprofondo nella sabbia e il terriccio non avevano il tempo di constatare nemmeno l’integrità del proprio respiro. Trafitta in altri modi, la gola valicava le proprie coscrizioni. Non più schiava del linguaggio, diventava un pezzo pendulo di filatura rossa sbrindellato fuori da uno squarcio, incapace di suono. Giacente in mezzo alle scorze superiori del corpo, brillava quasi, sulle rocce che sottraevano ogni cosa alle prede. Bestie terricole, grossi invertebrati, e presto, forse, uomini. Ma a Kiy sembrava già da tempo di star osservando proprio degli esseri umani, dei nudi accolti dall’abbraccio d’un inferno che pazientemente aveva atteso un ritorno. Ma, prendendo in prestito ragionamenti del mondo che Kiy aveva lasciato lassù, non poteva trattarsi di corpi reali: prima che cadesse nella trappola, erano solo in tre, erano soli, avevano abbandonato le donne del villaggio, che non si avventuravano lì, che sapendosi destinate alla fine d’ogni cosa come tutti gli alberi e i monti, come tutto il resto, erano tuttavia totalmente incapaci di comprendere le ragioni dell’autodistruzione. Non si recavano nel luogo che conoscevano, la bocca dell’inferno incisa nella sabbia, tra un cerchio di peluria d’arbusti e piante grasse. Forse, mentre Kiy cadeva, erano stati nel frattempo raggiunti dagli altri compagni, che adesso vedeva cadere anonimi uno dopo l’altro? Altri compagni… no, erano altrove. Non erano più parte della loro storia. Destinati ad approvvigionamenti mai conclusi, esplorazioni nell’eterno e nello smarrimento suo figlio, o a condanne dell’immaginazione, sadica nei confronti di tutto ciò che vive. Poteva immaginarseli, trafitti da rovi, precipitati da scogliere, disseccati in un entroterra senz’acqua. Ma non erano lì.
Erano ombre larvali di altri tipi di compagni, quelle che vedeva, ben diversi da qualsiasi cosa viva. Erano esempi che gli stavano venendo mostrati.
Kiy scivolava sui dorsi degli stalattiti, inspiegabilmente incolume. La sabbia l’avvolgeva, era scesa assieme a lui come il pianto interiore di una clessidra, e avvolgendolo aveva fatto un tappeto per le sue gambe e la sua schiena, una nuvola traghettatrice del volo verticale che procedeva lento in quella fossa di fisica rovesciata, di natura esplosa nella sua ombra.
Kiy scendeva, e vedeva quelli affogati di terra: subito si riflessero sui suoi occhi accecati i toraci gonfi di quanti erano caduti nelle onde -alcuni di loro, nell’ultimo giorno della sua anima, li aveva visti galleggiare, risalire, altri continuare ad affondare, natanti senza meta travolti da una forza simile a un silenzio che vanifica ogni luttuoso lamento, ogni disperazione di chi non è pronto.
Kiy scendeva, e vedeva quelli menomati e dilaniati o completamente distrutti sulle pareti, sulle sporgenze: subito l’offuscamento suo, capace di penetrare ogni cosa, portò lo sguardo all’altrove degli scogli marini patinati di corrosione bagnata, al dolore salino che aveva immediatamente baciato con fradicio fuoco le ferite aperte di quanti erano caduti sulle crudeli conformazioni della baia -la maggior parte di loro, ricordava.
Kiy scendeva avvicinandosi a un’apertura senza confini nel nero, e vedeva, come in un lago sotto di lui, quelli catturati da scolopendre libere, separate dalle appendici del mostro più grande, e subito gli occhi inoffensivi, come eccellenti globi di luce nella foschia, sovrascrissero all’iniezione velenifera delle mandibole nei muscoli inermi là sotto afferrati la scena di morsi all’assalto di gambe ormai incapaci di nuotare -murene, qualche squalo longimano, granchi, con le chele laboriose nello scomporre, particella per particella, disassemblare ciò che arrogantemente s’era conferito forma stabile e senso d’esserci.
Kiy infine chiuse gli occhi, continuando a vedere altre cose, sentendosi vivo, collegato a qualcosa ch’era stato, mediante il singolo filamento della sensibilità tattile sempre più intorpidita, eterea. Era una colonna vertebrale ruzzolante su un tappeto di morbida sabbia, ancora contenente un po’ di tepore del mondo che aveva conosciuto lassù. Dormendo nella caduta, continuava a vedere, confrontava ciò che così vedeva a ciò che prima gli era stato mostrato. Spesso non trovando differenza, spesso credendo di aver dormito prima, e di esser sveglio nel presente che si sgretolava, che perdeva il sopra e il sotto e il movimento. Nei livelli inferiori la nuvola di sabbia viaggiatrice s’era divincolata dalle conformazioni solide, ora era una bolla che percorreva le viscere nere, i tunnel del cosmo vicino. Chi cade nel vuoto diventa identico a chi non cade, chi non si muove, chi non ha mai avuto nulla attorno. Chi dorme così diventa identico a chi è vigile, a chi non lo è mai stato, a chi non ha mai conosciuto differenze e opposizioni.
Per questo non faceva alcuna differenza che Kiy fosse vivo o morto, che stesse sotto la terra o sopra di essa. Che stesse rinascendo, arrancando verso la luce in fondo a una buia caverna placentale, o che dalla luce si stesse allontanando per addentrarsi sempre più a fondo in un’ultima caverna che nessuno aveva mai raccontato di aver esplorato. Né in un’isola distante da tutto, ripudiata dal vacillante scheletro delle leggi di natura, né in qualunque altro posto che vedesse l’incrocio della terra, l’acqua, l’aria, il vuoto, la coscienza che tutto questo intesseva, annaspante nel tentativo di dirsi viva e diversa dagli altri elementi, simile a un fuoco azzurro che sopravviva sott’acqua. Non poteva sopravvivere nel posto in cui Kiy forse si stava dirigendo, nessuno mai era esistito che avesse assistito a quanto vi accadeva, alla forma che qui prendeva un nulla nero, granuloso, come un prurito che dalla distanza in fondo alla galleria si trasmettesse fino agli occhi della creatura che stava gattonando per raggiungere la fine, invadere il mondo oltre il precipizio del suo invisibile confine.
Nel galleggiamento incolore Kiy fu afferrato dalla bocca di un rapido mostro lacustre, un abitante delle profondità che indefinitamente aveva nuotato con arti simili a remi attraverso le ere e le estinzioni, infischiandosene. Un esemplare di quelle leggende che fanno affiorare un lungo collo e una testa di biscia dalla superficie bianca del lago di una conca montana, sorvegliata da un convento. La creatura si spostava più veloce di un cetaceo e si immergeva in cunicoli che solo lei conosceva, invisibili a Kiy ormai avvolto da un torpore, avvolto da un guscio benevolo di saliva grondante dagli innumerevoli denti sottili da pesce preistorico. Non gli faceva male. Lo portava via con urgenza. Era stato giudicato pronto a uscir fuori, rinascere, dopo aver visto quanto doveva vedere? Forse non avrebbe nemmeno ricordato, forse non esistevano domande, non esisteva nulla là sotto, in quel livello, a parte il mostro e i tunnel, alcuni scavati nel nuoto ininterrotto, altri esistenti da prima, da un tempo di palla di roccia e acqua senza vita.
…
Le urla di Hr riecheggiavano mute, limitandosi a pizzicare e far vibrare le argentee colonnine di bava raggrumate tra un labbro e l’altro come fossero gommose budella di cordofoni. Dii, immobile al centro del suo letargico vortice di sabbie mobili e stremato dal caldo dei raggi che cadevano perpendicolarmente sul panno intriso di sudore in cui si era avvolto la fronte, vedeva di fronte a sé, senza riuscir più a classificare e comprendere, soltanto un’ombra grottesca, che si dimenava al centro della scena. La bocca si spalancava, le distanze e prospettive venivano annullate: irsute spine di cacti affacciati ai bordi del cratere sabbioso fuoriuscivano da denti e lingua, simili a parole d’odio, al bruciore di gola da cui si generavano, per poi perdere di consistenza nella risalita. Dii ascoltò attentamente, senza capire. Hr ripeté senza capire più volte le stesse cose: temendo di scomparire, improvvisamente credeva in una forza e un valore insiti nell’atto di ribadire, quasi cercasse una nuova comunicazione col mondo che l’aveva privato dell’unica efficace forma dialogica che conoscesse, cioè la possibilità di scalciare via ogni situazione, sancire un lamento e un disappunto con la firma della propria scarpa, o della pianta nuda corrosa da cinerea sabbia vecchia di giorni.
Dov’erano i loro piedi? Stavano toccando qualcosa? Potevano solo scalciare in un vuoto di granelli in incessante rimescolio, caotico fino a non esistere, potevano solo proseguire in un impacciato, tragico nuoto regredito allo stile infantile del cagnolino fermo sul posto. Non potevano percorrere la terra fino ai suoi confini, fino a porre una conclusione all’impresa di quel viaggio definito solo dai passi, dalla marcia pionieristica in un territorio privo dei requisiti per essere redatto nelle carte geografiche a uso di altri marinai. Forse ancora esistenti chissà dove, in chissà quale dimenticata costa del globo, gonfio e respingente coi mari che gli scivolano sulla superficie.
C’erano fari su quelle coste? E stanze polverose, del colore delle stanze della loro cultura. La polvere certamente doveva aver lì l’odore preservato senza mutamenti dall’infanzia, gli stratificati significati di tedio che in quell’età erano stati attribuiti, quasi per smania insolubile di abbellire anche con una bruttura aggiuntiva, modificare, mai e poi mai accettare la natura del vivere, il tempo trascorso. Per ragioni senza ragione, partorite da quelle parti di loro risvegliate dalla presenza nella mappa di un forse ancora sconosciuto continente o isola dell’irrazionale, Hr e Dii si ritrovavano a ricordare, entrambi e all’insaputa dell’altro, gli stessi rintocchi d’orologio ch’era stato identico in due passati indipendenti, simili come le stesse ombre d’arbusti nei giardini, le stesse chiazze di sole attraverso le finestre. Nei cervelli si sincronizzavano i rintocchi che erano il verso del legno bruno e l’odore del suo alone di polvere, erano le ore trafitte dagli sguardi dei dorsi di volumi rinchiusi e allineati negli scaffali, erano in pochi ticchettii la sintesi del suono del continente che avevano lasciato, in una catena di azioni irreversibili. Continente immerso nel tempo in cui l’azione di arrancare, la stessa di quel disperato presente in uno stomaco di sabbia, era parte della natura, di una crescita, di un’evoluzione. Quando credevano che sarebbero arrivati in quel modo a modificare poco a poco l’andatura, sempre più farsi in grado di raggiungere la fine del viaggio, osservare un tramonto al culmine della via tale da ergersi sopra ogni fronte d’uccello e di nuvola, e ridiscendere in lacrime tiepide per andare a depositarsi nelle loro orme sin lì giunte, così da formare tante pozzanghere di vivo, riverberante rossore.
S’erano trasformati in gente che senza i piedi non era più niente. Avrebbero avuto bisogno di un leader con le pinne o con le ali, o avrebbero creduto d’averne bisogno, crollata ogni risposta in se stessi. Uomini senza piedi, convinti della sola verità della disintegrazione, scoprivano la sentimentalità. La fronte di Dii lacrimava sotto un panno intriso di fruste amalgamate di gelo vischioso, sgorgato dal cerebrale contenuto dei suoi pori, e un calore capace di assassinare ogni principio di rigenerazione nelle cellule viventi, caduto in picchiata dall’esterno e dall’alto, da un inferno che veniva scoperto fluttuare nel cielo.
Hr, sordo a se stesso, stava cercando di superare il blocco inspiegabile, delle orecchie o delle corde vocali. Nuove doloranti ghiandole sonore si generavano, nello sforzo di negare il “destino”, sgradevolmente giunto assieme a quell’ondata sentimentale simile a una schiuma mai vista che un giorno infine trabocca da sotto le tegole di una baracca edificata da un cieco sul margine tra la costa e le onde. Credette di urtare con il proprio messaggio un lembo di agave, e veder vibrare lungo i bordi seghettati la verdognola minaccia di veleno analogo a quello da lui serbato, provando dunque con lo spostamento d’aria di essere riuscito a lanciare la sua comunicazione nel deserto della fine di tutto. Aveva la sua soddisfazione di costringere ancora le cose a muoversi, e non poteva fermarla, doveva essere protratta fino alla fine. C’era però qualcosa di strano, e l’agave, come annuisse, tornava a rinfrangere più volte le macchie d’ombra e colore in movimento periodico sulla livrea inquietantemente vivida. Non s’era mosso davvero: Hr si accorse che coltelli d’ombra fendevano a intermittenza il suolo bollente, lame sottili in navigazione sopra la vegetazione e loro. Ma la sordità raggiungeva anche la pelle, così le ombre in volo non procuravano alcun sollievo all’ustione ininterrotta, né un nuovo dolore di lacerazione che potesse distoglierli dal supplizio. Sollevare la testa e lo sguardo era una scelta ancora peggiore: un’esplosione di chiarità, condensata in una palla spinosa alta nel cielo come un riccio di mare impregnato di fulmini, arroventava la volontà e la liquidità degli occhi, non dissolvendo con la sua luce nessun mistero, non mostrando nessuna causa, anzi uccidendo una porzione d’oscurità evidentemente necessaria a vedere e sopravvivere. Ma ritornando alla sabbia, unico foglio sul quale potessero veder scriversi l’attuale loro storia, potevano intuire che i cerchi aguzzi in giostra attorno al sole erano voli di esseri viventi, indifferenti ai raggi, ali lunghe a scaglia lunare le cui piume erano forse composte dalla stessa nera sostanza di un cristallo di luce che tutto assorbe.
Erano questi falchi e avvoltoi, corvi e stercorari, giunti a banchettare soltanto simbolicamente della loro scomparsa? Erano di questa dunque i testimoni che con lo sguardo divorano la putrefazione, la sabbia senza stele commemorativa, senza nemmeno vere grida in una torrida equalizzazione d’ogni suono a un’inudibile bruma biancastra?
Osservarono che i voli periodici risalivano il cratere, poi ritornavano verso il centro. Risalivano, ritornavano. Eccoli arrampicarsi, i coltelli proiettati da uccelli incastonati nella canicola che non avrebbero mai potuto osservare direttamente, eccoli strisciare verso i bordi della rovina, senza per questo smuovere alcun granello, del tutto liberi da ogni trappola della terra. Non credendo più ad alcuna ragione del cosmo e del suo contrario, e della terra e dell’aria, e dei corpi e nemmeno dei confini che avevano coi loro ologrammi di sogno, Hr e Dii ricolmi di sentimentalità fino a grondare un trasparente grasso, sporsero le braccia quanto più poterono al di fuori dei loro cerchi stretti e ineludibili. Afferrarono le prime punte d’ala capitate a tiro di mano. Funzionò. Avevano cieca fede nella convinzione di non credere a niente, nell’assoluta mancanza di valore in una presunta differenza tra un salvataggio spiegabile elencando e descrivendo le spoglie secche delle azioni compiute, e uno in cui si ritrovassero fuor di pericolo come nell’alba dopo una notte di incubi, con emicrania di fuoco e scottature tigrate sulla fronte, incerti d’aver sognato ogni singola cosa. Nessuna differenza. Stavano venendo trascinati sulla sabbia, trasportati da ali disegnate di uccelli il cui volo rallentava per il peso delle loro ombre, ma non si arrestava, e senza esitazione procedeva verso i percorsi già tracciati, verso la cima del cratere dove i due marinai avrebbero lasciato andare la presa, e cercato di rotolare fuori di lì. Trascinati secondo le regole delle ali. Non un granello veniva smosso, non una scia si scavava sotto i corpi affidati al mondo delle ombre, alle effimere convinzioni degli uccelli quando sovrappensiero trascorrono sorvolando su tutte le cose. Soltanto un segno rimaneva. Nei polpastrelli e nei palmi, si scavavano ferite, perché le ali erano coltelli, perché in tal forma le avevano viste, e in tal forma non potevano smettere di vederle. Ferite dalle quali non si versava nemmeno una goccia di sangue.
Dormirono a lungo. Il pomeriggio, così brutale, svestiva i panni di un bestiale carceriere rivelandosi, proprio in prossimità della sua fine, niente più che un bambino di giochi luminosi, titubante nel terminare gli ultimi giochi e castelli di sabbia prima d’andarsene da qualche altra parte del cielo, trascinato per mano da una forza più potente della sua volontà. Sembrava quasi che nulla si fosse mai spostato da una normale scena addormentata in spiaggia. I raggi che cominciavano a scurirsi, il passaggio del vento attraverso alcune fronde, masse di fogliame libero trascinato verso l’acqua, in promiscuità con le alghe giunte a riva con la solennità di schiere di soldati. Un gabbiano intermittente. Dii e Hr dormirono e si accorsero che anche lassù, più alti della spiaggia e più bassi del bordo che li aveva risucchiati, si sentiva il rumore del mare. Ormai desti al lento volgere del giorno, avevano lasciato dietro sé, in una buca vorace, un tempo che non sapevano se potesse mai esser restituito, o se il suo spreco potesse rivelarsi fatale in un prossimo futuro. Ma non era forse così tutto il tempo? Non era quella buca qualcosa che poteva esserci o non esserci stata, anch’essa senza alcuna differenza? Non erano che due uomini adulti un po’ scottati, distanti dai castelli di sabbia melmosi della battigia. Hr non aveva controllo sulla bava ai lati delle labbra, una reazione dell’acqua di mare che gli si era riscaldata dentro come non mai, e desiderava refrigerarsi, cavarsi spazi di respiro, liberati da salivazione e sudore. Ancora conservava quella corrosiva bevuta, ribollente e cosciente come l’istinto colonizzatore di un virus, da qualche parte nei reni o forse lasciata libera di muoversi dovunque volesse tra gli organi e gli spazi intermedi. Ma scottature e bave salate non erano niente, non era successo niente.
Non avrebbero mai parlato di quel salvataggio, né si sarebbero comportati l’uno con l’altro in maniera diversa a causa di questo -d’altra parte, se non c’era stata la buca, non c’era stata nemmeno la fuga. Hr emanò una sola sillaba, un’esclamazione che voleva siglare un’intesa, un’ultimissima menzione, circa l’ovvietà del non far mai riferimento a nulla di quel giorno, e forse ribadiva che lui, Hr, non credeva ai diavoli, non credeva ai fantasmi, nulla era cambiato. Dii lo guardò con una faccia strana. Se Hr l’avesse visto, avrebbe trovato un volto, per nulla caratteristico, di qualcuno che sembra deludersi nei confronti di un altro che mostra all’improvviso una goffa fragilità dopo essersi comportato da tiranno. Un velo di calda penombra e una collana di raggi solari però cancellavano per intero la testa di Dii, macchia indistinta fluttuante su un corpo protuberante a forma di giara qua abbronzata e là ustionata. Ma anche senza un velo nessuno avrebbe potuto mai affermare che Dii fosse davvero deluso, o se mancava un fondamentale collegamento tra l’animo e i nervi della sua faccia. Riacquisita solidità, dissipata sentimentalità, si rialzavano in piedi, facendo scorrere da sotto le piante dei piedi ruscelletti di sabbia diretti ai livelli pianeggianti sotto l’erta. Senza che avessero pensato a tale obiettivo, si accorsero che il lato del cratere risalito nel trarsi in salvo era quello opposto, aperto verso un lato inesplorato dell’isola. Nell’orizzonte d’acqua grigia momentaneamente rivestita di abbacinanti scaglie gialle, una risacca di benvenuto. Addii nascosti come occhi di sporchi gamberetti nella foschia marrone dei fondali bassi vicini alla secca. Pomeriggio da spiaggia normale.
Il mare si udiva bene, s’amplificavano le sue variazioni in orecchie d’un tratto sturate. Giunse un tonfo come di qualcosa che venisse rigettato dalle onde. Qualcosa che di certo aveva un corpo, ma non un peso eccessivo. Faceva quasi pensare che a esser rigurgitata dall’acqua fosse un’altra massa d’acqua, sfranta in fresche goccioline e vapore sulla battigia. Con passo svelto Hr e Dii scesero incontro alla sorgente del suono, raggiungendo così, ancora una volta, la costa che non finiva mai. Sotto il nuovo sole, conosciuto nel momento del suo progressivo arrossamento, s’assorbiva tutti i riflessi caldi dei raggi, come a volersene allattare, la livrea vischiosa che patinava un corpo nudo. Un uomo era stato vomitato dalle onde. Si avvicinarono a Kiy, privo di sensi lì ai loro piedi, nudo nell’involucro d’una specie di placenta salmastra, dove grani più grossi di sale affioravano dalla diafana matrice in corrispondenza dei gomiti, le scapole, le spigolosità delle ossa. Strane striature sulla sabbia attorno tracciavano lievi segni, quasi trasparenti, di una specie di combattimento, e si riimmergevano nelle acque con la fretta di qualcosa che dopo aver abbandonato un carico faccia ritorno ad altre urgenze. Un fremito negli occhi di Kiy smosse i nei di sabbia scura sulle palpebre, annunciando che la sua coscienza aveva camminato da uno zero assoluto fino a un semplice, ma profondissimo e placido sonno. Lo rendeva quasi bello e addormentato, con lo stesso silenzio interrotto dalla schiuma di un’avvenente polena staccata e arenata, un relitto arenato e imbrigliato in un fitto groviglio di kelp verdi, capelli smeraldo di sirena. Hr e Dii torreggiavano sul suo sonno ignaro di tutto, la peluria dei fisici robusti smossa da una brezza che cominciava a spazzare masse scure di sera tra gli arbusti del deserto e gli alberi ritornati a ricomporre pian piano una boscaglia . Vigili genitori, pali confitti nella sabbia compatta. I disegni di scottatura e venature di tempo trascorso già si affievolivano sulle loro cortecce mentre vento e ombra scendevano su tutto, sbatacchiando granelli, frusciando, azzerando l’ira delle cose.
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