dove c'era un paguro- capitolo 1
- Milky
- 15 nov 2022
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1
Si addormentò con una convinzione. Produsse mostri nella coscienza.
Vide, per prima cosa, l’occhio dell’uccello, accompagnatore dei viaggi e delle tempeste: non se ne poteva separare, era una delle regole. Non conosceva la sostanza della sua membrana. Una pellicola di smeraldo, un grembo di mare denso ed essiccato. Dove si trovava? Forse lo osservava dal bordo, da un davanzale, sferzato dagli spruzzi della schiuma sotto, viva, agitata. Come se l’intero mondo si fosse tramutato in un cetaceo, e tutto quanto costellava la sua superficie, alla maniera di cicatrici e cirripedi, fosse soggetto a tutti movimenti provocati dai respiri dei numerosi suoi sfiatatoi. Il sale graffiava le superfici, ma non l’occhio dell’uccello che rimaneva fermo, a guardarlo, e a parlargli.
Una convinzione singola, appartenente a tutto il mondo esplorato, era simile appunto a un cetaceo, disegnato sulle mappe nei punti in cui la facoltà di immaginare si incanalava in repentine e spaventose discese verso il brivido. Il brivido aveva forma di serpenti di mare, di pesci deformi. Le balene erano questo e altro, gli incubi erano tutto ciò che attendeva d’esser scoperto come opali di forzieri sprofondati dentro le immagini e la carta che diventava nuovo supporto. Fibra di cervello. E disegni di vortici, mostri, uccelli.
Vide, per prima cosa, l’occhio che gli parlò. Disse: non esiste quel “suono placido” che cerchi. Certi marinai hanno trovato le sirene, altri ancora hanno disseppellito le leggende dagli atolli o dai fondali, gli stessi fondali a guardia feroce dei resti di compagni annegati. Spolpati da uccelli, pesci, chele infinite che tempestano le incrostazioni salate del mondo subacqueo in uno sciamare di multiformi mosche del mare. Questa è la vostra tomba: e non esiste la leggenda che la contrasti, il suono placido che intendi trovare. Un suono che cada allo stesso modo sulla superficie del mare e sulla sabbia, sulle rocce. E, più importante per te che lo cerchi, sulla sabbia compattata, cristallizzata, che forma i teschi. Dimmi, marinaio, qual è l’effetto da te anelato, di questa propagazione del tuo immaginario “suono placido” sopra i teschi ammonticchiati inesorabilmente dai giorni?
Vide l’occhio, credette d’essere svegliato. La sua era una convinzione che ne generava altre: per vedere qualcosa, era necessario essere svegli -era una di queste.
La sua convinzione cominciava a presentare fratture.
Nelle fratture prontamente si infiltrava l’acqua. Sciabordava irosa, ricolma di un incontenibile astio elementale, contro le pareti interne, e lentamente, in un processo millenario in cui grotte segrete nascevano e spalancavano le palpebre, le corrodeva. Le modificava. Cos’erano le nuove pareti? Nessuno, nemmeno occhi parlanti a causa di qualche perversa ed ennesima maledizione da merfolk, poteva spiegarlo. Tanto più che l’eterno movimento delle onde, delle navi, di tutto ciò che è visibile dalla costa, spingeva molte delle persone a essa vicine a non voler cambiare, come unico contrasto e opposizione al vivere. Mentre, fuori dalle finestre dei loro temporanei rifugi di legno tartassato dal sale, i monumenti bronzei e le ringhiere andavano ricoprendosi fittamente di guano scintillante di bianco fresco, abrasioni dipinte dall’acqua, tracce misteriose che sembravano esser state lasciate dalle lingue di molluschi di forme aberranti. E i marinai erano la gente che lì passava, calpestando e fumando, lasciando tracce sul suolo e nell’aria. Organi sessuali nominavano i molluschi dalle varie forme. Le pelli apparivano irritate attorno alle barbe. I raggi del sole sulle onde o sulla costa, nella foschia e nel chiarore, erano capaci di dilaniare, in certe giornate maledette. E gli stridii incessanti sui promontori, provenienti da nidi costruiti a picco per mostrare ai pulcini che si nasce nella caduta, parevano trasportare dentro le orecchie patogeni sconosciuti fatti di grida.
Questo è il tuo mondo.
Questo è il mondo che impone di avere una convinzione, per poter salpare, per poter proseguire, sentire il tocco delle onde. Ma come diventa quando scopri che la tua convinzione non è viva? Non è, come direbbero alcuni, “esistente”? Mica puoi andare a rubarne un’altra. Si diventa pirati. Ma per diventarlo, ancor prima di rubare una convinzione altrui si deve avere quella di esser ladri, con le sue leggi. E allora? Con una convinzione devi pur proseguire. E allora? Si prosegue pur sapendo che non è altro che merda di mare? La marea la rivolterà in continuazione, rotolata su se stessa come carcasse sfilacciate di capodogli.
Questo è il tuo mondo. Vacci dentro, non trovare il tuo “suono placido”, non tornare, non avere nessun posto in cui tornare. Diventa la stessa cosa per la quale il dolore e la paura ti hanno fatto desiderare questa singola convinzione, questa brama di un rumore impossibile da udire qui e dovunque. Diventa un morto, simile a un morto, con convinzioni di morto.
L’occhio dell’uccello scintillò. Un raggio di smeraldo, forse per un istante di cui non esisteva certezza, si proiettò a formare una sottilissima e inquantificabile lama verso il cielo, a bucare gli astri. In quel momento ritornò la coscienza della luce. Non sembrava giorno, non sembrava notte. Qualcosa filtrava certi lampi di chiarore che pur dovevano esistere da qualche parte nel cielo, così da contrastare il buio. Come l’interno d’un cassetto in cui l’entrata di raggi è preclusa da un velo protettivo. Oppure, più verosimilmente anche in rapporto alla sinistra e misteriosamente vertiginosa atmosfera, c’era un’eclissi gigantesca. Una di quelle in cui escono le teste di gigantesche draconiche murene, dai marosi e dai torbidi vortici della coscienza. Le acque, scure ma non di quella consistenza di puro nero terrore che si espande solo di notte, erano attraversate temporaneamente da strani bagliori. Informavano il nucleo di certi lunghi e sottili spruzzi, con un aspetto tale da far immaginare di poterli maneggiare. Si riempivano di lampo, lanciandosi sporadicamente ai bordi del visibile, per poi disfarsi con un soffio schiumoso, un istante di luce sfaldato in salsedine invisibile. Chissà che la lancia smeraldina proveniente dall’occhio dell’uccello non si dirigesse proprio a infilzare quel qualcosa che stava accadendo lassù, in tribunali di divinità nude. Le cose dell’alto riflettevano un’influenza capace di adagiarsi in ombre e luci e spaventose sagome sulle cose del sotto. Questo era il mondo.
L’uccello spalancò l’occhio, lo chiuse, lo riaprì. I secondi ricominciarono a rintoccare. Era facile vedere incastonato nel petto dal piumaggio d’argento sporco l’organo bussola conoscitore di rotte migratorie e variazioni di pioggia e vento.
L’uccello batteva ritmicamente le palpebre. Forse la velocità era impressionante, di un tipo che poteva esistere solo in sogno. Anche se vedere apparteneva solo alla veglia. Incagliare, imbarcare acqua tramite buche nella propria convinzione.
L’uccello spalancò le ali e lanciò un grido assordante. Creò creste e gole lungo i bordi delle sue vibrazioni sparse nel vento per sottometterlo. Parve di vederle, aventi la natura del ghiaccio. Era una visione semplice, e apparve nella coscienza la capacità di immaginare le montagne.
Mentre le montagne si profilavano, grigie verdi e azzurre d’un ghiaccio irraggiungibile, all’orizzonte nebbioso della mente, tutto quanto circondava questa riempendosi di forme fisiche cominciò a girare, girare, girare. Tutto cambiava di posto. Ciascuna cosa custodiva al suo interno una convinzione, tale da farla esistere, sussistere come una struttura ben progettata. Ma anche quelle convinzioni giravano senza mostrare propensione a opporsi all’andamento circolare e veloce che pareva afferrare tutto. E il cielo, ora compreso nel cerchio dello sguardo, si allontanava. Era pieno di nuvole nere, lampi, un’apertura alare che volando via si rimpiccioliva, annerendo il dorso e il ventaglio di piume caudali che sembravano gettare sdegno alla distanza sottostante. Sparì, risucchiata dalla follia esasperata del movimento: il possessore dello sguardo non aveva altra scelta che comprendere di essere fantoccio della volontà selvaggia dei vortici. Se il legno su cui si trovava era una nave, allora presto sarebbe stata un relitto. E tutto diventava come il vortice quando era lui a volere le cose, e tutto diventava nausea, sentimento di perdita.
Sentì la carezza gelida dell’acqua salata. Il sapore lacerò la pelle, beveva dai pori della pelle. E anche le palpebre gli si riempivano d’acqua, precedendo il destino dei polmoni. Era in acqua. Prima di sparire nelle sue particelle capaci di riempirsi di nero e vuoto e nulla, rifletté. Riflessioni velocissime, lontane dalla veglia, da ciò che era ammissibile dalla convinzione. Avrebbe dovuto forse dirigersi verso le montagne? E perché lui, che aveva desiderato trovare da qualche parte, forse nella sorgente pura e remota di un’isola, la perfezione del “suono placido”, aveva invece trovato una gemma strana? Gemma strana: in questi termini che per un istante aveva pensato all’occhio dell’uccello. Un materiale prezioso molle, con una luminosità che superava in intensità e suggestione tante cose rigide. Penetrandolo, si sarebbe prodotto un olio vischioso, una bava nutriente per le forme degenerate dei merfolk voraci di cose simili al sangue. Ma non era forse ciò che tutti i marinai avevano sempre visto, uno stupido occhio d’uccello? Quante volte, a posarsi sulle prue, i davanzali, gli alberi delle navi e quegli altri alberi simili a miraggi delle spiagge. Occhi che se ne stavano a osservare qualcosa con vacua fissità per ore infinite, temprate dal ruggito del mare.
Entrò in quel ruggito, ne divenne parte. Se un tempo c’era stato un uovo di marinaio, anch’esso con la membrana di vischioso smeraldo, l’aveva lasciato senza tuttavia che si generasse in sé, come conseguenza d’essersi schiuso e nato e gettato nel canceroso meccanismo della crescita, la convinzione necessaria alla formazione delle ali. Si era schiuso, e non sapeva volare, né nuotare, e così si era buttato nella corrente, dimenticando l’odore grasso dell’involucro. Che sapeva fare allora?
Smise anche di riflettere e il cielo fu sostituito da un’unica coltre di buio, maculata a tratti da pozze di luce. Si muoveva eternamente, eppure sembrava ferma. Era bella. Ma nei polmoni sentiva il fuoco, un fuoco violento pronto a esplodere. Giusto, era così che ci si sentiva annegando. Non era una morte dolce, non era un suicidio che si potesse desiderare! E per questo fuoco chiuse gli occhi riempiti fino a scoppiare delle lacrime più antiche della terra, figlie e sinonimi del mare, ancora maledicendo e odiando. Non c’era altro dall’odio dei polmoni e del loro male.
Si addormentò in quella realtà, si ritrovò sveglio in un’altra, il corpo pieno di ferite doloranti e una sete che gli avvolgeva la lingua fin nel profondo del torace come le molte spirali di un drago attorcigliate al cono di un vulcano sommerso. Che ruggiva, generando bolle profonde. Qualcosa ruggiva nelle vicinanze. Un letto scomodo, una mattina oscura. Qualcosa fuori, rumori portuali venuti a noia. Tre strisce di sole, sbiadite e irreali in una maniera che faceva pensare esistessero solo perché qualcuno aveva detto loro di farlo, toccavano pigramente una zona polverosa del pavimento compresa tra il malloppo formato dalle lenzuola ricadenti e la parete fatiscente. Qualcosa puzzava tremendamente di lische.
…
Tracciarono la mappa con un gesto violento. Pochi istanti dopo, tediati da tentativi deboli e disincantati di farne un’attenta esaminazione, la cancellarono. Quello corpulento osservò con sguardo cinico, e a tratti quasi disgustato, i granelli di sabbia disfarsi immediatamente nel vento come se non avessero atteso altro. Scavati e disposti in diverse densità sul suolo, infiniti, avevano composto l’immagine astratta, tramutata in linee, di una certa geografia. Di una certa scena. Ma poi erano volati via.
-al diavolo anche loro. Sono morti, no?
Il corpulento aveva intuito qualcosa che non gli piaceva nell’atteggiamento dell’altro, ancora seduto sulle caviglie a lasciarsi spettinare i capelli dal vento costiero. Pareva volersi trasformare in una palma, o in una delle barche antiche sfasciate sulle labbra spumose delle onde che parevano voler tormentare la molle battigia come tante nenie d’arpia.
-morti, presi in mano al diavolo.
Aveva capito che la proposta di quello, quasi subito morta, di tracciare una mappa, era dovuta a un desiderio più recondito, avente qualcosa di perverso o ancor peggio nostalgico, di ricostruire un istante perduto. Fingendo di disegnare un luogo in cui avrebbero dovuto dirigersi, aveva in altre parole -in altre linee- disegnato un luogo da cui altri, loro compagni, non erano riusciti a fuggire. Le frastagliature che in due avevano tracciato sulla spiaggia in molti caotici solchi di bastoni, ricordavano i temibili denti di quella costa rocciosa. Le aperture tra gli scogli, le insenature ruvide che, in anfratti della loro invisibile metà subacquea, ancora tenevano imprigionato il maltolto. Brandelli di carne, di vesti, di ossa che non sarebbero state restituite. Soltanto per caso avevano sentito di doversi dirigere in un luogo che, chissà perché, si presentava simile, con le sue linee cattive che parevano poter soffiare come schiuma. La grotta era lontana, su quell’isola -ammesso che ci fosse-, e disegnare una mappa a quel punto, senza fare altro che rappresentare i tratti principali del paesaggio per come s’aspettavano che l’avrebbero visto, non poteva avere alcuna utilità per l’avanzata, per le fasi del percorso che li avrebbe condotti lì. Nient’altro che un gioco, un demone mentale di uno solo di loro. Per quel che il corpulento ricordava, quell’uomo aveva sempre rifiutato di far da capitano. Ma, in un modo o nell’altro, sprofondando nell’inazione e lasciandosi sferzare il volto ammaccato come legno dal vento, in una specie di accidia arrendevole esasperata al punto da superare forse volutamente quella della vegetazione, riusciva chissà perché a far sì che il suo debole volere si manifestasse comunque nel mondo attorno a lui, prendendo percorsi sconosciuti e involontari per gli altri come per se stesso. E a questi cambiamenti opponeva lo stesso atteggiamento di stanca indifferenza, forse soltanto a volte marcato da un fremito di sopracciglia di vago pentimento, mentre tutto il resto del volto rimaneva congelato nella barba prematuramente grigia, tesa alla missione di avvolgere la naturale mutevolezza della faccia in un’indistinzione lanuginosa.
-aaah, ma perché, questa spiaggia merdosa…
Spalancò il petto robusto, quasi avesse i muscoli superflui di un animale corteggiatore. Osservandolo così fermo e già dimentico di tutto quanto aveva attorno, continuava con irritazione a calciare, manipolare arbusti e cose che spuntavano nei paraggi, strascicare gli stivali sulla rena in fulminei sbotti da caprone, immediati nel ritrovare la calma e nel perderla a ripetizione. C’era qualcosa di cui aver paura, nella scena che avevano visto, e anche lui col suo fare gradasso lo capiva. Avevano visto i corpi aprirsi, disfarsi, diventare inutile zavorra flaccida. Ma precisamente per questo un marinaio doveva volgere per sempre lo sguardo dalla scena, dimenticarne l’anima sua particolare fino ai contrasti di luce e ombra, i chiaroscuri annidati tra i denti. Indugiare su quella scena trasformava in esseri diversi: per questo la gente di coste e isole, galleggiante in sospeso tra varie forme di noia e disperazione e vuoti interni, aveva sentito l’esigenza di inventarsi tanto tempo prima leggende e canzoni, e di renderle tanto importanti. Lui non ci credeva più, non era più tempo di crederci. Era tra i marinai il meno credulo. Ma c’erano forse ancora le cose a causa delle quali le storie, folli più della solitudine dei naufraghi, per anni avevano incantato le menti in un’ipnosi di flutti pericolosamente conducenti a vari abissi di perdizione. Indugiare in queste cose, faceva sì che uno vedesse i merfolk, parlasse con loro, carezzasse il fiato di anguille e murene spettrali, e cominciasse a sentirsi maledetto pure da una cosa scema come lo sguardo degli uccelli.
-il diavolo, ce li ha in mano. Non tu e non io. È una stronzata, questa storia.
-la storia del diavolo?
-eh?
-dì, tu ci credi- esordì, il pensatore, quasi senza fiato e con lo sguardo rivolto a una distanza in realtà ignorata, facendo strascicare una lunga pausa di silenzio -tu ci credi, a quella storia del diavolo, che in realtà è una specie di razza da fondale? Con le ali nere, le corna lunghe. Bocca bavosa.
-non ci credo e non me ne frega un cazzo. Il diavolo è una donna, il diavolo è una puttana, il diavolo è una razza. Tutte cazzate per non farti vedere la faccia di merda che veramente ha.
-faccia. Ha una faccia?- riemerse repentino un fremito sotto la superficie della guancia, visibile oltre peli e ruvidità.
-smettila. So a che pensi. Sì, ha una faccia, e allora? Se ha una faccia vuol dire che sotto la faccia ha pure…
-teschio.
-ecco, bravo, lo hai detto. La tua parola preferita della giornata e delle ultime settimane della tua vita scommetto. Andiamocene da qui e dimentica quei tuoi teschi del cazzo.
Non dimenticava i suoi teschi del cazzo. Imprimendosi dentro, di tutto il mondo, soltanto il colore della sabbia nel fondo degli occhi, lasciava che qui si adagiasse, venisse agitato dalle acque della pupilla, acque di profondità che lo rimescevano e lo usavano per comporre nuove immagini. Era lo stesso colore dei teschi che desiderava ricostruire. I teschi dei compagni che lo guardavano, muso rivolto a lui, e decadevano, si spezzavano, lasciavano che le crepe risalissero fino a tracciare geometrie perfino belle lungo le calotte tondeggianti, inarcuate sopra le cavità che erano bocche scure di conchiglie abbandonate.
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