top of page

vi maledica il mio inferno

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 13 ago 2021
  • Tempo di lettura: 22 min

Dicevano che c’era da aspettarselo, da un tipo come lui. Poi si correggevano: non ci si poteva aspettare quella cosa da nessuno a questo mondo, ma se proprio qualcuno avesse dovuto farla, allora doveva essere proprio lui. Nei giorni precedenti si era fatto ancora più strano. I vicini non sapevano spiegare bene perché, doveva essere qualcosa nell’atmosfera generale che si trascinava dietro. L’impressione che gli angoli del campo e del viale, con ai lati tutti gli orticelli e le casupole delle galline, venissero tirati dietro al suo passaggio, strappati via. E gli si ammalloppassero dietro come una gobba, che faceva il passo suo appesantito e mai arrendevole. Finiva la sua consueta passeggiata arcigna, a testa puntata da toro, e ritornava indietro, come se nulla fosse. E di fatto nulla era. Però potevano vederlo che c’era qualcosa di cupo intorno a lui.


Lo sguardo truce non mutava mai, un’espressione così congelata che praticamente quasi tutti quelli ancora in vita ricordavano esser sempre stata la stessa da quando l’avevano conosciuto. Certo doveva essere esistito un tempo in cui era diverso. Ma per tutti era quel vecchio dallo sguardo perennemente accigliato, il mento sbarbato protruso a stiracchiargli le labbra corte in una stortura di diniego verso il mondo, come se maledicesse ogni cosa senza però scomporsi. E in effetti il vecchio non alzava mai la voce, non gridava, non prendeva a calci le cose. Le sue bestemmie erano soltanto ringhi sottovoce, ma così minacciosi da far rigar dritta l’acqua che non voleva uscire dal tubo, il gatto che voleva pisciare nell’orto, una vite che non si svitava.


Insomma anche quello era normale. Ma le occhiaie erano diventate rosse. Un po’ sanguinolente erano sempre apparse, sotto il gelo della pupilla azzurra sempre incastrata nel cipiglio bruno. Gonfie e affioranti venuzze invisibili, che insieme tingevano i bulbi color pomodoro riconoscibilissimi dalla distanza. Eppure c’era un rossore ancor più intenso, prima della faccenda. Stava cambiando?


Tra le voci più assurde, una affermava non dormisse più sin dai giorni della guerra, più di cinquant’anni prima. E precisamente dal giorno in cui aveva visto quell’esplosione, dall’alto di una collina. Andava a recuperare le bottiglie di vetro per il latte che aveva lasciato in una caverna d’altura, spesso usata anche dai pastori per stiparci oggetti vari. E scendendo lungo la facciata, tra le sterpaglie, le spighe e i crochi, vide nella distanza avanti a sé la nuvola arancione di fuoco e fulmini spalancarsi come gigantesche ali di una farfalla cosmica al di sopra dei villaggi e il paese minuscoli laggiù, e in un attimo roboante come terremoto polverizzarsi in piogge incandescenti che ostruivano la strada collegante alla città oltre i valichi della valle, gli alberi e l’albergo doganale, il laghetto. Il vecchio era uno dei pochissimi testimoni sopravvissuti all’arma famigerata. E pare che proprio da allora il suo volto avesse dimenticato contrazioni quali quelle associate alla gioia, la pace, la tristezza, o anche lo starnuto e lo sbadiglio. Quanto alla questione del sonno, non c’era modo di capirlo e sembrava troppo assurda.


Davvero però negli ultimi giorni, settimane, forse vari mesi, non aveva dormito. Uomini di medicina che in seguito commentarono tutti gli sviluppi della questione, dicerie comprese, sostenevano che sarebbe dovuto già morire in quell’ipotetica condizione; ma non aveva dato segno alcuno di mutamento, se non quelli più impalpabili e di natura incerta, come l’aura che emanava. Il suo stato psicologico ne aveva risentito fino a portare a quella cosa inspiegabile. Un vecchio spaventoso. Nessuno però l’aveva mai reputato cattivo.


Dicevano anche che la presenza della nipotina gli aveva fatto bene, l’aveva addolcito. Davvero? Lui sembrava rimanere sempre lo stesso. Solo impressioni forse, perché per il resto quello proseguiva i suoi giorni sempre allo stesso modo. I suoi silenzi stizziti indistinguibili da quelli rilassati, poche parole di saluto -soltanto in risposta ad altri-, qualche grugnito brontolone. E anche quando lei era là faceva le sue cose come al solito, chiedendole ogni tanto di reggere questo o quell’oggetto, tener ferma la scala mentre armeggiava tra i rami di un melo. E quella, la dolce Matilda, tutta sorridente eseguiva, senza commenti superflui, contenta anche di guardarsi intorno per orto e frutteto, vedere le api. Il buon umore di lei e l’atteggiamento freddo e rude di lui non si influenzavano a vicenda, e non erano infastiditi l’uno dell’altro. Convivevano, chissà come, in armonia. Quindi si poteva dire che anche lui stesse bene in compagnia della nipotina. Solo che, come per ogni altra cosa, non lo mostrava. E pareva che non ci fosse nessuno sforzo dietro, nessuna volontà: mimica facciale e corporale semplicemente non sapevano come muoversi oppure non ne trovavano un buon motivo. Dietro la schiena ricurva e smilza, sulle orme lasciate dalle scarpe nere da quacchero scricchiolanti, saltellava Matilda tra sobbalzi di boccoli color carota, quel folletto di città col sangue di campagnola.


Altro che migliorato, dicevano alcuni. Quella faceva peggio, lo rinchiudeva ancor più nei suoi lontani giorni della guerra dai quali non era mai uscito -ma era soltanto una teoria di alcuni: al paese, nonostante la scarsità di studiosi, le teorie avevano sempre proliferato, su qualsiasi aspetto del mondo circostante, serpeggiando dai meandri persi nella storia delle feste folkloristiche fino al pietrone con le nervature che parevano disegnare una faccia, e insaporendo il terriccio dove crescevano le leggendarie zucche del signor Cerasi. La pietra era un druido, l’antica presenza celtica; e la sinistra atmosfera d’una chiesa abbandonata su un promontorio, antico sito d’un tempio dedicato a una perduta divinità solare; e le zucche, erano nutrita dal sangue benedetto di monaci, e chiudere gli occhi alla statua del santo per scacciare la iella, anche per quello c’era un motivo. A tutto si trovava una spiegazione da quelle parti, gente acuta. Così quel vecchio burbero era reso così dai suoi pensieri, perché, lo diceva anche il dottor Fossa, l’unico che c’era, i pensieri e il corpo sono collegati ed è bene stare attenti che con questo collegamento non si esageri, c’era una ghiandola o qualcosa del genere. Non poteva fargli bene che la nipotina, mandata su per le estati o lasciata sola dai suoi, gli chiedesse sempre di raccontare le storie di quei giorni scomparsi, curiosa com’era. Strano, ma lui non rifiutava: da sé non confidava mai nulla, ma qualunque domanda lei facesse lui raccontava come l’aveva vissuta senza tralasciare nulla che reputasse importante; spesso non molte cose, ma pregnanti, sembravano cariche di verità le sue parole piene di punteggiatura, lanciate brusche. E s’animava tutto, sì, pur non cambiando mai, senza sorridere o spalancare gli occhi o modulare il tono, non gli serviva. Muoveva solo le mani, gesticolanti in preda a un’ansia mai vista in quella sagoma di contegno imperturbabile, s’agitavano come un mare di spighe ondeggiato dal vento i lunghi peli argentei delle nocche, biondi al sole. Figurarsi, pareva quasi che Matilda prendesse l’autobus che saliva fino al paese e se la facesse allegramente a piedi dalla fermata fino alla casa del vecchio, rifiutando schiettamente e persuasivamente ogni offerta di passaggio, soltanto per potersi fantasticare la storia che avrebbe sentito quel giorno. E quando era dentro e faceva domande, con la voce squillante che arrivava alle case vicine, uno se la figurava sulla seggiola di legno con le gambe scalpiccianti all’aria, sotto la figura inarcuata del vecchio davanti, con l’osso sacro premuto al tavolo, l’ombra delle mani che quando arrivava sera tornava a proiettarsi, ancora e ancora per tutto il giorno all’insistente interrogatorio, sulla tenda accesa dai lumi notturni. Dal mento aguzzo uscivano parole severe su rifugi nella pietra, dove ancor oggi si può trovare qualche elmetto impolverato, qualche stivale floscio, e Matilda con gli occhi che brillavano chiedeva davvero, e se ci si poteva andare, per me puoi andarci quando vuoi, faceva lui come se la cosa non lo riguardasse, e poi se lei chiedeva lui proseguiva a dire degli spari che si sentivano certe volte da molto lontano, e le patate che li salvarono quando non passavano più le camionette con le razioni, e gli arei, che non si erano mai visti, che avevano cominciato a spuntare ogni giorno, più volte al giorno, dalla linea capelluta dei boschi sul bordo delle montagne, sostituendo i corvi neri che solevano alzarsi al mattino e far ritorno la sera per le loro case d’alta quota. Gli animali, diceva, improvvisamente non uscivano più, da quando avevano cominciato a vedersi gli aerei. E, quando per il resto della giornata il sole saliva riempiendo il cielo senza nuvole di giallore rovente, un silenzio profondo s’ammassava come una nebbia magica da tutto il fondovalle fino alle cime dei colli, che non s’era mai sentito prima di quei giorni. Il silenzio delle cicale. Si ficcava nelle orecchie e le assordava, cancellando per quel tempo anche il ricordo dei rumori. Questo fatto, nemmeno le chiacchiere e le teorie popolari erano mai riuscite a spiegarlo, e nemmeno il vento frusciava tra le punte dei rami. Prima che passassero di nuovo gli aerei o s’udisse un botto lontano, e tutto ritornava normale.


-mah, secondo me, raccontare certe cose a una bambina non sta bene.-, aveva detto la signora Leonarda a quei due tre giornalisti del tg regionale che avevano cominciato anche a impicciarsi d’ogni dettaglio.


-e invece secondo me è proprio giusto che le si racconti queste cose.-, ribatteva la signora Agnese di sbieco senza voltarsi mentre esaminava una bancarella, infilandosi un kiwi nella sacca di seta e tastando un melograno. -mio padre buonanima l’aveva fatta, la guerra. Mi ha insegnato cosa non si deve dimenticare. E non m’ha risparmiato nulla, e io piccola piccola tutto stavo a sentire. E son venuta su avendoci un certo giudizio sulle cose di questo mondo, perché lo so, da che genere di canaglie può esser popolato. E se lo sai, sai pure dire cosa è giusto da cosa è sbagliato.


-ben detto!-, fece ridendo il signor Paolo dalla sua sedia perennemente accanto agli scalini della porta, strabordante di chiappe in calzamaglia di velluto. -quelle son storie preziose, d’uomini e donne come ce n’erano una volta!


-e che ne sa lei, Paolo? Che se ne sta sempre qua fuori a perdere i giorni? E tu, Agnese, non vorrai mica mostrar simpatia a quel vecchio impazzito, o dargli ragione!-, brontolò, torva in particolare verso il signor Paolo, l’austera Leonarda che mal tollerava quel faccione rubicondo sotto la coppoletta, i baffi bianchicci come vernice sulla pelle violacea, e il cagnone sonnolento là accanto che proprio come lui non s’alzava mai dal mattonato del cortile. E come sempre quello le rideva in faccia, come diceva lei “senza mai prender nulla sul serio”:


-eh! Attenta alle arterie, Leonarda mia, ricordati la pressione! Non ci vorrai andar pure oggi a tormentare il Fossa, pover uomo, chissà quanta pazienza a sentir blaterare certi fossili dalla mattina alla sera!


E bisticciavano, e quello rideva, non conosci altro che il vino e la briscola, e non mettere il sale nella minestra che ti fa male, e la signora Agnese a dir loro di non comportarsi da bimbi. I giornalisti poi chiesero se il vecchio, il responsabile di quell’assurdità, avesse fatto la guerra. Ah, riguardo quello… fecero rabbuiati i paesani lì presenti mettendo a tacere la baruffa della signora e il signore. Il vecchio aveva solo visto lo scoppio che c’era stato giù. Era un testimone importante, prezioso per la storia del paese, certo. Ma la guerra non l’aveva fatta di persona, se ne stava a casa con la moglie. Una gamba diceva, rimasta così da una vecchia scalata, e infatti il vecchio non lo vedevi mai correre. Però era sempre attivo, a zappare e salirsene pian piano per il latte al rinfrescato lassù in cima al colle, o per funghi sempre col suo passo granitico. Accostandosi ai giornalisti, come per fare a bassa voce, i paesani dissero che al tempo s’era vociferato che fosse un sovversivo, e che il modo in cui era riuscito a far passare la storia della gamba, se di frottola si trattava, non era chiaro a nessuno.

Era strano: più di mezzo secolo li separava dalla guerra, il regime era il vecchio ricordo, quasi scomparso, d’un brutto sogno, e ormai erano quelli che al tempo s’erano impegnati a combatterlo, diventando fuorilegge, a esser raccontati positivamente. Eppure era rimasta per il paese e i poderi, come una sonnolenza sopita avvolgente a membrana fumosa tutto il sottosuolo e i corpi sopra, quest’aria di sospetto e mormorato disprezzo per chi, come a volte sfuggiva a qualcuno, “non s’era sporcato le mani”. Era più giusto per loro, o per un pensiero che li accomunava pensandosi da solo per vie misteriose di un incantesimo collettivo, era più onorevole aver fatto parte del sistema che la storia di oggi condanna, indispettiti ma dignitosi nel dovere. No, quel vecchiaccio aveva abbandonato questioni come la guerra e il regime, e s’era fatto la sua vita tranquilla a sentire soltanto l’eco dei combattimenti. E certo che l’ha colpito l’aver visto quel disastro, doveva avergli messo qualche rimorso, oltre che una paura tremenda, chiaro. Così dovevano aver voluto, dicevano, i padri nostri, di tutti noi altri vecchi (quasi tutti di una generazione più giovane), che ci erano morti per davvero per quella roba, e non se ne stavano tutti gli anni sulla terra a sgambettare e fare una faccia come a lanciare dannazioni alla bruttura del mondo. Loro ci stavano sotto, alla terra, e da là non si muovevano.


-dicevate di una moglie.-, chiesero.


Una donnina piccolissima, stando a chi se la ricordava. La bocca minuscola che sogghignava, offrendo focaccine quando da ragazzi passavano a giocare nei campi, farsi inseguire dalle oche. Occhi socchiusi e immalinconiti da topo di campagna, sempre lo stesso scialle verde con le margherite. Erano questi i pochi ricordi che rimanevano di lei. S’erano sposati giovanissimi. E passati un po’ d’anni dalla fine della guerra, lei era morta. Nessuno sapeva dire che malattia fosse, ma l’aveva consumata, ridotta la carnagione al colore della cenere, uno scheletrino imbacuccato tra le coperte per un anno intero, mai uscita dalla stanza. Lui aveva quel muso scuro già da tempo, come era noto, dal giorno del Primo Scoppio, e non l’aveva mai cambiato, e per lunghi anni lei era stata moglie di quel volto per il quale non sembrava provar nulla di diverso rispetto a prima. E si diceva che avesse passato l’ultimo anno di vita con lui che vegliava sulla seggiola al capezzale, con quella faccia stizzosa a fluttuarle sopra il cuscino. E non s’erano detti una parola, loro due, dall’inizio alla fine, e la camera s’era riempita di un’atmosfera intimidente, d’una specie di insormontabile intesa tra coniugi fatta di silenzio e cupi pensieri. Intensa, si irradiava dai loro corpi e impregnava anche le tende coi motivi di cacciagione scoloriti dal sole. E il giorno dopo che era morta lui era tornato a far le stesse cose di sempre allo stesso modo. Di rado, uniche e rare volte che passasse per la parrocchia, lo si vedeva seduto su un masso muschioso nel cimitero tra i giardini dell’oratorio, a fissare avanti a sé per lunghi minuti senza sbattere le palpebre una lapide bianchiccia come erba morta, senza nessuna fotografia e nemmeno un nome. A volte ci trovava pochi fiori lasciati là da chissà chi, forse dalla famiglia del figlio alla ricorrenza dell’anniversario, o da Matilda che ci arrivava facendosi i suoi giretti da sola; la cosa comunque non sembrava infastidirlo né interessarlo. Non c’erano prove, in effetti, che fosse proprio la tomba della moglie, ma pareva che così facendo replicasse la scena delle sue ultime ore. Questo, avevano detto ai giornalisti, è quanto.



Perlustravano la zona, circoscritta tra i nastri di plastica. Prendevano appunti, scattavano foto, collaudavano le apparecchiature audio. Addetti all’ordine sui nastri che sospingevano quelli che si avvicinavano a guardare, anche se a quell’ora non passavano molti. Erano passati prima e sarebbero passati anche più tardi. C’era già stata una troupe di un satellitare, già erano state fatte domande da altri, e anche la loro rete una volta montato il servizio avrebbe trasmesso le stesse esatte domande, le stesse risposte brevi di campagnoli. Così eccoli a calpestare la terra sbriciolata, guardare i paraggi inondati dalla luce nella quiete postprandiale di vicine serrande abbassate, polli al fresco sui trespoli. Da cumuli sabbiosi ancora si levavano, con lentezza e imponenza di un grosso animale preistorico, colonne di fumo quasi trasparente, di granula sottile. Respiro di detriti. Una frangia di terra battuta intorno, corridoi tra mucchi di macerie, pareva bruciata. Ovunque c’erano buchi, e veniva uno spavento teso che mozzava l’aria nei polmoni come a camminare in mezzo a termitai infiniti, da cui a ogni istante si sarebbe potuto riversare il brulichio incontrollato di mandibole rosse e zampette urticanti. E il fuoco si sarebbe sprigionato dalle molte cavità. Uno grattò col tacco dello stivale di gomma su un terreno squarciato simile ad argilla, seguendo dei segni là tracciati.


-attento a non modificare la scena.


-sì sì, tranquillo. Volevo tastare la forma dei cingoli.


Striature regolari si dilungavano attraverso buona parte dell’area, di quando in quando nascoste da una chiazza erbosa mezzo bruciacchiata, da altra terra che v’era stata rovesciata sopra. Intorno, alberi distanti del frutteto e spighe ritte, piume della pampa e cespugli di more, se ne stavano tranquilli a crogiolarsi del venticello, come se non avessero patito nulla della devastazione che s’estendeva proprio là accanto alle loro radici.


-qua era il terreno suo, vero?


-credo di sì. Cioè, era questo pezzo di terra dietro casa, non proprio utilizzato. Vedi? quegli alberi laggiù dovrebbero essere del frutteto suo, un pezzo che si allunga qua. Quello è una specie di ripostiglio mezzo abbandonato, credo. Ma non so se di fatto l’appezzamento risultasse di sua proprietà.


-e ti ho capito, ma comunque… dai resoconti pareva un uomo piuttosto devoto alla terra. Non faceva sorrisi e cerimonie, ma a questo posto ci teneva. E invece…


-senti, non ha proprio senso parlare di che tipo fosse. Secondo te, uno capace di questo, sta là a domandarsi se per caso non è scorretto nei confronti di ciò che gli sta attorno? E poi, mica siamo investigatori. La storiella lasciala al reparto scrittura.


-sì, sì…


Così anche altrove, passando per cavi e antenne in molte dimore, anche al bar in paese e nei vecchi apparecchi quadrati dentro le case ruvide, sarebbero state diffuse delle spiegazioni; “il paese aveva fatto notizia”, e ora anche una sua leggenda, d’un disastro che si sarebbe ricordato, la si sapeva un po’ in giro.


Che storia era? Era bastato il passaggio di un aereo al di sopra della casa, dicevano. Uguale a uno di quelli della guerra: questo lo avevano giurato anche altri, nonostante la condanna dell’atto violento questo non si poteva negare. Era vero, proprio lo stesso boato identico come se lo ricordavano da bambini. E la stessa ombra che si stagliava dall’alto del cielo, ricoprendo la valle al passaggio, inghiottendosi le ombre dei corvi ed esiliandoli nell’assenza. E qualcosa dovette essersi rotto anche in quel vecchio, alla fine, quel giorno. Per tanti anni s’era trattenuto dentro la guerra, forse, e adesso l’aveva ributtata tutta fuori, ma proprio tutta, in tutte le sue parti. C’era tutto nel campo, i segni del fuoco e di trincee, ossa tirate fuori dal profondo della terra. Bruciature d’esplosione, ridotte, ma uguali a quelle dell’arma micidiale che per sempre gli aveva fermato il volto, scarnificato le vittime.


Della guerra però lui parlava alla nipote. Dunque ometteva qualcosa anche da quei racconti? Emozioni magari, certe impressioni rimesciute a fondo dai sogni di cui non aveva parlato mai a nessuno. Oppure non era la stessa guerra. Del resto, lui, non l’aveva combattuta davvero: doveva essercene un’altra, tutta sua, che si portava dentro, e che aveva combattuto per mezzo secolo, all’oscuro del mondo, inscenandola dietro la barriera impenetrabile di quelle sopracciglia aggrottate, quella fronte raggrinzita, quegli occhi accusatori. Ma se d’altra guerra si trattava, di quella che c’era stata era almeno parente. Ne condivideva la carne, e s’era scissa da questa, una bestia bicefala col fiato incandescente da due paia di nari. E lui le aveva messo una faccia di biscia, la bocca nera che aveva visto spalancata dal pelo dell’acqua in riva al laghetto, e scorza dagli scorpioni in cantina, e gli occhi quadri del capro che incontrava su alla cava del latte, quello con le corna lunghe e ricurve che si metteva zoccoli avanti a guardarlo fisso in faccia da un ramo su cui si arrampicava, e sembrava dirgli: io a te ti conosco. Il vecchio aveva preso le parti delle bestie strane che vedeva in vita sua e le aveva ricomposte per farsi l’immagine della sua guerra. E magari nella quotidiana passeggiata avanti e indietro sul vialetto, e mentre pelava le patate, anche mentre stava a parlare alla nipote, nella sua testa si vedeva a combattere le teste che cacciavano lingue rosse di fuoco e sguardi pietrificanti. Sembrava presente ma era sempre assente in realtà, a combattere da qualche altra parte per compensare quella vecchia guerra in cui non aveva ucciso eppure aveva visto morire tutti; a incendiare l’arsenale che non scoppiava all’esterno, dove i giorni rimanevano tranquilli, i paesani ciarlavano e i morti restavano sbracati sottoterra con le ossa ferme. Finché non si trattenne più. E pareva fosse bastato il volo di un aereo.



C’era stato molto movimento ogni volta che da qualche emittente chiedevano di intervistare il dottor Fossa e Don Felice, le persone più dotte del paese. Si raggruppavano per vederli e sentirli, che anche se ripetevano sempre le stesse cose era sempre un piacere sentire che ci avevano da dire, e perché rappresentavano tutti loro. E poi stando tutti là vicino, qualcuno di loro sarebbe riuscito a strappare una domandina qua e là, e a commentare, col dialetto orgoglioso a voce alta. Contenti tutti di stare in tv, da quelle parti, rivedersi poi nello schermo sul regionale, sentire la propria voce echeggiare tra i vapori serotini delle cene in pentola. E come l’odore della vellutata e i bagliori del tramonto, anche i servizi alla tv passavano, lasciavano soddisfatti, si dimenticavano, e li si ricordava in certi momenti.


-io, per parte mia, non posso dire d’averlo conosciuto per bene.-, disse il parroco con voce morbida -Né voglio sbilanciarmi in un giudizio morale, o farne una questione di fede, che ognuno c’ha il suo pensiero…


-perché, come la pensava?


-beh, pare che avesse idee da ateo. Già da molto tempo, sì. Ma su questo, ripeto, mi taccio.


-non era un suo parrocchiano dunque.


-sua moglie buonanima,-, giunse le mani il parroco con un tono leggermente mortificato, -donna bravissima e pia, era stata una mia parrocchiana. Spesso alle funzioni del mattino, sempre alle domeniche anche se malata. Ma lui le volte che si vedeva pareva sempre starci controvoglia, più per far contenta lei. Certe volte non si vedeva nemmeno alle festività.


-deduco che non ne avesse grande stima.


-questo, io, non l’ho mai…


-e lei, dottore? Avendo in cura tutto il paese, immagino che fosse suo paziente.


-beh, per esserlo lo era.-, fece il dottor Fossa, Gioviale ed esperto. -Ma lo vedevo raramente. I soliti controlli annuali, o anche ogni due anni… una salute invidiabile. Forte, tonificato, non un culturista certo, ma un corpo fin troppo funzionante per la sua età. Mangiava bene, beveva e fumava poco, lavorava quel tanto da mantenersi la circolazione vispa senza sforzi eccessivi. Soltanto, a volte si vedeva che dormiva poco. Ma la cosa non sembrava ripercuotersi sul suo organismo.


-tornando a lei, signor parroco. Ciò che è successo ha dell’incredibile, ed essendo lei uomo di fede, può guarire i numerosi dubbi che certamente assillano le brave persone della sua comunità.


-oh, faccio quello che può un uomo.-, sorrise Don Felice -Nessuno può trovare la chiave per i misteri che…


-dunque, possiamo parlare di un miracolo?


Don Felice, un sobbalzo che sballottò appena gli occhiali tondi, parve un po’ interdetto, ma subito si ricompose trovando un tono imparziale.


-beh, secondo il sistema delle beatificazioni e santificazioni che vige nella Nostra Santa Chiesa, un miracolo è quel tipo di evento straordinario che viene manifestato da una persona, viva o morta, già distinta per un carattere pio e devoto, e che ha compiuto numerose opere di bene.


-e non era un uomo del genere…


-beh…- apparentemente confuso Don Felice diede una strana espressione come di uno che si giustifica o che giustifichi qualcun altro. -no, non si può dire che lo fosse. Ma sono rari, uomini del genere.


-e poi,- interruppe il dottore, come a sottolineare ironicamente qualcosa che ad altri era sfuggito, -un ateo non può compiere miracoli. Giusto, Don Felice?


-mmmhh…


Così si limitò a dire Don Felice colto tra i bivi di un dubbio teologico, con la fronte che cominciava a sudargli.


-allora scusi,- insisté il giornalista -se non di un miracolo, un altro tipo di evento soprannaturale. Qual è il suo parere su questo? Un’opera di Satana?


-riguardo questo-, rimarcò perentorio il dottore, ma senza mai perdere cordialità e sporadici sorrisi a punteggiare -si può discutere in termini più pratici, senza scomodare santi o diavoli. Vedete, si può trovare una ragione scientifica per tutto: è chiaro che l’evento, la tragedia, così sconvolgente per tutti noi, abbia avuto un enorme impatto psicologico. Perciò, mescolate ai fatti, potrebbero esser state viste certe cose non viste veramente. Che ci crediate o no, non è nemmeno così raro che si verifichino tali casi di allucinazione collettiva presso comunità incolte di montagna o collina. È un sistema che reagisce per far fronte a forti traumi psicofisici.


-oh, andiamo!-, rise nervoso Don Felice, dimentico dell’intervista -mi permetta dottore, ma vuol forse dire che non ci sono state quelle esplosioni? Ha visto anche lei il campo, la scena, c’erano tutti i segni, li hanno visti quelli che hanno studiato il posto, anche uomini di scienza come lei, e nessuno ha negato che…


-attenzione però, Don Felice: io non ho mai detto che la cosa non sia successa, o che l’aereo non sia stato colpito quasi rischiando di precipitare nella valle. Dico solo che certe cose, insomma, il fuoco dagli occhi, l’uomo che irradia energia, andiamo… il grido che squarcia le montagne col ruggito di botti incendiari, insomma, siamo seri. Non per dar dei bugiardi o dei visionari ai nostri compaesani, ci mancherebbe, ma dico solo che han visto quello che hanno visto per una certa condizione mentale, poveretti.


-e allora come si spiegano, mi permetta ancora, l’assalto, i segni recati dall’aereo, la scena…


-ma signor parroco!- urlò qualcuno dalla folla -se non c’è spiegazione lei quindi ammette che il diavolo s’era insinuato nella sua comunità e lei non se n’era mai accorto!


Qualcuno che aveva voglia di scherzare, o un altro giornalista pestifero. Don Felice, non abituato a esser messo in difficoltà così tante volte in così poco tempo, ormai balbettava sbalordito. Il dottor Fossa stavolta lo aiutò, rispondendogli.


-come si spiega? Semplice: l’uomo, in gran segreto, doveva essere armato. E fino ai denti. La situazione corrente impedisce di accertarsene, ma vedrà che non appena sarà possibile ispezionare la casa salteranno fuori cose brutte assai. E pensare che non era mai stato un guerrafondaio!


-ma, ma… ma i cingoli sul terreno, come faceva a nascondere, ad aver…


-e che vorrebbe dire, che ha evocato nell’aria come uno stregone tonnellate d’armamenti vari? Facendo saltar fuori tutto dalle stimmate magari, assieme all’energia! Siamo ragionevoli, io tra due assurdità scelgo quella meno assurda.


-però…


-dottore, dottore!- interruppe un giornalista, capendo che il dibattito non si sarebbe risolto -può citare delle fonti che approfondiscano la questione delle comunità di montagna?


-che questione?-, fece il dottore, stavolta brusco.


-beh, ma quella delle allucinazioni collettive.


-…senta, adesso non ricordo. Ce ne sono molte, sa, e non vorrei dirle una sciocchezza, mescolare nomi, che non è giusto nei confronti degli studiosi. Questa parte poi la tagliate, vero?


-ma certo, non si preoccupi.



Intanto s’era fatto il crepuscolo. Là in piedi da mezzogiorno, c’erano stati i flash, arrivo di macchine. Sulla scena ancora strascicavano i piedi, sfaccendati, gli addetti alla perlustrazione del perimetro esterno, poco distante da dove era successo. S’era aggiunto un collega, altri se n’erano andati, si stiracchiavano sul porticato di granito sul retro.


-che palle! E che fame! È da stamattina che non ci danno niente.


-me la credevo più divertente, questa. Una cosa così pazzesca, e invece…


-vecchio pazzo. Una giornata inutile ci ha fatto fare, con la sua follia, il miracolo, là…


-sarà, ma non ci è andata troppo male.- fece uno, in piedi a giochicchiare con l’elasticità d’un filo per i panni. -pensate al figlio e la famiglia, quante disgrazie li aspettano.


Sssttt, fecero gli altri, un cenno del capo alla finestra chiusa sul retro, la stanza ostruita da tende vecchie.


-ma sta ancora là?


-sicuro. Non esce da non so quanto.


-oh, senti, è anche meglio che sappia. Quante domande le faranno!


-sì, ma è meglio regolarsi.- ribatté sussurrando un altro, suggerendo implicitamente di passare a un tono di voce basso.


-ma poi ho sentito che col figlio non è che ci parlasse.


-mah, sai com’era fatto quello. Almeno da quel che s’è detto. Non avevano rapporti, tutto qua, mica si odiavano né niente. Quello il figlio era andato in città a studiare e da allora s’è fatto la sua vita là, sposato. Non saliva quasi mai.


-ma non era morta la madre?


-boh, gente strana. Anche la nipote, prima ho provato a richiamarla, non diceva una parola. Con la testa da un’altra parte.


-però anche se non si sentivano, dovevano fidarsi, a lasciargliela qua tutta l’estate.


-è proprio vero che a volte non puoi sapere. Uno è normale e il giorno dopo sbrocca. Sai, la solitudine…

.

Matilda seduta sul letto cercava di tenersi nell’incavo lasciato dal nonno. Sull’altro lato c’era morta la nonna, e lui stava sempre girato faccia al muro quasi a cadere dal bordo. Anche Matilda, ora, guardava il muro. E la polvere che si sfaldava in microscopico nevischio giallo e arancio nel crepuscolo dalla finestra, vorticando senza pensieri. Il sole stanco si sfrangiava a chiazze passando attraverso fagiani e beccacce disegnati sulle tende. E Matilda guardava i disegni, senza vederli, e senza sentirli le arrivavano da là fuori il chiacchiericcio, gli insetti campestri. Parole, rumori che nelle orecchie si frantumavano, il contenuto scivolato via. Non li sentiva, non concepiva ch’era presenza d’umani, non c’era nessuno, perché erano parole, inutilità del mondo. Le storie non c’erano più. Il nonno, lui, le sapeva. E com’era diventato strano, dopo che era passato l’aereo. Volteggiava, tipo un uccellaccio, tornava indietro. E lui era scappato dietro, andandogli incontro, al limitare del campo. E s’era fatto ancora più strano, e… bello. Era bello quando il fuoco era apparso. E quegli occhi rossi. Sapeva fare tante cose, il nonno, anche le magie. L’aereo girava, ritornava a sorvolare il campo già visto dall’alto dei suoi occhi morti, e il nonno, come lo sapesse, s’era sporto là, ad accoglierlo, l’aveva atteso, come un soldato, reattivo al movimento del nemico. Proprio qua fuori oltre la parete. C’erano le mensole davanti a Matilda: quelli allineati erano i libri che leggeva il nonno. Miti greci, nomi inglesi, nome russo, un altro indiano stranissimo, Matilda proprio non riusciva a pronunciarlo. Da un po’ boccheggiava sillabe spente, ripetitive, nel vuoto dove nessuno le ascoltava. Poi un vangelo in fondo, chiuso da anni, lo leggeva la nonna. Stavano insieme adesso? C’erano nel cielo davvero le persone che… no, non era sparito. E se era così doveva esser stato l’aereo cattivo, come quelli delle storie, che fischiavano e facevano venire il silenzio, sì, l’aereo aveva sparato al nonno, perché le persone non potevano esplodere da sole. Non potevano volerlo. Non scoppiavano le persone, ma gli incendi, e le cose, come a scuola, il Primo Scoppio, che lui aveva visto, che quando ne parlava diventava tutto corrucciato, che lo era sempre ma lei sapeva sentirlo che lo era di più. Non poteva esser stato lui, a fare così, dovevano essere quei maledetti, li aveva chiamati così una volta. Erano tornati a prenderlo dalla guerra. Però poi tornava. Ci faceva sempre avanti e indietro come sul viale di casa, lo aveva detto a lei, io faccio sempre avanti e indietro per raccontarti le storie, sì lo aveva detto a lei. Un uomo freddo dicevano e la mamma che quando tornava le chiedeva sempre tutto bene con il nonno?, ma nessuno l’aveva mai conosciuto come lei, così le piaceva credere, nessuno l’aveva mai visto che diceva frasi così, io per te Matilda faccio avanti e indietro nel passato nella paura nel presente dove ci sei tu, e in quel momento a Matilda era parso che esistesse qualcosa che non s’era mai visto nel volto, dietro l’occhio non una fiamma ma una goccia d’acqua, nascosta dietro la pupilla dietro la fronte. Oh, quanto era bello il nonno, doveva essere tornato giovane, quando si è alzato, verso il cielo, e l’hanno preso il fuoco e la luce, così pareva a Matilda, così vide la cosa Matilda. Era cambiato un po’ ma lei sentiva che era anche rimasto sempre lui. Non l’aveva mai sentito alzare la voce, forse perché lei era una bambina buona, ma quella volta aveva gridato, così forte che tremavano le montagne, che l’aereo vacillava. L’aveva fatto arrabbiare? Matilda non sapeva proprio se era colpa sua. Forse non doveva fare tutte quelle domande perché alla fine erano tornati a prenderlo, a fargli fare la guerra che lui odiava. Nessuno racconterà più nulla.

Però non era morto, c’era un altro motivo se lui non stava più da nessuna parte: era stata lei, il nonno se n’era andato perché si era arrabbiato con lei, tutto qua, sì era colpa sua. Nel torace la bambina sentì una mano scura, come a tastarle il cuore, tenerlo fermo quando voleva battere troppo. Come quando lo ascoltava.


..


Sospingevano Matilda, mani su spalle, coraggio, hei. E cos’erano le cose intorno? La voce della mamma, no, sconosciuti, e il tramestio dei meccanismi dell’autobus con le stesse cose che scivolano nei finestrini e io eccitata felice di venir qua, i fili dei pali afflosciati nel cielo per peso di rondini allineate nel cielo sopra la fermata, era la sua camera giù in città o quella in casa del nonno dove aveva dormito suo padre, erano umani o alberi o animali, era il cagnone buono buono del signor Paolo, erano le capre di lassù, erano aerei o paesi o montagne? Voci e sagome flebili, vuote, non sapevano nulla. Neanche una parola di lui. Né del tempo passato né quelle che aveva detto. Vi maledica il mio inferno, ruggiva, dopo il grido, uomo divenuto bagliore, prima di scomparire in un lampo, ali brucianti d’una farfalla cosmica. Nonno, perché hai detto cose così strane? Ma non rispondeva, e allora nemmeno Matilda voleva rispondere a nessuno.



Erano passati mesi da quando Matilda aveva preso il bus per l’ultima volta ed era stata vista girare allegra tra quei campi e colline. Cerimonie non ce n’erano state, solo una menzione frettolosa alla presenza dei parenti in una messa per i morti, una sera piovosa d’ottobre. A testa china, la famiglia di Matilda ammantata di nero, probabile che non sarebbero più passati lassù. Di resti nemmeno ce n’erano, e se ce n’erano, a nessuno andava di scoprirlo, pensando a come dovevano essere. Ma accanto alla lapide scarna che di rado il vecchio passava a osservare a lungo, ne era apparsa un’altra uguale, pure questa senza nome e senza date e senza fotografia. Non passò però molto tempo prima che qualche giovane annoiato del paese, in un moto d’espressione ribelle, o ispirazione divina o chissà cos’altro, avesse pensato di aggiungervi su un graffito, a vernice nera indelebile, con i contorni squagliantisi in mille gocce lacrimose. E rapidamente era diventata un’immagine nota, al pari della pietra con la faccia che imprigionava lo spirito di un druido del tempo dei celti, caratteristica come le reliquie del patrono, i profumi locali. Veniva perfino la gente lassù per fare una foto e poi cercare una trattoria, a far del movimento per quelle strade di gente semplice, e chiedere di quella meraviglia: un gran disegno del volto del vecchio sulla facciata di pietra, fatto un po’ a fumetto un po’ a vecchia xilografia, che in qualche maniera trasmetteva alla perfezione l’espressione rude che l’aveva contraddistinto in vita. C’era dentro l’anima della faccia che avevano conosciuto. E adesso rimaneva là, irremovibile dai ricordi del paese, esattamente com’era sempre stata e anche adesso immobile fin nelle linee d’un ritratto sporco. E sotto, una scritta pasticciata a lettere aggressive, come schiaffate là guerreggiando a bombolette e pennellate, recitava:


“Giustino Roccaferro, testimone del Primo Scoppio. Morto incazzato col mondo.”




Post recenti

Mostra tutti

댓글


  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn

©2020 di DH Jazz. Creato con Wix.com

bottom of page