una canzone di onde
- Milky
- 18 mar 2022
- Tempo di lettura: 32 min
Inerpicandosi sul promontorio, affacciato sul mare e cinto alle pendici dalla rada foresta d’arbusti prosperosi nella salinità, i passi affrettati producevano continui scricchiolii e bruschi, raccapriccianti strappi di molte e variegate cose recise. I calami delle piume disseminate al suolo rivelavano una costituzione vitrea, una fragile polpa densa di succhi incolori e nutrienti pronti a sprigionarsi al contatto con le cose del mondo che si erano evolute più dure, nemiche dell’aria, effettuando una scelta diversa. Piedi spezzavano fibra. E il fogliame, ridisegnando la stessa forma delle piume, faceva credere che il progenitore della vegetazione e quello degli uccelli si fossero incontrati, in un tempo antico, su una spiaggia deserta, dove imitando la sabbia sterminata lungo una linea dell’orizzonte percorribile s’erano lasciati incidere da forme, disegni lineari. Lei, però, vedendo già l’ombra che si proiettava dal fuggitivo in cima al pendio, teso sull’ultimo passo prima del vuoto, non poté impedirsi di ricordare un’ironia della sua vita, che all’improvviso pareva così breve: qualcuno che nel corso di giochi dimenticati tra i grigi cortili dell’apprendimento e l’educazione si era rivolto per scherzo alla sua corporatura minuta, “tu sei come una piuma”. Le piume che cadevano fruscianti al passaggio del loro ladro, facendosi scia desolata e accondiscendente della sua prepotente esistenza, erano invece fragili sotto il peso di lei. Ferma, soverchiata dai venti che parevano incontrarsi numerosi soltanto su quella singola salita protuberante lungo la costa regolare, ferma sulla propria ombra e rivolta all’altra che usciva dalle spalle osservate come un punto rannicchiato in fondo a una distanza non più irraggiungibile, rifletteva: ma sarò in fondo come loro, come queste piume? O qualcosa di incolmabile ci separa, rende futile la mia presenza qui e il mio ruolo di recuperarle? O ancora, sono come loro, e il mio scheletro si spezzerà crepitante sotto i passi di qualcosa di più grande? Rifletteva così prima che l’altro si accorgesse che lei era lì, per “dialogare”, “contrattare”. Se n’era accorto, probabilmente: così sono i sensi di coloro che fuggono e si acquattano sotto i rovi, adattando la propria sagoma alla loro, per attraversare sottoboschi conducenti ai luoghi inaccessibili agli esseri privi della volontà di vivere lontani. Se n’era accorto e lei attendeva il momento in cui avesse deciso di voltarsi, interrompendo il tempo della sua riposata, riflessiva esitazione.
Una donna piccola, non particolarmente minuta al punto da farla risaltare per contrasto in una fila di abitanti del paese, ma di certo diversa da molte donne. Ce n’erano perfino di enormi, con nocche di pietra e pelle indurita dal sole, dal vento caldo sporco di terra, e da un reticente ma granitico cinismo restio a definirsi tale. Lei però era stata scelta per inseguire e cercare di portare ragione all’essere misterioso che si era avvicinato troppo al mondo abitato. Lei, perché nessun altro poteva farlo. Quali fossero le qualità che avevano determinato quella scelta, nessun abitante avrebbe saputo spiegarlo. Eppure, nei brevi momenti in cui con frasi carenti e sguardi d’apprensione si era discusso del problema, non c’era stato dubbio alcuno che dovesse occuparsene proprio lei. Con le sue parole, misurate e lievi eppur cariche di inspiegabile decisione, o chissà, con i suoi capelli, lunghi ma poco folti, che al tocco del vento allargavano nello scintillio paglierino rifluente da sotto il foulard-copricapo piccole caverne semitrasparenti di crine e pelle sulle tempie. Non era una singola cosa, ma nemmeno il loro insieme. Era qualcosa in lei che non si vedeva. C’erano persone così.
Il sole era alto in un’ora in cui, soprattutto nei luoghi elevati, lasciava frammentare i suoi raggi cadenti attraverso gli strati bassi del cielo. Ombre scappate da alberi e rocce parevano infiltrarsi frettolosamente tra quei frammenti di luce, simili a venuzze visibili a intermittenza nell’incastro di squame di una lucertola esposta alla calura. Lei sollevava il capo e accoglieva il breve accecamento che il sole infieriva sui piccoli occhi castani, subito stretti in improvvise ragnatele di evanescente muscolatura simile a polverina -le linee del suo volto non sembravano generarsi dalla vecchiaia e nessuno le chiamava rughe. Si asciugò il sudore con un avambraccio, foltamente protetto nel cono caldo della manica del cappotto indossato in previsione dei venti, e attraverso il profilo lanuginoso del tessuto bordò colò la singola goccia nerastra che dalla fronte le si era generata a forma d’occhio, come per l’azione di un particolare raggio di sole e delle ombre che ne avevano fatto una linea gialla tratteggiata. Credette di sentirla cadere e frangersi impercettibilmente sul tappeto d’erba reclinata sotto i colpi della brezza incessante in quel luogo, e le venne in mente che al paese dovevano aver consumato il pranzo, alcuni al lavoro con le braccia nude, alcuni a riposo. Mucche nere e bianche mugghiavano sconsolatamente accanto alle finestre e standosene con i musi rassegnatamente rivolti al pungente bagliore riflesso bianchissimo dall’insieme dei muriccioli, sui quali un singolo geco non si decideva a muoversi, a far capire se fosse vivo o morto, mentre solo la sua pelle ruvida cangiava, s’anneriva come una foglia per il misto di sole e fresco. Doveva essere così: era sempre così. Ma era anche possibile allontanarsi da quel mondo, fare in modo che non fosse così. Continuava a esistere, lontano da lei? Qualcosa, un pungolo aspro ma ammorbidito dal tempo insediato nel cuore, le dava certezza. Simile alla persistenza dell’odore candido, appena un po’ sporco, del caglio, e il suo depositarsi ai bordi riverberanti del recipiente di ferro, così somigliante a uno strumento musicale. Confrontò l’odore dentro le narici con quello dentro il mondo, dentro l’aria attorno a lei: si infittivano sempre più gli aromi che gli arbusti gravidi di cicale e aculei frondosi mandavano in risposta sempre più decisa alle troppo zelanti e forse dannose cure della luce solare e del vento. L’odore d’un liquido selvatico, richiamante pelame di scaltri mammiferi, pungeva un singolo punto di quella massa aromatica, piccolo ma riconoscibile al suo interno come un granello di tartufo. Sulla rupe, senza potersi voltare ne spalancare ali in grado di volare, il fuggitivo che portava in sé quell’odore si voltò lentamente, mandando un’orchestrazione crepitante di giunture piumate dei fermagli e del mantello. E prima che dal connubio accecante di luce e ombra emergesse in maniera riconoscibile quel volto scavato, lei sentì affievolirsi gli echi dentro le orecchie: i muggiti, il quieto russare, l’indicibile quiete che avrebbe di certo ammantato le pareti esterne delle case prima di una segreta ora del pomeriggio annunciata dalle nuvole, tutto questo si confondeva, e lasciava entrare sottoforma di onde l’attutito fragore del mare, dal quale era impossibile immaginarne la distanza, e le cicale affievolite dalla confusione di trovarsi infreddolite sotto un mondo di apparente incrollabilità del caldo, e grida alte di uccelli non uditi da troppo tempo. Uno schiocco acuto e intermittente accolse il momento del loro primo incrociarsi di sguardi: un’aquila di mare migratrice doveva trovarsi proprio dentro il sole, e un’ennesima ombra accarezzò sotto il foulard d’esili trame il volto contratto nello sforzo di vedere.
Un essere -non dicevano con certezza nemmeno che fosse umano- aveva l’abitudine di rubare gli uccelli. Li catturava, li teneva ammaestrati, solo lui sapeva come, su trespoli e gabbie di rudimentale fattura, pieni ancora delle imperfezioni nodose e irregolari di legni in apparenza inutilizzabili. Raccoglieva da boscaglie e paludi i rami più deformi, e nella penombra ragnatelosa di tane sparse e introvabili li trasformava. E poi teneva gli uccelli vicino a sé. Lo si vedeva rannicchiato su una roccia a fissare intensamente un piccolo uccello giallo, migrato dalle isole di là dal mare, che melodiosamente fischiava a ogni saltello, senza mai però spiccare il volo e allontanarsi, come se una forza invisibile portasse sempre le zampette a riavvicinarsi. Lontano dagli uomini, dimenticava così il loro linguaggio per reimpararlo da solo, e sempre più dimagriva, sempre più scompariva dietro il folto delle vesti che fabbricava intessendo su pelli morte i piumaggi scartati dai suoi compagni lungo il percorso di quella vita quasi selvatica. Ma si era avvicinato, troppo negli ultimi anni, e già i contadini, nei campi al limitare del paese, vedevano scappare la sua scura figura attraverso le ombre che macchiavano colline e frutteti. Si era avvicinato e dalla piazzetta del centro, dai templi e le ville, erano scomparsi gli stormi. La gente della vita civile non vedeva un uccello ormai da mesi.
Dopo un lungo e silente sguardo sospeso, echeggiante a cavallo dei venti vicini, la donna gracile e resoluta cominciò ad avanzare oltre quel punto d’osservazione, decisa ad accorciare la distanza per poter rendere le proprie parole udibili, e per rendere a se stessa più udibile il mondo di quell’essere fatto di mutismi e linguaggi sporchi. E a ogni passo faceva in modo che attraverso tutto il corpo le riverberasse la propria forza interiore, nella maniera in cui un liquido scuro si scompone in vorticanti nebulose quando trafora la superficie di un’acqua limpida. Questa forza sollecitava, al suo passaggio, le vene, i loro più minuscoli angoli, e da essi faceva sollevare nel disordine di insettini in fuga legioni di piccoli timori. Lei non li rifuggiva, non tentava strenuamente di sopprimerli, perché la sua risolutezza era qualcosa che soltanto lei poteva conoscere e perfezionare nei modi che aveva appreso nel lungo isolamento di questo strano e incomunicabile talento: lasciava che ogni paura, nell’ascensione di questo movimento, le raggiungesse l’interno delle orecchie e lì producesse un prurito intenso, tale quasi da stordirla. Ma gli anni di abitudine le avevano insegnato ad assaporarlo, l’orecchio interno si riempiva di particolari ricettori gustativi e s’agitavano come sul tappeto carnoso d’una lingua per soppesare l’interezza di quell’esperienza.
Aveva già percorso, lentamente nella resistenza del vento contrario, la distanza di due pecore sdraiate al suolo, che in questa famigliare e sempre eccitante mistura di flusso al centro del proprio ventre e lieve dolore di timpani, si insinuò qualcosa di strano, mai sentito prima: era come se nel compiere quell’avvicinamento avvertisse il superamento di una soglia, della quale però non si poteva stabilire una linea definita. Anche tornando indietro, a ripercorrere infinite volte quelle due pecore accasciate, sarebbe stata colta da dubbi irrisolvibili, cercando continuamente a tentativi di disegnare il passaggio oltre il quale la sua figura s’addentrava in un mondo di percezioni diverse. Capendolo immediatamente, non poté far altro che lasciar accomodare questo istinto assieme agli altri che si risvegliavano in lei, e procedere. L’unica cosa certa era che a un certo punto su quella specie di scogliera aveva cominciato a camminare in un posto che non era il territorio in cui era cresciuta, ma nemmeno il territorio delle creature selvagge, al quale molto probabilmente il fuggitivo apparteneva. E in risposta quello protese il collo col movimento, esasperatamente decelerato, di un trampoliere setacciante la guazza con la sua forma d’arpione. Ma per i riflessi scuri che lo macchiavano, il viso imbrattato di terra e incastonato tra malconci capelli e strani selvatici stracci ricordò, a lei che lo osservava sempre più vicino, una scena lontana. Da un secchio pieno d’anguille che cigolando risaliva dal fondo d’un gelido pozzo, aveva visto una di loro rivolgere verso l’alto la testa da serpe e spalancare la bocca, come se volesse mordere il sole alto sopra la circonferenza del pozzo o cercare un appiglio nel cielo da cui tirarsi su. E aveva visto la lingua nera vacillare in un fluttuante turbinio nella mucosa grigio-violacea di quelle fauci disperatamente spalancate, sembrava mandare un messaggio.
Altri passi su altro invisibile bestiame accasciato fecero sì che il corso oppositore dei venti carichi d’odori di macchia costiera e ronzii traballanti dissipassero le tenebre umidicce proprie di quel ricordo. Sapeva che non c’era nulla che rendesse simile la scena ricordata all’improvviso a quanto stava vivendo. Nemmeno un significato di cui la singolare presenza di quell’essere potesse farsi portatrice. Chissà perché ci aveva pensato. E sempre più si convinceva, con una certezza al tempo stesso infondata e priva di buchi, che quello bevesse molta poca acqua. Non molta umidità poteva raccogliersi nei rifugi che per brevi periodi occupava, fatti di tappeti di fogliame e resti, non abbastanza da dissetarlo. Soltanto di rado si ricordava della sete, e con labbra seghettate da interminabili tagli di spine vegetali, si chinava scomodamente a raccogliere gocce di rugiada. Non si tuffava nei torrenti boschivi o nel mare, e il sottile tanfo di tana lo ammantava con la compattezza stratificata e affievolita nel tempo di una vischiosa sostanza ormai seccata. Era un tipo così.
Dalla propria ombra l’essere, cauto e tremulo di nervi fragili, allungò il collo, e le gocce cadenti del sole alto fecero emergere attraverso nebbie luminose i primi tratti del volto. Lei, con sfrontatezza donatale da quanto aveva coltivato in sé, fece la prima domanda. Di mente attiva, fece scivolare dalle labbra il problema che in brevissimo tempo aveva intuito potesse irritarlo, così da costringerlo a non ignorarla, e al contempo indurlo ad avvicinarsi con animalesca cautela.
-come ti chiami?
A lei non importava saperlo, e aveva avuto il presentimento che nello stesso disinteresse si fosse trincerata la creatura avvezza soltanto agli uccelli, ai quali si limitava a fischiare di rimando senza mai dar loro un nome.
-un nome?? Io non ho un nome!
E udì che aveva una voce come un gracchio, come un ruvido raspare di sassetti su un costone di roccia cosparso di licheni, ma sotto quel rantolo persisteva, aghiforme e sottile nel buio dei sentimenti resi forzatamente rudi, una singola nota costante, incredibilmente melodiosa. Pareva di vederlo, in un tempo lontano, intonare angeliche canzoni pastorali sotto la luce della luna, o raffinare con la propria armoniosa delicatezza il tremulo accompagnamento dell’organo suonato in una cerimonia sacra.
-lo so, ma devo chiamarti in un modo.
-no!!
L’essere quasi rabbrividì nello scorgere, di là dai fasci intrusivi della luce intrecciata simile a sterminati steli di paglia incrociati a mezz’aria, un sorriso che scopriva piccoli denti triangolari, un po’ scalfiti nei loro contorni. Lei sapeva ridere, possedeva in quella sua fortezza di enigmatiche sensibilità un’ironia unica. Pensò a una dentatura imperfetta di bambina, piena di buchi del tutto privi di qualsiasi senso di sgradevolezza.
-allora ti chiamerò Noel!
E così, il nuovamente battezzato Noel, non seppe come ribattere a quell’improvvisa bizzarria. Sembrando un po’ rimpicciolito per il gobbuto incurvamento delle spalle, lì proprio sul bordo della scogliera, si limitò a un maldestro grugnito quasi inudibile. Con uno sbuffo laterale della bocca, e lo sguardo nero perennemente cerchiato degli occhi insonni, le fece capire in una maniera un po’ involontaria e ostentatamente sprezzante che in verità apprezzava il suono di quel nome.
-ah, e tu, tu ce l’hai un nome!! Dimmelo allora!-, sbottò dopo lunghi minuti di agitata meditazione, mentre dietro le palpebre fuligginose gli occhi avevano continuato ad agitarsi, lasciati liberi di sgusciare in tutte le direzioni per captare forme nemiche. Lo disse come se avesse trovato dopo un indicibile sforzo d’immedesimazione quella cosa adatta a destabilizzarla e costituire così una piccola vendetta.
Lei gli sorrise ancora, pensando che Noel non sapeva che, da dove veniva lei, una domanda così era tanto parte della natura quanto lo era per lui il ciclo vitale di un tronco, il suo nascere esile e bruno, la sua morte cinerea tra strati di larga corteccia ormai priva di respiro. Eppure, lì dove i due si stavano parlando, così chiaramente distanti dal tempo e la terra delle altre cose vive, non voleva nemmeno che la risposta potesse manifestarsi in quel luogo con la stessa facilità che avrebbe avuto in una piazza, in un cortile, sotto finestre e vicino a giardini e orti. Qualcosa era indubbiamente accaduto, e lei c’era dentro. Voltò appena e per brevi istanti il profilo bambinesco in direzione delle pendici da cui era risalita, il movimento veloce di chi senza motivo si sente osservato. Senza scomporsi ritornò a guardare avanti, ignara del panico anche in questi casi. Il nulla che di rimando le aveva guardato la coda dell’occhio era in tutto uguale, per il suo spirito bramoso di serenità, a una presenza, una bestia, una cosa uscita da un ricordo -persino se avesse visto una copia di se stessa, in piedi laggiù a guardarla, non avrebbe reagito diversamente. Si voltava solo per sapere, per poter ricordare in seguito le cose che aveva trovato in una giornata.
-ah, non rispondi eh?? Hai paura, eh??-, soffiava Noel, facendo affiorare dal collare lanuginoso che gli avvolgeva il collo tozzo il gonfiore difensivo d’una civetta sorpresa nella propria tana. Una patina vischiosa però vacillava sottile sulla superficie degli occhi scuri: Noel riusciva a star calmo e possedere lo stesso sguardo fermo degli uccelli, costante nel riposo quanto nella tensione, soltanto quando si trovava da solo, lontano dagli uomini. Per questo motivo nemmeno i sapienti del paese sapevano spiegare la ragione delle sue recenti apparizioni all’inquieta gente del popolo, che voleva spiegate tutte le forme d’afflizione e imprevisto che affliggevano la vita. Solo lei poteva trovare qualcosa di meglio di una spiegazione, qualunque cosa fosse. Non era una prescelta, non era una medium dotata di poteri speciali. Era la mancanza di dubbio che suscitava a guardarla muoversi placidamente. Il suo socchiudere d’occhi con l’aria sorniona che, più che a una donna d’aspetto né giovane né vecchio, s’addiceva a uno di quegli anziani canuti capaci di starsene seduti a osservare per ore ininterrotte con lo stesso piacere i giochi della luce e della polvere. Simili a cagnoni bianchi accasciati sul tepore del mattonato che assorbe il sole davanti agli ingressi delle case, o a quei decrepiti vecchi gatti che, riposando sulle tegole, attendono equanimemente la morte oppure una carezza dietro le orecchie. Di un simile paragone lei poteva soltanto divertirsi con rassegnazione.
-un nome, un nome, nemmeno io ho un nome.-, fece come a imitarlo. Noel si acquattò in un impercettibile e quasi comico scatto come se l’avesse vista fare una mossa assolutamente imprevedibile, un rumore brusco.
-ma, ma…..-, respirava d’un tratto affannato, -….ma tu, allora, perché a me hai detto, hai chiesto, perché…..??
-perché così ci guardiamo.
Noel dovette riconoscere che era vero, si stavano guardando. Tra loro c’era l’erba, incalcolabili individui fatti di fibre sferzate dalla brezza marina, sembravano tutti identici. Ma non erano nemmeno identici a se stessi, lo sapeva: di recente sostava lassù, e in quello spiazzo così insolitamente privo d’alberi e ripari rispetto alle sue esperienze, aveva visto gli steli cambiare colore, impolverarsi e ripulirsi, attraverso i pomeriggi, i tramonti, le notti. Accasciarsi come spenti sotto i luccichii lontanissimi delle stelle. Sopra quell’erba loro due si guardavano, distanti, e nella distanza guardavano anche i venti che all’improvviso parevano quasi visibili: provvisti di forma e colore così come lo erano di rumore e brontolio. Simili a dita celestine si rimescevano tra loro, credendo di metter fretta alla conversazione, o di impressionare gli esseri incapaci di volare alla loro velocità. Ma lo sguardo reciproco continuava, nonostante le ansie.
-allora, diciamo che io sono La Neve.-, disse lei, senza preavviso nemmeno da parte di se stessa.
-la neve?? Come la neve? Perché?
-perché quaggiù, vicino al mare, non nevica mai.
Nel volto di Noel, sprovvisto di grande varietà espressiva, s’affacciò una nube la cui tinta scura era diversa dall’oscurità delle altre vicine. Forse per la prima volta si sentiva così confuso nei riguardi di qualcosa e il suo silenzio un po’ strampalato sembrava in realtà martellare insistentemente, come su un legno cavo: “non ho capito, non ho capito”. Ma nemmeno “La Neve” sapeva perché lo avesse detto, e di certo non aveva, almeno che ricordasse, una particolare ragione affettiva o simbolica riesumabile dalla sua storia a giustificare la scelta di quel nome per se stessa. Ci avrebbe pensato dopo, e lo avrebbe capito -questo, se ci fosse stato un dopo, se fosse tornata a vedere i fasci di luce frangersi attraverso le imposte della sua familiare cucina, sulle grigie pareti interne di morbida pietra, sui mattoni del camino stipati di soprammobili con occhi e volti scolpiti, fasci di spighe, melegrane.
(per favore, non mi guardate così!), si rivolse dentro di sé alle melegrane che la guardavano dalla mensola escrescente dalla canna fumaria. Con le scorze squarciate in amari sorrisi, le rivolgevano numerosi occhietti di rassegnata vischiosità color rubino. (è possibile che non ritorni, ma non rattristatevi! E, per favore, pensateci voi a tenere ben spolverata la mensola. Non c’è bisogno di fare un lavoro ossessivo, anzi, va anche bene se si forma uno strato di polvere uniforme, sottile come una soffice peluria. Vi ho sempre considerate le regine della mensola, e so che continuerete a esserlo anche senza di me. Dispiace solo che non possiate alzarvi e riaprire le imposte. Non vedrete più quel fascio luminoso attraversato dai granelli, che così bene si sposava alla vostra stasi…)
Pensò anche che fosse strano come, in una situazione in cui nulla superava l’intensità del presentimento che negava ogni possibilità di ritorno a casa, si fosse ritrovata a salutare le melegrane, senza sentirsi per questo in imbarazzo. Ma c’erano molte cose strane. Lei era La Neve, si allontanava dalle melegrane, era su una scogliera che era sempre stata là, a guardar lei e tutti i paesani dall’alto, vista solo di rado e intanto concentrata nella sua opera di forgiare un destino comune: “sono ignorata, ma ci incontreremo”, sospirava. E infine, c’era con lei su quella scogliera Noel, né umano né animale, né padre né madre dei suoi figli piumati. Dissolte le ombre di ricordi e odori di casa davanti a sé, tornava a guardar davanti attraverso la distanza possibile prima del balzo nell’azzurro, a guardar Noel nel punto in cui era scomodamente accoccolato, in bilico tra lo star seduto e la prontezza a una corsa che -secondo la saggezza turbolenta e febbrile dei nervi- poteva farsi cruciale al passaggio d’ogni istante, ciascuno percepito con l’intensità allarmante d’un grido selvaggio. Per la forma e per l’effetto che faceva stando insieme a La Neve nello stesso luogo, pareva un cuneo da cui tutte quelle stranezze si diffondevano, una volta generate una a una tra le ribollenti e creative pareti di una crisalide molliccia al suo interno. E ininterrottamente s’agitava il suo corpo piuttosto gracile, d’un tremito che, al di là dei timori che la situazione insolita poteva aver suscitato, sembrava semmai accompagnarlo appena al di sotto dello strato più superficiale della pelle con la stessa frequenza del respiro.
Noel, in certi momenti, avrebbe voluto cominciare a saltare, e a fare altre mosse scellerate imitandole da un archivio della sua memoria. Il suo problema era che non sapeva assolutamente in che modo reagire a certi dubbi. Tanto per cominciare, non ne aveva mai avuti così tanti, tutti assieme: nella sua vita era abituato ad affrontarli uno alla volta, anzi, si poteva dire che anche per questo avesse cominciato a vivere in quel modo. Finché, un giorno, aveva dimenticato definitivamente come fosse il mondo prima di allora, e il suo corpo anche aveva cominciato a far crescere dai pori della pelle lo stesso tipo di peli che gli andavano ricoprendo la mente già avviata sull’evoluzione di nuove forme di autotutela e adattamento. Certo, avrebbe preferito che fossero delle piume a crescere: quello che avrebbe voluto fare, mentre era lì, perso, a chiedersi cosa stesse facendo la creatura che diceva di chiamarsi “La Neve”, era di agitarsi e percuotere ritmicamente gli arti sul petto rigonfio, come aveva visto fare nei pressi della riva di uno stagno a un’oca cinerea con un becco sormontato da vistose protuberanze. A Noel sembrava che in certi momenti La Neve avesse parlato da sola, e non sapeva nemmeno come fosse riuscito a capirlo: la sua abitudine l’aveva atrofizzato nell’esclusivo riconoscimento di messaggi estremamente diversi, che fossero diretti all’interno o all’esterno. Non era uno di quei selvaggi come gli Uomini Verdi, in grado di discutere col muschio sulle radici; nemmeno uno di quegli accattoni con le dita salate che se ne stavano al riparo in cavità echeggianti del fragore del mare o tra le travi marce di relitti spiaggiati, così sensibili ai diversi modi in cui le onde raggiungevano la vita, svelti a raccogliere i granchi con le mani nude indurite, scalfite da chele detriti e bruciature. Noel comprendeva cose diverse, un giorno aveva scelto la tana sotto l’albero e l’indomani su quell’albero ci si era arrampicato così da raggiungere un buco nella corteccia, dove aveva ammassato paglia, sassi, vegetali decomposti in liquami; e si era poi arrampicato sulle prime pendici dei monti calcarei che per primi cingevano quella zona di tozzi e morbidi rilievi a ridosso della costa, e salendo si era immerso nella pioggia spietata e tonante e nei venti più freddi. Ora era su una scogliera, vicino al mondo degli uomini: aveva vissuto tra le cose vicinissime al suolo, memorizzato quanto poteva con l’olfatto debole l’esistenza dei funghi e dei gusci caduti dagli alberi, ma era poi risalito, sempre in punti da cui potesse vedere, come in volo, i mondi che erano stati vicini a lui, che l’avevano visto passare, fermarsi, mangiare qualcosa di deforme dal suolo, riposarsi, immalinconirsi, andarsene. Soltanto gli uccelli, credeva, potevano in parte capire qualcosa di quel suo mondo, e lui poteva capire loro, o se non altro omaggiarli con la sua schiva amicizia per questa preziosa, per quanto parziale, vicinanza. La Neve, però, non aveva piume, non aveva becco. Non sapeva volare -nemmeno Noel, in realtà…-, e non l’aveva mai vista, né trovato le sue tracce, nei solchi di vie selvatiche accessibili soltanto per chi, provenendo dalla gente, decidesse un giorno di vivere come lui -se mai fosse accaduto. Si sorprese dell’improvvisa ed effimera capacità di ipotizzare i tortuosi corsi delle acque che si celavano nel corpicino di quella strana donna, con quello sguardo che aveva qualcosa di così strano da fargli credere d’averlo visto già in un sogno lontano lontano, lasciato a spiumarsi nel vento d’una sterposa prateria in cui aveva trascorso una tumultuosa notte di gloria lunare e di costellazioni. Senza soluzione, cancellò tutto quanto suggerito dalla percezione che fosse relativo a lei. Sotto la muscolatura tesa e lunga, si moltiplicò il trambusto dei nervi fibrillanti in orchestrazioni perfettamente sincrone alle palpitazioni del cuore o in anarchiche poliritmie.
La Neve aveva salutato le melegrane, e allora doveva ormai decidersi a partire. Per quanto fosse una cosa sciocca, secondo coscienza non poteva tradire la lealtà, piena del rammarico dell’abbandono, che un addio comportava sempre. Non sarebbe tornata indietro. Forse solo per riferire quello che la gente del popolo, sempre più disperata e colta da uno strano inspiegabile male, voleva sapere. Ma qualcosa le diceva che non lo avrebbe fatto. Sperava, non essendone convinta, che qualcuno laggiù riuscisse comunque a capire cosa era successo, e accettare il modo in cui vanno le cose. (ma dai! Se non domani, fra cent’anni. Qualcuno capirà, prima o poi.)
-ascoltami, Noel!-, gli gridò con la voce sopra il vento, perché aveva abbandonato quanto era indietro e si gettava con la voce e con gli occhi in avanti -la gente è disperata, ed è colta da uno strano male che non si è mai visto. Perché hai rubato tutti gli uccelli? Perché impedisci loro di allontanarsi dai luoghi, elevati o nascosti, in cui vai e rimani appollaiato?
La sparizione degli uccelli, graduale, dapprima accolta come una stranezza in fondo neanche spiacevole, utile a ravvivare insignificanti e annoiate conversazioni, aveva infine stimolato insidie e complessità che di nascosto avevano covato al di sotto di un malessere silenzioso e invisibile, quasi inafferrabile. Ma quando finalmente aveva toccato tutti, sembrò che l’intero paese rabbrividisse all’unisono come per aver sfiorato la pelle ripugnante e tossica di una creatura viscida sgusciata dall’umidità. Si incontravano, per le strade, dopo aver lavorato, nelle botteghe o nei campi, o dopo aver commerciato ciò che dai campi avevano tratto: gridavano, si gridavano l’un l’altro, grida dementi e strozzate a metà, sempre più flebili, e qualcuno scoppiava in lacrime, si picchiava le tempie ripetutamente nella speranza che sparisse quell’improvvisa follia. La faccenda degli uccelli era diventata troppo strana, e anche l’assenza dell’ombra d’un colombo sopra la piazza, prima così comune, finì per diventare una voragine squarciante il mondo in due metà. E se c’era qualcuno che, non sentendo di esser precipitato nell’abisso nero e senza fondo, continuava come prima a lavorare pur senza poter interagire in alcun modo con gli altri al di fuori della fatica quotidiana, comunque non sentiva di trovarsi sulla sponda “rassicurante” tra le due che cingevano la voragine. E tutti sentivano, con la stessa forza persuasiva e radicata d’un antichissimo proverbio, che fosse un peccato, quella misteriosa terribile separazione tra quei due strappati lembi di terra. E sentivano che si sarebbe dovuto ricongiungerli, chiudere il vuoto che inverosimilmente si apriva nel suolo, notoriamente solido e compatto, affidabile, dimora per i passi che permettono di procedere e foriero di preziose manne.
La Neve poteva parlare, solo lei, con l’uomo, anzi non-uomo, strano e forestiero che si allontanava dai margini dei campi coltivati, preferendo le erbacce e le scie di semi disseminate laddove nella campagna restavano impigliate le piume di famiglie di fagiani, nidiate ordinate in fila dietro la guida di flessuose code striate e brillanti al sole. La Neve poteva avvicinarsi senza timore, e porre la domanda. E anche se non la interessava davvero (forse credendo con la sua imperturbabilità che anche quel morbo sarebbe scomparso prima o poi), per la calma degli altri, così tanto instabile, lo avrebbe fatto, senza dubbio, senza obiezioni. E aveva seguito le tracce, ed era risalita per i luoghi alti in cui l’avevano condotta, lì oltre la spiaggia scogliosa e verso quel tratto di costa che si sollevava, facendosi sempre più aspro e allontanando gli stanchi. Si era sospinta lassù, e infine, aveva chiesto: ma così facendo si era avvicinata troppo, più di quanto chiunque avrebbe mai potuto fare. E cosa si celasse nei passi successivi a tale avvicinamento, nessuno poteva saperlo. Forse c’era una strada tortuosa, inusitata perfino per gli uccelli terricoli, dalla quale non si potevano più imboccare le curve e i tunnel riconducenti al nido.
Lanciò le domande gridate a Noel, gracile ma lungo -sarebbe stato imponente e flessuoso insieme, simile a un salice, se si fosse alzato, completamente dritto. A Noel che aveva chiamato così perché aveva detto “no”, e che aveva una voce irsuta più delle teste dei cardi campestri. E una faccia immersa tra strisce di lordura scura, coperture di penne incastrate nei capelli, la stoppa polverosa dei capelli stessi. Forse c’erano peli su quel volto, barbe, foruncoli, striature sotto gli occhi incavati in maniera da sembrar sempre al contempo spalancati e in via di rimpicciolimento; ma se tutto questo esisteva, sprofondava sotto la pelle, lì sospinto dallo strato indefinibile che l’imbrattava.
-ah, è così, volete le uova tutte per voi scommetto! Ah, credevate che non capisco niente, eh?? È così, vi vedo, da lontano, vi conosco, e credete di conoscere me!!
Noel all’improvviso si era infervorato, e parlando con voce rotta da una specie di disperato e poco convinto senso di trionfo, o piuttosto da profondi convincimenti paranoidi, aveva cominciato a gesticolare, le mani lunghe e scheletriche in escandescenze davanti al volto, agitate in fondo alle braccia oscillatorie.
-vi ho visti. Vi ho visti che vi bevete quella merda gialla dentro le uova. Anche se non dovrei dire così. Quella merda piace ai miei amici. Ma ci vivono dentro. E comunque… ah, ma perché? Non mi escono le parole!
Le parole invece gli uscivano, le ricordava molto bene, chissà da dove, chissà da quando. Gli uccelli che aveva conosciuto in vita sua -nemmeno le più malinconiche tra le beccacce- non conservavano gli steli rinsecchiti che un tempo avevano costituito le fondamenta dei nidi ormai abbandonati, e Noel non poteva recarsi in quei luoghi appartati in cerca dei resti di un passato che potesse afferrare con le dita -o con un becco immaginario- così da mostrarlo alla prima creatura presentatasi per incontrarlo. Si immaginava la scena ridicola, “guarda, questo è il rametto rinsecchito che tanto tempo fa ho usato come architrave! Guarda, questo è il momento di tanti anni fa in cui vivevo ancora tra la gente, e imparai questa parola, e questo argomento, o imparai a offendermi e a rifuggire i giochi di corteggiamento dei bambini, e scappai dal cortile per andare a piangere di nascosto, e lasciai il coro e imparai a lavorare e usare le mie mani per il bene, e imparai a usare le mie mani per il male” -tutto questo era ridicolo, sì, non doveva succedere. Non sarebbe mai dovuta essere una cosa interessante. Solo gli uccelli, il loro piumaggio, la loro ciclica alternanza tra indifferenza altezzosa e curiosa ricerca tra i miseri commoventi resti schiacciati al suolo, solo questo poteva animarlo e, diceva in cuor suo, null’altro avrebbe dovuto animare gli altri. Ma gli altri erano diversi, non capivano, e soltanto allora avevano cominciato a disperarsi per la mancanza degli uccelli che prima non avevano rispettato. Per questo li punisco, rubandoglieli tutti, si diceva, ignorando il circolo vizioso che si insidiava nel suo passaggio logico, mimetizzato e indisturbato con l’astuzia di una biscia in cerca di nutrienti uova rotonde. E c’erano altri motivi, sì, lui rubava gli esseri di ali e di piume e di desolatamente unica possibilità di comprensione. Sottraendoli al mondo, impediva che anche il mondo potesse capire. Aveva creato un silenzio perfetto. E se il mondo voleva andare a dargli la caccia, con ignobili stratagemmi ed esche e cani inseguitori, che facesse pure il peggio in suo potere! Non avrebbe restituito il “maltolto”, gli uccelli dovevano rimanere con lui. Fino al giorno in cui anche gli esseri umani -così morbosamente ghiotti di spiegazioni, di storie altrui (ridicoli passati di ridicolo insignificante dolore che non spiegano un bel niente!), nonché di uova rubate ad altre creature- avessero finalmente dimenticato tutti quei “nomi” con i quali erano soliti chiamare le specie volatili.
Ma adesso, ecco “La Neve”, che è nevicata quassù, bianca e bionda e con quell’aria innocente senza nemmeno annunciare il suo arrivo tempestivo. La Neve ti coglie su un cucuzzolo bagnato dal sole per gelarti le ossa cave e ricordarti che devi essere sempre pronto a migrare. Ecco La Neve che, quando stava quasi per riuscire a far dimenticare tutto a tutti quei poveri avviliti villici e paesani, arriva e dà un nome, proprio all’entità che li avrebbe fatti sparire! Così sarebbe rimasto solo “Noel”, talmente intrappolato dalla contagiosa assuefazione che il suono di quelle sillabe gli dava una volta cucito alla propria figura, da non potersele scrollare -non importava quanto provasse a convincere se stesso con bugie come quella di possedere un piumaggio che era possibile cambiare a ogni muta. Solo Noel in una distesa di animali di linguaggio tanto chiassoso quanto silente, incolmabilmente distanti da quelle sillabe.
Gli scintillarono in un’anticamera della fronte animata da ombre chiare e scure gli occhi smeraldini di un corvo campagnolo. Dal becco gracchiava e lanciava, a perfetta imitazione della sua voce, il grido schernente che faceva No-el, No-el. E a ogni rintocco meccanicamente appreso nuovi vuoti si aprivano negli altri paesaggi della mente, bruciature che procedevano lente sui bordi fragili di un foglio di carta. Noel reagì ansimando, per far coraggio al proprio petto, pressato dal corvo dentro di lui e da La Neve là fuori che dubitava e che lo riempiva di dubbi.
-il vostro inganno, il vostro ignobile inganno! Ecco che volevo dire! Non volete nient’altro che le uova dei miei amici, è per questo che volete rubarmeli. Amici. Ma saranno amici? Mah…-, si fermava a parlare da solo, e poi si scuoteva di nuovo, brusco e irritato -ma questo non ha importanza! Nessuno avrà niente. Alla fine è così.
-non dirai niente, vero?-, disse La Neve, comprensiva, tollerante.
-no!
-però, Noel, il problema non sono le uova. Lo sai benissimo.
Noel stette in silenzio. Pareva ascoltare, soppesare le parole. E per la prima volta assunse uno sguardo che, come il calare tenebroso di un velo su una testa, si assestò dai lineamenti del volto all’intera figura corporea sottostante, sincronizzandosi a un insolito rilassamento della postura. Pareva l’espressione di un adolescente messo per la prima volta di fronte a uno dei dilemmi irrisolvibili della vita, pareva un’espressione di umano rincrescimento e lavorio di pensieri.
-no, non sono le uova.-, disse semplicemente dopo un po’, il tono desolato ma fermo di una condoglianza matura.
-già. Qualcuno rimpianse le galline, certo. Ma le cose non sono rimaste così semplici, con una così semplice mancanza di un oggetto. Piccoli oggetti che si possono raccogliere dalla paglia, tenere tra due dita. Ma ora non importa. Né a me né a te. Giusto? Di ciò che succede là, ormai, non possiamo più interessarci…
Noel ascoltava, incantato, quelle parole enigmatiche che non avrebbe mai creduto potessero essere pronunciate da un rappresentante di una specie da lui così lontana -o allontanata. Quasi rimpianse di aver disimparato alcune cose: avrebbe voluto reimpararle per usarle con lei, lei soltanto, solo per quella volta, solo perché il loro incontro su quel promontorio, forse, doveva succedere. Ascoltava, e il vento burrascoso, multiforme dei molti suoi figli che lo alimentavano, si barcamenava, scambiava schiaffi e messaggi da un volto all’altro, li sospingeva minacciando di far precipitare Noel oltre il bordo e La Neve giù per la discesa. Ma non ci riusciva mai, e rimanevano ad ascoltarsi, cercando di decifrare ciò che oltre il fragoroso soffio pareva loro di essere riusciti a cogliere.
-…questo significa…
-…che cosa?
-…vuoi fuggire?
-non è che sia venuta qui per fuggire con te o niente del genere. Sono qui perché vogliono che io provi a “ragionare” con te.
-e ti hanno costretta?- il collo di Noel sembrò quasi arrossarsi e palpitare per l’indignazione, facendo immaginare la presenza appartata di idee dissidenti in qualche angolo della profonda mansarda abbandonata che era la sua testa. Se ne stavano vigili e mai disposte ad arrendersi mentre tutt’intorno nella penombra e sotto gli assi cigolanti era un caos di ciarpame disarticolato -piume, borre, ossicini, suoni gutturali e primitivi del tutto incapaci di sostenere con la propria forza impalcature di concetti complessi.
-non hanno usato la violenza e nemmeno la persuasione. Però sì, vorrebbero costringere. Molti atteggiamenti vogliono significare questo.
-perché sono infami ladri di uova, bestie!
-Noel, ti prego, basta con le uova.-, sorrise La Neve per non sembrare autoritaria, per costringerlo a non parlare più dell’argomento “costrizione”.
-hai ragione, sì, basta uova…-, convenne mitemente Noel, costretto dalla situazione ad assumere molti diversi comportamenti, uno dopo l’altro, non badando alla stagione che se ne stava ferma nonostante tutto, come sempre, senza sfumare nella successiva prima che si presentasse il momento giusto.
-e quindi, vuoi, ehm, “ragionare”……? Non so se ricordo che…….
Le cicale nascoste nelle rudi fronde ammassate sotto l’altura sembrarono affievolirsi nella pausa. I venti imperversavano e La Neve, capendo che non c’era altro, cominciò a inspirare profondamente.
-esatto, ragionare. Perché sono l’unica che può riuscirci, capirti, e..
-no, ti sbagli!!
-..e perché dicono che sono una donna “razionale”.
Noel rabbrividì in tutto il corpo, questa volta senza far capire se si fosse trattato di ira o sgomento. Forse era addirittura imbarazzo, un principio di compatimento nei confronti di certi modi di dire. La Neve avvertì nell’ampio spazio caldo che le separava il petto dalla chiusura del cappotto un fremito quasi eccitato, e si ricordò di quando da bambina era rimasta per la prima volta incantata da una storia di un libricino di fiabe illustrate al punto da simpatizzare per un personaggio, come se lo conoscesse e potesse abbracciarlo e dimostrargli così il suo sostegno in qualunque disavventura si fosse cacciato. Un maldestro principe con un cavallo buffo e rotondo, dall’aria sperduta come un arbusto esile piantato da solo in mezzo a un campo con i rami sparpagliati all’intorno, a dire “e adesso che faccio?”, e lei gli aveva risposto dall’altra parte della pagina, “stai a sentire il tifo che faccio per te”. Questa simpatia la provava per Noel e quel suo brivido che non era riuscito a reprimere nell’udire cose senza alcun senso.
-allora, non mi dirai perché trascini a te la compagnia di tutti gli uccelli, vero? E continuerai a tenerla solo per te, vero? In silenzio, senza mai risolvere il mistero della follia della gente che tutt’a un tratto non può stare senza uccelli. Li lasci a guardare il cielo in cerca di un niente che rimarrà niente.
Noel annuì, lentamente, testando la propria incertezza riguardo quel gesto -era proprio così che si faceva? Nel compierlo, si predisponeva al tono quasi solenne che aveva avuto in precedenza, quasi quello di un animale vissuto abbastanza a lungo da poter impartire insegnamenti a nidiate di nipoti bercianti posti di fronte alla serietà e costretti a rispettarla.
-non posso ridarveli.
-sono “tuoi”, allora, ti appartengono?
-questa è una sciocchezza. A me non appartiene nulla. Non una casa, non una famiglia, non un nome…
-beh, un nome adesso ce l’hai…
-questo è vero, sì. Però, per il resto…..!-, ritornò in un lampo lo stesso nervoso che era stato all’inizio dell’incontro.
-va bene. Non puoi.
-non posso. Non posso, e non voglio, e rifiuto…
-rifiuti?-, lo sollecitava La Neve, per aiutarlo a recuperare il suo atteggiamento più placato. Che fosse questo un significato segreto e imprevisto di “far ragionare”?
-non potrebbe essere. Non posso restituire qualcosa che tengo per me, senza davvero possedere. Gli uccelli vengono intorno a me, ma li tocco?
-sembrerebbe. Ti stanno vicini, forse li tocchi e loro toccano te.
-appunto, sembra. Non tocco niente. E non posso condividere, non posso restituire. Stanno con me e con me rimangono. Ma in verità sono uguali ai sogni.
La Neve sgonfiò i polmoni di tutta l’aria che aveva continuato a inspirare, quasi ininterrottamente, come se avesse separato una parte delle narici e l’avesse lasciata andare in automatico: del resto,-diceva il vociare indistinto delle tante teste sepolte nella sonnolenza del paese lontana sotto il sole- era così brava e capace e in gamba, e così sveglia e razionale, e così solitaria e, ammettiamolo sottovoce, fondamentalmente incomprensibile, da essere perfetta lassù, con quello là. Quella specie di coso, di animale. Un essere mitico con i lineamenti irriconoscibili, il corpo strano, potevano pure esserci zampe rugose e chimeriche sotto gli stracci di pelle inquietantemente sconosciuta che aveva per veste.
Non si erano mossi, non ricordavano da quanto fossero lì. L’ora indolente sembrava essersi congelata, o annullata, nell’eternità del flusso inscindibile che evaporava univoco dal paesaggio. Gli aromi e le cicale s’intensificavano, scemavano, come i movimenti del mare, senza un chiaro schema, senza raccontare una storia. E nessuno degli elementi si annullava mai del tutto. Loro ne erano parte, fermi si fronteggiavano, senza toccarsi. Eppure La Neve si stava avvicinando. Soltanto un passo le mancava, un passo che non poteva essere visto, non identificabile in piedi che sorvolano soglie rappresentate da ombre.
Noel non aveva più smesso di guardarla. Stava imparando a essere deciso, e il potere della sollecitazione, dell’invito. Il fondo degli occhi, il punto oltre i meandri della pupilla nel cui nero si affrontavano riflessi d’ocra e fango e verde mosca, era stato preso da una nuova fiammella, puntolino bianco. Diceva: so che vuoi chiedermi qualcosa, e non è la stessa che volevano mi chiedessi. Ti ascolto.
-perché sei salito quassù, negli ultimi giorni?
Noel chiuse gli occhi, pareva assaporare. La Neve aveva reciso il filo di sottilissima dolorante carne che dalla caviglia serpeggiava fino ai lastricati del paese. Dal taglio il sangue si sarebbe esaurito e si sarebbe impallidita, per infine sparire, la sua missione di mediazione. Ma non era un tradimento, no. C’era nel destino anche il suo fallimento, doveva essere così, e raccontava così a se stessa, ultimo atto della sua razionalità. Il suo ruolo era stato quello di donar loro una leggenda, la partenza senza ritorno.
-ti ho seguito a lungo. Dicevano di averti visto correre nei campi. Spaventavi le bestie, spaventavi i vuoti rimasti dentro i pollai disabitati. Ma non ti muovi più. Ti sei avvicinato, e questo è il punto vicino in cui sei rimasto. Perché sei salito quassù, su una scogliera, tra tutti i luoghi? Per guardare cosa?
Da una scogliera si poteva solo guardare, o anelare al volo. Forse sarebbero giunte delle navi lontane, sulla linea blu dell’orizzonte in cui si produceva il più fondamentale tra tutti i rumori che non cessavano mai. Oppure qualcos’altro doveva emergere dai flutti. Oppure, sulla superficie frastagliata e riflettente del mare si riproducevano, con la foga germinante di banchi rossastri di pesci, le luci lontane di una città o di un paese lambito dalle onde. Così che potesse sembrare che a ogni lume lì disciolto, privato di confini e diluito negli altri, corrispondessero idee, capaci di dar senso e pace a qualsiasi inquietudine che fosse giunta sulla terra.
-allora, vieni.
Disse Noel, che non si vergognava più del proprio nome, che aveva capito di averlo desiderato. E si mosse finalmente La Neve che, sempre così serena, aveva invece capito di volersi sciogliere al sole.
…
Le nuvole aumentavano di numero, scomponendosi facevano disegni di pecore mitiche, sdraiate su una scogliera speculare alla loro, invisibile perché omogeneamente immersa nella tinta del cielo. Un giorno sarebbero riusciti a distinguerla, a viverci dentro. Ma no, era solo una sciocca fantasia. C’erano solo nuvole spesse, poi sottili, alte sopra il mare. Pecore mitiche diventavano arpie mitiche, e forme di mostruosi sublimi triangoli, e navi leggendarie che non procedevano sull’acqua. E il grido di una singola aquila di mare ancora rimasta, certo non lontana da dove Noel era, echeggiava, pareva, da sopra il sole. Ascoltandola, Noel comprese che anche lei gridava una mancanza, mentre lui aveva sempre giocato al gioco dei desideri, proprio di tutti gli esseri sotto il sole. Aveva desiderato delle piume e delle ali, aveva desiderato che il pelo ricoprente il suo cervello si trasformasse in piume. Ma insieme a lui anche il rapace rifulgente lassù, aveva desiderato qualcosa di inconcepibile -per questo lanciava il grido ritmico, parente ibrido dei gabbiani e delle poiane, waì waì waì. E se il loro desiderio fosse stato esaudito? Avrebbero comunque continuato a lanciare grida, o a borbottare gutturalmente in un riparo occasionale, perché tutto nel mondo proseguiva con la sua musica, il mare e la macchia e la calura. Non c’era fine. Lo sapevano Noel e La Neve sdraiati nella calura, con le schiene vicine accarezzate dall’erba tiepida. Vedevano, da lì, sia il cielo che il mare. Vedevano che se avessero disvelato tutti gli autoinganni del desiderio, nulla più che fantasie mai davvero intenzionate a diventare tangibili, ne sarebbe rimasto solo uno: dissolversi come quelle nuvole. Per questo alcuni fuggivano, e altri si immergevano in ricordi.
La regina degli uccelli di mare cantava a lutto, oppure cantava una filastrocca nonsense per bambini ammantata di poesia di corte. Ascoltandola, La Neve comprese che l’immersione nel mare e nel cielo della propria mente non avrebbe mai conosciuto l’abbandono di quei raggi di sole, attraverso le imposte della cucina, che con la sua partenza aveva reso per sempre intangibili: non si sarebbero mai però cancellati. E tutti quegli altri raggi che erano caduti dalle balconate grigie delle case, sopra i cortili, sopra i giochi infantili. Sopra un asino che trascinava un carretto, sopra un gioco colorato di nastri tesi a festa, una festa lontana di canzoni tediose, momenti interminabili di cerimonia. Non le mancava nulla di tutto questo, ma continuava a ricordarlo. E vedendo se stessa in piedi, o pronta a camminare, dentro i diorami proiettati da questi ricordi, vedeva che non sapeva far altro che sorridergli, senza sdegnarli. Per qualche motivo che avrebbe compreso dopo. Come potesse reggere in una mano un pezzo di fibra su cui fossero state impresse le scene di una volta, immobilizzate così com’erano avvenute insieme a tutti gli informi contenuti del cuore. La luminosità e il volto di se stessa bambina, i denti aguzzi bucati.
…
-verrà a liberarmi.
-cosa?
-è un uccello rarissimo. Non aveva un nome nemmeno tra di voi.
-guardiamo in su per trovarlo?
-no, non è una nuvola.
-però è vero che da quassù si vedono meglio… era plausibile che fossi salito per sentirti più vicino a loro. E vedere le incredibili sagome che disegnano e cancellano di continuo.
-sono belle. Ma non bastano per salvarmi.
-vuoi salvarti davvero? È per questo che sei fuggito?
-non lo so… da quando sei venuta qua non lo so più.
-da cosa devi essere salvato?
Noel pensò intensamente. D’un tratto pareva che cominciasse ad apprendere dei concetti difficili, nell’istante stesso in cui li usava. Al solo scopo di farli sentire a lei, venuta a sdraiarsi di fianco alla sua incrollabile e solitaria osservazione del cielo e del mare. Noel si esprimeva.
-un tempo ero tipo te, com’è che dite… sono diventato sempre più uccello, sempre meno uccello, sempre più niente. Io sono fuggito. Non voglio definire niente, non voglio essere definito da niente. Solo gli occhi che volano vedono tutta la terra e tutto il mare.
-ma come hai detto, non vuoi davvero volare…-,notò lei, dalla sua altra e diversa solitudine, fatta di intelligenza ironica e fascino.
-dissolvermi. Come una singola piuma, di quelle piccole, d’insignificante e batuffoloso piumaggio di ricambio, che galleggia per giorni nel vento. E sempre più si sfilaccia, si sgretola, senza violenza. Diventa l’aria stessa.
-esiste qualcosa che può liberarti in questo modo?
-è la speranza.
-e dov’è, se non lassù?-, La Neve, senza distogliere l’attenzione dal punto dell’amalgama del cielo e del mare, sollevò però un braccio perpendicolare sopra di sé. E anche Noel senza distogliersi, così da impedire che così ravvicinati e sdraiati affianco si guardassero in faccia, rispose. Ma il braccio deformemente lungo e magro si diresse altrove, avanti.
-è nel mare.
La Neve tese le orecchie, come se attendesse nel seguente riempimento del silenzio da parte delle onde di assorbire quella cosa rara di cui Noel parlava.
-l’ho vista una volta. Una creatura che emerge dalle gobbe del mare, ha molte schiene di lucide isole. Manda un pianto verticale da un foro, un singolo occhio vuoto nel dorso. Camminavo per caso su una scogliera, e la vidi emergere, e rimasi sconvolto.
-ah, ecco com’è andata.
-ma io l’ho capito! L’ho capito, che quella creatura era un uccello, della forma più strana che potesse esistere! Ha un muso lungo, che protende scuro sotto la superficie, ed è certamente un becco. Quando si solleva sembra che tutti i pesci che esistono vadano a radunarsi in un banco là sotto, fino a inchiostrare l’acqua. C’è un uccello gigantesco, perché questa creatura è gigantesca, che vola nel fondo del mare. E quando sale su, facendo vedere sopra le onde la sua coda che gocciola spiovente e alata, è come se un passero gigante emergesse al di sopra del cielo, facendosi sfiorare dalle stelle e chissà cos’altro che noi non possiamo immaginare, se non lasciandoci disperdere nel mondo siderale. Per questo contatto, la creatura gigante comincia a cantare, una canzone incantevole fatta di onde, che echeggia fin quassù, e fin negli abissi. Gli uccelli in amore emettono melodie sui rami. Lei fa lo stesso, e le sue sono melodie giganti, a sua immagine. Traslate in quel cielo fatto d’acqua salata.
-prima non sapevi parlare così bene.
-questo è un giudizio, è una definizione. Devi ancora allontanarti davvero.
-lo dici tu. È un giudizio, una definizione. Dal punto di vista del mio mondo, mi sono già allontanata, irrimediabilmente. Sono con te, ormai. Con te e con questa creatura di cui mi parli. Credo di averla vista.
-è splendida. Un giorno ritornerà. Uscirà da quei flutti. E forse, allora………………..
Noel disimparò di nuovo le parole. Era libero di disfarsi e ricomporsi, il che forse significava che quella “creatura”, che era come una divinità attesa in preda all’ansia, si stava avvicinando. Espandendo fin sulla costa i raggi del suo potere di liberare, di esaudire il desiderio di dissolversi senza forma. La Neve si ricordò di un’immagine illustrata su una mappa. Tra la porporina celeste disposta sulla carta in curve rappresentanti le onde del mare aperto di un punto inesplorato, si stagliava minaccioso un pesce enorme con una faccia draconica, una bestia così rara da diventare immaginaria. Sapeva che il nome che davano a quella cosa mai vista, se non da pochissimi marinai, era quello dei mostri marini. Grazie a Noel, La Neve riusciva a immaginare che quella cosa avesse l’anima di un uccello, e che nuotasse all’infinito lungo le coste in cerca di quelle creature che volevano essere salvate, e attendevano. Era una bella storia, come quelle illustrate.
Le dita, da sole, si avvinghiarono all’erba, credendo di stringervi un’immagine, una scena, se stessa bambina, vestita color melagrana, tra i bagliori di un pomeriggio di cerimonia, sorridente dentatura bucherellata. Sentiva gli steli d’erba infiltrarsi tra le zone poco folte dei capelli lunghi. Ruotando la nuca per cambiare posizione, spezzò un’altra piuma caduta, rimasta nascosta nell’erba. La esaminò, tenendola sul palmo, e lasciò che i suoi frammenti si gettassero al vento. La Neve si risistemò, rivolta alle nuvole, e lasciò che il tepore del sole l’attraversasse, come se il suo corpo fosse trasparente e riflettente. I raggi le solleticarono lo spesso tessuto che indossava, e il petto, e tutto quello che ci teneva dentro.
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