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un leopardo

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 18 ott 2021
  • Tempo di lettura: 16 min

Quando finalmente andarono a visitarli confermarono a se stessi che in quell’invito si celava un po’ della malizia, se così si poteva chiamare, che sempre poteva percepirsi dietro maschere che indossavano convincenti, e per la quale erano noti. O forse era un’idea che era nata tra i colleghi e che si era poi sovrapposta a loro, coniugi così affiatati anche sul luogo di lavoro, sempre eleganti e belli, curati, mancanza di difetti che insospettisce. Insomma, anche quello, giudicava la coppia di invitati, era un “mostrare”, come mostravano se stessi nel loro linguaggio e i loro vestiti tra le mura bianche dell’ufficio, e ora tra quelle arancioni nebulose della casa volevano far sfoggio di cose che possedevano. Lo notarono subito, ma ovviamente non dissero niente, era impensabile… ma era comunque la cosa che più di tutte risaltava nelle loro menti, e non c’era dubbio che questa tensione che si era formata all’interno l’avrebbero disciolta nell’unico modo che conoscevano, facendo velenosi commenti sulla via del ritorno. Spesso li accompagnavano a giustificazioni, non rivolte a nessuna persona in particolare, nemmeno a se stessi: ribadivano che se quelli là si sentivano in diritto di usare malizia, mettere in soggezione sempre tutti quanti con la loro aria di superiorità, allora nessuno vietava di riversare un po’ di malizia in cambio, tanto più gustosa quando non è udita e si libera strisciante per il mondo dando l’impressione di poter sortire incredibili effetti di giustizia, potenziata dal suo essere impercettibile a ignare orecchie che sprofonderebbero nell’angoscia sapendo d’esser nominate altrove. Ma se tutto questo lo ripetevano in tutte le circostanze simili non era perché temessero una qualche scorrettezza nel proprio comportamento, da compensarsi a quel modo; piuttosto era un compendio, un’eco alle parole dissacranti pronunciate poco prima, per riascoltare le proprie voci che diventavano così incantevoli quando libere di giudicare. Lo pregustavano già, da ogni dettaglio che si presentava nella scena, e intanto sorridevano, per la cortesia, per una percentuale di genuina allegria (di cui a sua volta una percentuale era di trovarsi in mezzo a certe cose, sebbene non le possedessero, e un’altra più piccola di stare con gli altri due colleghi sposi, come membri di un implicito gruppo di quattro, e ancora una data dal bere), e perché in fondo si dicevano di dover accettare il tutto come una cosa della vita, così ovvia. Ma se avessero trovato qualcosa, un difetto, un’incrinatura, quanto l’avrebbero ingigantita! Per questa e per altre ragioni gli occhi erano attenti, seguendo le vie indicate dalle mani, le spiegazioni, i “da questa parte”, i numerosissimi faretti che costellavano il soffitto di ogni corridoio dell’enorme magione come una scia bioluminescente sulla coda di un pesce abissale.


Sui pilastri in miniatura vasi di dinastie impronunciabili, ma le crepe sulla ceramica non valgono come ammaccature nel loro stile di vita. Sapete, questi strani asiatici con i loro principi estetici, avevano spiegato, come se leggessero nella mente la volontà di svalutare -e ci mancava che sapessero fare anche quello! Dio non può dare dei denti così perfetti e la capacità di leggere i pensieri a una stessa persona, sarebbe troppo ingiusto, così avrebbe detto lui dopo, e lei si sarebbe detta d’accordo. Fondamentalmente credevano nell’intelligenza dell’universo che distribuiva più o meno tutto in maniera equa (sebbene non spiegassero la propria fede in questi termini, o in qualsiasi altri). Era stata data ai colleghi, superiori forse -non era una gerarchia chiara, i ruoli importanti e ben pagati non esercitavano comando-, amici, commensali, qualunque cosa fossero, a loro era stata data la capacità di apparire in ogni caso affabili e cordiali. Generosi: mettevano a disposizione il loro cibo profumato, “te la faccio guidare una domenica se vuoi”, ma certo nell’affettata sincerità che esprimevano nell’offrire e proporre e ridere a brutte battute doveva esserci un inganno. Lo stesso principio poteva applicarsi al resto della casa. Strane fragranze, troppo invitanti, riposte già pronte ma cariche della loro essenza bollente e raffinata come per sempre immortalate nel momento di uscire dal forno elettrico, sotto i forzieri di coperchi isolanti dai riflessi adamantini, li attendevano su una tavola rossa e bianca come una muscaria. Pozioni, intrugli, bellissimi quadri e broccati e artigianato: custodi di sortilegi, con cui manipolavano tutti, o di una solennità regale, espressa da quadri e manufatti pregiati? Avrebbero consultato anche gli altri colleghi a riguardo, ma prima dovevano esaminare bene ogni cosa. Sottogeneri del jazz, associati alle cene senza alcuna obiezione da qualsiasi buon ospite, si levavano soffusi da impianti onnipresenti ma invisibili, discreti. Deve essere una dimora in cui è facile nascondere le cose, ma ci sono, si sentono, massaggiano le orecchie o le assopiscono.


-vieni!-, strattonò le dita morte del figlio che si guardava i piedi, esaminava le cose basse. Una mano sulla schiena, di lei a lei, poi ricambiata, una pacca tra gli uomini, l’incontro pungente dei deodoranti aromatizzati. Passeggiano, vivono i corridoi come avevano vissuto le moltitudini del giardino, il dentro e il fuori di quel mondo fulgido. Perfino le cose più sciocche sembravano trovare una collocazione armonica con il tutto. Forse per questo era difficile trovare lo sporco e il buio e il caos, perché anche questi si armonizzavano, e sicuramente c’erano. Eppure la luce innaffiava ogni angolo di quella casa, e si accendeva in anticipo per accogliere chi sopraggiungeva, qualunque stanza fosse. Un aroma speziato, umido ma senza alcun rischio di diventare stantio, goloso ma non rozzo, fluttuava attorno a stipiti e in aloni tra i lampadari, impregnava le pareti senza sporcarle. Un tocco fugace senza farsi vedere: perfetto, stimola pure i solchi dei polpastrelli. Vivere in una casa del genere significa, pensò lei senza dirlo nemmeno dopo, che si potrebbe anche passare intere giornate soltanto a godere del tocco del muro; eppure non farlo, perché comporta il poter fare tante altre cose, ma basta quella possibilità, inebriante proprio perché non viene mai usata, a conferire potere.


Potere? Era questo che volevano, e che avrebbero sottratto agli altri? Guardava lo scintillio pendulo dalle orecchie, argenteo nel vetro della macchina e della pioggia. Gli orecchini più belli che avesse scelto, catenina con pietra rifulgente come mondi astrali di una qualche specie di buddha principesco. Meditava guardandosi filtrata dal gioco incrociato di bagliori e del loro spegnersi, forse gli occhi castani ancora rintronati da un eccesso che nemmeno erano più abituati a patire consapevolmente, vivendo nella città, vivendo nella metropoli dalle molte grandi case e i grandi palazzi degli uffici, le piazze musicali e alberate di luminarie. Entrare in una casa un po’ alla periferia di questi palazzi, coi loro due o tre piani e giardini di vegetazione che sembra fosforescente tra la lanterne; entrare in case altrui e sbirciare l’insieme delle cose grandi e di quelle piccole, per quanto invitati lì dai proprietari, equivaleva un po’ a rubacchiare. Le occhiate lasciavano macchie sulle cose: come ditate, le pupille s’imprimevano umidicce e untuose sui pregiati materiali levigati, sull’acqua clorata che umettava un bordovasca intriso di effluvi chimici e urticanti, sulle spesse piante in vaso. E quelle scie erano un ficcarsi una a una tutte quelle cose dentro la retina e poi in un altrove dove si trasformavano in concupiscenza. Una pioggia melmosa si sfrangeva contro i tergicristalli, la donna guardava il proprio riflesso confondersi con le luci dei lampioni in successione, e frammentarsi tutta tra i rivoli scomposti e caotici. Erano sue rughe quelle, un friggere di nervetti sotto le guance, oppure giochi d’acqua e luce? Si chiedeva se tutte quelle cose non rappresentassero il “potere”, una cosa segreta che loro custodivano in quella casa, in un piano sotterraneo che non era stato mostrato esplicitamente, il tesoro in un bunker… all’improvviso alla sua immagine si sovrappose il volto di lui là dietro. Non aveva detto una parola, aveva mangiato senza commentare e cogliere differenza alcuna con le solite cene. Lo vedeva uguale a se stesso, come l’avrebbe visto se si fosse girata verso i sedili passeggeri, nonostante il complicato rimando di riflessi e rifrazioni che le permettevano di vederlo attraversare come un fantasma il vetro antistante il suo volto. Che invece si deformava, si astraeva. Lui no, uguale nell’immagine, nel mondo dello specchio come in quello solido. Come ci era riuscito, quel ragazzino indolente? Provò un secondo moto d’irritazione: era come svogliato, il gomito sullo sportello, a guardar fuori dal finestrino i lenti strascichi di pioggia urbana con la stessa espressione vacua che aveva avuto standosene incantato su un quadro stupido (stupido rispetto agli altri, sicuro, ma anche quello messo proprio nel suo posto adatto!). Diede uno sguardo al marito accanto a lei, in cerca di qualcosa, una specie di conferma o complicità. Un po’ rosso per il vino, aveva insistito per guidare e allegramente sterzava ostentando padronanza, leggerezza; un sorrisetto rivelava che anche il monologo dentro di lui si consumava in profonde analisi su quanto visto e sentito, portato avanti sin da quando erano usciti dalla fluviale ghiaia del parcheggio, bordato di putti e fontanelle. Insomma, sembrava non pensare affatto al figlio. Come nemmeno lei ci pensava prima che invadesse lo spazio delle sue considerazioni, proiettandosi in maniera inopportuna, questo spettro intruso. Fortunatamente il riflesso era scomparso. Certo rimaneva lui là dietro, in quel suo atteggiamento incomprensibile. Ma era una cosa che restava nei posti sul retro. Lì davanti erano lei e il suo sposo, avrebbero cercato di essere migliori, belli almeno quanto loro, e di questo sarebbe stata fatta la loro comunicazione e prossemica nei successivi giorni di lavoro, questa la nuova loro comprensione reciproca. Allora dopo quei momenti di dubbiosa riflessione, meno di un minuto in realtà, ritornarono a sfoderare le piccole vendette che avevano escogitato, cercando insieme le imperfezioni nell’ambiente. Credevano e godevano dell’idea che così facendo questo s’intaccasse un pochino, causando allarmismo nei suoi abitanti per una qualche specie di fattura agente a distanza, con la sola suggestione di cui la forza del pensiero è capace. Il tutto però era stato reso estremamente difficile dal senso di completezza, speculare invece a un vuoto interno, che era loro stato trasmesso dall’intera serata. Non erano mai rimasti così tanto ipnotizzati da una semplice sfilata di forme e colori, tasselli d’un mosaico di vita altrui su cui s’erano affacciati. Potersi affacciare voleva dire che differiva dalla propria. Una vicina di casa, due mondi uno accanto all’altro.


Moglie accanto al marito, pativano questa e altre vicinanze. La macchina attraversava il temporale, ancora imperturbabile nonostante i suoi anni -solo tre, cominciavano a sembrargli troppi, in quella città grande e feconda-, i fari fendevano gli aghi regolarmente, come al solito le persone scendevano, avviandosi al portone e poi all’ascensore, il tutto che taceva sotto la notte. Un finestrone sul pianerottolo mandava un filo di vento fastidioso da uno spiraglio che non si riusciva a chiudere. In quella linea stava incastonata la notte nera. Forse c’erano due piccolissime stelle deperite, simili a fiocchi di polvere. Inconsapevolmente guardavano lì.


S’inoltravano le ore buie, sotto i tetti alti di appartamenti rettangolari ammassati si libravano fantasticherie, vedere i due mondi l’uno di fianco all’altro rassomigliarsi sempre più. O, perché no, al gonfiarsi di uno far degradare l’altro, come se ci pensasse il cielo al bilanciamento delle cose sottostanti. In un’altra stanza si facevano sogni di tutt’altro genere e assieme si riunificavano in un respiro mucoso, quasi un russare, tutti dovevano aver preso un po’ di umidità nei pochi minuti all’esterno nell’arrivare e andarsene.

.


Un difetto in un certo senso c’era. Per poterlo notare occorreva uno sguardo avvezzo a ciò che è insolito. E nemmeno l’unica persona che aveva notato l’oggetto, pur avendolo osservato così intensamente, irrimediabilmente, l’avrebbe chiamato difetto: d’altronde il suo essere tale sarebbe potuto scaturire soltanto dalle menti delle persone che avevano deciso, “troviamo dei difetti!”, senza prima nemmeno capire cosa questi potessero essere, fregando definizioni e percezioni qua e là come faceva più comodo per poterli trovare. A lui dei difetti non importava, come non importava dei pregi, e la natura di quanto lo aveva assalito, rendendolo un’inerme preda d’un qualcosa d’indefinibile -se creatura, stato d’animo, impulso incontrollabile-, gli sfuggiva e lo attirava al tempo stesso, così intrappolandolo in un eterno inseguimento in cui non si capiva chi fosse l’inseguitore.


Era anche ben camuffato. Tra gli altri quadri esposti, e anche tra le erbe della giungla lì ritratte. Uscivano dalla cornice. La calura subtropicale stillava invisibile vapore denso attraverso le striature del legno, come preludio al suo mondo oltre la tela. Le piante crescevano alte, infittivano, nascondevano e dopo svelavano, formando una cornice dentro la cornice.


Schioccavano da lingue e denti altri numeri e parole, altri quadri. Lettere cifre e immagini si equivalevano nella lingua corrente.


-diciottesimo secolo!


-quinto secolo, paelocristiano.


-fauves.


-Utagawa.


-cubista, un minore.


-novecento ce n’è poco.


Senza dubbio ce n’erano di tutti i tipi, come di tutti i paesi erano gli oggetti che abitavano la casa della luce più delle persone. Bagliori lampanti di giallo ocra s’abbattevano sulle superfici strappandone un sopito lucore intrinseco, riportato fuori con quell’operazione che aveva qualcosa di brutale. Un tavolinetto senza smussature, circolare, probabilmente scomodo e senza un uso particolare, si colorava di striature candide sui bordi lisci, che si riflettevano intermittenti all’aria come scaglie argentee sensibili al mutare del giorno. Su un centrino di motivi vegetali stava una di quelle minuscole piante grasse senza spine con i lembi che sembrano una plastica gravida di linfe odorose. Verde opaco come l’aloe, spento, quasi malinconico, eppure foriero di un irrazionale quanto innegabile rilassamento sensorio. Neanche questo emanava dagli stomi anidride mista ad angoscia, nemmeno questa solitaria cosa un po’ più angosciosa di altre.


Dai piedi lignei all’angolo si stendeva il tappeto rosso in cui la polvere non si fermava. L’incontro con la parete incurvava in un elegante scalino eburneo, poi ritrovava la sua solidità arancione e perpendicolare. Qui, sulla parete lineare, i quadri si fiancheggiavano.


-sei ancora là? Che c’è?


-gli piace il leopardo!-, ride lei, la radiosa padrona di casa, deve essere una di quelle che sanno amare tutti, i bambini suoi come quelli degli altri. A lui dà il permesso di fregarsene, forse perché è basso, la sua altezza denota che ancora non è entrato in certe questioni. La sua natura di oggetto non partecipe è altro da loro.


-bello eh?- dice lui, il padrone. -un anonimo italiano, tra l’altro. Senz’altro affascinante, “la lonza leggiera e presta molto”…


Uno dei presenti, di nascosto e nervosamente si stropicciò la trama del maglione sotto la manica dove indugiava ancora qualche perlina di deodorante, alquanto infastidito dalla citazione. Quasi a fargli venir voglia di rispolverare l’Inferno rimasto sigillato dalla terza liceo, perché non era un uomo colto raffinato che sapesse così bene ed equilibratamente i segreti tanto della poesia quanto dei vini, lui, no, era solo un altro tipo di uomo. Tra le note a pedice della sua edizione avrebbe dovuto cercare una diversa identificazione dell’animale, per contraddirlo. O soltanto ricominciare a leggere molto, di molte cose diverse, ma per una voglia non sua.


Il figlio degli ospiti, per la prima volta in una casa così grande, aveva occhiato un po’ tutto qua e là, non si può negare. Troppe informazioni da elaborare, aveva lasciato perdere quasi tutto, ma non senza smettere di curiosare, di ricercare qualcosa che potesse destarlo -erano incontri noiosi questi con i colleghi dei genitori e lui li prendeva come una forma alternativa di sonno, altrimenti non si spiegava l‘automatismo con cui i pensieri lo trasportavano in una terra distante, oltre i cui confini nero opachi essi andavano scoordinandosi, facendosi dei mutaforma dalle metamorfosi disposte su una linea non logica. O meglio, di una logica frastagliata e spezzettata che andava recuperata e ricomposta, cercandone frammenti per lande irreali, e questo era il suo compito. Insomma, era come se sognasse, e di questi sogni fosse un esploratore mandato in missione, il primo a capire la terra vergine. Era un’espressione, “terra vergine”, che aveva sentito in un film vecchissimo, di quelli in costume, sempre addormentato prima di vedere il finale. Gli piaceva come suonava: gli dava l’idea di un continente con un terreno perennemente madido, il cui solo tocco di passi o mani che si chinassero a baciarlo dopo lunghi mesi di mare produceva un umido scroscio come di acque placide di una sorgente nascosta.


La sua terra vergine rimaneva altrove per la maggior parte del tempo, interrotta occasionalmente da lampi di cose presenti nei suoi dintorni -un soprammobile che è la faccia di un mostro di Bomarzo; un gatto assopito come morto su di un apposito cuscino viola, ammiccava, stanco e scocciato da sporadici rumori, gli occhi azzurri quasi velati dalle folte ciocche che discendevano candide come rivoli di fumo oppiaceo (giaceva tra i suoi peluche, tornava immobile, e parve che quel fugace fibrillo di pupille e palpebre fosse stato soltanto un illusione); poi un odore, una fragranza quasi zuccherina d’agrume, condiva cose salate e soffiava da profumatori e detergenti assorbiti; i nomi, associati ai quadri, dei secoli, che contengono la storia umana, imprigionata nelle pareti della casa castello, la casa della luce, l’unica che è tanto forte da contenere tutto.


Il figlio si disse, pensando questo, ingenuamente, che dovessero trovarsi sulla cima d’un colle un po’ sopraelevato, seminascosto da una foschia d’incanto, o tra gli edifici della città che mutavano tutto in pianura. La macchina doveva aver percorso un ponte levatoio, o un altro evidente elemento di passaggio: oltre questo stava questa dimora, questo simbolo con le pareti. Sintetizzava l’interezza dell’esperienza, questa casa che collezionava l’arte.


Il mare fuori, un mare di cloro, e la montagna, con una bandierina su per segnarne la conquista della cima e la presenza di una buca… il gioco, lo svago, e il lavoro, un tappeto elastico di fianco a un capanno e un garage enorme. La foresta di alberi e lampioncini e torce da esterno, l’ordine inespugnabile di siepe e sculture. Quando erano passati attraverso quel giardino si era sentito all’improvviso estremamente a disagio. Qualcosa di sinistro si annidava in tutto ciò. Non avrebbe saputo dire se fosse una sola cosa strisciante, una singola macchia di liquame nero che si discioglieva serpentiforme quando nei movimenti appiattiti e vischiosi cercava di espandersi e contaminare sempre più zone -altrimenti, piuttosto che membra, tentacoli, quelle erano tutte una cosa ciascuna, una moltitudine che significava, piuttosto che un principio assoluto dal quale tutta la casa era scaturita e di cui i padroni non erano che gli affittuari, una continua proliferazione di una torma, nutrita d’un conforto datogli da ogni cosa potesse richiamarla con un sentore zuccherino, e allora si moltiplicava e restava nascosta, parassitando. Questo era possibile, dietro ogni cosa poteva esserci un pezzo sfrigolante di quell’ombra incapace di contenersi troppo a lungo senza farsi cogliere dall’occhio attento, desiderosa di un certo tipo di attenzioni. Quelle dell’occhio troppo pavido per ignorare quando ha paura, magari in un corridoio di un’alzataccia notturna per l’acqua, o in una quiete di cui ci si accorge all’improvviso se tacciono tutti gli swing dai vinili, tutte le bossanova dagli speaker. Non ignorava la paura, come gli abitanti, e come quelli che sognavano, per motivi ignoti a loro stessi, di sottrarre quella vita e tenersela come un tesoro proibito.


Fortunatamente però non poteva essere imprigionato dalle tenebre, nemmeno quando rafforzate da un eccesso di luce. Poteva facilmente immaginare la densa oscurità delle camere lontane ai piani di sopra, prima che gli ospiti giungessero scortati dai padroni e si azionassero i rilevatori di movimento, o dopo che il gruppo se ne erano tornato giù laddove erano la tavola e le musiche e gli odori, così che subito tornava a contrapporsi uno squarcio buio in un altrove che riportava equilibrio. C’era un rischio nell’indugiare troppo in questa consapevolezza, poteva perdersi, ma lui era in un sogno che lo teneva impegnato e riusciva a non cadere nei trabocchetti, era in una terra vergine -grigia stavolta, come un suolo lunare incredibilmente pastoso, simile a un enorme cervello- dove non poteva essere raggiunto da volgari inganni, che non potevano essere chiamati altrimenti, sì, la casa enorme e luminosa e riempita di ogni genere di cose che proiettavano un’ombra su pareti moquette tappeti mobili non era che un inganno composto di inganni, un’enorme tela. Dentro il castello di luce sul colle, con le pendici ammantate di nebbie stordenti. No, lui era in guardia, rovistava tra rocce mai viste, cercava linee nere spezzate, con le punte recise tutte dentellate -questo l’aspetto delle stringhe di logica che doveva ricomporre nel suo sogno, per arrivare magari da qualche parte in cui lo attendessero un tesoro, un paesaggio, un vulcano mai scoperto, un mostro.


All’improvviso tra le cose che interrompevano la ricerca s’era affacciato un leopardo. Non era un abitante della sua isola, dove la vegetazione e la fauna sembravano scarseggiare. No, stava proprio dentro la casa. Com’era entrato lì? Ovviamente attraverso un quadro, ma perché? Il quadro non doveva essere altro che un pretesto, un piano in cui era andato a collocarsi. Si era voluto incarnare in una forma d’animale, o di puro colore.


La giungla dai neri contorni riempiva un buio sottostante con un ammassamento di foglie sempre striate, o macchiate, il verde e il nero, poi le bocche fiammeggianti dei fiori, le corolle reticolate di venature. La capigliatura lanuginosa d’un arbusto a forma di cresta di stegosauro si rizzava quasi acuminata nel folto, alternandosi poi alle piume soffici che frammentavano nel vento fermo e caldoumido la propria matrice di cotone color crema. Tronchi sinuosi in primo piano, neri e marroni, salivano nel tramonto di un pianoro aperto, una singola grossa radura nel folto pluviale anellata dagli altri alberi che invece erano più lontani, le chiome come rigogliosi giganteschi ortaggi a sostituire l’idea di orizzonte sotto i torpori serotini. E tra le file di steli in primo piano, lungo una curva immaginaria dell’aria tiepida della foresta che si fletteva accogliendo il poderoso movimento, riluceva un leopardo furtivo e maestoso. Flessibile, schiena alta indietro e abbassata avanti, scendeva, penetrava nel mondo delle erbe alte e il loro buio respirante, pronto alla caccia, a una ricerca costante. Scattoso senza nervosismo spariva nella vegetazione. Ma attraverso fili e foglie lampeggiava quasi il manto indescrivibile. Era giallo, arancione, marrone? Era un colore da cui chi lo aveva visto (non visto e basta, ma visto davvero) non poteva distogliersi. Macchie composte da piccole sottilissime unghiate come di matite brune nell’acrilico diffuso. Dita e ventre bianchi, e anche la punta della coda con il suo spesso anello.


Lo tiravano per il braccio, ma lui niente, lo ritirava a sé, dando uno strattone eloquentemente brusco. Voleva restare là. Rise lei, lasciatelo là, dai, e loro a dirgli che facevano i conti dopo, perché era un maleducato a non mostrare interesse, a non seguirli per tutta la casa, a non dire niente e non ringraziare. Forse in seguito si dimenticarono di affrontare la cosa o forse non era mai stata così importante, comunque finì là. Non gli dissero nulla, al ritorno, assorti e indifferenti nei suoi confronti come lui era stato per gli avvenimenti della serata (eccetto un evento animale, un evento di bellezza inaspettata…).


Li sentì salire le scale, strusciare i corrimano con l’aspetto rugoso e inamovibile di montature da occhiali in guscio di tartaruga. Sparirono al piano di sopra. Aveva i passi sopra la sua testa, toc, toc, toc. Li sentì strisciare su delle lastre d’un bagno, lontano, rumori non più di disturbo. Si fece finalmente il silenzio. Sale appena udibile un frinire spettrale, vibra sotto ogni stelo, al lato dell’orecchio. Si voltò di nuovo a guardare, ritornò al quadro.


Era un bel problema quello. Non lo sapeva allora, o forse lo capiva, in modi misteriosi e privi della capacità di vedersi, di trovare un corrispettivo interno o esterno in cui riflettersi e manifestarsi alla coscienza. Ma era già successo, stava accadendo, quella era una cosa a cui non avrebbe mai trovato rimedio, l’aver visto quel quadro voluto dal caso, forse dipinto da questo. Il caos possiede in realtà un ordine, una tecnica perfetta. L’aspetto più grave era questo: a quel leopardo avrebbe pensato nei momenti più inaspettati. Se lo sarebbe ritrovato, come gli era balzato davanti, bestia agile e fulminea, mentre esplorava la sua isola. Il predatore selvaggio si connotava così come un incontro certo per l’esploratore di un’isola, di una terra vergine. Ma quella in origine era un’isola diversa, quasi disabitata, un dominio geologico intriso d’un’antichità siderale senza carni e peli e foglie e liane, senza zanne biancogiallastre sgusciate da labbra nere, senza gola virescente. Invece un leopardo era balzato proprio lì, su una spiaggia granitica. Non aveva più trovato le barrette da mettere in processione, ricomporre il filo. Il leopardo lo aveva bloccato, parandoglisi davanti e risvegliando in lui un ignoto istinto, in una giungla diversa.


(C’erano il mare, la montagna, la casa ovvero la dimora, o castello. C’erano uomo e donna, re e regina. C’erano il giorno e il buio, c’erano le isole lontane galleggianti ai confini delle cose. C’era, sotto il cielo, la terra. C’era un esploratore, la esplorava quando era vergine, quando non era ancora nessuna delle altre cose. C’era un leopardo che si muoveva, tendeva agguati, spariva in una boscaglia o in un’ombra.)


Lo avrebbe allora cercato in tutti i luoghi in cui si fosse trovato, laddove non sarebbe dovuto esistere nessun animale di quel tipo. Sarebbe stato riscosso dai membri della sua specie, umani o cose tangibili o cose nelle vicinanze, picchiettato su un braccio, una spalla agitata, che c’hai, dove sei? Ma sempre lui non aveva sguardo che per quell’occhio giallo, lentigginato di impercettibile smeraldo, pennellato microscopicamente da un pittore maniacale o da un semplice corpo che era stato soltanto il ricettacolo per la possessione di quello spirito di bestia informe, così informe che quando finalmente trovò una forma causò una catastrofe. Primeggiò tra le forme, era l’apex di quell’ecosistema. Il ragazzo non capì più nient’altro. Nessun concetto raggiungeva il leopardo.


Scattava saltava e si mimetizzava in continuità tra la tenebra e la luce, tra i tronchi e nella radura. E allora in un fugace movimento di penombre d’un pomeriggio, o tra campi in successione dai vetri d’un treno, anche l’uomo futuro -quello che un giorno sarebbe diventato in una trasformazione sofferta, arrancata, mai sentita dentro sé- avrebbe ancora cercato un guizzo argenteo di vibrisse, un’orma felpata su un terreno che in quell’incontro si rendeva solido e astratto insieme. Il calco dell’impronta trasportava la materia per come era stata lì aggregata, prima dell’impressione del segno dentro il suo reame, in un’altra dimensione, dove forse si deformava o scompariva.

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