ti dice il cammino
- Milky
- 28 dic 2021
- Tempo di lettura: 12 min
Ti hanno detto di passare da queste parti perché è qui che c’è un riparo. È una regione insidiosa: i boschetti sembrano ergersi tranquilli e carezzevoli con le loro chiome scure, i campi sembrano brillare tanto è lucente e vivo il verde, ma questa stessa terra si è generata attraverso incessanti e rigide intemperie, un vento inclemente e lunatico. Conosci le regole dell’aver intrapreso un cammino e in questa penisola sferzata da diverse influenze degli esseri e dei numi celesti puoi ritrovarti investito da un momento all’altro da una terribile bufera di neve o da una siccità.
Trovi già da lontano la forma che ti è stata descritta da un passante, un vecchio appassito che possedeva soltanto poche parole masticate male da una mascella quasi cadente. Trascinava un carretto, no anzi, una dimessa carriola riempita di paglia e ramoscelli. Giungendo da lontano pareva un ruminante mansueto, sereno più che mai nelle fatiche quotidiane, lo spostamento di gravi d’ogni entità e forma. Ti eri avvicinato, l’alba illuminava le rughe cadenti del braccio che aveva alzato, quell’ortaggio olivastro teso a puntare il dito verso un’indefinita lontananza. Riconosci i punti di riferimento di cui ti disse allora, l’impalcatura con la ventola di fianco all’edificio a far da campanile. Popoli della terra che cercano di controllare il vento. Altri elementi si stagliano, rendendosi soggetti al governo degli uomini: pietra intagliata a formare un comignolo che fende la struttura, come se il legno vi si fosse raccolto attorno, e un fumo opaco comincia a soffiare sopra il tetto. Le pareti sottostanti sono file di tegole verticali e di colore bruno scuro, quasi nero, si direbbe un fienile abbandonato in un tempo lontano, trasformato in qualcos’altro. Qua e là alcune tegole di uguale fattura, forse provenienti da capanne cancellate che non puntellano più il paesaggio, giacciono alla rinfusa, travolte e fradicie. I resti di una trascorsa calamità sembrano spargere un unico odore, fondendosi a metà strada tra i fili d’erba e il cielo. È un odore fradicio e silente, è l’assestamento di masse d’acqua figlia del cielo e dei fiumi che si riposa dopo aver ruggito e infuriato, è il suo infiltrarsi tra i pori assetati del suolo rendendosi invisibile col progredire del giorno. Scende giù, scende giù, e diventa la linfa che impregna gli strati sotterranei… il suolo serba questa forza e tu lo calpesti come in bilico, cammini, cammini, e arrivi, sei con le galline che razzolano libere senza allontanarsi troppo dalle fondamenta rigogliose di erbacce e foglie di farfaraccio. Ti accosti a una parete esterna, sufficientemente coperta dalla tettoia là in alto, così che un improvviso ritorno della pioggia non possa intingere le tue ossa nella febbre di campagna, il male che si accumula in tutte le pozzanghere e le superfici viscide di questi terreni vasti. Sulla schiena il legno infligge brividi gelidi distillati dentro le venature impregnate. Stai appoggiato, guardi il cielo attraversato da vapori quasi invisibili.
Sei affaticato dal lungo camminare, ma ormai lo sai, è facile non pensarci. Basta continuare ad avanzare e i pensieri si spostano automaticamente su altro. Potresti sembrare preoccupato, più degli altri viaggiatori che passano serenamente per tutti i luoghi conservando un animo integro e sereno riguardo tutti i fatti della vita. Sopportano la stanchezza e la accettano, nemmeno avvertirebbero il bisogno di spostare la mente su qualcos’altro, e anzi non hanno mente. Certo, il tuo è un automatismo, ma comunque indica che sei un viaggiatore troppo preoccupato, forse perché non è questa la modalità di vita che ti appartiene. In altre parole viaggi ma non hai lo spirito vero e proprio di un viaggiatore. Ma sai che ti dici? Che non è più il caso di pensare nemmeno a qualcosa che si chiama “la propria modalità di vita”: il tempo di riflessioni del genere è quasi del tutto scomparso. Quindi ecco già due cose a cui non pensi più: la fatica fisica (perlomeno, man mano che ci si allontana dalla sua prima comparsa) e quanto effettivamente tu sia quello che ti sei messo a fare. Giusti sacrifici perché senti di dover dedicare molte più energie a ciò a cui invece vuoi pensare con convinzione. Non ti importa di specificare cosa sia così che un passante possa leggerlo e fraintenderlo, in ogni caso non può che essere un cammino dai passi frenetici e discontinui. Scostante nella velocità e andatura, zigzagante sui sentieri, non come il cane della via che prosegue dritto sopraggiungendo dal folto dei cespugli, ma come la volpe grigia che scatta fulminea lungo i meandri serpeggianti su per i colli sopra la campagna e vuole subito sparire, mimetizzandosi coi bagliori del vento denso di riverberi argentei e sentori di fumo. Qua e là, oltre l’orizzonte visibile, quell’odore è sempre presente nelle fredde mattine, come se là nascoste delle presenze stessero erigendo delle piccole pire al cielo, in una campagna che si estende all’infinito. Tendono le mani al fuocherello? Asciugano zuppi abiti di paglia e pelliccia, per poterli di nuovo indossare? Il fumo è già disciolto nell’aria e puoi sentirlo. Un guizzo di vibrisse e pelliccia balza tra le erbe campestri e scompare in un folto, si tuffa diventando una cosa sola con la penombra tra le foglie. Tu sei a volte quel guizzo quando rimugini sotto le nubi temporalesche e il rumore dentro di te e dei tuoi passi assomiglia al cupo mormorio della tenebra lieve, che sopravvive contenuta sempre da qualche parte anche nel regno del giorno. Forse è anche per contenerla con più forza che qualcuno accende braci. I popoli vogliono controllare il vento e anche la fiamma.
C’è un fuoco, deve esserci, anche dentro quelli che chiamano “i ripari”. Un fuoco diverso. E le presenze che lo governano, i gestori dei focolari, sono degli officianti particolari. In un calderone o nel riflesso cangiante della luce rossa possono mostrare delle immagini. Camminando per tutta la vita si odono voci trasportate dal vento e come mormorate dai boschi, e sono in molti a essere scettici, ma tu ci credi a quelle dicerie, quelle pseudoscienze. Che in quell’incrocio di figure spettrali, intangibili, fatte di fluido o di calore, si mostrino scene di eventi distanti, sogni, futuri. Nessuno sa dove avvengano, nessuno degli officianti nemmeno sa nulla su cosa significhino. Saranno sogni, cose mai accadute o impossibili, o addirittura vite degli altri. Tu credi qualche volta che siano ciò che tu desideri o ti aspetti che accada nelle esistenze altrui. Tutto ciò rispecchia una teoria che hai dell’esistenza, di come le cose si strutturino naturalmente, seguendo pattern generali e nascosti, all’interno delle relazioni, delle sequenze lasciate libere di andare nel tempo, nelle evoluzioni naturali. Oppure vuoi che sia così perché vuoi vedere lì dentro, in quel pauroso ignoto così simile all’essenza del girovagare, delle forme che sei capace di riconoscere; al tempo stesso non vuoi che ti rispondano. Non vuoi che abbiano parola in questo, non vuoi che interagiscano, vuoi che restino inerti come i disegni. Sono immagini che si muovono, certo, e sanno ipnotizzare vivide e incantevoli, ma non sono altro che immagini immobili. Come te? Che viaggi e sembri non cambiare.
Sei ancora appoggiato alla casa. Non sei entrato ancora nel riparo che ti è stato indicato, temporeggi, ma trepidi nell’attesa del riscaldamento, non ti accorgi che quel trepidare ha un effetto sul pompaggio del sangue nelle vene più piccole e nascoste, e che ti stai già riscaldando da solo, oppure scegli di non pensarci, sempre perché non puoi sottrarre energia mentale a pensieri ben più importanti e anche perché, come ammetti tu stesso, le leggi della via che hai intrapreso ti proibiscono di gioire. Entrerai, vedrai ciò che è dato vedere in un riparo a uno della tua stirpe. Sei là fuori con gli elementi sbattuti dagli altri elementi. C’è una tegola che fluttua davanti a te, scivola e s’incurva poco distante dagli scarponi che affondano nella fanghiglia. Come fa un legno inerte a girare per vita propria? Ti allunghi e lo scosti con la punta dello scarpone, vedi che sotto c’è una pozzanghera nascosta. Era la superficie vischiosa dell’acqua stagnante e increspata dai tremori a farlo ancora girare, come ricordando la tempesta che c’era stata. Infinite isole di detriti galleggianti su un ammasso incontrollabile d’acque senza argine, una piena, un acquazzone. Ti chini, fai una conca con la mano, raccogli l’acquetta sporca. Qualsiasi manciata contiene roba frammentata, sembra decomposta, che vortica al suo interno. Brandelli senza nome, non riconducibili a niente, un brodo indigesto proveniente da un calderone ignoto. Non esiste in nessun riparo un’immagine proiettata che possa sfamare la comprensione di questa vita, la vita del mondo vasto ed esterno che uno può percorrere soltanto distaccandosene, soltanto non pensandolo in veste di passeggiatore temporaneo. Le galline razzolano indifferenti a tutto ciò. Si avvicinano alle anatre mute fuggite da qualche cortile, contente dell’umidità. Sembrano non riconoscere in queste una specie diversa e insieme si dedicano al rivoltolamento di malloppi fangosi in cerca di piante succose e microrganismi proliferanti nell’umido. Tu fai ricadere l’acquetta che hai raccolto, precipitando si infrange in mille gocce e sparisce nell’erba picchiettata anche la polvere serbata al suo interno. Ti ha lasciato sui palmi una patina ruvida e come brulicante di microscopici vermicelli, immagini d’aver afferrato proprio tu in un sogno un cuore sepolto e limaccioso di questa stessa terra, ti ha palpitato sotto le dita richiuse ed era fresco e fremente.
Tu sei dentro, sei entrato. Vedi una vita di campagna adagiata su un imprevedibile andamento degli elementi. Queste sono le pareti che assume una casa vissuta in questa natura e questa cultura, te le imprimi bene in testa. Dimenticherai alcuni dettagli, li sostituirai con la tua percezione degli stessi, li riarrangerai, ma questo sarà affinché meglio si adattino all’idea che hai, ed è un’idea giusta. Ti viene in mente che qualche volta le storie che vedi proiettate nei fuochi o negli intrugli non sempre corrispondono all’idea che ti sei fatto. Ma anche in quei casi c’è qualcosa che le fa rientrare in un disegno che esiste, che è tuo compito scovare. È nel tappeto in cui affondi ora gli scarponi. È in un cappello piumato appeso a un gancio attaccato a una parete, nei soprammobili sulle mensole dalla forma di uccelli d’acqua, tutti intagliati in legno. È nella caccia spietata dall’odore di miccia innescata e polvere all’alba che questi subito richiamano, sono talismani e recipienti per la celebrazione delle esistenze agricole e venatorie. Sei capitato quando non stavano sventrando una preda, fortunatamente. Ti è risparmiato il miasma della morte, quella che non ti spieghi come possa essere parte degli stessi organismi che adesso ti accolgono, che ti sembrano buoni. Sai che è così, non ci pensi, e fai bene, perché questo veramente più di ogni altra cosa ti consumerebbe e non riusciresti mai più a pensare nient’altro, il che sarebbe inaccettabile. Aleggia tra i soprammobili e le tovaglie disegnate a melegrane e pernici lo spirito di una donna austera, forse favorito dai bagliori provenienti dal camino, cui ti dirigerai per vedere altro. Un po’ di quel potere misterioso si sprigiona dalla luce arancione che investe l’arredamento di questo fienile di tempi antichi riutilizzato per farne un rifugio. Vedi la donna, l’abito nero a macchie bianche per mimetizzarsi nell’inverno prossimo a giungere, i capelli cinerei nello scialle color grano, la vedi che col volto impassibile scolpito dalla sopravvivenza spezzetta come rametti giunture, piume, qualunque cosa sporga da una tavolata di cacciagione accasciata, rivolge al volto incorporeo di te che guardi una fila di piedi palmati. La scena sparisce, rimane il dubbio, l’offerta sull’altare che si ripete identica nei periodi degli anni. Andrà a qualcosa il sacrificio di quelle anatre? Alle mosche che annuvolano gli ingressi lasciati aperti nei giorni caldi d’estate o d’autunno, alla putredine che scendendo nelle radici sotto il suolo si riconverte in fresco humus e risale in superficie dando vita alle vegetazioni? Forse è questo. In seguito giunge un’altra improvvisa tempesta, non avvertita da nulla, e sradica le cose. Perché quando succede significa che è necessario, che è un ciclo. Dovresti chiedere all’officiante, là. Ma probabilmente non conosce nemmeno lui le risposte. Può solo accoglierti, dirti, “vieni, viaggiatore, fermati, e osserva le immagini che vorticano qua dentro. È proprio come una scodella di brodo, non trovi? Non senti più la fame, le fitte allo stomaco date dal lungo camminare. Vedi forme che non esistono, e capisci che sono gli abitanti di un villaggio che hai abbandonato moltissimo tempo fa? Ti chiedi come possa esister in questo mondo carnoso di contadini e cacciatori un sortilegio simile, non è vero? E chieditelo, bravo. Finché non decidi che non ci riuscirai a risponderti e non vale lo sforzo di riprovarci, è invece giusto farsi l’altra domanda: perché esiste? Questa sì, è più nelle tue corde.” La parola usata ti fa venire in mente un torace aperto, tu disteso inerte su una tavola, cacciato mentre andavi per la piana, e una mano callosa le cui operazioni ti rendono un insieme di tranci, sei soltanto fili di carne estratti e separati dalla trama sanguinolenta. Potrebbe sembrare macabro ma tutto viene pulito, l’acqua purifica i riti di sangue e scompaiono alla fine del loro tempo. Donna e uomo ritornano dentro, accostati al focolare e seduti su polverose seggiole chiedono a un altro viandante di passaggio: “vieni, fermati, osserva le immagini.”
Ti scaldi davanti al fuoco. Avvicini il volto, ti si arroventano le guance e ti si annebbia la vista, il fumo penetra dentro le cavità oculari sedando il dolore, cullandolo in un tepore ingannevole. In questo stato fissi le fiamme e diventano un’altra cosa, estrapolata dal fondo delle meningi stanche del continuo mutare del paesaggio, viene portata in primo piano. Si proietta una casa: in fondo non dissimile da questo riparo sulla via. Forse è diverso il tempo che fa là fuori, in un’altra zona della penisola. Di certo sarà meno violento, altrimenti non sarebbe così tanto abitato. Dalle imposte e spiragli di una tenda giallastra si vedono lumi di altre case, strade e campi vicini. E sul davanzale c’è una statuetta di una vergine, e di fianco a un’anta c’è un calendario illeggibile. C’è la testa d’un camoscio appesa sopra un caminetto. Lì dentro arde un fuoco. Una pietanza di tuberi e carne riluce d’una salsetta piena di cose lucide e tonde, frutta secca candida d’ignota origine che assomiglia a ghiandole recise. La sola vista ti stomaca. Sopra la tavola di legno duro si levano volti sorridenti, e i denti in fila, unica cosa distinguibile nei viventi che abitano la scena, sembrano accendersi e rendere visibili le cose come tante piccole mezze lune incastonate in scarni corpi dotati di volontà. Sono ancora bianche, prima di toccare i cibi, impiastrarsi di materia dilaniata. Queste sono vite altrui, lasciate al tuo vecchio villaggio. Rifiuti la loro felicità: non fa per te, non torneresti mai laggiù. Meglio proseguire. Come le tegole, sarai portato con le tempeste attraverso i campi suscettibili, costeggerai i boschi perennemente stormenti dei confini invalicabili lungo il sentiero. Loro sono l’intrico, sono la parete per il labirinto che attraversi, puoi vederli senza entrarci, puoi sentirne gli odori fungini e rintocchi secchi del legno, lugubri richiami dal profondo. È così che prosegui. Quella vita piena di case l’hai abbandonata. Ma, attraverso il fuoco, chissà perché, continui ad augurar loro di essere felici di una felicità che sai non esistere, che è una loro illusione. Anche se forse non è giusto, anche se vorresti trovare la forza di rifiutare l’effimero, anche se credi che soltanto se tutti ci riescono si può manifestare la pace sulla terra, anche se……………..??
(Vuoi solo che quelle inquietanti mezzelune continuino a sorgere sopra la tavola, senza che pronuncino parole a te udibili, senza che possano mescolarsi alla tua vita da mantenere rigidamente separata e toccarti. Cercando la distanza sei partito, la distanza che guarirà tutto, e anche tutto ciò che di spaventoso c’è al mondo. I denti sono fatti per mordere, e le tempeste sono fatte per violentare la terra, quella violenza serve al ciclo. Sei costretto, poiché sei costretto a fermarti in ripari lungo la via, a toccare tutto ciò, riconoscere che esiste. Ma proiettate nel sortilegio del calore acceso nel rifugio temporaneo, le esistenze altrui, anzi di tutti e anche la tua, fanno meno paura. Per questo credi al rito, per questo credi davvero che ci siano delle scene accese negli elementi che la gente di campagna controlla, per questo è così che ti riposi.)
L’officiante ridacchia sornione seduto sulla seggiola di fronte al camino. Non è che un vecchio appassito, un cacciatore e pescatore e raccoglitore bitorzoluto da una barba rada e argentea, ovattato da un velluto coi colori dei campi d’autunno, bruno e verde e rosso. È della stirpe della donna austera e del vecchio con la carriola che ti ha indicato il fienile, che siano tutti officianti di questi riti? Per il semplice fatto che anche loro possiedono una vita propria, diversa dalla tua. Chi è? Ha una piuma striata di poiana tra le orecchie. Sorride lateralmente. Chiede, “hai finito di guardare il fuoco?”, come se la sapesse lunga. Non sa niente in realtà di ciò che vi accade all’interno. Ingobbito su una seggiola cigolante e visto di lato, ti sembra che il suo occhio sia giallo, come quello di un libero animale selvatico. Cala una carbonifera coltre di tensione e per istanti dilungati aleggia all’interno della stanza riscaldata del temporaneo riparo dai giorni di tempesta. Si dissolverà quando emergeranno altre cose, facendoti dimenticare momentaneamente la natura di questo individuo. Il suo odore di pino selvatico sarà tale da sopraffare qualunque altro elemento. Scompaiono i baffi di saggina e le labbra bonarie nascoste sotto i folti steli, scompare il tremito alla mano attraversata da vene sfinite e scompare pure la macchia di sangue scuro di cui si ricopre quando si infiltra nella selvaggina squarciata, distribuita su un ampio tavolo. Nella natura morta entrerà solo l’essenza dei boschi vicini, non ci sarà morale. Non dovrai crucciarti per i dilemmi morali dovuti al tuo temporaneo riavvicinarti all’umanità, e sdraiato sul letto di questa sera guarderai il soffitto, attendendo soltanto il sonno, prefigurando la partenza che seguirà, chiedendoti se mai troverai pace, dalla vita e dalle intemperie. Le gocce di pioggia, dure come grandine, e in seguito vera grandine, batteranno sulle tegole del tetto. Dormirai la notte di campagna e, quando non farà più tempesta, qualche pipistrello e barbagianni si leverà fluttuando tra i tetti pagliosi di granai abbandonati e le stelle sparpagliate nel blu profondo, alla rinfusa come brandelli in un brodo, come detriti sospinti dalla natura.
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