teste e code
- Milky
- 23 gen 2022
- Tempo di lettura: 12 min
Si presenta un fantasma astratto della famiglia, nella carne fatta di velo diafano e suggestioni vorticosamente mescolate tra loro serba lo stesso dna che mi scorre attraverso. In lui, quella sostanza di inesplicabile spirale ha compiuto un passaggio trascendentale, diventando la versione assente di se stessa. Sai toccare l’essenza delle cose, fantasma che mi fai visita? Spero, come sempre quando mi si presenta una creatura appartenente a un diverso piano esistenziale -un essere superiore capace di dispensare consigli come una guida- che tu allora possa condurmi nei tuoi luoghi dove sei capace di toccarla, dove sai vedere quello che non riesco a vedere in questo mio stato cieco. Sono in corridoio, non c’è che una luce cobalto di stanca finestra della tarda sera, diluita e consumata attraverso la lunghezza delle pareti che si allontanano dalla fonte di luce. Vedo te che traspari, che galleggi dileguandoti. E invece non sei venuto per farmi vedere altro da questo, un luogo che abito e le cui suggestioni implicite hanno generato anche te. Non mi condurrai dove risiede quella che è presumibilmente la sapienza tua e di tutti quelli come te. In questo posto io non capirò niente, non avrò saggezza di niente. Forse nemmeno tu ne hai.
Riesco a vedere che il tessuto che ti compone è fatto in parte anche di divisa, di un tessuto secondario, anch’esso divenuto fantasma. Spettro di famiglia, proprio della casa, da dove sei uscito? Dai quadri di fotografie incorniciate, mitologie incorniciate? O dalle stesse suggestioni che ti compongono? Come fuochi fatui fluttuavano nell’aria prima di te, anticipandoti. Ti sei partorito da solo, perché queste cose, come respiri trasformati in banchi di fredda condensa nell’inverno, indugiano attraverso l’aria che li incorpora, li rende invisibili come se stessa. Ed eccoti, un soldato. E mi chiedi, che diavolo ci fai qui? Palpi, tu che non tocchi se non le cose assenti, il mio disagio, forse te ne nutri e lo assorbi con una forma di spettrale risucchio, attraverso una bocca che è diversa da quella disegnata dalle tue simulate labbra incorporee. Deve essere un organo degli spettri responsabile di quel rumore, quel sinistro gorgoglio. Distolgo lo sguardo appena nato su questa tua parte raccapricciante, le labbra che sembrano quasi colorarsi d’un rosso vivo e nauseante pure nella legge incolore che le traccia come sono, appartenenti a te. Ritorno al resto di te, sostanza di mente, e mi accorgo che sei una somma, una somma di idee appartenenti al modo in cui ho figurato una storia legata a ciò che ha preceduto me. Idealizzazione di come altri, da me lontani, idealizzavano le divise, sparpagliandosi ognuno nel mondo con un’uniforme addosso, tu non sei loro ma le loro aspirazioni per come io, disertore, le ho idealizzate negativamente. E così forte da dargli consistenza, e volontà propria, volontà di plasmarsi insieme provenendo dall’aria contaminata dal mio respiro, fino a formare te. Anche io ho partorito me stesso, perché ho partorito tutto ciò che ho percepito e che si ricompone nelle mie visioni, e le mie visioni sono ciò che io chiamo io.
Ed eccoti, una somma di soldati, sei un militare e metti in discussione la mia vita per potermi depredare l’ansia, l’inferiorità -giacché si tratta di una gerarchia, le cui fattezze vorrebbero farmi credere e temere che questa sia intrinseca in cose ben più grandi delle semplici necessità guerresche della specie umana. C’è un ordine, una schiera d’angeli, di emissari divini, di spettri minori e maggiori… dov’è la mia squadra, dici? Sembro solo, dici, e un soldato è perso se sta da solo, non può vincere l’esercito nemico e al contrario facilmente cade nella sua imboscata. Non condivido il tuo campo semantico e ti rispondo che tutti i soldati oggi sono soli, anzi che siamo tutti in un esercito, presente a distanza, puoi vederci mentalmente in una schiera infinita che ci accomuna tutti. Dovresti poterlo capire, e chi se non te, che nemmeno hai più la capacità della presenza? Non hai fisicità, le tue parole tormentate che vogliono somigliare a sospiri e rimpianti strascicati insieme ai tuoi incorporei lembi per il mondo non sono che vuote sillabe, perché infesti l’inazione altrui ma tu stesso sei solo un’idea lontana dal mondo, dai corpi, come me. Sei un soldato solo per esprimere un concetto, per farti emissario di una forza e una gerarchia che ponga me in posizione di inferiorità, e non perché tu come un soldato possa trovare ragion d’essere nell’uso del tuo corpo: non ce l’hai, un corpo. E allora non puoi nemmeno dirti davvero un soldato, non puoi diventare un cadavere per la tua nazione, il tuo cadavere non c’è. Ci sono soltanto gli innumerevoli cadaveri di coloro che ti hanno ammirato, nei cui occhi ti sei infilato recando l’astrazione di uno spirito che avrebbero ritrovato nel campo di battaglia, nel sacrificio, nella reiterazione delle pratiche e dei saluti dignitosi, nelle nocche indurite di uomini -tutte cose che emersero ruggendo e fischiando dalla loro temperie, eri ricettivo e avevi risvegliato una sostanza profondamente insita nel secolo. Ora vieni qua e ti senti spaesato, trovi me e trovi che sono così tanto più intangibile dei corpi attivi di allora che quasi puoi toccarmi tu. Tu che un cadavere non l’hai. Sei un altro aspetto della morte, uno che si infiltra insidioso in tutte le superfici migrandosene dalle parole di mancanza e dai lamenti funebri, e dai silenzi che ogni anno che passa si ripetono, sentendosi incompleti. Allo stesso modo siamo noi, presumibilmente vivi -per verificare vieni a tastarci il polso stanco, ma mi raccomando, bussa prima di entrare nella camera con le serrande abbassate. Allo stesso modo siamo noi, potremmo anche avere un corpo, ma per come ci vedi schierati, quando insomma siamo parte di questo nostro esercito di cui mi hai chiesto il nome, siamo ciascuno nella propria stanza. O nel mio caso, in corridoio, giunto al termosifone per ricercare il calore come fosse fresca acqua contro l’arsura in gola, causata dalla terra bruciata per arrivare al presente.
Ci si riunisce a distanza, virtualmente. Puoi vedere anche altri la cui sagome trasparente, immaginata accanto alla mia che forse vedi come io vedo la tua, si accascia contro una stufa, un termosifone, uno schermo gravido di bollori elettrici baluginanti… ed è questo che fanno quelli della mia squadra. Della mia specie, meglio dire così. Cerchiamo un flusso che accarezzi, trasferendosi all’interno, a riempire vuoti.
(In una notte senza nome, dimenticata, annotata su appunti stracciati dal fango di campo, ricordi uomini seduti in cerchio che si illudono di placare una sete con un distillato bruno. Provoca ancora più arsura, simili a cani selvatici ululanti nella landa lanciate in risposta delle risate, illusorie risate, contro la sete aumentata che se fatta oggetto di chiasso vi sembra diventare invece sete passata, contro l’infamia e la melma degli stivali e della vita. La vostra rumorosa iconoclastia normalizzata. Impallidisci, impallidiscono perfino le forme scure di commilitoni attorno a un falò nella terra a sud, quando vedete che noi ci ubriachiamo e dissetiamo illusoriamente di qualcosa che non ha liquido, che non infonde nel nostro corpo la voglia di colpire, muoversi, lanciare dalla gola.)
Il nostro ruolo, le nostre armi, la nostra missione, o il nostro istinto? Procedi a chiedermi queste cose. Voglio ancora credere, come avevo creduto inizialmente al tuo primo apparire, che rispondendoti possa da te ottenere un’altra risposta. Giochi di riflessi tra il mondo della gente e quello dei fantasmi, solo che dal vostro, secondo logica, dovrebbero provenire diverse risposte. Sulla morte, magari, su come ci si sente. Non sei morto veramente e non sei mai nato, sei di quell’altro tipo di fantasmi. Ma facciamo che ti rispondo lo stesso. Ruolo, armi, missione, “istinto” (essendo una “specie”), dici? Ah, sì. La masturbazione, credo, e la ricerca del termosifone. Queste missioni conosciamo. Dici allora, tentando appunto una risposta che ci definisca e annienti il nostro inutile proposito, che siamo un esercito in missione per la ricerca del piacere, un manipolo d’edonisti pronti a gettarsi nel burrone della propria impresa fallimentare al solo scopo di ricercare, com’è che lo chiami? “un brivido”, usi un’espressione che non comprendo, che non appartiene più agli interessi plausibili di questo mondo, e sbagli due volte. No, non cerchiamo il piacere. È un concetto diverso, quello che tu consideravi il godimento, nell’era in cui tutti voi credevate che le guerre avessero senso e che avesse senso la vita, e il godersela o darle un senso ideologico e tutte queste cose scomparse, sono concetti diversi da quella che per noi è la gratifica istantanea. Non conoscete la “droga”, nel mondo degli spettri della tua stirpe, conoscete “droghe” o le ipotizzate come dei corpi estranei che si intrudono nei corpi dei vivi per corromperli e farli sussultare per l’orgasmo. Credete che sia questo il loro significato… chiedete ad altri spettri, evocati da visioni diverse da quelle dell’ansia e dell’aspettativa che evocano voi, e vi diranno cos’è il vero stordimento. Quelli come te sbagliano perché ricordate i tempi da cui provenite in cui i giovani erano in crescita, vivi, ricordate come era il corpo e ricordate come erano i ragazzi che lo possedevano, così ossessionati dall’odore del proprio sudore e da quello del filetto caldo mosaicato di venuzze arrostite, il suo rossore, e il rossore dei corpi sfregati tra loro, il loro palpitare in un campo o su un supporto di pelle, su lenzuola, su ombra fresca. A me, che con arroganza parlo ora anche a nome di altri mai visti né che voglio incontrare, non interessa il brivido ora raggelante ora rovente che attraversa il pene consunto dall’eccesso di autoerotismo, no. Forse alcuni di loro ti direbbero che cercano il piacere, ma sono degli incoscienti e ancora ignari di cosa realmente li muove, dannazione! Lo capiranno anche loro. Automaticamente procediamo nel nostro famelico vagare, non veramente teso alla pienezza e al nutrimento, e in molti tra “noi” nemmeno sanno perché, lo fanno e basta. Che diavolo ce ne facciamo noi, del piacere in sé stesso? Stiamo morendo, non si tratterebbe che di un’ultima sigaretta richiesta da un condannato che non può sentirne nemmeno il sapore.
(Non hai mai visto anche tu, nelle innumerevoli guerre del mondo che ti compongono la dimensione del sogno, un povero disertore dissidente condannato traditore a cui non viene negata una sigaretta prima degli spari crivellanti il torace?)
Non ce ne frega niente di questi gemiti del corpo, imbarazzante e ingombrante carcassa. Non ce ne frega niente dei rumori che emette, degli odori, del meccanicistico contatto tra dei corpi contundenti. Tutta la fisica è diventata quantistica e se ne è volata via in un altro mondo. Gli impulsi elettrici dei nostri cervelli se ne volano fuori dal cranio attraversandone spettralmente le pareti come faresti te che sei morto, e se ne vanno a spappolarsi nel vuoto cosmico, vanno a pulsare coi quasar in mari oscuri di nulla, o in altre dimensioni, in warp sfrigolanti di plasmatiche scintille che li deformano nel passaggio. Tutta la guerra è diventata psicologica o virtuale. Fingi, proiettandoti dalle idealizzazioni, dalla mia paura di antichi maschi, di esser scaturito dai fischi delle bombe e del sudore lungo gli arti indaffarati, ma assomigli più a questa guerra che ti descrivo, perché tu sei un soldato di vuoto che in quanto vuoto precorre i tempi, nonostante ancora parli come i fantasmi militari di un passato famigliare uscito dal secolo precedente. Ecco che capisco un nuovo senso di famiglia nel tuo manifestarti, siamo simili, in realtà. Sei a disagio, eri venuto per predare il mio. Sentirti dire che mi assomigli ti fa credere d’esser debole, e la debolezza, ai tuoi tempi, era un’onta. Ma adesso… adesso siamo tutti un nulla di ombre intangibili.
Rimbombano ricordi e immaginazioni di persone reali, che hanno vissuto sulle tue orme invisibili sul manto di neve, sulle carrube ammaccate nei campi. Sono immagini di terreni calcati allora, mi arrivano da storie che ho sentito… mi sembra che qualcuno forse anche allora intuì la tua presenza, perché i fantasmi infestavano il meridione. E insieme a loro, lo infestavano altri medioevi della mente. Imbracciando il fucile gli uomini della casa attraversavano la campagna, col fucile, sì, e le bombe per pescare al fiume, e la guerra sotto la pelle giovane col sangue che fiotta caldo, e i distintivi che si figuravano al petto -ecco una prima cosa di sola immagine, ecco un sogno che li proiettava nel futuro, e il futuro è morte, e la morte era onore. E camminando videro le manifestazioni del trascendente, il vecchio taglialegna con la carriola sparito nel bosco in cima al crinale ma senza lasciare orme sullo stesso campo in cui i ragazzi di carne le orme le lasciavano; e il cane bianco, sfumato in nulla di nebbia, incontri strani che trasmisero agli eredi rendendole storie paranormali. Eri già tu? Sei un prodotto mio, del mio rifiuto, della mia paura, che mi sarebbe appartenuta, o meglio che mi avrebbe totalmente posseduto, se fossi nato in quel mondo di inevitabile catastrofe. Eppure eri già tu, così io me lo spiego, ti aggiungo alle storie che ho sentito raccontare.
E vedo gli uomini della famiglia, prima era la famiglia loro, ora è la mia in un senso vago e lontano, e loro sono diventati in questa famiglia quella parte che ne costituisce l’invisibile, il lato sottostante la superficie delle acque scure, irraggiungibile per noi che galleggiamo sopra il limite dell’irreversibilità del tempo. Ma i loro volti color terracotta schiaffeggiata dal sole implacabile dei campi meridiani e i baffi argentei mi scintillano da là sotto, e guardano con delusione all’esercito che mi circonda. A me un po’ dispiace pure la vostra indignazione, ma, come ve lo spiego? Nemmeno siamo un esercito, un plotone, o tutta quella roba là… è solo che so parlando, beh, con lui, lo conoscete bene. Rispondo al suo linguaggio che vuole ferire. Obietto la coscienza, mi ammutino, tradisco, dite quello che volete. La verità è che nasceste in un’epoca che tutti vorrebbero dimenticare. Non è colpa vostra. Ma questo spettro ancora insiste.
Vuoi ancora denigrare questo silente esercito di spettri chiusi nelle proprie camere, appoggiati ai propri termosifoni, che si trascinano di giorno in giorno attraverso le proprie vite senza missioni, senza guerre, senza la morte imminente che possa darci un senso -questo perché siamo morti in altro modo, forse, ma non vorrei esagerare, visto che in qualche modo riusciamo ad apprezzare i nostri giorni al punto tale da non ucciderci, e l’apprezzamento seppur inerziale non è qualcosa che possa contraddistinguere i cadaveri. La droga non appartiene ai cadaveri, siamo falene al momento prima di friggersi sulla luce, quindi nell’eterna imminenza, ma non connotata dalla consapevolezza del soldato che già anticipa il piombo prossimo a squarciargli le vene, no, abbiamo invece le pupille dilatate e il volo precipitevole verso l’oblio di fuoco, il calore estremo che ci distruggerà da dentro e da fuori in un orgasmo di spettacolare angelica autodistruzione, le ali nostre incenerite che si frantumano come polvere delicata nella nostra caduta verticale verso l’abisso. Mi chiedi, visto che non capisci e ancora credi di esser derivato da un corpo e che noi tutti possiamo appartenere a una specie umana ancora appartenente al regno animale, mi chiedi a che scopo, e lo chiedi per denigrarci, a che scopo noi che ci trasciniamo in questo modo, che in certi giorni con certi giochi di luce possiamo assomigliare agli spettri più degli spettri stessi, ci dedichiamo ad attività apparentemente edonistiche, se non ne traiamo piacere? A che scopo masturbarsi, se dei nostri organi percepiamo solo il dolore? A che scopo cercare il calore, se il nostro corpo non produrrà scambio termico con un ambiente circostante, se non agirà nel mondo?
Tu non sai, spettro, che l’esser già morti non ci impedisce di godere di una morte diversa, simulata. Che non faccia male come quella vera e che un giorno di certo verrà a prenderci, sfaldandoci i sogni e l’intero nostro modo d’essere. Non lo sai tu, spettro che piangi la degenerazione inesorabile dei tempi tuoi, compiuta in questo tempo in cui sei disgraziatamente venuto a far visita, decomposizione della decomposizione del mondo tuo, non lo sai su cosa “godo” io. L’immagine che mi serve per macchiarmi orribilmente, vischiosamente, la mano vergognosa dell’atto osceno, è un’immagine di me che muoio. Che sparisco, che divento flusso. Entro in un sangue, entro in una virtualità. Li ci si incontra, in un certo senso, con tutti gli altri, ci si mescola in anonima poltiglia di Stige ma rimanendo sempre rigidamente separati, perché come hai detto, siamo un esercito di soldati soli, spermi soli. Non vi univate anche voi in una cosa sola, esercitopatriamorte, credendo che questo fosse il significato più grande? Quando davanti alle esortazioni ruggivate insieme, un solo cervello, e vedevate elevarsi in cielo un rapace dorato che era voi, era la nazione. Anche noi ci uniamo, vedi. Esistendo però ognuno in un mondo distante, ognuno avrà raggiunto la sua comunione con l’unica sostanza che conosciamo e che rappresenta la definizione ultima del significato. Mi pulisco la mano con l’altra mano infazzolettata, è utile a volte avere un corpo per correggere e cancellare gli orrori ed errori del corpo stesso.
Fingiamo tante cose, lotofagi ispirati, fingiamo la vita e la morte. Qualcuno sarà morto in un videogioco, perdendo una vita da una riserva che gli consentirà di rivivere solo per poter di nuovo morire, qualcuno sarà morto per l’overdose dei farmaci, diventando ucciso nelle prigioni della mente. Ma eccoci, spettri che si sono masturbati all’idea di esser spettri, nell’esorcismo del momento in cui lo diventeremo in maniera diversa e incontrollabile. E chissà che allora, quando grazie alla sanguinaria opera del destino potremo veramente porci al tuo fianco, teofania del corridoio, non saremo in grado di toccare qualcosa di sensato, che è noto soltanto a chi si è liberato di tutto ciò che ancora ci costringe in certe forme… militarismo d’altra natura, militarismo della natura, vuole che possediamo ossa sotto la carne e carne attorno all’osso, cellule rimpiazzate di continuo, prurito di spermatogenesi nelle sacche che ci contengono in miniatura per riprodurci. Potremmo farlo solo se fossimo ciechi, se vedessimo nelle sacche nient’altro che un prurito, impulso da soddisfare. I nostri occhi di pixel invece sanno penetrare, se ci guardiamo lì vediamo che sono piene di dati, codici. Siamo astratti ma ancora in parte naturali, siamo in un limbo difficile. Ed eccoci, nel nostro sogno di flusso, ad aver risolto tutti i problemi, la complessità se n’è sparita nell’omogeneità della matrice in cui finalmente galleggiamo. In fila, fluttuanti a forma di boe o girini in un muco colante su un fondale, ce ne andiamo come una cascata infinita di spermatozoi, ribollenti di dna nel capoccione affannato e nervoso.
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