top of page

terra di vitelli

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 25 set 2021
  • Tempo di lettura: 33 min

Quando percepii tutto in una volta l’arrivo della paura, mutevole e varia, diventata un mostro solo perché marciando non l’avevo guardata, mi ero perso già da molte miglia tra altipiani verdi e bianchi di sassi. Dovunque guardassi erano isole su un mare d’erba, sotto il cielo bianco sporco come talvolta si vede arrivare un banco di nubi nel lontano orizzonte blu, quello delle genti di costa. Sporgendomi da un lembo di terra sovrastante le valli nascoste dalla densità dell’aria, ricordai ancora l’ultima volta che facemmo una breve migrazione verso il mare; eravamo nella stessa posa forti e alti, pelle scoperta all’intenso sole costiero. Le alture diverse dalle nostre d’entroterra, gialle di sabbia e rosse d’arbusti radi, si protendevano sull’acqua spargendo alla brezza i diffidenti aromi della macchia spinosa. Confuso il suo accecante chiarore tra onde torride dell’aria e onnipresente vibrare di cicale, il sole volava sullo schermo blu e gocciava ancora del fenomeno dell’alba, in cui questo emergeva dalle acque più lontane. Scena che non avrei più rivisto. La direzione di quelle strade era ovunque territorio di uomini, dunque non potevo che abitare senza dimora la direzione opposta, quanto più riuscivo a inoltrarmi sopra le valli, fin oltre i luoghi della vegetazione -là erano dolomiti frastagliate e sentieri di roccia che non erano mai stati calpestati dai popoli; erano corpi di cose cadute che deperivano sfranti tra le guglie aguzze dove si posavano a beccare corvi e avvoltoi. La scena della mia vita. Respirai assetato l’aria rugiadosa d’alta quota.


Mi allontanavo sempre più e non conoscevo forse da giorni momenti di pausa nell’incalcolabile marcia -procedevo istintivamente rapido e fuggiasco come selvaggina stanata già dagli istanti successivi al mio esilio, andavo da solo senza comandare le gambe per la strada indicatami tanto dalle parole quanto dai corpi, e presto certo anche dall’unica coscienza sopita del popolo, il volere stesso degli dei; essendo stato rifiutato non avrei visto gli aruspici leggere lo stesso destino, già deciso, scontato, nelle viscere delle pecore. A lungo lo scambievole movimento del sole e della luna, o le loro metamorfosi e inseguimenti nel cielo intasato di stellari giochi di divinità, non erano stati che lampi vagamente riconoscibili dalla superficie velata dei miei occhi che, incastonati ancora nel mio fragile cranio, loro malgrado procedevano spediti insieme a tutta la testa e il corpo che voleva muoverla, dirigerla per una meta indefinita eppure indispensabile come un pensiero singolo, un desiderio connaturato. Solo i pendii sempre più simili, l’espansione uniforme del paesaggio senz’alberi mi avevano infine indotto alla sosta, alla constatazione della sete. Sputai una bava filamentosa, una flemma grigiastra che cadde fiacca e sgraziata e s’appigliò al gambo d’un dente di leone, opprimendolo al suolo. Mi arrampicavo sulle rocce lisce, con le piante dei piedi ormai ruvide e ossee in maniera caprina mi sollevavo sui culmini più angusti, simile a bestiame esperto in scalate inaccessibili. Non potevo vedere nulla, il paesaggio era incomprensibile. Mi avvicinavo ai nidi dei rapaci, dove erano puniti antichi avventurieri disobbedienti. Il cielo s’amalgamava all’aria ed emergeva dall’esistente per tutte le direzioni, scendendo dalla sua altitudine in alcuni luoghi che eleggeva abbastanza rarefatti e degni d’accoglierlo: così una nebbia quasi trasparente o un lembo celeste all’improvviso ostruivano bordi di lontana foresta di conifere, un miglio al di sotto. Avrei solo camminato laddove istinto e odorato m’avrebbero detto che andavo lontano dalle abitazioni. Stridii gracchi e tuoni le uniche voci, o il senile borbottio duro delle piccole frane lungo i costoni. Senza più distinguere gli ambienti, una mera ombra che s’era intrusa in montagna. Ma i monti non cacciavano via allo stesso modo degli uomini: dicevano agli intrusi, venite, entrate pure, e nel caso questi fossero stati giudicati, allora semplicemente sarebbero precipitati nei vuoti di burroni e irrespirabili distanze, o fatti smarrire tra geometrie di rocce e luce, oppure ombre e fauci della foresta. Le montagne conoscono molti e misteriosi modi per far scomparire.


Incontrai un raro folto d’arbusti radi, di foglie urticanti e bacche violacee. Non lo presi a riferimento, perché procedendo in circoli senza criterio l’avrei dimenticato o confuso, perché lassù avevo rinunciato al nord e al sud, alle cose che s’ergevano. Un fruscio si accasciò alle più vicine pareti, accresciuto viaggiando su echi in picchiata dalle alture, voci lanciate da giganti sopra al vuoto delle valli. In pochi e rallentati istanti percepii le sue parti, ciascuna fogliolina sfregata, e dalle ultime flessioni dei rami in subbuglio emerse un esile cervo in fondo alla via. Un esemplare giovane, con germogli di corna invasi da gusci pungicanti, ragnatele e fogliame marcescente. Udendomi, odorandomi, e vedendomi tuttavia immobile, si arrestò a orecchie rizzate e lo sguardo rotondo rivolto alla mia alta figura, una creatura ignota e terrificante.


Oh, non c’è da temere, amico mio. Sono di una specie che preda e raramente viene predata, è vero, sono per te, di zampe atterrite e fuggevoli, ancora una dimostrazione della natura che pone capi, padroni di forza in gerarchia sopra altre forme, re d’animali selvaggi o una tempesta che sbriciola alberi e rocce; e nonostante questa mia appartenenza, questa specie insegna a se stessa di possedere la ragione, dai cui confini sicuri e accoglienti io sono stato estromesso. Tuttavia, come uscendo dal ventre si conserva la forma che lì dentro si è sviluppata, anch’io, reciso dalle mie origini, trasporto da esse qualcosa. Dunque, ecco le ragioni, che posso enumerare come i sacerdoti e numerologi esperti degli astri, come i pastori che controllano il gregge -dico due ragioni perché tu, esemplare timoroso, non debba temere.


Per prima cosa noi, o meglio loro, ancora responsabili dei modi in cui vedo il mondo (a causa del marchio del linguaggio impresso dalla mia bocca all’anima), sono una gente che venera gli animali dotati di corna. Siete ricettacoli di vicenda divina, simboli del sole che impera sulle giornate calde di luce, vibranti di mosche e succulenze muggenti dal terreno. Certo, le tue sono corna giovani, sono sottili peli di barba appena usciti dal viso liscio di un adolescente, e non sarebbero questi tuoi palchi la principale forma da erigersi su sculture di dee o altari sacri, ma io riconosco la tua stirpe e la rispetto. Altri della mia specie, ugualmente devoti e anzi di più, non tratterrebbero tuttavia la lancia e l’arco, perché nella sacralità c’è la tua carne, verrebbe trasformata in rito e passaggio di forza dal tuo sangue a quello di chi lo assorbe, divenendo incarnazione della la tua resilienza e corsa… forse bisogna staccarsi da qualcosa, esserne forzati fuori, affinché la propria devozione, la propria comprensione dei simboli, si evolva in significati nuovi o riveli quelli nascosti.


(Ma questo non puoi forse nemmeno capirlo, eh? Non hanno storie per te le stelle, se non la storia solenne e tombale della notte che vola sopra tutte le teste. Dunque, la seconda ragione è ancora legata al fatto che non leverò la lancia. Non ho più la caccia nelle mie mani, queste braccia non conoscono possesso: nemmeno il furto delle carni e le cortecce dalle altre creature, nessuna vittoria sopra il territorio; semmai, di questo io sono ospite e vittima, a suo piacimento, io sono la singolarità che al suo interno si muove totalmente soggetta ai suoi poteri. Sei come me, vero? Sulle zampe sottili una lacerazione mostrava l’osso incorniciato di rosseggianti grumi secchi, una macchia incancrenita t’attanaglia il passo, amico. I tagli al collo non sono morsi di belve carnivore, ma lividi, numerosi da urti violenti e dure punte ramificate.)

Il cervo non aveva branco, era perso da solo lontano dai boschi della sua nascita, in cerca di erbe buone nel freddo brullo d’altopiano (o d’una rupe da cui forse gettare il suo corpo?). Ma cervi senza branco non si vedevano: e allora vedere lui comparire dai cespugli significava che c’erano altrove dei cervi in celebrazione di vita tra pollini primaverili, c’era un nuovo capobranco che agitava fluente il collo barbuto e levava alle vette poderose ramificazioni della testa riflessa di bruno e oro, esse erano corona ed elmo di guerra; e vedere me significava che alle pendici dei monti, sulle sicure terre marcate da tracce d’aratri e argini ai confini con pianeggianti selve all’ingresso del caos, c’era un villaggio abitato, e lì c’erano armenti, alberi da frutto, granai, altari e il tempio agli dei, e forti difensori del giorno e della terra con i toraci esposti contro le avversità di intemperie e nemici. Vederci significava che da queste cose noi eravamo separati. Così ci guardavamo, finché il mio goffo respiro d’umano, creatura che ha perduto acume selvatico, e minuscole inconsapevoli parti d’un mio movimento allarmarono il cervo che corse via zoppicando, sparì oltre il culmine verde d’una salitella tra due macigni.



Ondate di luce e calore trafissero le paglie intrecciate del tetto ancor prima che l’alba s’esaurisse sui campi là fuori. Calarono dagli interstizi, scrollandone insieme ai granelli di polvere il sentore acidulo che mi pioveva sulle froge aperte sollevate al soffitto, ancora fischianti del respiro dormiente. Si riempivano di pioggia fulgida e senz’acqua, bollente contatto alle vene. Venni così subito svegliato al mattino di quel nuovo giorno con la comprensione della sua natura: non albeggiava quel sole, ma subito giallo, con la temperatura del mezzogiorno: il caldo avrebbe ucciso, quel giorno. Ci siamo, pensai, oggi tutto trabocca vita e morte, oggi i ministri annunceranno che è giorno di prova. E pensai, osservando il soffitto variopinto di penombra e chiazze solari, a queste nostre capanne che a volte si trovavano isolate e abbandonate al limitare di certi vecchi campi, a come un soffitto proprio uguale a quello che vedo diventa un nido di barbagianni. Le nostre case diventavano tutte così, prima o poi? Mi sembrò di comprendere tutto ciò come una verità profonda, spesso ignorata, poiché tutti continuavano con le loro vite, forti come se invece ritenessero ovvio e naturale che queste abitazioni potevano morire solo d’incendio o tempesta e mai di vecchiaia -anzi, il pensiero di questa loro fine non era nemmeno formulato. Ma il bianco uccello notturno incanutiva il sottotetto con le sue piume, e il pavimento di terra battuta si riempiva di polvere, escrementi, borre, ossicine, materia vegetale sfilacciata da venti ormai liberi di irrompere insieme al ladro e la faina. Questo era il tramonto alla fine delle nostre vite, del nostro abitare in fondo alla valle. Mi svegliavo, schioccavo la saliva seccata, volevo bere, ma in un giorno come quello sin dal mattino si doveva bere il vino che non dissetava. Sdraiato sul giaciglio, con gli occhi mi tuffavo nel soffitto, scomparendo nella paglia e nel pensiero del suo disfacimento: incontravo lì anche la luce che premeva da fuori, schiacciando e riducendo la notte. Forse allora anche dopo quella fine che io stesso avevo profetizzato proprio in quel momento, c’era sempre un sole a cancellare ciò che alla notte apparteneva, le cose morte e le case vuote. Questo voleva dirmi l’irrompere del giorno. Ma mi morse il ventre, freddo e tagliente come al tocco un gambero di fiume, un presentimento intruso, come se questa dialettica di notti e giorni sul villaggio non m’appartenesse più, proprio nel momento in cui avevo compreso, appena emerso dai sogni. E più di tutto m’oscurava prepotente l’idea delle cose che sarebbero successe, la festa che s’annunciava.


Tutte le cose che componevano il villaggio, mobili o ferme, s’erano destate in accordo allo splendore giunto in anticipo, preludio al ronzio torrido di vespe e fragranze del pranzo. Nelle sue ore lunghe, scoccate da scontri e dimostrazioni, avrebbe accolto un rito di passaggio. Fui investito ancora da un’altra ondata, così come ero stato svegliato: mi sentii vacillare dalla moltitudine che i miei sensi forse troppo pigri non riuscivano a reggere.


Non avevo salutato nessuno del mio clan uscendo dalla capanna, forse evitandoli inconsapevolmente. Non c’erano asti espliciti tra noi, ma a me sembrava coerente con l’idea che loro e tutti quanti si facevano dei giovani della mia età, bramosi per gli ormoni e i subbugli dello spirito d’un proprio avvenire separato. Insomma, un distacco era previsto, e quella giornata nei suoi significati voleva anche rimarcarlo insistentemente. Perciò mi adeguai a questo pensiero, forse sfruttandolo per evitare lo scambio di cenni e parole. Continuavano a provenirmi dai dintorni per la via, il buongiorno chiamato dagli abitanti. Tenevo la testa bassa cercando i disegni della mia ombra sul terreno, tentando invano di vedervi una forma chiara che mi risolvesse alcuni cupi pensieri. Il buongiorno era sacro, il rifiuto era blasfemia; ma procedevo fiacco e scuro, e al peggio avrebbero pensato che fossi un pigro ancora assonnato, sebbene la mattina e i galli avessero già chiamato tutti fuori ciascuno alle proprie opere. Che lo pensino pure, mi dicevo, perché in un certo senso è quello che sono, difatti procedo stordito e insensibile ai paraggi. Oppure pensano che a rinchiudermi in un contegno ritroso sia vigliaccheria, in previsione di quanto dovrò fare oggi, il che è palesato da un eccesso d’elementi ma già me ne ero accorto mentre attendevo nella capanna, riflettendo su luce e oscurità. Un pigro e un effeminato, e perché no anche insolente, cammina semplicemente sulla familiare polvere segnata da muli sandali e carri, sorpassando le case, andandosene chissà dove. Detestando i panieri ricolmi di poltiglia di bacche fermentanti, uve troppo mature, carni tagliate -offerte su colonne tavoli e altari già assaltate da armamenti d’insetti bramosi; e detesto quella specie di silente sguardo che ammonisce di vivere in pieno la celebrazione, che mi proviene dal bagliore bronzeo di arpe disposte per odi ai guerrieri, e detesto la lacrimazione cieca e agonizzata in un occhio arrossato che mi viene indotta dall’amplesso abbacinante dei raggi solari con le fiaccole, accese sui bordi della strada e in cima ai colli nonostante il mattino. Volete restituire il fuoco agli dei? Ebbene, fatelo, riportatelo al cielo, che se ne nutrano coi loro organismi mostruosi, così che si manifesti un buio su tutta la terra e i popoli, un buio che attende qua sotto per riprendersi tutto com’era in origine. Mi piace dargli lo stesso nome che ossessiona molti dei discorsi che si odono nel tempio e anche per via: “verità”, e mi suona incombente più di qualsiasi temporale. Credere questo m’esaltava in quanto giovane che si scopre uomo nella sua capacità di comprendere, non aiutato da altri, di scovare da solo un tesoro nascosto; ma mi faceva anche male in quanto corpo non pronto all’imminente suo uso e danneggiamento, perciò me ne andavo a spasso per il villaggio con un’emicrania crescente: anche i sacerdoti predicano che tra l’anima e il corpo c’è una condivisione continua di mali, comunione di morbi…


Sarei salito su una certa collina. Vedevo gran parte del villaggio, le colonne su un’altura opposta rivolte a quelle dissestate del vecchio tempio mezzo sprofondato in rovina ove mi appoggiavo, masticando foglie selvatiche strappate da spighe lungo il mio indisturbato passaggio. Vedevo i tramonti evolversi in differenti specie di alone sanguinolento sui tetti di paglia e sulla pietra delle costruzioni sacre. A volte erano un tepore materno, come d’una pulsazione vagamente udita attraverso uno schermo di pelle morbida e sottile da un orecchio accostato; in altri crepuscoli era invece come se il cielo piangesse d’un odio senza rimedio e possibilità di sfogo, adirato contro chissà quale altra essenza che potesse competere con la sua vastità, forse qualcosa appartenente ai misteri di là dalle montagne, giganti che noi non potevamo capire. Così vagheggiando riposavo e mi allontanavo dal villaggio, ma esso mi raggiungeva nelle sere lievi e violacee dense di braci lontane, correndo su passi lievi, piedi pallidi. Nuvole di falene sollevate dallo sfrusciare della veste sull’erba alta. Lei: in piedi alle pendici s’accarezzava una treccia, ocra e regolare come la fibra d’un canestro, e con l’altra mano mi salutava. E dalla distanza mi pareva una cosa irraggiungibile, lei di cui pure udivo la conversazione, il volto che galleggiava nell’atmosfera imbrunita era una luna piccola figliata da quella grande non ancora apparsa, ma era una forma adagiata al suo sfondo senza spessore, come un disegno in una grotta o su un’anfora della gente del mare. Si sarebbe avvicinata a me, ma non sarei stato vicino. Si sarebbe seduta affianco a me, come molti giovani a noi simili facevano e avevano fatto, antenati lontani su questo stesso terriccio umido a commentare le stesse stelle serali. Eppure ogni tocco accidentale, ogni respiro sfiorato mi sarebbe parso un’illusione. Le labbra forse erano un cerchio carnoso aperto su un mondo ingannevole, un nulla.


Non c’era. Ma non era per lei che mi recavo là, non era per niente. Non sapevo se sarebbe giunta a vedermi lì, come mi aveva conosciuto, prima di vedermi nudo, ammantato solo di terra polvere e sangue, il mio sudore mescolato ad afrore animale nel contatto nerboruto, gli altri giovani con le vene affioranti, la presa salda alle corna in carica quasi a spezzarle. Ebbi il pensiero che lei si sarebbe imbarazzata nel vedermi così, un pensiero in qualche strano modo rassicurante. Al contrario tornavo a sentire la stessa morsa colma di presentimenti del risveglio se pensavo al padre di lei, la famiglia della sua casa. Vi sarei entrato? Avremmo cinto un legame tra la capanna mia e la sua, trasformando il distacco che la crescita della mia gioventù produceva in un nuovo rapporto di stirpi? L’alleanza tra famiglie e il brindisi dallo stesso calice, le labbra che toccavano dove già le altre avevano marchiato la loro diversa bava per aspirare le gocce del vino nuziale come insetti ingordi di polline. La corolla del calice lasciata cadere a terra, rimbombante con eco di frasi formulaiche. Era solo una fantasticheria, o c’era possibilità che io e lei, conversando da mondi distanti, giungessimo a creare questo, come ci si aspettava da ogni uomo e donna? Mani dure suggellate tra gli uomini, i decisori del mondo tutto. E sarei dovuto stare in guardia, celare i miei comportamenti per non insospettire… mi avrebbero visto, tra frotte di adolescenti e aspiranti cacciatori o guerrieri avvezzi alla lotta, tra di loro e con il bestiame. Mi venne da inghiottire saliva fredda, me la sentii scendere per il torace la cui pelle interna esauriva la sua capacità di resistere agli impatti.


Meglio che non ci fosse. Speravo che un altro scontro si rivelasse più interessante del mio, cosicché non guardasse me. E allora nessuna famiglia con una bella e giovane fanciulla nella propria numerosa prole avrebbe avuto motivo di interessarsi alla dimostrazione del mio valore. E se lei l’avesse fatto, ebbene, l’avrei rifiutata, che pianga pure come innumerevoli sciocche fanciulle in confessioni solitarie alla luna. Non potevo angustiarmene io, che avevo visto il vero in questi rapporti, convenzioni commerciali affinché i clan si muovessero insieme nelle transumanze e i baratti col popolo del mare, le loro collaborazioni di mestiere e scambi di animali frumento e gioielli. E non potevo angustiarmi d’un dolore altrui finché questa persona non mi fosse apparsa reale. Reale… una lastra color biondo di crine uniformava capanne e campi lì dalla collina, minimizzando le mattiniere nebbie sui più lontani alberi di foresta all’orizzonte, cinto dalle nostre barriere montuose. Non avrei saputo dire se fosse uno di quei momenti in cui la mia terra m’appariva bella, e qualcosa mi riempiva d’eccitazione preziosa, oppure uno di quelli in cui la sola vista delle cose mi stancava. Ero lì, sui miei soliti ruderi, sfuggito a ogni compito prima d’affrontare l’unico al quale non potevo sottrarmi, e sebbene fosse quella la scena avanti a me, mi rintronava in testa lo scalpiccio degli zoccoli oltre le porte delle stalle costeggiate nel cammino. Mi ero chiesto se i tori facessero così ogni mattina, per scaricare la propria incontenibile furia al terreno che li aveva partoriti col manto liscio e bruno, così omaggiandolo per propria tradizione impetuosa; oppure se, attraverso chissà quale ignota sapienza animale, avessero compreso anche loro la natura di quel giorno, e si preparassero allora a dar battaglia, a morire o uccidere. Entrambe le prospettive mi immergevano, più congelato che nelle abluzioni forzate dell’infanzia, in una paralizzante paura, che non sapevo ingoiare né rigettare, lasciandomi sospeso mentre con apparente calma osservavo un paesaggio invisibile ai miei occhi.


Gli occhi sembrano sorvolarlo, io salgo nei punti sopraelevati: la vita mi appare piccola. Il volo della mente prende un’altra direzione…


“credo che tu saresti un bravo poeta”, lei aveva detto questo. Di cosa parlavamo? Immersi in fluido perlaceo, amanti più del cielo che di noi stessi. Solite ciance, dicevamo che il mondo è fatto in modo che ci siano alberi e valli, gli esseri che le abitano, un’altra categoria d’esistenze che vivono altrove e talvolta si manifestano, i miracoli, i portenti; e infine è fatto in modo che ci sia una quantità di compiti che vanno svolti affinché tutto si mantenga, funzioni, sopravviva. E gli umani apprendono dopo la nascita che devono assolverli per non morire, e per incastrarsi nel mondo (non dicevamo proprio così, ma questa era l’idea). Disse, forse solo conversando senza pensarci, che per un uomo l’unica via per proseguire nel mio modo di vedere il mondo -ovvero, semplificando, da sdraiato in collina così da veder tutto- era quello di impersonare il nume del mito: i cantori erano apprezzati, e tutti amavano la loro lingua di drago capace di gettare come fiammate immagini mai viste nell’aria, e incantare gli uditori attorno al falò. Stabilire le coordinate della fede, nient’altro che principi appoggiati su -ed evoluti da- storie che erano state recitate, declamate, musicate in un’antichità perduta. Rinnovare i significati, fare un cerchio magico attorno a un falò notturno quando tutti potevano ascoltare le rime, le ripetizioni in cui erano custodite gesta d’eroi di fantasia: costituenti del fenomeno strano della narrazione, grazie al quale i sogni della gente si popolavano di presenze terrificanti e apparizioni straordinarie, da scuotere il cuore fino a farlo lacrimare. Perché, nell’opinione di questa ragazza, questa forma penetrata dal villaggio nella mia pace solitaria, standomi accanto non avvertiva nelle viscere quel conturbante magma d’imbarazzo, paura e mania che ribolliva negli incontri pur fugaci con altri giovani pronti a diventare uomini.


Io non la guardavo, rispondevo alle costellazioni e le loro imprese plasmate all’eternità del cosmo, non ricordo quali fossero per la distrazione e per una certa irritazione che mi impediva di riflettere con serietà su quanto avevo appena sentito senza far apparire cenni sul mio volto, che volevo tener sempre irrigidito in malinconia e collera, lo sguardo che passeggiando lanciavo dalle sopracciglia a un ipotetico orizzonte come volessi incendiare qualcosa. Avevo risposto che io non volevo fare ciò che era richiesto ai poeti per essere reputati apprezzabili prima di accogliere in sé pubblicamente la parola ispirata a ciascuno dal proprio nume, o da un emissario degli dei più alti così da rivelare una nuova verità. Gli uomini più lontani dallo sforzo costante di mani granitiche e spalle cresciute fino all’altezza di un orso in piedi, lontani dai mestieri pericolosi, ma i più vicini ai sacerdoti e alla recondita sapienza femminile delle indovine che rinunciavano alla propria energia creatrice per incanalarla nel parto d’una profezia, un’idea. Eppure, dovevano mandare a memoria tutte le stanze più famose delle canzoni epiche, rituali e sulle leggende degli dei, poi tutte le filastrocche popolari e le preghiere; dovevano raffinare con lo studio d’accenti e ritmi la propria comprensione del potere che s’instaurava tra un rumore della bocca e l’immagine che componeva mescolandosi ad altri rumori, brusii sporchi e inutili che unendosi facevano apparire lo specchio del mondo. Spiegai vagamente a questa ragazza che si strusciava nervosamente le ciocche paglierine, cercando di non rivelare tutto per come lo avevo in mente, che disprezzavo per esempio l’idea che degli alti sacerdoti, persone diverse e con una diversa visione delle cose rispetto alla mia, avrebbero tuttavia ammaestrato la mia rima, adeguato la mia comprensione a una che era la propria e che invece dicevano scaturita dalla natura delle cose. Non desideravo i dieci lunghi anni d’apprendistato dai quali i cantastorie uscivano con la barba già cinerea, i peli scintillanti la mezza vita esaurita.


Cosa desideravo? Di certo lei mi aveva chiesto anche questo, mentre mi sforzavo di non ascoltarla, e di fingere che il mondo fosse un posto in cui potevo fuggire dalla risposta a questa domanda. Il mestiere del padre, da ereditare. La famiglia, la sposa, il commercio con un’altra famiglia. I banchetti ogni anno, la caccia e la transumanza, forse perfino una guerra con un popolo nemico. Come nel cielo il destino s’allineava in punti che erano ignoti, distanti, eppure le sole cose luccicanti in un buio dove io mi perdevo. E il destino voleva anche (me lo spiegava attraverso il disincanto di chi ha trascorso già molti anni) che fosse normale per un ragazzo come me porsi interrogativi che un giorno sarebbero semplicemente scomparsi, dissolti senza lasciar traccia nella reiterazione d’uno sforzo, in un morso di gratitudine dato a un pane che è aggregato di sopravvivenza, in un istinto di proteggere casa, prole, averi. E il destino voleva fosse altrettanto normale per me, che non accettavo tutto questo, dover compiere una trasformazione che m’avrebbe portato ad accettare tutto. Perché vivere significava volere che tutto fosse esattamente come lo si vedeva. Il mio sguardo è altrove. È nel vuoto. E ormai da solo sorvola altipiani dove sono l’unico esemplare avente questa forma, che ritta in piedi si pone al centro degli orizzonti, e osserva.


Ho immaginato le ali della notte, con lo sguardo sorvolo il giorno, e col cuore credo di lasciarli entrambi. Il mio desiderio, forse, è il volo. Alcune delle storie più belle ne parlano: è un desiderio dell’umanità… persone folli o ingannatori di leggende suggerirono persino che questa avesse inventato gli dei, e li avesse collocati in picchi e nuvole confinanti con un altro mondo, proprio per sublimare una languente tensione all’alto, agli astri, alle cose dotate di ali. Io credevo negli dei. Temo quelli irosi ora che cammino più vicino alle loro dimore. Ma in quel pensiero scorgo una verità. Ora sono vicino al cielo, come talvolta fantasticavo di voler essere, nello sforzo vano di trovarmi qualcosa che effettivamente desiderassi. Solo stelle alpine e aria fresca che discioglie in sé il principio della brina qui spargono un odore. Sporadicamente si ha l’impressione che sentori remoti si mescolino e chiamino, pungendo dentro al naso come aghi, allora mi riviene voglia di mettermi in marcia, di provare a vivere. Come se seguendo queste scie misteriose sprigionate da segnali della natura io possa capire questo desiderio antico. Il volo è desiderabile per gli umani perché forse essi bramano una forma di libertà che non conoscono? Sono dunque libero, adesso? Non ci sono in effetti capanne, che difendono dalle intemperie, confinandoci nell’ebbrezza della sicurezza… ma all’esterno si è invece costretti a subire ciò che s’abbatte dall’atmosfera, dalle altre cose vive. Una libertà allora da cosa?


Dalla terra, la polvere che s’innalza lottando, dalla morte che prima o poi sempre in essa va a sprofondare, marcescente, sporca… i tori che combattono schiacciando impronte sulla sua crosta. Sabbie vorticanti accecano, spiacevolmente s’attaccano al sudore. E questo scroscia dai muscoli palpitanti che così gonfiandosi e ferendosi sembrano rassomigliare al terreno, ora rugoso ora irregolare ora di rocce irrorate di linfe silicee, e così confermare che la nostra carne fu generata da argilla. Mangiamo il frumento giallo, figlio della terra, lottiamo con il bue e beviamo nel vino il sangue della giovenca, bestie di connaturato odore terroso torrido. Davanti all’altare che ci connette al cielo ci inchiniamo. Fui chiamato con gli altri giovani: prima d’entrare nell’arena, ci inchinammo. Nel punto in cui lo feci i miei palmi sentirono una rena granulosa, quasi scorticante per ruvidezza, che rimaneva attaccata ai pori e conferiva insensibilità ai tocchi.

..

Suppongo che venisse suonato un corno. Il muggito lamentoso, come se appartenesse ancora vivo a una bestia infilzata. Poi le arpe, tamburi e sonagli. Le indovine offrendo i frutti succosi tremavano, colte da specie estranee di veleni inebrianti, appannaggio solo delle loro vene nei rituali. La danza sul posto dei rinsecchiti seni scoperti, le labbra colanti e gli occhi privi di pupilla per il tempo della prima musica erano una comunione con qualcosa d’invisibile.


Passai, agitato, sudando acqua fredda, ero un fondo di pozzo. Le superai diretto al recinto, ricevendo attutita quella sensazione conturbante che sempre mi arrivava dall’estasi scoppiata violentemente in danze e possessioni. Si usava paragonarle a morsi di striscianti creature tossiche. Queste popolano il buio, le ombre di rami contorti spogli e neri in quei crepacci di foresta dove ogni vita sembra madre di rovi e destinataria di pioggia immonda. Immaginai tane desolate. E noi senza saperlo in queste manifestazioni dove il caos s’impadroniva delle feste, abbracciandosi alle fiaccole per rappresentare la totalità di fenomeni come solstizi raccolti e accoppiamenti, cantando e cancellando le coscienze eravamo tutti idolatri di bestie sia diurne che di tenebra, quelle che erano solitamente temute e scacciate, respinte dai bordi dei campi alle profondità della selva. Una sacerdotessa baciò un’effige del bue, scolpito ricolmo di vita e sole su di un arco in pietra, ma fatto questo, schiuse dalle labbra deliranti cantilene che erano barbarie da uccello lugubre, da brulicanti passetti sotto esoscheletri lucidi di veleno. Vigilati e guidati dal taciturno contegno dei sacerdoti, anche i ministri e i capi baciarono i simboli più importanti, uno schiocco umido su ciascun acino pendente dalla vite scolpita sinuosa attorno ai pilastri. L’unguento venne distribuito ai primi celebranti, mescolato al sangue dei vitelli e alle uve spolpate. Mosche infinite saettavano sulla superficie viscosa e maleodorante d’una vasca. Raccolto con una bacinella di forma ittica, col grosso occhio laterale a mandorla che pareva sondare e intimidire l’anima, spargevano il composto sulle vesti, l’addome, i genitali per purificarne la fertilità e sollecitare le prossime ore orgiastiche del tardo pomeriggio e della sera.


Noi no, i giovani devono combattere, dimostrare se stessi, dimostrare chi si è -almeno un po’, prima di diventare degli uomini completi. In diverse prove nel corso della giovinezza, “quelle che conoscete tutti e a cui sempre avete assistito”, ci dicevano, e fibrillavano allora archi di dentature bianche e gialle e acuminate e irregolari, i sorrisi determinati di chi accoglieva trepidante il passaggio dall’essere spettatori ad agenti nella scena sarebbe stata ammirata con occhi desiderosi di futuro da altri prossimi partecipanti: maschi ancora minuti, ma innegabilmente maschi e orgoglio del proprio sangue. Annuivano, ridevano anche alcuni.


Per lottare serve che le forze scorrano dentro. Doveva scorrere in me: bastava esser giovani e maschi, il che era incontrovertibile per il mio possesso d’un corpo fatto in un certo modo, toccato già dagli officianti, non ero sfuggito. Mi chiedo cosa mi avesse portato a ritornare, senza nemmeno tentare per esempio di fingere che mi fossi perso in passeggiata, troppo inoltrato per la selva circostante le colline. Solo perché mi avrebbero riconosciuto come assente e disertore nei giorni seguenti? Ero là, con mani imbrattate sulla mia schiena, marchiato come tutti, e chinavo il capo pronto a ricevere. Non saremmo stati cosparsi sul membro, perché bastava ingerire la sostanza e la forza della lotta con l’animale ci avrebbe abitato per giorni, raggiante di desiderio vitale da scuotere i ventri in una palpitazione incessante; e così saremmo stati sul corpo d’una sposa, qualora ne avessimo scelta una, trasferendo su di lei quell’energia che dicevano eguagliarsi nell’amore e nell’uccisione. Un brivido freddo mi percorse la gola prima di bere il succo quasi bollente sotto l’intransigenza del sole. Dovevano correre in me le forme delle zampe nervose che calcavano praterie antiche, i nettari della frutta matura, e il succo anche immateriale delle formule ancora smuoventi l’aria insieme alle ondate calde, sigilli e incantesimi. Sacerdotesse e sacerdoti? Femmina e maschio concorrono al mio giudizio, loro che non m’accoglierebbero tra i poeti se non dimostro di cantare come loro gesta di questo tipo. E a quale entità invisibile offrono panieri pieni e sillabe ebbre? Io, che a testa china umiliata e angosciosa non vedo, o forse ho deciso di non vedere, le cose più ingombranti, perché non riesco a vedere chi sta al di là di questa comunicazione? Mi sforzavo di cercare un’ombra oscura in piedi davanti alla gente investita del sacro sulle tuniche e i bracciali, le fioriture e le spighe tra i capelli. Ma non apparivano mostri o spettri, non a me che potevo capire la loro ispirazione misteriosa. Voi, indovine, depositarie della verità, forse siete su un piano d’esistenza diverso dal mio? E sono io sullo stesso degli altri, o su di uno ancora superiore, in cui già mi è preclusa la vista delle entità minori da voi rintracciabili? Ma soprattutto adesso mi chiedo perché, se a queste donne poteva squarciarsi una scena futura tra sanguinolenti verminose viscere o nelle ondine d’una bacinella, non avevano in nessuna delle fasi del lungo rito propiziatorio gridato a ciò che sarebbe accaduto, che avrei fatto, e che avrebbero chiamato “sciagura” nonostante non avessero fatto nulla per impedirne l’avvenire. Forse è a loro noto che c’è un destino ineluttabile, ma allora perché si propizia la buona fortuna? O sono cieche, o non potevano, coi corpi e le anime loro, trasmettere alla propria gente il timore: ero assorto e rinchiuso in me stesso, ma sono certo che le sacerdotesse danzavano la stessa danza di sempre, senza variazioni, e in seguito avevano l’impassibilità ieratica di sempre, senza sguardi che rivelassero d’aver visto qualcosa fuori da un ordinario svolgimento della cerimonia.


Non conobbi mai sapore peggiore. Pruriti liquorosi e acri mi arroventarono la gola con afrore di bucce masticate, fermentate in saliva o in cavi di rocce gravide di miele e larve d’ape. Linfa lattea di piante oleose pasciute in luoghi inospitali gettò fiotti di sonnolenza nella quale avrei sperato di ottenere un sogno, una via di fuga… ma l’effetto calmo di quella parte densa e appiccicosa del composto era minoritario, sopraffatto subito dall’olezzo dominante. Il sangue orribile scese negli arti e nei respiri dentro di me, mescolandosi al mio, come se potessi sentire su di esso le mosche che ci erano affogate nella frenesia del banchetto, e l’odore asprissimo di stalla e urina dei peli da cui era sgorgato.


(li vidi correre in me, un lampo inafferrabile, forse il momento in cui invece avrei dovuto proprio afferrare, sottrarre a loro che erano stati sacrificati l’indomita volontà delle cose viventi, o che erano state vive. E subito mi apparvero invece i volti cornuti, uno dopo l’altro, come potessero parlarmi dalla bocca ruminante. Manifestati a me, presagi scontornati diafani dalla nerezza della mente, delle palpebre chiuse. Corna di tutte le forme. Piccole e resistenti, fortificate dal latte materno. Ramificate, su ogni punta aghi d’abete e rugiada d’una foresta remota. Poi quelle ricurve dai volti più barbuti e fetidi, corna svettanti al di sopra d’occhi quadrati e inarcuate verso il basso dov’era il fuoco sotterraneo, o spirali nella lana che erano un fuoco di guida nel cielo notturno per i navigatori del mare con la pelle abbronzata. E infine le corna mugghianti, né lunghe né corte, affilate che sporgevano da un grugno tozzo, senza collo, un solo muscolo contenente furore. Nari rumorose sbuffarono dentro di me un fumo accecante, e temetti la morte portata da quell’avversario fiero, il maschio più ribelle nel popolo addomesticato, l’animale fertile e furioso più ammirato. Portavo in ventre l’essenza triturata, spolpata, digerita d’un suo simile caduto. Nella vita fianco a fianco, fatta di collaborazione e morte, guerra e preghiera, era il rapporto delle nostre specie. E io che non volevo combattere né appartenevo all’una né rispettavo l’altra: questa era l’ammonizione d’una coscienza che era in me ma che non era la mia, appartenente al bestiario di quelle forme che me l’invadevano, il vivere collettivo. Ma la visione non durò che qualche istante, troppo brusco perché potessi cogliere un vantaggio dal suo significato.)


Mi ritrovai nell’arena, poco memore delle fasi del rito che avevano preceduto quell’ultima pacca, le incrociate numerose palme imporporate sulle mie scapole (volevano far assomigliare la pelle virile alla memoria immortale delle pareti, ignorando il suo inesorabile disfacimento). Dominava la scena il sudore acido, in corpi messi nudi e troppo vicini, e in laghi sul terreno così mutato in una sorta di fango incompleto. Polmoni gagliardi si gonfiavano del letame in mucchi alle radici dei pali confitti -qualcuno la chiamava arena ma non era altro che un recinto, il prosieguo esterno d’una stalla putrida. Là agli angoli sentinelle statuarie sorvegliavano immobili e un bambino rimproverato tentava di mantenere la presa della manina attorno a una trave mentre veniva staccato dal pericolo. Gli spettatori, gente comune ed entusiasta, osservavano da spalti di una specie d’anfiteatro erboso con pochi scalini di pietra affioranti come musi di balena nel prato rialzato, rudere tra i primissimi del popolo del mare, di quando comparve secoli fa. Lo spettacolo eravamo “noi”, lo spettacolo, dicevano, del sangue che ci ribolliva dentro. Non c’erano turni, eravamo tutti là, pronti a placcare contemporaneamente ciascuno il proprio toro, non scelto, lì piombato dal caso. Proprio come sono io in questa stirpe, in questa terra. Avrei potuto rivedere me nel muso dell’animale soltanto per questo, per la sua incomprensione identica alla mia del perché fosse là. Ma in lui sarebbe prevalso l’impulso, la risposta all’attacco.



Mi trovo in uno scenario che avevo talvolta sognato nella mia ignoranza. Riflettuto sulle implicazioni di questa ipotetica separazione. Sui graffi che ho ora veri sulle gambe, dalle infinita dita di campi e foreste. Spine scorrono nel mio flusso sanguigno che non conosce riposo, solo fuga. Ora chiedo, lo chiedo al cielo che comincio a vedere nel suo inscurirsi e annuvolarsi, pronto a ricevere la prima pioggia di cui la mia pelle si accorgerà: ti chiedo, cielo, cosa deve fare l’uomo della terra selvaggia? Io sono questa figura o scherzo di natura adesso, esiste, e la sua è un’esistenza di cui non si vedono passaggi, finestre, ricircolo d’aria; sono destinato a star fermo ora che non sono in fuga, e a riprendere la fuga dopo, per sempre alternandomi in questo modo? Raccoglierò con la mano la terra per nutrirmi d’essa, farmi crescere in viso una barba di polvere e lordura sempre più fitta su tutto il corpo? Che forse germoglierà, diventando l’uomo selvaggio oppure l’uomo verde che si dice viva burbero in mausolei profondi dietro gli intrichi che non si possono penetrare. Così farmi sfaldare dal vento quando come ora sto in piedi su un altopiano spazzato indiscriminatamente dal meteo, privo di barriere, se non la roccia che raffredda, intensifica la bufera, conferisce eco lugubre ai suoi ululati senza tempo. Morirò di fame?


Scavare per semi e vermi. Diventare bravo a stanarli. Ritornare agli alberi, cercando di fuggire l’incontro con belve e spettri pericolosi -basta scontri, se sono finito qui, perlomeno non devo rivivere le cose che ho abbandonato. E se riesco a fuggire, tornare con un bottino dalla foresta, un pugno di noci. Mera sopravvivenza. Vorrei chiedere al cielo se c’è un figlio tra il giorno e la notte, che non è né il padre, né la madre, né una somma semplice dei due, ma una cosa diversa. Se esiste una via che non sia il villaggio e nemmeno la desolazione del mio stato.


Ci sono delle stelle. O forse il temporale ha piccoli occhi. Posso solo accasciarmi e guardare qualunque cosa sia, forse questo è accettare. Vorrò del cibo, sarà la massima preoccupazione d’un corpo che si sente come dissanguato. Come se a ogni passo fatto per lasciarmi dietro il villaggio, rimasto sprofondato nel fondale di una distanza ormai inconcepibile, si fossero aperti degli squarci lungo la mia carne uguali alla violenza che avevo visto -no, che avevo generato. E da essi fossero colate in mucchi le mie viscere, nelle quali nessun aruspice avrebbe mai letto un futuro. No, uno l’avrebbero potuto leggere: la morte che attende tutto il regno animale, e infatti eccomi qua, nel cuore di questo regno.


Mi sembra d’udire un grillo unito al baluginare intermittente di quei puntolini oltre il nubifragio che scorre minaccioso e violaceo, carico d’elettricità. Ma è impossibile, qui salendo s’incontra un ibrido inverno che indugia privo di neve, e il freddo è troppo tiranno perché si sentano voci d’insetti nell’erba. Ho un pensiero improvviso: io, in quel momento, non avevo pensato a sopravvivere. Non posso ricordare la nebbia che mi aveva riempito tutto, ostruendomi l’azione e il raziocinio, privandomi di tutto quello che ero e che potevo essere. Rimaneva un’incoscienza, in cui non seppi ritrovare (e come potevo, sul “campo di battaglia”?) la forma del me stesso artista o mistico, lo sguardo vacuo perché si osserva l’infinito interiore o della bellezza. Invece un vuoto obnubilante il cui residuo era solo un desiderio di nulla. Mi viene da ridere pensandoci ora, una risata inappropriata, in un luogo dove le risate non sono mai esistite. Finalmente avevo “voluto” qualcosa, ed era stato solo quando una nebbia l’aveva voluta al posto mio. Egoistico annullamento, brama della scena terribile, morte fisica, e infine l’avevo creata con le mie mani. Compare adesso, indifferente a tutto, la luna, che nello sfiatato ultimo chiarore del giorno è un cerchio opaco come cheratina pendula di un’unghia morta. Galleggia come la testa di lei, bionda col sangue d’un’antica gente del ghiaccio nordico. Crine e occhi, pelle e lentiggini, segnavano in lei una storia dentro la storia nostra. Non era storia di marinai olivastri, né dei nostri bruni e rozzi antenati. I popoli s’incontravano nella nostra carne, per poi ignorarsi assorbiti in essa, per farvi vincere irrorata a fiotti questa irrefrenabile brama di combattimento, di gioco eroico, di poema epico. Combattevamo tutti i vicini e i lontani, correvamo sugli acquitrini e i boschi di questa fertile penisola ch’è la nostra terra di vitelli sacrificati, combattuti, baciati nei simboli. Alla luna questo non importa. La sua luminosità lacustre battezzerà capanne piene e derelitte allo stesso modo, gli umani come i rapaci notturni. E non posso sapere, ora lo capisco, se importasse a lei nel corso dell’evento. O a tutti quelli che guardavano, tutta la gente del popolo che si crede uno e che è invece tante cataste di teschi diversi sotto la terra, provenuti da tutto l’intorno che è il mondo d’una penisola, teso tra mari e barriere di monti, pirati e barbari.


Non lo sapevo perché il fisico reagendo da solo mi aveva schermato dentro e fuori. Non mi vedevo: chissà come dovevamo essere, tutti là ad affrontare nello stesso momento i giovani tori impazziti, cercando di strangolarli con le braccia attorno alle grasse collottole! Doveva essere stato un caos irripetibile e bellissimo, forse davvero uno spettacolo come dicevano. Nulla era più pericoloso che affrontare quegli animali, eppure quasi tutti i giovani sopravvivevano. Cos’era a renderli così? Io non vedevo, non mi vedevo. Non vedevo lei col fiato tormentato dalle due sole possibilità del destino che quella giostra evocava. Ma la vidi dopo e fu lei l’ultima e l’unica a cui parlai, prima di andarmene.



(come? Come si può volere che i figli, che portano nelle fertili membra il seme tanto celebrato, affrontino una simile follia? Una morte certa, non importa che ogni anno superino la prova, come potete non vedere che un disastro accadrà? Come non lo vedono le indovine? E quelli che muoiono, allora, sono solo carne gettata, sacrifici anch’essi proprio uguali ai bovini? Come si può dire che questo seme si fortifica e riproduce le stirpi soltanto se riesce a sopraffare l’avversità? Come potete ridere, accogliere gli ospiti viandanti, mostrare il volto d’una gente semplice e benevola, eppure custodire nel cuore, nel sangue famelico e ferino da esso pompato, il significato d’una festività così cruenta? Siamo i barbari invasori che incendiarono capanne e raccolti, che violentarono le donne, e infatti essi sono dentro di noi -guardatevi, guardatevi dentro! Ma la nostra tradizione è più antica dei barbari, era già in noi, noi eravamo incendiari e violentatori ancor prima di loro e di tutti, lo capite? Non è forse questo che affermate, anche voi cantori, quando dite che la tradizione ci fu data antica nella notte dei tempi, del primo falò del primo raccolto che diede soffio di vita ai nostri corpi d’argilla, sgorgata direttamente dal fallo di divinità campestri e silvane? È per tutto questo che a me restano solo due alternative, quella d’un corno trapassante il mio torace, o di veder stramazzare avanti a me una bestia per l’azione delle mie mani, portatrici della mia vittoria? Vincere, perdere, perché? Perché mordere i legamenti e i muscoli e i grassi rutilanti recisi dalla carcassa con un pugnale consacrato, perché alimentarci in un fuoco ciclico di istinto annientatore con i resti depredati da una cosa annientata in questa cerimonia senza senso? E se questa è la verità degli dei perché la vogliono? Perché fortificare questo seme, perché riprodurci?)


Alla fine sono solo una delle facce del giovane, creatura informe che si disorienta in mezzo alla moltitudine di queste, indeciso su quale indossare. E la mia faccia, quella dei tormentosi interrogativi, dicono gli anziani e dicono i sapienti, evaporerà, con tutto il resto. Con le ossa e con la brina, con tutte le cose che non lasciano tracce sul paesaggio, ma solo ombre effimere nella memoria.


Il torello in carica fu squarciato vivo. I più vicini erano zuppi di sangue. Combattenti e tori, tutti accecati da uno zampillo improvviso, compromessa la loro lotta. Forse anche in questo c’era una natura sacrilega, il mio comportamento si era infiltrato nelle lotte personali degli altri, le aveva inquinate… ma ancor più urticava gli olfatti il tanfo che si levava al limitare del recinto, gli spettatori più appassionati che si erano allontanati dall’anfiteatro assaporavano nelle bocche aperte un misto di sangue e grumi di tessuti infranti. Non ci fu nemmeno un grido.

Nessuno aveva compreso e io per ultimo. Ma sciacquato a manate forsennate lo schermo rosso, vivo che mi colava in veli dalle sopracciglia, non vidi avanti a me il corpo stramazzato e integro di una bestia, come doveva essere un avversario sconfitto per sfinimento. Una carcassa indistinguibile, senza un davanti e un dietro, giaceva distrutta, aperta, e il sangue che scrosciava con un fragore piovoso non cessava di gettarsi dalle vene recise, senza ragione, come un incantesimo macabro. Era stato il mio braccio? Mi guardai gli arti, sopra e sotto, il loro palpitare: erano rossi, sporchi di brandelli, ma erano uguali a come erano sempre stati. Non c’erano artigli sulla punta delle dita che potessero lacerare così brutalmente, rendere insignificante un corpo coriaceo, uno scheletro robusto. Non c’era ricordo in me degli istanti passati, di una mia mossa. Solo gli ultimi barlumi attraverso le vene come di una inspiegabile energia che andava esaurendosi, testimoniando solo d’esserci stata in un lampo, ora sempre più flebile. Una cosa impossibile, e le cose impossibili erano, ancora entro i confini del villaggio, magia nera.


Presumo che le indovine e i sacerdoti indignassero, lanciassero rimproveri e allarmi di cose funeste, quando sbocciò la prima confusione. Tornavo a vedere, arrancando letargicamente da foschia che tardava a diradarsi, ma in cui potevo intuire i contorni e la vaga presenza di espressioni sconvolte, facce dissennate. Non so se vedessero in me un mostro, una potenziale minaccia. Ma forse la verità è che a spaventare non era stata una forza improvvisa e inspiegabile, magari una rabbia pazzoide, che doveva avermi colto imprevedibile, con conseguenze così estreme; era invece il modo in cui si presentava quella carne. Non c’era in quella macellazione ciò che ritenevano giusto e normale alla vista di quella che era sacrificio e nutrimento. Eppure in entrambi i casi c’era una bestia morta di cui non si chiedeva il parere, del tutto indifferente al fatto che una modalità fosse ritenuta più rispettosa. Non saprei spiegare cosa fossero i presagi così terribili che vedevano in quello scempio, che certo mi stupiva, ma che era pur sempre uno scempio come tutti gli altri. Vedevo un lembo vischioso di carne inflaccidirsi e gocciolare a profusione, sfaldarsi da un telaio di costole sbriciolate, ed era certo disgustoso: ma lo vedevo come l’essenza stessa di tutti gli eventi. Solo le mosche sembravano apprezzare in egual modo il sangue consacrato quando era nella vasca o quando si manifestava così.


Parlarono poi i ministri. Funzionari legati ai capi, cose del villaggio di cui non si hanno eguali nel luogo in cui mi trovo ora. Hanno il potere di prendere nelle mani un aspetto morale contenuto in parole, profezie e responsi delle figure intermediarie del sacro, e applicarlo nella vita pratica. Non c’è dubbio che allora in quel caso formulassero con pompa ed elegante dispotismo le motivazioni e la messa in atto del mio esilio. Un linguaggio pregevole per un contenuto estremista, nel quale si rivelava il destino che gli uomini aventi troppo potere sugli altri avrebbero potuto decretare su tutti, conferiva invece autorevolezza a qualunque decisione. Così gridavano, e in quelle grida c’erano la paura, l’odio, l’offesa, tutte unite e rinnovate d’energia nella forza di un’implicita unanimità di voto, dell’essere un solo cervello.


Per me erano estranei. E ora la realtà interiore era soltanto venuta a coincidere con quella delle influenze esterne, quell’orribile flusso mutevole e imprevedibile, insidioso più d’un fiume che si riempie di mulinelli all’improvviso dopo essersi imbarcati in tranquillità. Negli estranei che per questa reciprocità d’immagine e corpo s’erano tutti mutati in fantasmi vaghi e persecutori, erano compresi quelli del mio sangue, i vari clan ramificati, che ammutoliti serravano occhi labbra e tutto quanto, adombrandosi la fronte corrugata e china. L’unico modo per non cadere nella vergogna e preservare l’onore, non erano rattristati o delusi da ciò che avevo fatto (qualunque cosa fosse): ora loro non mi riconoscevano, ed era naturale come il sorgere del sole che me ne andassi via, scomparire per sempre dalla vista degli uomini. E c’erano a urlare e pronti a sputare anche quelli di quell’altra famiglia, con cui procedevano i rapporti, degli sguardi che m’ero sforzato di dimenticare perché già si mormorava che io…

Vidi lei, il volto fluttuante ancora, anche in questa situazione assurda. In apparenza come se non fosse cambiato niente, come si fosse alla collina dei ruderi, venendomi incontro col disco lunare della faccia chiara e bionda attraverso l’incorporeità d’aria e prato, di tutto quanto. Ma nel fremito, così poco astrale, delle guance e delle ciglia, affioravano in superficie un profondo turbamento e, mi sembra, quasi l’amarezza per un’ingenua nostalgia che viene infranta, resa impotente ed effimera contro un presente così turpe -e di cui ero addirittura io l’incarnazione, io col mio cosiddetto gesto, io che invece il presente avevo smesso di percepirlo da incalcolabili giorni, incalcolabili notti d’incubi di abitazioni in rovina.


Non lo sopportai. Per un barlume mi sembrò di vedermi riflesso in una pozza di liquame denso e ribollente, sangue sudore e letame. Nella mistura purpurea e nera mi percepii cambiato nei contorni, tumefatti dallo sforzo, mi piacque vedermi mezzo bestiale. E se in corpo e anima c’era una condivisione, dovevo esser proprio un uomo diverso -alla fine, vedete, l’ho compiuto il mio rito di passaggio, mi sono trasformato! Simile al dolore lieve e brulicante di quando mi crescevano le ossa e i peli, mutando d’altezza, riempendomi di fenomeni prima dormienti, si spargeva anche in quel momento in ogni mia cellula un brivido, la cosa più irrazionale che abbia mai provato e che sia mai esistita. Una collera che a mio vedere era molto peggio di ciò che mi aveva dato la forza demoniaca d’un momento fa, dimenticato e mai più recuperabile giacché è custodito solo negli occhi scandalizzati e la memoria di quelli che lo videro da fuori e che per me non esistono più.


Volevo vendicarmi di lei, di quello sguardo che l’aveva presa, anche lei mutata. L’iniziazione dei giovani uomini s’era espansa alla comunità, vedevo, fanciulle e bimbe e vecchi, tutti cambiati, eh? Non c’è quello sguardo puerile e languido sotto il pallore del plenilunio, i discorsi sospirati, la mia vocazione poetica… cosa credeva, che l’avrei presa per mano?! Erano autentiche quelle stupide sere, quel gioco di due solitudini a far finta di legarsi? E in cosa? In una crescita insieme, è questo che volevi? Ebbene, vedi come sboccio! Ecco nascere l’uomo dalle spoglie del ragazzo! E la morte dalle spoglie del toro!


Esplosi un delirante monologo per la folla, anzi solo per lei, o quella che credevo d’aver visto -l’ombra dell’ombra dell’espressione e i sentimenti di lei, ciò che mi giungeva rarefacendosi. Ricordo che ruggivo, schizzando bava bianca, “ti piace la mia poesia? La mia opera visionaria?”, cose simili, ripetutamente. La mia potenzialità creatrice, sciocca ragazzina, ecco che cosa produce: lo vedete lì sulla misera terra. Pure i bovini accecati indietreggiano spaventati, pure questi virili eroi della gioventù coi pettorali che palpitano di rabbia, di difesa del popolo e del giusto, come cani da guardia agli stipiti. Tutti pronti a scattarmi addosso se non fossi sparito all’istante! Credevano che schiacciandomi avrebbero risolto la festa, ripristinato il suo spirito dissacrato. Restituito la benedizione al sangue che io avevo maledetto, e di cui invece sono convinto avessi solo mostrato il vero colore: la verità s’era sprigionata dalla mia mano. Sarebbe stato troppo patetico vederli accanirsi su di me con la loro forza bestiale e credo che per questo mi voltai subito, diretto agli alberi lontani, ai sentieri più scoscesi per andar oltre le guglie di roccia, valicarne file infinite che erano ai confini d’altre vite. Non so come ho fatto, né di quale aiuto possa essermi una simile “verità” da queste parti: ciò che ora mi indigna quasi quanto io avevo indignato loro, è la fame che mi cresce sempre più nelle viscere, e che mi sembra spaventosamente assomigliare a quell’energia irrazionale e portentosa che aveva capovolto la mia esistenza, appena pochi giorni fa. È ormai notte, e forse non conoscerò nei prossimi giorni molte occasioni di riposo sotto le scie siderali, in cui possa rammentare, giungere a conclusioni. Vagherò alla ricerca di cibo, acqua, e riparo.

Post recenti

Mostra tutti

Comments


  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn

©2020 di DH Jazz. Creato con Wix.com

bottom of page