studio delle acque
- Milky
- 5 mag 2022
- Tempo di lettura: 23 min
È rimasto a osservare il vaso di fiori sul tavolino basso. Evito lo sguardo, continuo a far precipitare il mio diagonalmente verso un punto preciso ad angolo tra l’armadio e uno spazietto sporco del pavimento, segnato da un geometrico alone di polvere come se ci fosse stato uno zerbino fino a poco prima. Ma se evito lo sguardo, cerco invece alcune cose che stanno intorno a questo. È il primo visitatore della giornata, o… no, gli altri li ho dimenticati. Ci saranno state cose, delle forme, che si sono introdotte nella mia stanza, nella mia coscienza, e hanno pronunciato saluti. Non so cosa hanno pensato, non so cosa hanno provato. Ma sicuramente, nel momento in cui si sono presentate -ammesso che l’abbiano fatto-, sono stato in grado di vedere “quelle cose” che si collocano attorno agli sguardi. Li cerchiano, striature e maculature di animali elusivi uscenti da una boscaglia. Da quelle ombre fresche vengono a trovarmi. Senza nemmeno che coloro che portano questi sguardi sappiano niente di come arrivano qui. Per loro si sarà trattato di autobus, tram, parcheggiare. Per me no. Questo edificio, il lago che vedo dal balcone, la stanza che non lascio mai. Il lume sporco che come un latte onnipresente avvolge le pareti del bagno. I rumori delle stanze vicine. Tutto questo fluttua in un posto diverso, separato dal resto. Per questo è facile che venga raggiunto dalle presenze che vivono in luoghi simili, posti scollegati che possono collegarsi tra loro. E i visitatori, i passanti, che dimenticheranno questa enorme casa così come io dimentico tutto, crederanno sempre di aver attraversato strade conosciute, usando magari un navigatore per facilitare la traversata di una mappa disegnabile, pensabile. Non se ne accorgono, quando le ruote cominciano a scivolare su un asfalto che diventa incolore, e poi scuro, e poi blu elettrico, come linee tracciate da un inchiostro cosmico, come squame del lago. Le auto vengono a nuoto, sollevando nel fendere le onde una miriade di gocce che proiettandosi nell’aria riflettono giochi multicolori della luce e si urtano per produrre una melodia simile a particelle di vetro. Quando scendono dai loro mezzi e si ritrovano attorno un parcheggio, protetto da ombrose magnolie, vedono un luogo reale. Ma è falso, sono già inglobati. L’ascensore li ingloba e li porta qui, da me, e anche da altri immagino.
Perché siamo qui? E cosa siamo, anime? Potrei fare questa domanda al visitatore, ma no, non potrei. Una cosa la so: non sono qui per parlare.
Vedo allora le cose attorno agli sguardi. Non si tratta per forza di cose “fisiche”, ma in certi casi anche questo fattore contribuisce. Per esempio, un certo movimento coordinato di rughe che si spiegazzano e restringono attorno ai bulbi, alle occhiaie, alle imperfezioni che differenziano le parti superiori dei volti, per quel poco di questi che riesco a percepire standomene con lo sguardo fisso a un punto. Il punto che perforo. So i nomi di tutti i granelli di polvere che si sono frapposti in quella cosa che chiamo “distanza”, tra me e l’area del pavimento rappresentante l’intero mio universo per la durata delle visite. In questo universo, irrompono le vibrazioni emesse da queste cose circondanti gli sguardi, vengono colte da me.
Dicevo, non si tratta solo di espressioni tangibili, cose che avvengono a livello della carne del volto. C’è altro. C’è che questa persona il proprio sguardo l’ha diretto al vaso di fiori sul tavolino, e questa scelta è perfettamente contenuta nel colore dell’aria che impercettibilmente cambia nelle vicinanze immediate -ovvero attorno alla collocazione dei due ricettori che usa per incollarsi nel quaderno dell’immaginazione le cose provenienti dall’esterno. Un vaso, lo registra. Vedo danzare i colori nell’aria e mi parlano in un linguaggio capace di comunicare tutti gli stessi concetti accessibili alle parole, e anche altri. So che sta guardando il vaso per farsi un quadro: sì, proprio un quadro. Questo è un quadro che lui, primo visitatore (davvero il primo allora?), si porterà dietro dalla giornata in cui ha deciso di venire a farmi visita. Ricorderà il palazzo, la stanza particolare, la persona particolare che la occupa e che per qualche motivo che non ricordo possedeva dei “legami”. Ricorderà odori, forse perlopiù sgradevoli (a volte io stesso avverto serpeggiare dalla linea lucente sotto la porta un tripudio chimico, che pare ingigantirsi percorrendo il corridoio in lunghezza). Ricorderà che c’era un vaso, oggettistica. Altri quadretti alle pareti, da inserire nel suo quadro. So questo, captandolo. Come osserva la bicicletta incorniciata, bianconera. Una foto di cavalli. Non ricordo molte cose, ma ricordo questa: quando una volta mi sedetti su questo letto sconosciuto, e chiesi se non si potesse avere la foto di qualche altro animale -non che abbia niente contro i cavalli- mi risposero che a parte i cavalli non si poteva proprio fare niente. Invece questo signore forse ci si sofferma, su questa faccenda dei cavalli, e si inventa altri “legami” che io avevo con loro. Per quanto si sbagli non mi turba, ma una piccola e obliata parte di me deve esserne invece turbata per qualche motivo, altrimenti non sentirei l’esigenza di precisare con me stesso il mio disinteresse. In ogni caso il mio ruolo è conforme a un silenzio che mi è comodo, a un atteggiamento in cui non si impedisce nulla a nessuno. Se è così che vuole pensare, io devo dargli l’opportunità di pensarlo. Sono qui per essere osservato impotentemente, forse è questo il senso della parola visita.
Credo di poter dire che quel vaso non gli dispiace. Deduzione dai colori di cui capto la danza simile a un disfarsi di scie di neon sotto ali d’insetti e pollini bioluminescenti. C’è un individuo che apprezza i fiori, i loro profumi. Io non particolarmente, a essere sincero. Ma sono nella mia stanza, mi ci abituo, li accetto. Una cosa che si può apprendere in questo posto è proprio il modo di accettare le cose che stanno attorno, apparentemente senza alcun motivo.
-comunque il lago è una bella vista, no?
Mh mh, faccio io. O forse ho dimenticato di farlo. Che importa? Che io lo faccia o non lo faccia, quello là capisce che è tutto quello che volevo dire. Non avrei altro da aggiungere, e sa che è così per ogni cosa gli venga in mente di dire. Non viene per ricevere grossi pareri, forse nemmeno la chiama conversazione. Ma immagino che riesca a carpire qualcosa di sensato anche da questa cosa del tutto strampalata.
E io? Riesco a carpire qualcosa?
Una notte, dopo una tarda visita -me lo ricordo ancora-, sognai di essere seduto in un’automobile. Chissà poi se l’ho mai fatto, quando mi trovavo nel mondo collegato…? Comunque, ero al sedile del pilota, ma la macchina si guidava da sola. Scivolava su un fiume di lampi blu e gialli. Pinne spioventi e mosaicate di pesci emergevano talvolta dai flutti accompagnandomi ai lati, e bocche e occhi si aprivano quasi sorridenti sui loro fianchi, simili a branchie. Poi sparivano sott’acqua. L’acqua che non sembrava acqua, sembrava un tipo diverso d’aria, o un arcobaleno di un altro mondo. Forse di un pianeta come venere, se lì ci sono arcobaleni. Non sapevo molto del posto che vedevo. Certi alberi altissimi a certe curve si chinavano, quasi a raggiungere col fogliame carezzevole la mia imbarcazione, e a cingere il fiume intero. Poi sparivano, si diradavano, ricomparivano. Non sapevo riconoscere altri elementi, forse qualche stella qua e là, in un cielo che non sembrava né giorno né notte. Ma sapevo che una piccola luna può manifestarsi anche in torridi pomeriggi, e spargere come polvere bianca di falena frescure e impressioni lontane di ghiaccio astrale formato sulle superfici di deserti bianchi. Questi però non erano elementi che io riconoscessi -so che non esiste nel mio mondo il “riconoscere”, ma talvolta in sogno mi è capitato di vedere qualcosa e aver pensato immediatamente che potesse trattarsi della sensazione provata in quei casi. In questo sogno no, ma una cosa la sentivo con convinzione: stavo tornando a casa. In un appartamento, precisamente. Con un tappeto, una poltrona, un quadro sopra un divano, un coso rotondo, con sopra una lampada a forma di vaso, o un vaso a forma di lampada. Sulla poltrona mi sarei seduto e avrei ricordato cose precedentemente carpite.
Ricorderò, se dovessi ricordare, con una specie di strana affezione la maniera in cui questo tizio si interessava al vaso, simile quasi a questo suo stesso interesse. Posso mettermelo in un quadretto: “l’individuo che nella mia stanza passa tre millenni (a sua insaputa) a studiare un vaso stretto di vetro verdeazzurro riempito di fiori bianchi e gialli”. Mi sembra una scena di uno di quegli artisti leggendari, con un’ossessione per degli oggetti particolari. Ci sono i loro quadri famosi, nati dalla visione, e poi i quadri di scene della loro vita, con loro stessi dentro, e la gente che li “visitava”. Opere anche queste amabili.
-e poi sentirai pure gli uccelli…
Mh mh, dico forse.
-non è mica male, eh. Pensa quelli dall’altro lato, che non vedono il lago.
Immagino un silenzio, all’improvviso. Forse assomiglia al suono che rimane qua quando credo di aver risposto “mh mh” e invece non l’ho fatto. Caspita, ha davvero un suono così ovattato? Spero che non faccia male al visitatore di turno, altrimenti potrei perfino fare un sogno in cui mi scuso con qualcuno -potrei scusarmi di persona se volessi, e non voglio, e non lo farei nemmeno mi trovassi in un posto collegato, diverso da questo. Solo loro possono ficcare messaggi in me. Però posso evocare questo silenzio, un cottonfioc gigante che va a strofinarsi sulla faccia e la pelle e gli indumenti, producendo un cigolio tormentoso. Dagli interstizi d’ombra annidati in questo silenzio rumoroso, si genera, in cumuli di polvere e nera nebbia, un silenzio mai immaginato prima, quello che provano le anime -del tutto ipotetiche- che risiedono dall’altro lato dell’edificio, privo di vista sul lago.
-e il mangiare anche sarà buono.
Mh mh, mh mh.
-si vede che stai meglio.
Mi chiedo quante altre cose abbia da dirmi.
Mi mette una mano su una spalla, a un certo punto. Probabilmente con l’intenzione di lasciarmi qualcosa, farmi “carpire” qualcosa. Lui se ne tornerà in macchina, tuffato nel fiume che lo riporterà ai fiumi collegati, mediante un collegamento solo momentaneo, e non si accorgerà di niente.
Io invece mi accorgo di essere un falco pescatore quando mi tuffo in picchiata, impercettibilmente e con solo una porzione minuscola della mia capacità di vedere, nei flussi luminosi generati dall’area attorno al suo sguardo.
Sento una mano, sento delle pacche. Mi ricordano l’esistenza della stoffa marrone scura che indosso, sembra tweed o qualcosa del genere. Righe bianche e marroni, cioccolate del mondo. Sbuffi d’amichevole polvere che si levano a ogni colpetto, significato dell’affetto. Forse questa operazione mnemonica può corrispondere alla volontà di farmi sentire qualcosa che questi gesti rappresentano? Dice altre robe, esegue, fa dei brevi massaggi alle spalle. Io rimango seduto, perché questo sono, seduto e in silenzio. E ben protetto dal freddo, e dal lago, e dal ben mangiare, a quanto sembra. Mi accorgo di essere anche su una sedia di legno, molto comoda. Già, tutto parte del quadro.
Gli stivali -forse nel mondo da cui viene piove- cigolano evitando i bordi del tappeto sporgente per un breve tratto da sotto il letto, esitano attorno all’uscio, si voltano. Allora ciao, ciao, mh mh, un rumore di porta, un altro rumore di porta consequenziale al primo, e poi tutta una serie di rumoretti, tutti presumibilmente consequenziali, ma scomparsi tutti in un disordine che mi annuvola sempre le tempie e dentro le palpebre ogni volta che qualcosa del mondo raggiunge numeri superiori a due o tre, o mischiandosi in poliritmie troppo complesse. Il tizio se ne va, la visita si conclude. Sparisce nel mondo che c’è al di là della porta, chiamato corridoio, ancora parte di questo mondo scollegato, e in una parte a sua volta scollegata rispetto alla mia visibile. Perché io non posso alzarmi. Se so che c’è è solo perché molte cose le so senza saperle, le so e basta. Non riesco a carpire alcun rumore del suo allontanamento, da sotto la porta. Nemmeno gli odori chimici, o l’odore di pioggia e di peli che mi accorgo adesso che si era portato addosso. Per me lui è già nel suo fiume, già nel suo appartamento del ritorno a casa, e di conseguenza già nella fossa in cui finirà quando avrò dimenticato quasi ogni cosa della sua giornata oggi qua da me, di cui lui farà un bel quadretto con un bel mazzetto di fiori in un vaso davvero ben scanalato, con quei suoi solchi e creste lungo l’altezza del vetro stretto. Mi ha lasciato sentire, come ultima cosa, il rumore della porta che si chiude. Non è niente male: mi sembra possedere un gran significato, anche se non riesco a capire quale. Noto che la polvere invadente la “distanza” tra me e il punto del pavimento che foro con lo sguardo per scavare una galleria ha cominciato a vorticare in maniera un po’ diversa. I granelli assorbono sussurri lontani del lago, i suoi uccelli d’acqua, i raggi del sole, e la porta che ha sbattuto. Tutto questo, decido, è quello che alcuni chiamano, nei sogni che ogni tanto faccio, “ore”, “minuti”, “secondi”, “questo pomeriggio”. Un visitatore mi ha fatto carpire il tempo, me lo dimenticherò e me lo ricorderò in alternanze imprevedibili.
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Seconda visita. Nella mia stanza è entrato un odore.
Nella mia mente compaiono masse quasi rotonde d’oggetti sfilacciati. Hanno contorni imprecisi, sfumano l’una nell’altra, ma compattandosi danno l’impressione di palloni soffici. Fuoriescono dallo squarcio di un divano, e sento polvere, naftalina, l’odore di queste piume. E di esseri da cui sono state staccate. Colorate di bianco per sembrare d’oca.
Ho un nuovo istinto: guardare la persona che entra. Per la prima volta alzo la testa, non mi concentro sul punto che fisso in continuazione. E nell’istante successivo, rendendomene conto, sento un fruscio freddo spiraleggiare attorno alle pareti del cuore, e afferrarlo, e farlo sussultare per pochi lunghissimi secondi: è un’apprensione mai sperimentata, quella del dubbio che, terminata la visita e tornato alla mia occupazione, possa trovare del tutto svanito il lavoro di scavo compiuto finora. Ma so che non posso preoccuparmene oltre, per il momento. Ho fatto una scelta, quella di guardarla. Lei è sulla porta che ha aperto rumorosamente, con una folata di vento, e una folata del suo odore di divani e stoffe e sporcizie e piume dai colori autunnali. C’è un personaggio nel mio campo visivo. C’è una realtà traboccante d’amarezza che dovrò affrontare in un altro momento nel mio campo non visivo, la paura di dover ricominciare la mia opera. Non me ne occupo ma continua silenziosamente a tormentarmi, come uno spillo conficcato, come la marea che continua a salire mentre il guardiano del mare è dovuto scappare lontano.
Lei non esita, è coerente con l’irruenza esercitata nell’aprire la porta. Creare un’apertura nel mio mondo, renderlo vulnerabile, penetrabile dalle forze esterne. Vedo la prima donna che ebbe l’idea di raccogliere un teschio di bianco cristallo d’ossa, un tempo uniforme come una gemma, e praticarvi dei fori per farci stare occhi e denti e robacce. Deve tenere nascosto, da qualche parte in quelle maniche assurdamente enormi, un punteruolo. Mi ricordo delle mie gambe: le struscio sul sedile ligneo, si agitano in un automatismo pronto a scattare. Ma sono l’unica cosa di me che si comporta in questo modo, e soltanto perché la sospettata presenza del punteruolo impone una reazione del genere: tutto il resto, tutto ciò che io sono senza gambe, ha il permesso e la libertà di sentirsi a proprio agio nell’osservare questa donna. Una cosa nuova.
È alta, i suoi abiti sono grandi, assomigliano al calore amicale cosparso da grandi tende traballanti alla brezza in un giardino di giochi. E soprattutto continua a portarsi dietro ombre di cose che non sono con lei -vedo subito ondeggiare uno pneumatico legato da una corda appesa all’albero del giardino, vedo subito la polvere di terra che le ricopre le caviglie, in realtà coperte e invisibili. La gonna è lunga e degli stessi colori, arancio e bruno e melagrana. Nelle vesti nasconde la sua età, e chissà quante cose. Siccome è coerente, ha già richiuso la porta dietro sé. Il suo ruolo di espormi, debole contenuto molle svelato da una finestrella del guscio, è compiuto. È vicina a me, sento il suo odore. Non è lo stesso di prima, di quando ha aperto la porta -o meglio, c’è anche quello. Ma un odore strano di pelle strana. Lei certamente non è la personificazione di un divano, come avrei potuto credere. Quando si china per salutarmi da vicino, forse dandomi dei baci (troppo assorto in riflessioni su di lei per accorgermi di lei), alcune delle piume che stanno attaccate per qualche ragione alla scollatura mi sfiorano il petto, lo solleticano anche attraverso il tweed. Avverto un altro solletico. Possiede una coda, o qualcosa che la accompagna nei movimenti, invisibile? Una specie di seconda forma.
Sono stati capelli ad avermi solleticato. Neri e stopposi, lunghissimi. Da un copricapo simile a una barchetta di cartone fradicio ricadono ondulati, ma ordinati un due schiere di tendine precisamente bipartite. Ombra di una cosa che non fa vedere: la riga che separa i capelli nascosta dal copricapo-barchetta, quella striscia nuda di pelle me la figuro scorticata e percorsa da escrescenze rosseggianti, ma abbastanza piccole da non gridare l’allarme di una malattia. Un’eco molto soffusa di simili macchie appare sparutamente in qualche tratto del volto, in forma di rossori delicati e circoscritti, e un generale colorito roseo che aleggia dal naso all’area coperta dagli enormi occhiali.
La sto guardando e mi accorgo che si accorge che la sto guardando. Forse sono io ad arrossire. Lei è una di quelle il cui colorito roseo può anche intensificarsi, ma è impossibile dire cosa questo arrossamento significhi, o se significhi qualcosa. Direi che è imperturbabile, e ogni suo gesto è sicuro. E fa ondeggiare le maniche, e i capelli, e le cose che non ci sono. Mi accorgo che mi viene il mal di testa se comincio a pensare a come mai sotto gli odori di pelle e di divano c’è l’odore di un fagiano.
Io l’ho guardata, so descrivere una persona. La prima a distinguersi dalla bruma di coloro che vengono a farmi visita. Sei un disegno, una figura angelica? Perché mi sono svegliato solo per te, solo per vedere la raffigurazione di questo corpo e questo insieme di strane presenze da te evocati, che nel complesso rappresentano la cosa chiamata “tu”? O forse non è questo il modo in cui ti si dovrebbe chiamare.
Estrae un fazzoletto, fradicio come la sua barchetta. Ma a vederla da vicino (la donna si è di nuovo avvicinata a me, dopo aver brontolato cose che non ho sentito), non è affatto fradicia questa barchetta. È solo fatta in modo da sembrarlo. Il fazzoletto sì, quello è inumidito e freddo. Lo sento premuto sulla mia fronte, stillare una lacrima veloce che in un attimo sorvola le labbra e il mento, cadendo si infiltra tra la maglia e il petto. Getta le pazienti basi per l’edificazione del primo stalagmite toracico, un bellissimo tumore osseo rivestito di pelle. La mia pelle… ma lei la vedrà diversa? Perché la sua pelle è rossastra e la mia è……. come si chiama questo colore? Stanco?
-ma guarda un po’!-, sbuffa lei, e mi tampona la fronte. Cosa ho fatto? Chissà cosa ho fatto. E lei è paziente, è spazientita, e non mi chiede di scegliere una delle due. Sai che gliene frega a lei di cosa scrivo nel mio diario. Potrebbe accettare e criticare ogni cosa ci scrivessi, perché accetta pur criticando ogni cosa. Così ho stabilito.
Perché l’ho stabilito? Perché so molte cose solo sapendole. Perché prima leggevo le cose circostanti lo sguardo. Ora lo sguardo mi proietta un’immagine di qualcosa che si muove, e che sbuffa, e che viene qui per compiere una serie di azioni, consapevole dall’inizio alla fine del peso specifico che assumono qui dentro e all’interno delle regole che solo qui appaiono. Forse lei non sa, come tutti, di arrivare qui attraverso un fiume strano, ma certo il suo modo di comportarsi risulta inevitabilmente opportuno, impossibile da considerare ingenuo nonostante tutto ciò che ignora. La sto forse ammirando?
-pure su tutto il mento!-, mi tampona gli angoli delle labbra. Io, come un pesce sconfitto, lascio che queste si aprano, e rimangano a ondeggiare lì come stregate in quel flaccido cerchio d’aria che occupano.
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Terza visita. Ma stavolta non imparo niente, come la prima. La prima: giorni fa? Mi giro perché mi sembra di ricordare che c’era un calendario, rettangolo di carta bianca con specie arboree guardiane dei mesi. Mi giro e c’è il quadretto con i cavalli, il quadretto della bicicletta, sassetti su comodini, prese di corrente. Mi giro, e ci sono delle macchie sul muro. Capisco che delle cose che erano appese sono state rimosse, e dalla natura di altre di queste macchie capisco che l’umidità del lago s’irrora dalle fondamenta ed è costitutiva di tutto quanto è edificato, tutto quanto lascia scorrere l’acqua al suo interno. Sono anch’io un essere fatto al 70% di lago. Per anni guardandomi dentro ho osservato i movimenti dei pesci d’acqua dolce, e cerco di crear loro un tunnel attraverso lo sguardo: lo nuoteranno e si materializzeranno lì, nel punto del pavimento che fisso. Allora io e il mondo saremo una sola cosa e i pesci miei si ingloberanno a vicenda coi pesci di tutti, col fiume che conduce quaggiù.
La prima visita, quand’era?
Se imparo qualcosa, forse è solo questa: il rimpianto. La prima visita nemmeno aveva un corpo. Mah, era una voce che fluttuava da qualche parte in questa camera. Eppure i suoi passi devono in qualche modo essersi impressi sul tappeto, per il poco che l’hanno sfiorato. Lo so, perché so che se mi chinassi, sopportando dieci inferni concentrati nei nervi della mia schiena, e annusassi il solo suolo che conosco, avvertirei minuziosamente l’interferenza, il fatto che c’è stato qualcuno. E ha sparso pezzi di sé, diversi dai pezzi di me, e della stanza (non è ancora una stanza di pesci miei, ma vivendoci chissà da quanto, il processo di assomigliarci reciprocamente si è parzialmente già instaurato per inerzia d’esistere in simbiosi). Quindi la terza visita ha lo scopo di farmi ripensare alla prima?
Mentre penso tutto questo, in attesa sui miei soliti legni incrociati che non cambiano mai, cara sedia mia, una musica si diffonde. Ci sono degli altoparlanti in questa struttura, nelle cui vene il lago scorre. Sbocca forse da fauci di gargolle, non so. Non ho mai visto l’esterno e non lo immagino, perché non ha alcuna importanza: non ne potrei mai ricordare i dettagli. Conosco solo i pilastri fondamentali delle coscienze delle cose: mi basti che c’è un edificio, si erge presumibilmente nei pressi di qualcosa di simile a dei giardini, c’è certamente un parcheggio, ci sono certamente tonnellate di ghiaia e di anonimi fili d’erba, e c’è un lago, che si estende, la macchia fresca di tutto l’orizzonte. Poi il sole e la luna e le altre cose, suppongo. Immaginati questi fondamenti, che importa lo stile architettonico di tutte queste cose? Basti sapere che da qualcosa riescono a far sboccare la musica e l’acqua interiore. Gargolle-altoparlanti che come un singolo geometrico filo di bava ben calibrato fanno fluire la sequenza di note. Si chiama Avril 14th, sostituisce il mio calendario con uno pseudomese. Il pianoforte sembra antico, sembra la composizione che attendeva d’esser scoperta passando per le dita di compositori senza nome, tutti morti, rimasti nei flutti scuri della storia. Si tratta di affluenti che certamente penetrano nei laghi, scorrono nei loro fondali.
La musica scorre in loop dagli impianti audio che s’acquattano negli angoli del soffitto, a sorvegliare corridoi più efficacemente di sistemi di sorveglianza. Nidificano poi sui cornicioni. Solo stando dentro, senza mai uscire, si avvertono i moti del loro animo -si è immersi in questi come si è soggetti a tutto quanto permea l’interno dell’edificio. Quindi comprendo che il loro umore dice di accarezzarmi, cullarmi. Sulla sedia sto sbracato e a occhi momentaneamente chiusi ascolto. Poi li apro e scavo un punto “distante” del pavimento. Poi arriva la terza visita.
Considero il suo scopo. L’ho intuito, o forse lo capisco soltanto una volta che è già diventato passato, e questa intuizione che sento non è altro che l’eco che da quel momento procede a ritroso per venirmi incontro, a farsi lascivamente toccare dai miei giochi mentali bramosi di quei momenti di chiarità in cui i piani temporali si compenetrano. Senza caos, senza promiscuità. Ringrazio me stesso e il caso, non lo faccio spesso, ma mi hanno donato un momento di questi. Forse per questo la bestia artiodattila che entra in camera mi trova in uno stato semiestatico. Mi vedo riflesso, nel lucido beige striato di venature dei braccioli della sedia. Sprofondo godereccio, e vedo scomparirmi il sorriso. Non importa che sia un non-umano a visitarmi, questa volta (lo so, perché sento una cosa che se fosse un odore sarebbe una puzza d’animale, ma odore non è -non si tratta mica della seconda visita!). Non importa che nemmeno riconosce i sorrisi o gli altri disarmanti contorcimenti del volto, io non devo mostrare sorrisi a chi entra. Non devo mostrare sorrisi nemmeno al punto che sto cercando di scavare, il quale, per poter esistere, deve concepire da me nient’altro che il mio intento di scavarlo. Farò bene ad annotare questa parte per non dimenticarla. Potrei ricevere qualche difficoltà se rimuovessi dalle mie regole interne tutti i riflessi delle regole che vigono in questo spazio. Regole del lago, dell’edificio, etc, etc…
Non dice permesso, non bussa. Per forza, è un’asina. O così l’ho battezzata, perché mi piace chiamarla in questo modo. Questa è un’altra cosa che non ho mai fatto: battezzare. Sta a vedere che anche dalla terza visita imparo qualcosa che è un po’ più del “niente” di cui sono stato certo fino a poco fa. Mi giro, vedo i cavalli e mi viene quasi da ridere, ma non so perché. Mi distraggo un po’. Mi si fa un campo arato nella testa. L’asina intanto si è avvicinata, e dopo un po’ cerca la mia attenzione. Decido che tutto il regno animale si comporta in questo modo. Il loro mondo è un mondo che corrisponde a quello delle azioni, dei gesti. Le piante sono il linguaggio, invece. Non ricordo dove l’ho letto. E all’improvviso sento un profumo di limoni provenire dalle vicinanze, dal carico multiprotuberante che l’asina lascia servilmente gravare sul suo dorso ricurvo. Limoni e urina, odori, ma non veri odori. Se l’asina parlasse, mi direbbe che lei non è venuta per farmi recuperare una facoltà che ho già recuperato, ma per fare qualcosa di complicato tipo darmi qualche grattacapo di natura metaforica.
L’asina parla.
-non devi chiamarmi asina, preferisco che mi chiami “mamma”.
Non me lo aspettavo ma questa è la natura degli animali, delle azioni, degli imprevisti, la natura metaforica, e tutto il resto. Però a questo non so proprio come rispondere!
-vuoi cominciare a rispondere proprio adesso, dopo che per tutto questo tempo non hai mai risposto a nessuno?
Ohé, e basta un po’, dai. Già mi aveva fatto venire il mal di testa, col fatto che parla e gli occhi rimangono fermi, biglie di vetro cerchiate di sangue. E poi ha detto, “dopo tutto questo tempo”, e per quanto cerchi d’essere metaforica e impartirmi lezioni, a me sembra che questa espressione non abbia affatto un significato collegato a qualcos’altro. È un significato che fluttua in isolamento come questo mondo in cui finii chissà come e che ho abitato senza variazioni fino agli istanti che racconto, gli istanti che annoto nelle mie pagine, gli istanti in cui m’addormento e le pagine sono già chiuse e riposte in un cassetto.
-macché impartire lezioni!-, dice raucamente con un respiro tabagista che non esiste, toccandomi un udito che non ha niente da udire (come con gli odori, stessa cosa, tutta l’asina -o mamma- è così). Lo dice leggendomi il pensiero per la terza volta e senza che io mi senta turbato. Mi sa che solo lei può farlo. Ci avesse provato un altro, avrei spaccato a bracciate le mie pareti di silenzio e disinteresse, mi sarei alzato perfino dalla sedia e avrei cominciato a scalciare, graffiare e mordere a destra e sinistra, diventando una scimmia. Per qualche motivo l’idea che uno venga qua a dire, ad alta voce, quello che ho pensato senza voce, mi fa incazzare al punto che potrei demolire questa intera costruzione, farne un cumulo di sbriciolatura smarrita nel chiedersi perché sia esistita.
-non sono qui per impartirti lezioni, ma devi bere.
E a quel punto dà uno strattone a un fianco, rendendolo curvilineo alla maniera delle veneri preistoriche. Sul lato spiovente della pancia quasi tonda oscillano i recipienti di un materiale simile a vetro, lì allineati e appesi mediante ganci del tappo a delle funicelle calate come tante liane dal fardello. Si urtano appena tra loro in un domino di breve durata che produce una gentile musica percussiva, foriera di calma. E il liquido contenuto all’interno scintilla per un momento nei miei occhi, e vedo i miei occhi scintillare nei riflessi dello pseudovetro e nella polpa nascosta tra gli acquosi strati della sostanza. Bianca, giallastra, celestina? Assorbe vari riflessi e si notano frammenti informi, strani girini spermatociti che galleggiano e si disintegrano subacqueamente.
-non devi guardare ciò che devi soltanto bere. In tutto questo tempo non hai mai guardato. Non puoi guardare me adesso soltanto perché sono bella. Devi invece bere o, se preferisci, “prendere la tua medicina”.
Soltanto perché è bella. Dire che è bella non mi sembra un modo molto educato di comportarsi, indipendentemente da chi sia a dirlo. Eppure è vero, tanto che la sto guardando. Non mi sono mai interessato tanto a un visitatore. Mi chiedo se sia già venuta altre volte, e se ognuna di quelle volte ho provato lo stesso strano insieme di cose che sto provando adesso. Somiglia ad affondare nel pavimento, in ciò che cela sotto. Vedo immagini confuse provenienti dalla mia quotidianità, immagini di cavalli incorniciati, di pastiglie sparpagliate dalla bocca di una boccetta, cassetti, pile di mutande piegate, sentori chimici, e pesci soprattutto, pesci del mio lago.
L’asina, cioè mamma, è bella, è al centro del mio sguardo. È sul suo bel pelo corto che continuano a ondeggiare le cose che devo bere. Lo lucidano, e il pelo lucida loro. Ha colore bianco, e riflessi d’argento simili a impronte di vecchiaia su una distesa di neve. Conosco la neve, perché c’è sui monti di un quadretto appeso. Mi sa che adesso però quel quadro non c’è più, sarà uno di quelli che lasciato solo una macchia. Non so come ho fatto a ricordarmene. Deve essere perché la neve è collegata a qualcosa, essendo fatta d’acqua. Collegata al pelo bello dell’asina. Il suo ventre rigonfio, incinta, no, soltanto gravida di litri d’acqua immagazzinata, una borraccia al posto della pancia. Attraversata da strisce, contorni dei peli minuti, e vene, e tensioni superficiali della muscolatura. Tensioni discendono generando quattro nodose zampe troppo sottili per sorreggere i movimenti sobbalzanti, destra e sinistra, in cui il corpo-imbarcazione sovrastante scivola di continuo al ritmo dei passi. Io però non l’ho sentito. Pensavo ai cavalli dentro il quadretto quando lei si avvicinava e faceva schioccare la scorza metallica degli zoccoli in contrappunto quadrupede sul pavimento. Posso vederli adesso, ma non è che li veda (perché come l’odore di piscio e limoni, e perché come la voce e il respiro, etc, etc……). Senza vedere ammiro ciò che vedo e vedo in particolare che è un materiale lucente, e sporco ai bordi di nobile ruggine del suolo. Stabilisco che gli animali marciano a lungo, sulle lande o sui fiumi indifferentemente. Si vedono macchie rosse qua e là, sotto la pelle. Sono il caldo della traversata e morsi d’insetti e i dubbi, anche gli animali ce l’hanno. Sarebbero la parte repressa e nascosta, ma ce li hanno. Guardo in faccio questa bellissima portatrice ignara di dubbi: non è certo un’asina, ma la chiamo così, non è nemmeno qualcosa che per imprinting mi faccia dire “mamma”, ma mi ha detto di chiamarla così. Mamma ha la dentatura sempre semiaperta sotto il muso sporgente, per farla respirare, per far riverberare le vibrazioni malandate del suo fiato quasi sconfitto dalla fiacca. Dai denti gialli si lanciano fili di saliva e alito contenenti particelle del peso sulla schiena. Le froge fremono, disegnano altra neve. E non si muovono mai le escrescenze rinocerontiche, che salgono a fare una conformazione ossea attorno alla fronte, con piccole guglie di cristallo a decorare le orecchie piccole e tonde, ursine. E non si muovono mai le biglie degli occhi: un solo colore congelato lateralmente in un perenne bagliore di alieno grigiazzurro. Ma ha una parentesi di sangue, l’interno d’orbita oculare che al di sotto dell’occhio rimane scoperto, rivoltato a prender aria e compatimento. Un rosso acceso che lacera più di qualsiasi pupilla potesse esserci, e che invece non c’è.
-smettila di descrivermi.
Quarta volta. Destabilizzante. È solo la terza visita, e la quarta volta in cui mi viene letto il pensiero. Non voglio più visite, voglio chiudere meglio il mio diario nel mio cassetto, e voglio anche che le pagine si chiudano meglio tra di loro. Talmente da farmi faticare la prossima volta che tentassi d’aprirlo per scriverci.
E senza accorgermene sto già bevendo. Lo capisco quando ho già cominciato a tracannare da un po’, sento il sapore in quel momento e per lo stupore -e per il gusto amaro di liquame- voglio vomitare, con gli occhi spalancati, con un’espressione del volto per comunicare un timore che mi ha assalito a questa madre alla quale per sbaglio ho già mostrato qualcosa di simile a un sorriso. Timore di venir avvelenato, ancestrale. Proprio degli esseri fatti al 70% di lago.
-non pensarci nemmeno a sputare. Devi mandar giù tutto.
E io vuoto i recipienti uno dopo l’altro, e la robaccia grassa lascia aloni densi, lenti a scendere e deformarsi, sulle pareti interne. Riesco a guardarci dentro. Che sia anch’io fatto così per mamma? Immagino d’avere occhi ciechi di biglia, senza pupilla, con pupille varicose al posto delle occhiaie. Per poter vedere dentro me non dal di dentro, ma dal fuori nella maniera di chi sa vedermi di vetro, pieno di residui lattiginosi, puzzolenti di grasso. Sarò fatto anch’io così, ma che vuole da me mamma?
-bravo. Hai bevuto fino all’ultima goccia. Ora non ti resta che riflettere sul motivo di questa tua azione. Hai agito solo perché te l’ho detto io, e faresti tutto ciò che uno ti dice di fare? Oppure ti ho solo detto ciò che tu stesso volevi fare, e lo avresti fatto comunque anche nel caso in cui mi fossi opposta? Mi avresti assalito, derubato del carico, sbirciato anche nell’altro sacco chiuso, preso da una curiosità incontenibile. Sei tu, questo qua? Uno che s’ingozza di liquidi che gli fanno schifo e che nemmeno conosce, un violento? Pensaci. Io devo andare. Intanto che ci pensi, la medicina dovrebbe fare effetto. Passerò io, o qualcun altro, a controllare come stai, verso la fine del pomeriggio. Avverti un cambiamento nella pressione, ai polsi o alle caviglie?
Io sto già guardando il mio angolo prediletto e di polsi e caviglie e vene non voglio sapere proprio niente. Mamma rassegnata si gira e se ne va. Però stavolta stranamente sento gli zoccoli. Mi sorprende constatare che abbiano un ritmo tanto squillante e profondo, mentre tutt’attorno il mondo sfuma in bruma, più incorporea di qualsiasi lago o fiume di sola immagine, e rimangono solo il punto che scavo con l’assenza dello sguardo per farci stare i pesci, e solo una confusione sfumante nel nulla d’echi provenienti da quel movimento che s’allontana… un’oscurità mi avvolge e per un momento la vedo baluginare, all’interno d’una forma, un’apertura che s’affaccia su un corridoio e si richiude. Rumori di porta echeggiano per ultimi.
…
Hanno rimesso Avril 14th dagli altoparlanti e me ne sto a contemplare il lago lontano. Non so che giorno o quale fine di pomeriggio sia oggi, o se abbia un nome da qualche parte, ma ho guardato abbastanza per terra. Non male, riesco a veder uscire un sacco di pesci in questi giorni. Nel lago no, però. Ci sono solo tonfi lontani, che secondo me non sono nemmeno mai davvero dei pesci. Li fa solo perché li deve fare. Comunque, contemplo il lago e mi viene da pensare che, a osservar bene, certe visite che ricevo sono proprio assurde, e non hanno alcun significato. Normalmente la cosa mi disturberebbe e mi procurerebbe un tipo di emicrania che vorrei sparisse per sempre. Invece mi sento un tutt’uno con la seggiola e come lei non riesco a fare questi pensieri carichi di disprezzo.
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