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sotto il soundscape

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 14 ott 2022
  • Tempo di lettura: 32 min

Inizio: capolinea 2


Uno stupido desiderio di identità -uscita lato: destro

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B-kool voleva essere cool. Un sottogenere di Jazz o qualcosa che si mette in un congelatore. Buoni fossili quotidiani (il frigo le calamite la mattina le scale di casa i clacson i pini che circondano la fermata M i tornelli lo squillo binario degli sportelli in apertura). Lei li venera come reliquie: l’indifferenza del suo sguardo si rivolge con amore a tutte quelle stesse cose che odia quando una parte bitorzoluta e soverchiante del cervello è accesa e funziona, e lavora, e fa rumore. Ma sottoterra si attiva un altro senso. È in lei ma non nella fronte né nel petto. Dov’è? Buio bellissimo là sotto. Anche se sporco, anche se corrotto da qualcosa di gigante e mostruoso che non si può vedere.


Cool il mio sguardo assente cool la mia postura schiacciata ma resistente ai turbinii emozionali. In questo desiderio stupido voleva si esaurissero tutte le preoccupazioni, le istanze identitarie fintantoché rimanesse a questo mondo la necessità di accartocciarle e semplificarne la forma, così che la si potesse porgere. Flessibile e plastificata tra indice e medio in gesto impeccabile. Una forma che prima non c’era. Io sono questo. Non l’avrebbe detto a nessuno, non si sarebbe fatta pubblicità. Presentava solo a se stessa il suo curriculum. Un buio intimo dove alle sue regole era concesso esistere.


B-kool voleva essere cool con la consapevolezza di quanto dementi fossero il concetto, le parole scelte, la fantasticheria che precedeva il tutto. Fantasticheria: uno sconosciuto che le si avvicina e chiede, “hey ma tu chi sei?”. Sconosciuto: pressappoco un’alta ombra dal portamento morigerato, eppure estremamente confusionaria nei suoi tratti lasciati liberi, selvaggi nella risalita all’interno dei contorni della silhouette frastagliata, selvaggi nel flusso come di incontenibili salmoni d’oscurità, e sopra, in cima alla loro cascata -ovvero un torso caotico, e linee rozze a dotarlo di giacca e una ventiquattrore stretta in mano- un volto a forma di lampadina, calcato sotto un cappello deforme che le ricorda una buia montagna strana vista su un libro di geografia secoli fa, marchiata a fuoco nella sua capacità di scovare immagini simboliche. E solo occhi grossi, fanali dentro lenti spesse, a occupare quella nube del volto.


Questo, in poche parole e quasi zero impressioni superflue, lo sconosciuto che vive dentro la fantasticheria. Si avvicina a B-kool e indica l’ape sulla maglietta -può vedere sotto la zip tirata, con quegli arnesi-, e le cuffie coi padiglioni che sembrano ciascuno più grosso della sua testa. Indica l’impressione generale proiettata dal suo contegno nanesco e inequivocabilmente cool (qualunque cosa questo anglicismo, obsoleto in qualsiasi subcultura, possa significare).


Dove vai, dove vai, chi sei.


Le parole scelte: idiozia consapevole di esserlo: “abbiamo l’italiano, perché non usarlo?????”, si sgola qualcuno nel cuore di terre aride, mentre dagli altoparlanti del treno risuona: “we’re now arriving in: Roma Termini. Right side exit”.


Nell’incredibile cervello di B-kool il peso delle parole è indipendente dalla lingua scelta. Su isole lontane a nord nell’oceano i clan danzano inebriati nelle brughiere e diventano ricettacoli di stelle e spiriti selvatici, falli campestri. Dieci o forse mille anni dopo diventano maneggiatori di ciminiere e predoni di coste lontane e bombardieri di arcipelaghi e venditori porta a porta di notti accese dal neon, e riescono nello scopo antico di uccidere ogni spirito rimasto sulla terra. Sarà colpa della lingua? B-kool non è celta né sassone né malvagia: è solo cool.


Il concetto: di natura sia astratta che estetica. I zoomer scrivevano in questo modo per un certo periodo, rubando la grafica a un movimento allora già decaduto: a e s t h e t i c. B-kool vede le lettere note fluttuare nel nero delle sue palpebre e riprende fiato tra gli spazi prima di immergersi.


.

B-kool si trastulla immaginando pozzanghere, dapprima vuote e poi riempite di macerie come di bianchi sabbiosi cantieri in rovina, che s’aprono nel mondo alla domanda summenzionata (chi siete? Dove scendete?) quando rivolta a ciascuno dei passeggeri.


In un suggestivo quadro di una corrente artistica da lei creata e scimmiottata da ogni cosa -anglicismi e giapponismi, e inchiostro e pixel, e Munch e Sendak, e pop e punk- vede tutti gli anonimi con le loro identità di carta plastificata o digitalizzata che si trasformano, diventano simili a quell’uomo così alto e oscuro quando entrano nel flusso della folla che li fa esistere in quel momento e che esce ed entra dalle porte intermittenti. Porte. sembrano soffrire quando mandano il cigolio, luminoso, fatto di pattern in eterno ricircolo, quando le facce sono riflesse sulle loro facce di vetro, e scompaiono, scompaiono, trascinate dal meccanismo che anima gli sportelli automatici. Quel suono le fa pensare che stiano lanciando un avvertimento: ci romperemo. E quando il treno è velocissimo nel sottosuolo ascolterete come musica sferragliante e gutturale il respiro della tenebra di gallerie scavate là sotto. Il vento putrescente e umido vi schiaffeggerà, così veloce da far male, mentre vi appiglierete ai soliti pali metallici cosparsi di germi, i soliti maniglioni. E la polvere sferzerà le palpebre, chiuse in uno sforzo futile. E i granelli penetreranno lì sotto, sì, proprio lì nella vista, che s’allontana annebbiandosi anche da quelle fioche luci color pannacotta, le uniche delle gallerie. Mostrano sempre musi di granito sporti nell’oscurità, grigioneri, tristi. Mostrano sempre gocce lunghe che cadono da soffitti dove forse proliferano alghe lucifughe.


B-kool si è rimbambita! Credeva di stare dentro quel quadro. Lei è solo cool e in viaggio. Dove scende? Affari di nessuno. Il giacchetto nero e viola mette le cose in chiaro -non sa bene cosa, ma voleva usare l’espressione “mettere le cose in chiaro”, e precisamente in un uso responsabilmente irresponsabile di certe espressioni lei potrebbe rivendicare, al prossimo alto ombroso individuo con occhi a fanale che le si rivolgesse, che non è per ignoranza di sé che si comporta come si comporta. Sembra essere un’accusa molto diffusa.


B-kool con le mani nelle tasche viola, viola in nero, esegue gesti ritmici di perfette bellissime geometrie che mai nessuno vedrà. Sono il suo segreto. Custodito nelle tasche folte.


A volte fa un dito medio, così a caso. Rivolto a nessuno. Un’antica scritta paleocristiana emerge in ghirigori di vergogna e gommosità da BigBubble nel mattonato appena visibile in un tratto tra la fermata S. e la fermata F., e recita: “it’s not a phase, mom”. B-kool annuisce commossa, salutando il pensiero immortale di un morto. E tutti quelli che gli assomigliano. La sua commozione è di faccia impassibile, la sua tonda piccola faccia giallastra racchiusa tra tende filiformi di capelli corvini.


Se non sta attenta, un signore importuno diventa una specie di mostro. Dalla schiena sempre più ricurva -e deve incurvarsi per guardarla perché lei è nanerottola- cominciano a emergere gocce, vischiosità in mutamento verticale, macchie di un latte color cancrena. Poi diventano aculei come di un porcospino. Lei, signore, è di quelli che hanno il porcospino sulla maglietta?


B-kool conosce una legge segreta dell’universo, articolata in diversi teoremi che, è sua personale convinzione, s’eguagliano tutti in una sola verità, avente possibilità d’esistere solo nelle viscere profonde dove la metro si getta in frenesia di fuoco e ombra. La sua scoperta potrebbe essere formalizzata, esattamente come lo si fa con la sua falsa identità rappresentativa e operativa condensata in lessema“B-” e lessema“kool”, attraverso frasi, enunciati, starnuti comunicativi: 1 tutti coloro che salgono in metro con lei indossano una maglietta raffigurante un animale che lei riesce sempre a vedere 2 c’è sempre qualcuno seduto a leggere Kant e se non Kant certamente un tedesco 3 anche se si volesse ascoltare musica brutta in metro non ci si riuscirebbe mai per una resistenza invisibile che permea ogni cosa 4 al contrario nei padiglioni ciccioni bianchi e fucsia roteano in scosse elettriche soltanto sound incredibili, totali come un sole di noise sorto da un mare di feedback di Fender Jaguar e Jazzmaster all’alba di una nuova sperimentazione uditiva affacciata su un decennio seminale 5 B-kool non può far altro che restarsene in piedi, occupando sempre il solito posto con la schiena schiacciata contro le porte chiuse oltre le quali è solo il muro nero e impenetrabile del sottosuolo, con la schiena proprio schiacciata perché dei germi suoi amici e del loro potere patogeno lei se ne strafrega 6 ogni qualvolta appaiano al rallentatore ingombranti goffi inadeguati cartelloni pubblicitari in prossimità di una fermata che sta venendo raggiunta, giungono strani e inspiegabili groppi al cuore, come di un’amarezza lontana, legata a ricordi dimenticati o a futuri peggiori -in particolare, a esser stampati e scoloriti lassù sono volti umani contratti in smorfie assolutamente, deserticamente incomprensibili 7 nel caso si prenda la linea B è osservabile come nessuno scenda a Castro Pretorio 8 facendosi cullare dagli scossoni sonno e veglia si equivalgono 9 il proprio mutismo è selettivo e sacro e batte all’unisono con gli scossoni della mortale ferraglia alla quale per un certo tratto spaziotemporale si affida la propria vita, giocando d’azzardo, rischiando d’esplodere nell’abisso.


Se ci sono altri numeri, escogitati in viaggi identici, li ha dimenticati. Ma sono tutti una verità, un numero 1 che diventa 0.


Prossima fermata: L. Uscita lato…


Così tanti animali bipedi in treno. B-kool pensa a Esopo, che vive oggi. Erano belle le favole. Provenivano dalla stessa parte della mente in cui stavano i suoi personali teoremi.


1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9… B-kool sfodera dal pugno chiuso in tasca le dita e conta e ricomincia e batte il ritmo annuendo in sacro mutismo, fa un soundcheck per il concerto d’apertura che farà questa sera per certi caserecci fautori del ritorno del Post Punk in un qualche localaccio dell’underground romano, che verrà presto chiuso a causa di strani impicci o mancanza di fondi -lei non conosce le minuzie di chi vive, lei fa solo arte, lei è spettatrice.


B-kool è un nome così idiota! Sono lieto che possiamo intenderci, risponde mentalmente B-kool all’uomo ventiquattrore, minaccioso e alto con occhi-fanale, con schiena di porcospino e t shirt di porcospino sotto la giacca di tenebra. Un ragazzo lì vicino, strano bassetto e muscolare individuo, con qualcosa d’incredibilmente gentile nella testa rasata, le porge mentalmente un pugno che vuole significare una sorta di rispetto. Lui è il ragazzo con il maiale.


Nel frattempo il ragazzo con Kant, colto da un’improvvisa ispirazione ben riflessa dal sussultorio balzo anfibio delle palle degli occhi fuori dalle orbite biancastre, chiude il suo libro con un tonfo polveroso (facendo bene attenzione a lasciare un dito in mezzo alle pagine marroni). Ignorando per un po’ qualsiasi frase tedesca mai esistita in ogni continente d’ogni sua reincarnazione (è un filo-tedesco sanscritista), si chiede: si può davvero parlare di animali sulle magliette? O piuttosto noi tutti siamo coloro che portano le rappresentazioni degli animali? E da cosa capiamo che è proprio un animale a venir rappresentato sui tessuti? Non è forse assurdo?? Riconoscere un arto, un’ala, sovrapporla a un insieme di linee e colore… c’è morale in questo? Non è forse uno smembramento indebito dell’esistente?


L’ispirazione se ne va come una pisciata di trota nei rigagnoli sotterranei, che gorgogliano, scintillano qua e là -B-kool li vede ogni tanto, dall’altra parte degli oblò, e ci sguazza dentro, ed è felice come una bambina che sogni di gnomi in gallerie.


A quel ragazzo seduto a leggere, il ragazzo maiale direbbe, sinceramente ammirato e quasi ingenuo: amico, questa è roba davvero profonda. B-kool gli direbbe, sembrando sempre imbronciata ma monolitica nel suo ascolto di cuffie enormi: pensi troppo e troppo poco al tempo stesso, but you do you i guess e sono certa che andrà tutto bene, per quanto bene possano andare le cose da queste parti e tutte le parti. Donna pappagallo, le mani lunghe e avvizzite in affascinanti rughe riposanti sulla borsa a tracolla: si limita a scuotere la testa, per un problema che solo lei può conoscere.


Uomo ventiquattrore invece, metamorfando in porcospino, in drago d’aculei neri, spalancando fauci da una mascella sempre più lunga, sempre più irrazionale suo malgrado, gli sibilerebbe nella prima lingua veramente oscena di questo mondo: voi, sprofondati in questi pensieri inconcludenti, siete quelli che dovremmo uccidere, adesso, e appendere qua, al tettuccio della metro, per farvi sbatacchiare e spappolare come polpa informe che siete, e raccoglierla e farne combustibile capitale base alimentare materiale di costruzione gabinetti ricerca medica modelli matematici ripetitori wi-fi prodotti usa e getta, così per la prima volta…...


B-kool ogni tanto fa un dito medio, dal pugno chiuso dentro la tasca viola, viola in nero. Così, a caso, ma neanche tanto a caso.


(ti leggo nella testa, uomo alto. Vorresti diventare sempre più grosso, azzannarci. Sei incarnazione della repressione della capacità di visione, sei ciò che è orribilmente strisciato qua dentro, dagli spazi neri che sotto la metropolitana creano linee d’abisso. Ogni volta guardo le mie ridicole scarpe giganti, e i loro riflessi d’iride mi riguardano indietro, quando sto lì lì per salire sul convoglio. E sotto di loro, sottilissima a separare banchina e pavimento che traballa instabile -io so che la catastrofe è oggi stesso-, c’è la linea d’abisso che pure mi guarda, come l’occhio d’ombra in un pavimento sospeso d’ascensore. C’è la linea d’abisso, c’è la tua puzza. Da cui sei nato grondando fame e parole di cui non comprendi il significato.)


Ogni dito che si stacca dal pugno chiuso in tasca è un ricordo scolare. Ogni dito un memento della sua mania di contare le particelle dell’aria, tenendosi le mani in tasca. Che problemi hai?, le avevano detto tra ghigni e indistinguibili cicalecci d’uccelli non greci, la prima volta che era riuscita a figurarsi alcuni suoi compagni di classe, come vedendoli per la prima volta, nella loro vera forma. E sempre s’alzavano verso il soffitto, sempre diventavano ombre capaci di proiettare altre ombre, che la inglobavano tutta, nanetta com’era. Ma B-kool decidendo d’essere cool sapeva che doveva dir loro, mentalmente, sapete che non è così male essere bassi? Mi sento a mio agio mentre vi guardo che vi affannate verso un cielo che farà piovere solo merda nera.


Le sue risposte mentali avevano talvolta una forma corporea: una gobba che le circolava in guancia, come se la lingua scaccolasse i molari ostentando indifferenza. Lineare, geometrica, euclidea indifferenza, che non può non ammaliare l’occhio. E nelle ombre di quelli là, posti di fronte all’inaspettato, comparivano tizzoni, infuriati dal suo comportamento -parola curiosamente udita nella maggior parte dei casi della sua vita come fosse riferita a lei, a qualcosa di suo.


Ombre infuriate, rivolgono domande di cui assolutamente non vogliono conoscere risposte: come puoi dire, tu, “parole di cui non comprendi il significato”, a un uomo alto e tanto più gigante di te? Che ne vuoi sapere tu di come si parla, anzi, di come si sta al mondo? Ma ti sorrido, voce infuriata, mi sforzo di farlo, mi sforzo di essere cool nel risponderti, e sappi che è uno sforzo che non immagini e che ti ucciderebbe il ventre. Ma raccolgo in me le forze e inghiotto un pianto che nessuno udrà mai, lo sento scendere lungo la gola e dissolversi nel grembo dove le mie mani in tasca stanno a rimescolarsi, mentre rimango imperturbabile, e sì, raccolgo in me le forze, perché le parole che riscrivo dentro me sono forza e mio respiro. Ma mentre una lunga jam dei Sonic Youth e in seguito Kid A, in loop come è in loop la tratta che percorro avanti indietro sulla linea A annientando ogni mio giorno nel sublime sotterraneo, continuano a suonare in paesaggi vibranti di plasma il suono della mia introversione, riesco a guardarti per un solo istante, prima di distogliere gli occhi con finta indifferenza, e dirti (mentalmente, ma così bene da farmi venire i brividi): chiunque usi le parole per ferire non sa parlare. Io uso le parole silenziose, per sentirne la musica, il sound.


Next stop: O. Right side…


B-kool porta sempre con sé un ciondolo raffigurante Abra. Reliquia, dai giorni della pokemania e generazioni antiche, eredità di un qualche consanguineo genXer che adesso se ne starà dentro qualche scuro appartamento di una grande metropoli, stanco di musiche, di fotogrammi, di chiacchiere come se ne avesse avuto indigestione, stanco di tutto ma non di star in piedi al lavello ad ascoltare il raccapricciante sfregamento sui piatti di una spugna insaponata non progettata per quella funzione. Nulla riusciva progettato per la giusta funzione.


B-kool ha un portachiavi di Abra che ballonzola appeso a una tasca dello zaino. Una volta, appena riemersa dalla bocca di Flaminio, un ragazzino le aveva afferrato una manica ed esclamato “che fico quello!”, sputacchiando mentre se ne andava via, voltandosi ripetutamente a guardarla e guardarle il ciondolo, e lei aveva sorriso, non mentalmente, senza rendersi conto di mostrare i denti, e di trasformare gli occhi in vulnerabili lineette nel sollevare le tonde guance giallastre.


I denti in un sorriso fanno pensare all’umano e al suo teschio, scimmia con il naso. Per questo non le piacevano. Ma per quel ragazzino, un’eccezione. Era un bimbo marrone scuro con una maglietta rossa, una maglietta-marabù. E l’aveva visto salire la scalinata dalla piazza al viale alberato aggrappandosi agli stupendi scialli della schiena materna, con quella presa della manina che sembrava la stessa identica di cui aveva sentito il tocco sulla manica, poco prima.


Ragazzo maiale farebbe anche lui dei commenti positivi su Abra, ma qualcosa in B-kool lo intimorisce. Ragazzo rana rifletterebbe a lungo sulle implicazioni di una cultura pop, talvolta indossata nonostante si odino profondamente la plastica e il petrolio, eccessivamente esplicitata. Per poi ricredersi, riaprire il libro di pensiero tedesco per proseguire nella lettura, non prima d’essersi detto fanculo, quell’Abra è bellissimo.


Uomo ventiquattrore mostro d’aculei afferrerebbe il pupazzetto, mescolando il sudore delle sue mani simile a mercurio a quell’olezzo d’anni novanta e plastiche divenute illegali: lo distruggerebbe senza pietà, ma anche senza un’esplicita ferocia. I suoi occhi di bottiglia nel volto di vortice sono fatti così. La mia distruzione, dice, “è una cosa che è meglio così”, con un borbottio in sottofondo come se altre ombre parlino da dentro la sua pancia, un brusio ininterrotto del suo essere come a voler dire “fidatevi, che ne ho viste e fatte di cose”.


Anche ragazza scarabeo verde ne aveva fatte viste e fatte di cose, e sentiva d’avere ottime ragioni per non rinfacciarlo a nessuno. B-kool la osservava, appartata distante sul lato opposto, dove un ventriglio molle e sgusciante della metro separava un vagone dall’altro, in un confine pericolante in eterno. Vedeva il suo mal di pancia ribollire mentre cercava di non cadere per gli scossoni, severi in quel punto: la transizione era dolorosa, ma sarebbe arrivata dove doveva arrivare. Per la prima volta B-kool trovava un senso in quella domanda ipotetica: chi sei e dove vai, dov’è che scendi, qual è la tua fermata? E lo trovava perché sperava per ragazza scarabeo verde che riuscisse a essere, a scendere, ad avere una fermata -perché era questo che ragazza scarabeo verde voleva, e perché non avrebbe dovuto volerlo? Non faceva del male a nessuno e in genere non diceva cazzate.


Un insetto non fa male a nessuno. Un insetto cammina per i fatti suoi, su passetti kawaii. Un insetto non fa male a nessuno, non fa male a nessuno, non fa male a nessuno!


Non fa male a nessuno! Replica ruggendo di follia a mascella spalancata, senza pietà ma ritenendosi senza ferocia, l’uomo ventiquattrore, mentre con uno stivale d’abisso appena sgusciatogli dai genitali schiaccia senza sosta tutti gli insetti di questo mondo, riducendoli a nient’altro che schizzi, macchie, che un tempo vivevano e che presto si sarebbero confuse con macchie che erano nate già prive di vita. Viscidumi e lipidi spiaccicati sulle superfici della metro e delle pareti di grotta là fuori.


Ragazzo maiale, da parte sua, riguardo certe complessità psicosessuali non era mai stato informato, e spesso aveva provato sincero prurito d’orecchie per la propria ignoranza -si chiedesse ai suoi globuli rossi irrequieti per conferma, come per tutti i ragazzi maiale. Ma nulla può negare il rispetto di ragazzo maiale per chiunque faccia, a parole sue (mentali), “le proprie cose”, e giura di essere sempre leale, a qualunque cosa capisca o non capisca, in cui gli sembri di annusare però una bontà, un’innocenza, anche nell’egoismo, anche in un mare di imperfezioni che è capace di scostare. Come un maialino che scavi, col grugnetto nel fango, graffi di rastrello paralleli, da ammirare al pari di capolavori artistici.


Prossima fermata…


B-kool era stata, in tempi lontani, “irrimediabilmente impedita” in matematica, cosa che per qualche ragione le veniva sempre rinfacciata. Incomprensibili aspettative deluse, stereotipi infranti. Appiccicati ai suoi gesti, comportamenti, tic da cui pavlovianamente stillavano risolini e compatimenti identici ai risolini. Geometria però le piaceva. Scoprì che tanti erano come lei in questo.


Chiude gli occhi e stringe Abra e ricomincia l’album e si distrae con pensieri casuali mentre sempre più s’avvicina la fermata dove sarebbe successo -la catastrofe è oggi stesso. Stringe forte.

(perché sono nervosa eppure non dovrei perché sto intellettualizzando eppure da tempo non ho paura perché Treefingers è così perfetta voglio leggere Calvino voglio sparire in un tombino e farne una canzone un romanzo una poesia qualcosa che non faccia mai e poi mai male a nessuno e non schiacci gli insetti cristo a volte ho perfino paura del buio, dei fruscii che fa di nascosto dietro la mia schiena di formicolii.)


B-kool sapeva già che ci sarebbe stato il guasto, la catastrofe quel giorno. Ma, per quanto per ragioni di personale stoicismo non potesse ammetterlo, era felice che fosse capitato quando con lei c’erano ragazzo maiale e ragazza scarabeo verde.



Fine: capolinea 1

Esopo vive oggi -uscita lato: sinistro

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La catastrofe è oggi stesso. L’inespressività abitudinaria di B-kool ha accettato un subbuglio interno, facendo comparire ombre insolite attorno allo sguardo, e quasi affilandole i contorni della faccia. In allerta. B-kool sembra la bellezza di un animale vicino al pericolo quando risveglia abilità sopite, il cui uso comporti rischi mortali, fine del gioco della sopravvivenza. E sotto la pelle, una mappa di nervi accesi, neon di un’elettrica metropoli notturna costruita nel corpo umano. Si accosta con più forza alla barra metallica ricurva lì vicino, e guarda fisso avanti a sé, con occhi che squarciano il ferro, penetrano vestiti e scheletri, scavalcano vetri e sotterranei e stazioni di passaggio. Vedono semafori che come sfiatatoi espirano e inspirano emergendo da una superficie immaginata, vede laggiù una M bianca in un quadrato rosso, e la rivede uguale nelle vicinanze, e vede anche ragazza scarabeo verde che ha cominciato, anche lei, a tremare. Ha freddo. Forse è spesso inseguita da brividi, forse li conosce. Non conosce ciò che sta per succedere. Come lei, una mappa sotto la pelle, e a B-kool sembra di poterla leggere, di leggere i corpi. Una tensione priva di suono è penetrata da fuori, sospinta dai soffi assordanti della velocità senza pause, e aleggia in spettrali nebbie invisibili. Sorelle delle nebbie di fantasmi dentro la scuola vuota nelle ore notturne, quando nelle “prove di coraggio” -mai veramente esistite- erano un preludio ad altre apparizioni. Ma perché, si chiede B-kool, solo io avverto questa cosa? Nelle viscere che arrivano a far male, serpenti bollenti. Perché non capiscono che ogni clangore sofferto, rimbalzato più volte sulle pareti al costante vacillare di questa intera innaturale struttura, prelude a quanto sta per accadere? È il capolinea, la fermata B., ma il viaggio è molto molto più lungo, siamo da troppo dentro il buio, non se ne accorgono? Vedo una ragazza scarabeo inquieta, e un ragazzo maiale spaesato che anche se pensasse che c’è qualcosa di strano si sentirebbe in difetto nel dirlo. Gli altri passeggeri non sembrano essersi accorti di nulla. Stanno in piedi con le mani appese, stanno seduti con i libri e gli schermi, stanno con le schiene che si urtano, ma di certo non stanno attenti a qualcosa che li riguarda.


Li riguarda? Davvero?


B-kool nota allora che le loro figure, poco a poco, stanno sbiadendo. Per un istante si vedono le vene, gli organi, non tutti hanno una mappa di nervi accesi. Per un istante, teschi di scimmie ridenti. Poi opacità diffusa su tutti i corpi, seduti e in piedi. Un brivido raggiunge anche B-kool. Nulla li riguarda. Stanno venendo trasportati altrove, a loro insaputa, mentre, in qualche modo sconosciuto, dormono. Continuando a guardarsi le mani che stringono supporti e libri e recipienti e aria e dispositivi e comunicazioni interrotte.


Prossima fermata:………………………..Next stop:……………………………..


Il ritmo dei sussulti diventa violento. No, non sono più sussulti, ma qualcosa di diverso. Sapeva che sarebbe successo, ma non in che modo. Il treno sembra inciampare e staccarsi dalle rotaie, volar via per centinaia di metri attraverso gli strati profondi della terra, per poi ricadere, proseguire sulla stessa linea. All’interno un terremoto, e tutti hanno perso il proprio posto -tutti, chi? B-kool ha le ginocchia e le mani al pavimento, B-kool non ha più la schiena premuta contro le porte chiuse. Le porte non sono più chiuse, da un lato e dall’altro. Il vento greve entra e si accanisce sugli occhi. Qualcuno sta gridando, lo sente vagamente fuori dalle cuffie, derubate della musica. Un fischio lancinante, simile a un’interruzione di trasmissione, rimane solo a eseguire spirali nei circuiti. Ma lei non deve, non può levarsi le cuffie, e sopporta quel suono. Qualcuno grida ed è un ragazzo maiale, un grido confuso, fatto di esclamazioni staccate. Durano poco, poi sembra ripensarci, decidere che sì, è ancora il caso di spaventarsi, e ricomincia. Il tutto in pochi secondi. Bene, bene, B-kool sta continuando a ragionare per bene, se ne rende conto quando deduce questi particolari trovandoli perfino buffi, e si rialza. Non teme di cadere, non perché sia coraggiosa: le cose non funzionano in maniera così semplice, dentro una perturbazione di quel tipo. Conosce, patendolo nelle narici, lo scopo di quelle correnti d’aria fetida: farli vacillare, loro che esistono ancora, rendendoli incerti, precipitandoli nel dubbio d’una possibile caduta. Ma è un inganno, perché se ciò che governa ora il treno avesse voluto farli cadere immediatamente, sarebbero già volati via in quei rettangoli neri che si spalancano attorno al mondo intero, strepitando un fracasso infernale. B-kool e altri due passeggeri vengono sbalzati, minacciati di piombare nel nulla. Ragazzo maiale lancia gridolini ed esclamazioni ridicole mentre in maniera superflua stringe il palo con le mani; ragazza scarabeo verde è terrorizzata, e con le mani cerca d’aggrapparsi alla parete tubolare priva d’appigli dello snodo tra un vagone e l’altro, certa che quello sia il posto più sicuro, quel posto che ha sempre tremato è il posto più sicuro quando a tremare è tutto il mondo. E gli altri corpi, tornati fermi, non possono far da ostacolo alle loro cadute attraverso il convoglio al cui interno la gravità sta subendo una corruzione: sono diventati fiamme quasi incorporee, sono altrove. Tutti i passeggeri a eccezione di tre sono fiamme nere che rischiano di spegnersi quando le sfiora con maggiore impeto il vento putrido.


No: c’è un altro passeggero. Appare davanti a B-kool, rialzata, composta. Un vuoto nel torace: non l’aveva visto. Com’è possibile? Un signore occhialuto, che risulterebbe molto più imponente se non fosse per una leggera gobba, se ne sta fisso a guardare chissà cosa verso il fondo del vagone, su caviglie inamovibili, immobile quanto le fiamme che hanno perso il corpo. Stringe la ventiquattrore facendo affiorare vene impazzite sul dorso della mano, come ne dipendesse il proprio destino. È lui? Quello che si immaginava sempre a importunarla. Qualcuno da cui usciranno le parole che la inseguono. Come ragazza scarabeo verde è inseguita dai brividi, pensa a un tratto, guardandola che quasi piange dalla paura. B-kool fa un sorrisetto cool e si ricompone. Siamo fratelli fragili. Questa scena in cui insieme quasi moriamo è ciò che sostituisce un nostro abbraccio che non potremmo mai darci.


Per un istante indefinibile, la metro si ferma presso una fermata del vuoto. Non è il capolinea, non è niente: è un mondo raggiunto in quella corsa oscura. Una fermata intermedia nel nulla, con tanto di stazione. Nel buio che soffia e che ghiaccia, tra forme indistinte di ruderi, si avvicina qualcosa a passi strascicati. Un nuovo passeggero: un uomo, identico a quello, ma più grande, con qualche arto in più a spuntargli ricurvo dal dorso. Più animalesco. I due si guardano come facendosi un cenno segreto e impercettibile. Fanno toccare le lenti a fanale in un bacio di vetro. All’improvviso si plasmano in una sola cosa. Comincia a trasformarsi quella cosa singolare che si trova nel punto in cui i due uomini sono scomparsi l’uno nell’altro, comincia a trasformarsi e al suo nucleo convergono in lievi risucchi lembi sottilissimi di fumo nero, generati da punti invisibili sparpagliati nell’ambiente. Una palla là dentro lancia sguscianti strattoni muscolari.


Ragazzo maiale non riesce nemmeno a grugnire, limitandosi a calare il labbro inferiore e a sfoggiare uno spettacolo di pirotecnica sottocutanea. Ragazza scarabeo verde è ora seduta per terra, sul lembo instabile. Si volta lateralmente di tanto in tanto a osservare, fa emergere il volto tra lacrime argentee che le distruggono il trucco. Sembra non stupirsi. Sembra che quella trasformazione non le sembri l’incubo più minaccioso. Sembra che le faccia profondamente schifo, al punto da prostrarla.


A B-kool sembra di vedere cos’altro ci fosse nella fermata buia e indiscernibile dalla quale è salito a bordo quell’uomo, quel pezzo mancante di un rituale. Ma è solo un lampo, una visione fulminea che le inietta un filo lancinante nei pensieri, similmente al fischio in circolo nelle orecchie. Cosa sono? Palazzi, costruzioni aberranti ammassate nella tenebra sotterranea, formicai e termitai deformati da qualche anomalia che ci si è ficcata dentro, e finestre, e macchinari, una metropoli sepolta in un altro tempo impossibile da incastrare a quello noto. Ma insomma B-kool, è mai possibile che tu abbia paura del buio? Non del buio ma di quello che c’è dentro -stupida cretina è la stessa cosa- no non è quello che volevo dire mi sono sbagliata ma ora devo andare perché qualcosa di strano sta accadendo al mio respiro.


Il respiro affannato di B-kool non si vede, imbottito nel giacchetto, e non si vede affatto che si sta insultando da sola, quando ragazzo maiale le si avvicina, dimenticando di cambiare faccia. B-kool se potesse riderebbe: non ha mai pensato che gli umani potessero conversare così, né che si potesse esser oggetto di sguardi stupiti senza che per questo cominciasse a ronzare qualcosa di contorto, come corpi estranei, dietro le orecchie e nella gola. Ronzio che esiste per dirle di essere sbagliata.


-mmm.. eeeh…..


Afferma eloquentemente ragazzo maiale.

B-kool, come se non l’avesse già fatto di nascosto, lo guarda dai piedi fino più o meno al naso, circumnaviga gli occhi e gli conta i capelli ridotti a peletti. Un tempo dovevano esser stati ricci e glieli disegna mentalmente.


-eeeh, io…


Prosegue il suo illuminante discorso. Bravo ragazzo maiale!


(l’ho visto. Con lui potrei anche parlare. Ma forse non devo, perché loro…)


-ah! Hey, non andare là!


Grida ragazzo maiale, drizza le orecchie a triangolo, sentendo il rumore di ragazza scarabeo verde che zoppica e salta per appigliarsi ai supporti incontrati lungo il cammino, convinta di poter precipitare fuori. Ragazzo maiale la implora riuscendo a comporre una frase perché oltre a sentirne i rumori può vederla, e la vede che si stringe la camicia, verdognola come il suo nome segreto, per dirigersi verso quella palla fluttuante, la cellula in crescita. E la ragazza guarda quella palla nauseante, con occhi rossi come rigati di tagli, la guarda dritta in quel volto da poco completo, e ancora ruggente d’agonia come se sentisse d’essere incompleto. Il volto di graffi neri spalanca imitazioni tenebrose di fauci, ciò che un cervello d’ombra ritiene sia una dentatura. E i due fanali degli occhi palpitano, eruttano luce. Gli aculei di porcospino crescono in foreste su ogni irregolarità del dorso, sugli arti, diventano essi stessi degli arti e si piegano, puntando al pavimento. Diventa così un parossismo d’aracnide che adesso li osserva, e rantola, osservandoli.


(era lui dunque. O qualcosa di molto simile. Devo farne una nuova categoria esistente sotto il cielo da cui pioverà merda.)


-tu, basta…. Vattene! Che vuoi ancora!-, grida ragazza scarabeo verde.


B-kool è sorpresa che ragazza scarabeo verde conosca quella stessa forma che lei ha immaginato. Poi pensa all’improvviso che forse lo vede in altro modo, in forma d’un brivido a lei ignoto -no, ci ripensa e si rassicura, ricordandosi della sua legge universale del sottosuolo e dei suoi sottoteoremi: non c’è dubbio che tutti in metropolitana stiano vedendo la stessa cosa. Lo stesso identico terrore.


-VOGLIO. VERO, VOGLIO.


-non posso nemmeno piangere, vero???


-PIANGI. DA ME. GUARDAMI OCCHI E PIANGI. SPETTATORI.


-non voglio, io.. non è vero, va bene?? Non sono forte come ho giurato. Voglio ancora nascondermi dalla gente, da chi quando mi vede sussurra e… ho ancora paura.


-HAI SBAGLIATO DUNQUE. AMMISSIONE.


-no!! Questo no! Ma voglio andare via.


-IMPOSSIBILE.


La bestia ruggisce più forte che mai, la bestia sfrutta le onde del vento putrido e la paura che gli animaletti indifesi hanno di cadere. E la loro strana debolezza, diffusa come incensi dalle fiamme nere che risvegliano in loro atmosfere cimiteriali introiettate, mai abbandonate.

I neon incastonati in fragili crisalidi nei sottotetti fibrillano deboli al ruggito, assieme celebrandolo e venendone annientati, e resuscitati poi. Più forti di prima: proiettano lampi su quelle pareti nere là fuori, che B-kool sta evitando di guardare.


-TU VIENI QUA. RACCONTA. PIANGI DAVANTI OCCHI. BISOGNO TUO.


-..sì, ma… vorrei, ma, non ho nessuno a cui…


-IO. PUBBLICO. PARLA.


La voce della bestia è un’onda del sottosuolo, è rauca, è stranamente poco sgradevole. Ma assorda e ammala più del peggiore virus, più della cosa più esplicitamente sgradevole.


-TU VENDI DOLORE. NON SOLA. TUTTI ASCOLTARE. PIACERE. FARE. AFFARI CON TE.


-oh, e basta!- all’improvviso interviene ragazzo maiale. B-kool di scatto si volta e gli guarda quel profilo d’occhi tondi senza speranza rivolti a ciò che palesemente non saprebbero chiamare altro che “un coso”.


-non so che… non capisco molto, ma… lasciala. Se non vuole non vuole.


Il coso in questione si volta e gli punta contro le luci dei fanali, il coso in questione rotea in ipnotico domino le coppie di aculei-arti, per girarsi e rivolgerglisi con tutto il corpo enorme, senza una forma. E incombe gigante su di lui e sulla strana ieratica ragazzina che le sta tutta nanerottola affianco a un braccio grassoccio.


-TU ZITTO. PORCO. IN UNA GABBIA. SOTTO ANTIBIOTICI. PROSCIUTTO CHE TACE E BASTA.


-mmh… questo non mi sembra molto educato, ma ammetto che non è nemmeno così sba…


Un filo di tela e aculei semitrasparenti viene scoccato convergendo da fori nelle articolazioni della bestia, raggiunge ragazzo maiale. Lo lega e riesce a sollevarlo. Ragazza scarabeo verde si porta le mani alla bocca e geme. I fili nascono numerosi, infiniti, emettono un ronzio ininterrotto da macchinario automatico quando si moltiplicano in più dita sottili per costruire attorno al ragazzo maiale così sospeso una struttura quadrata, una specie di gabbia bianca. Il ragazzo maiale pronuncia con eloquenza i suoi pensieri più urgenti prima che i fili gli invadano la gola, facendone un prosciutto che tace.


-però ci tengo a dire che il maiale è un animale molto intelligente e orgoglioso. Sacro alla madre di Mercurio, oggetto di prescrizioni rituali, artiodattilo commosso. Quasi indistinto dal punto di vista genetico dal suo fiero corrispettivo selvaggio. Rinvenute le sue ossa impiegate per scopi oracolari sin dai più antichi nuclei abitati Shang e…


Ragazzo maiale passava molte notti in cui non riusciva a dormire giochicchiando con la funzione “random” di Wikipedia. B-kool vede quelle conoscenze approssimative e frammentarie spegnersi, venir risucchiate dagli occhi sempre più sonnolenti e vuoti di ragazzo maiale costretto a giacere rannicchiato in fondo alla gabbietta.


-MMPH. PROPRIO PORCO CHE DEVE TACERE. INSUFFICIENTE, BOCCIATO, VIA!-, commenta la bestia esprimendo un’opinione proprio su quelle conoscenze e imperfezioni, incompatibili con la legge che adopera.


-ORA. AGIRE. VIENI? NO? AFFERMATIVO E NEGATIVO SOLO ESISTONO, M O F SOLO ESISTE.


Guarda ragazza scarabeo. Ha ignorato del tutto B-kool, che torce le mani nascoste, che sapeva qualcosa ma non abbastanza, non sa come scappare. Ragazza scarabeo singhiozza.


-no. Non vengo. Venire con te sarebbe come fare una pubblicità del mio corpo e… pitturarne i mutamenti sui cartelloni sbiaditi della metro, o sui muriccioli lungo i binari di Termini. E leggerci “io ho fatto questo, io ho fatto quello”, finché “io” non c’è più, se non ha un logo rotondo a rappresentarlo. No, voglio solo starmene nascosta e invisibile quando passo accanto ai muriccioli. Preferisco vederci i graffiti. Preferisco star sola, invece di…


-ALLORA TACI. CANCELLARE.


Esegue. Ragazza scarabeo colta in una rete identica, in una gabbia che fluttua accanto a quella di ragazzo maiale. Dalla gole i fili si espandono, si riproducono, e ormai li avvolgono tutti in bozzoli comatosi.


-ORA. AGIRE SU. TU: COSA SEI DOVE VAI.


B-kool guarda il volto ormai familiare della bestia, alla cui destra e sinistra galleggiano i quadrati riempiti di “materiale” considerato “inconcludente”. Sarà un sonno buono o cattivo quello che stanno facendo? Non sa cosa la bestia voglia fare di loro.


E guardandolo sa che nell’interagire con lei smetterà progressivamente di parlare. Ora la bestia è una bestia. E salta.


(devo tagliare quei fili. Liberarli, prenderli e scappare attraverso la metro.)


Le anime trasformate in fiamme nere la indeboliscono, così tristi, B-kool non riesce a fuggire che per una fila di sedili. Gli aculei le hanno immobilizzato le caviglie, e sopra di lei boccheggiano e sbavano quelle fauci asimmetriche, convinte della propria simmetria. Morde l’aria sopra di lei, schiacciata. B-kool sente ora da vicino la puzza del materiale di quei fili intrappolanti, e la riconosce. È un odore notissimo. E capisce che solo un materiale simile può reciderli.


(è un inseguimento. Con me è un animale. E io devo tagliare. Con un materiale, uno strumento. Soltanto uno strumento da tener fuori dalla portata dei bambini di età inferiore ai 36 mesi può avere quell’odore, e può riuscirci.)


E nel braccio di B-kool i muscoli esplodono, mille soli sotto la pelle, sulle mappe stellari di nervi. Ha afferrato il pupazzetto di Abra, ha distrutto il suo cordone di catenina: quelle punte -la coda e le orecchie e le dita dei piedi- tagliano con un’efficacia che non ha senso. Ma così erano tutti i giocattoli dei genXer, abitanti di tane lontane. Le avevano regalato carte collezionabili, libri da leggere, di Calvino e dei filosofi, gomme da masticare, magliette di band, consigli sui rapporti umani dimenticati tanto da lei quanto da loro.


-AAAAAHH.. QUELLO, MIO. FATTO IO. PRODOTTO.-, rantola di gioia la bestia, sporgendo un aculeo a forma di indice verso il pupazzetto. Ha perso le prede ma crede di aver vinto qualcos’altro. Ama i giochi e le vittorie. B-kool ha visto cadere le gabbie e liberandosi dalla presa distratta vi si è lanciata sotto, per raccoglierle sulla schiena. E ha emesso un gemito nel caricarsi i bozzoli liberati dai quadrati sfaldati. Gemito: un suono senza memoria nella sua bocca.


-AH! PESANO. LI LASCERAI. PESO VINCE CUORE. PESO…


Il rantolo si strascica, perde sillabe, perché la bocca da cui esce non ha più nulla di umano. B-kool sta già correndo perché sa cosa succede: la sta inseguendo in forma animale, attraverso i vagoni, che vede estendersi tubolari dietro lei all’infinito in un’inquadratura kubrickiana, vorrebbe tanto fermarsi a guardarla. Ma corre tenendo in groppa gli animali morti, la schiacciano insieme allo zaino. È veloce, semina la bestia che arranca dietro, che la tocca dalla distanza con i movimenti sussultori trasmessi dai passi degli aculei in corsa tarantolata, flettono il pavimento come un tappeto. Vuole sbalzarla assieme al vento, ogni colpo lancia il gruppo dei tre a sinistra, a destra, uscita lato, uscita lato. Le manca la voce degli altoparlanti.


(che pensiero idiota. Che stupido desiderio di identità, che stupido desiderio di starmene sola in metro a passare il giorno. Quello è l’ultimo convoglio. Come nei film mi scanso all’ultimo e lui si schiaccia contro la parete. Come nel film che vuole farmi recitare l’accoltello con le armi che ha fatto. Ho perso Abra laggiù. Ho perso i muscoli quando sono uscita da una fica in un giorno che è diventato una password. Va bene. Non cadremo, amici. So che non mi sentite. So cosa fare.)


B-kool, delicatamente e soffrendo per lo sforzo, depone quelli che ha segretamente chiamato amici sul pavimento. Vede pezzetti d’occhio e guancia emergere dalle trame ributtanti. Vede che piangono per la vischiosità che li corrode. Con le punte delle dita raccoglie lo strano fluido che secernono dai dotti lacrimali, una colla color pelle. La spalma ai margini delle loro figure semplificate dai bozzoli, fa aderire quei corpi a terra così che non vengano precipitati fuori dalla forza che governa il treno e la bestia. O forse perché sa che, anche non ci fosse il rischio, se i due amici avessero ancora la coscienza, avrebbero paura di cadere. E in tal caso vorrebbe farli stare tranquilli.


(questo è il mio gesto più attento e premuroso di sempre, roba da non credere. Quello invece è un mostro che una volta mi ha detto di notte: hai un’ape sulla maglietta come una bimba ritardata. Hai un’ape e non mi sfuggi. Solo la volpe esce vincitrice dalle favole. Vuoi essere una volpe, ma lo sei?, e io cosa gli ho detto non me lo ricordo. Forse che non capivo di che cazzo stesse parlando.)


B-kool cammina a passi lenti, tornando indietro. Alle sue spalle i corpi abbandonati vicino al muro della testa o della coda. Si avvicina alla bestia che ancora correndo le viene incontro, pronta a ghermirla.


(tu, sai… sei soltanto un emissario. Non sei la perturbazione che governa questa metropolitana. Ma un male te l’hanno iniettato e gli obbedisci. Ma se faccio così…)


I convogli oscillano lateralmente come barchette logore, per i passi e gli strattoni della bestia. B-kool, vedendola comparire lontana e in accelerazione in fondo al tubo, si ferma lì.


(…e se mi faccio un piantarello, tu non puoi…)


B-kool si inginocchia. Poi si abbassa ancora. Si rannicchia, per terra, in una culla di germi metropolitani. E rimane così in attesa dell’inseguitore.


(..non puoi farmi troppo male per il mio non farti male. Puoi solo insultarmi, dirmi che sono debole. Per ora starò così, ferma. Solo la morte potrà farmi del male, un giorno, per questo mio comportamento. Ma prima di allora…)


Un rimbombo come di una barriera impattata. La bestia non può procedere: continua a sbattere, sembra, contro qualcosa di invisibile che circonda B-kool, bimba rannicchiata. La bestia morde furiosa, scalcia, annusa -sembra che a volte non riesca nemmeno a vederla, lì davanti. E sfoga a vuoto la sua furia, consumandosi in fumi che ricordano il vapore di vecchi marchingegni. E si rimpicciolisce mentre, quando riesce a vederla, cerca qualcosa che sembra non comprenda nemmeno, e sprigiona sottoforma di ragli assordanti le ingiurie che lei conosce a memoria, recitate da un manuale. Diventano ombre di aculei che fanno di lei un puntaspilli, una stella con un centro puntiforme. Che dorme e di quel sonno si rigenera, spaventando la bestia.


(io sono qui.)


La bestia si rimpicciolisce, fuma, perde le sue parti. La sua vittima aspetta che la sua energia si esaurisca. La vittima rannicchiata sotto i morsi con occhi semichiusi riesce a vedere che quel corpo è molto meno lungo della metro che ha attraversato con tanta ira. Non ha milioni di zampe. E nelle ombre del volto, emergono tratti più riconoscibili, pelli grigiastre di un uomo con occhiali a fanale. Che parla guardando in basso. Calando un disprezzo che può far male o può sparire nel vuoto, instabile e incerto come un sogno o una fede.


L’uomo dentro la bestia parla.


-mmph. Mi sa che tu sei proprio pazza. Ma di una pazzia strana. Più della pazzia stessa. Così pazza che nemmeno ti si può far vedere. Non hai uso.


Una pausa. La bestia rinuncia. È lenta nel fare inversione, letargica come era stata veloce. E B-kool la guarda sparirsene in profondità di grotte bianche di treno, stretta tra i sedili ai lati. Dal posteriore deforme si incurvano i passetti degli aculei che la portano via. Il drago in fondo alla grotta. I passi goffi di un porcospino. Mente tarantola. Un animale chimerico da cui non si può trarre una morale.


Mentre la guarda andarsene sembra tutto più fermo. Nonostante le porte ancora spalancate, il vento si è calmato, e sembra scemare. Sembra a B-kool di riposare lo sguardo nella quiete di una gita solitaria. Le fiamme, cioè gli altri passeggeri, sono sparite. Ma non è stato il vento a spegnerle. Forse non ci sono nemmeno i due che lei ha lasciato lì dietro. Ma B-kool non può voltarsi: nella momentanea quiete non riesce a non guardare avanti.


(mi è sembrato di vedere un pezzo di ventre semitrasparente, tipo membrana, dentro c’erano i due uomini che sono diventati quella roba. Grondavano mucose che si sono andate a depositare tutt’attorno, pure sui sedili. Sembra una schifezza ma tanto diventerà invisibile e verrà dimenticata.)


All’improvviso nota che c’è un ragazzo seduto. La creatura, rimpicciolita nella distanza, gli ha camminato davanti, sfiorandogli la faccia. Lui ha solo abbassato gli occhi e si è guardato le scarpe di cuoio opaco. E ha continuato a farlo senza muoversi. Un saluto tra la bestia e il ragazzo? Il ragazzo è composto, e non scrive con la sinistra. Ha le mani callose sulle ginocchia immobili, è monocromo bruno-grigio. Ma dalla borsa seduta accanto affiorano segreti: pagine di romanzi, e la testa di un mecha di Go Nagai di pezza -un portafortuna che sembra aver smesso di funzionare.


Senza sapere perché e come, B-kool fa un cenno silente, in direzione di quel ragazzo occhialuto, col volto contratto da una tristezza tremenda e senza sbocco. All’improvviso certa che il proprio cenno voglia dire “ti ascolto”. E certa che, di conseguenza, a lei stia parlando quando risponde senza nemmeno averla guardata. Sembra uno studente rimasto totalmente solo in un treno vuoto, all’ultima corsa di una lontana notte romana in cui nessuno era capace di piangere.


-una volta sono salito a casa prima degli altri. Sentivo, mescolato al colore morbido e scuro del crepuscolo, l’odore di cento cene diverse che salivano verso il cielo racchiuso tra i palazzi, quella muraglia che faceva cerchio attorno ai nostri giardinetti, che ci guardava, guardava i nostri ultimi tiri a calcio e i nostri primi tiri di sigaretta. Avevo la tv in camera. Gli sforzi per ottenerla, come se avessi fatto a pugni. Si faceva molto a pugni in tanti modi diversi, allora. Sono entrato, e l’ho accesa con una sensazione amara sulle labbra. La penombra da fuori si proiettava sui muri bianchi, inesorabilmente bianchi della mia cameretta, come a pitturarvi un cielo da lampi. E al centro di quel cielo di quattro pareti esplose un sole atomico, dentro lo schermo. Vidi qualcosa che non credevo potesse esistere. Vidi colori. Quel giorno mi sentii male nell’apprendere che al mondo possono esistere i robot, persone in grado di immaginarli, disegnarli, farli volare nel cosmo. Mi sentii paralizzato. Come non potessi pensare ad altro. E mentre entravo e uscivo dal bagno infinite volte durante la notte, per nausea e dissenteria che non avevano ragion d’essere, cercavo di concentrarmi con la mente su quei giganti d’acciaio, pilotati da adolescenti.


Dice così il ragazzo a B-kool. I sussulti del treno li cullano simili a calme onde marine.


Il ragazzo si alza e fa qualche passo, dritto avanti a sé. Non guarderà mai B-kool né la cosa che è passata e sparisce in lontananza.


-mah. Non ho imparato nessuna morale.


Scende. B-kool quasi vorrebbe gemere di nuovo, ma capisce che in quell’istante il movimento si è arrestato: non si è suicidato, è solo sceso a una fermata. La vede scivolar via nei finestrini, marrone opaca, quei colori che il ragazzo portava addosso come un alone. La sagoma di lui che getta qualcosa, come una bambola, in una pattumiera. Liberatosi di quell’oggetto, la testa gli si apre, uno scrigno che erutta un flusso nero verticale, e solo gli occhiali che si ispessiscono rimangono distinguibili. Lui, chiunque sia, si avvia verso le scale di quella fermata segreta nel buio di un tempo separato, e non si volta più. Diventa una schiena.


(io non salverò maiale e scarabeo verde e non li ho salvati. Loro hanno le loro magliette e io ho la mia ape. Perché le immagini che vedo quando sono stanca e mi prendono i deliri sono sempre sia belle che morbose? Stanca, viaggio in dormiveglia in piedi mentre scorrono i muri del sottosuolo, e vedo. Sotto un’alba insanguinata, dopo ore di creature notturne, viene sacrificata sulla corteccia di un albero davanti a un portale rituale una creatura mammifera, di pelo bianco sacro, snella e agile e astuta. E come la prima luce la sfiora, api vengono a colorarla, la ricoprono tutta. Due piccole api scintillano più radianti, sopra il muso aguzzo, occupando le cavità oculari. Ma basta adesso. Dovremmo scendere tutti.)


(è finita o no questa scemenza?)


(dopo che se ne furono andati -la bestia e il ragazzo-, il viaggio riprese velocità e violenza che sono le due V che fanno la W che è il rovescio della M bianca su fondo rosso. M, W. Io gioco con le geometrie e le cappotto. Oltre i ronzii delle cuffie intrasentii la musica che era stata nascosta. E all’unisono con l’ultima nota dell’album schiacciai un bottone, simile a una ghiandola, viva e palpitante, che era apparsa di fianco alle porte, spalancate dall’anomalia che avevamo vissuto. E mi parve che quella ghiandola carnosa mi guardasse, prima che ci affondassi dentro il dito. Come conseguenza, le porte finalmente si chiusero. Così scongiurai il guasto. E basta. Nulla di speciale.)


(era solo una cosa che doveva succedere. Siamo ancora tutti qua. Io sono qui. Al mio posto di sempre.)


________________________________________________________________

Ragazzo maiale e ragazza scarabeo verde scesero al capolinea.


Siamo in arrivo a: B. uscita lato..


B-kool osservò le loro schiene allontanarsi. Andavano in direzioni diverse, prendevano scale diverse per risalire dai sotterranei. A volte B-kool si pone domande del tipo: rivedrò mai la gente vista qua? I prossimi che avranno maglietta maiale e maglietta scarabeo verde, li saprò distinguere da loro?


Camminavano un po’ intorpiditi. Prima di far passare quel macello, chiudendo le porte, B-kool li aveva rimessi ai loro posti. Tutto doveva essere nel suo giusto posto. Era riuscita a sciogliere la schifezza imprigionante maiale e scarabeo servendosi del lieve tepore delle fiamme nere che cominciavano a rinascere, e a diventare pian piano più calde. Lei aveva osservato distante dal suo posto.


B-kool li vide sparire. Non va poi così male. Lui abituato a confondersi. Lei abituata ai dolori che sopporta sempre meglio. Solo un po’ intorpiditi nei passi, naturalmente. E basta. Solo spariti come tutti. E basta. Nulla di speciale.


B-kool rimase per ripetere la corsa nel senso inverso. A volte si doveva scendere, a volte bastava rimanere lì, ad aspettare la partenza. Rimaneva lì in piedi sapendo che quella volta sarebbe ripartita. In piedi ma in attesa come una bambina seduta che agiti le gambe in un vuoto di brividi esilaranti.


Scese all’ennesima conclusione dello stesso album. Le cuffie funzionavano perfettamente. Aveva visto salire e scendere, accendere e spegnersi infinità di fiamme nere, sedute e in piedi, attorno a lei, sempre in piedi. Scese a una delle fermate non molto distanti dal capolinea A., una fermata dalla quale si raggiungeva una stazione.


Annusò a fondo l’umidità che l’accolse, e il lamento baritono dei tunnel. E il soffio caldo che sferzò lei e tutti gli altri passeggeri mentre uscivano dalle grotte fiocamente illuminate.


Liberò una mano dalla tasca per agitarla, in cerca dietro le spalle, colta da un sospetto spiacevole. Afferrava quell’aria calda. Ma da dove veniva? Nulla di quanto aveva vissuto quel giorno sapeva rispondere. Cos’era che respirava quel brutto alito nelle metro romane? E faceva succedere quel genere di cose. Guasti e deliri.


L’aria veniva dalla sua sinistra e dalla sua destra. B-kool si allontanava dalla linea gialla e sentiva ancora dietro, a guardarla, due tipi diversi di buio. In uno si sarebbe cullata, e avrebbe visto se stessa. Nell’altro non avrebbe visto niente, nemmeno sarebbe riuscita a scavare le geometrie e i pattern nelle cose del mondo coi suoi occhi esperti. Ma quale era il buio suo? A destra e a sinistra B-kool aveva visto quelle gole aperte, lanciando nei corridoi oscuri i suoi occhi per un istante affilati, scintillii di api in pupille volpine. Destra e sinistra rantolavano, mortalmente dietro lei, e si accingeva a emergere con passo lento e ritmico attraverso una fioca luce serotina, contando gli scalini e divertendosi a schiacciare coi passi i tondi gommosi delle strisce tattili per nonvedenti.


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