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soffia sull'eclissi

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 20 lug 2023
  • Tempo di lettura: 19 min

1.[ -questo è chiamato il formicaio del sole.


Sentendosi la schiena investita da qualcosa di simile a un caldo abbraccio incorporeo, come se una vestaglia fosse stata ricavata dalle squame del cielo diurno e fatta scendere su di lui delicatamente, (i.) riconobbe le sensazioni accumulate e associate allo stesso periodo dell’anno, in maniera indistinta per la sua troppo giovane età, le sue estati rappresentate da ciascun dito di una mano e i sogni cancellati nelle prime ore del mattino troppo simili le une agli altri perché potesse chiamare a sé un’abilità di associazione, di rinvenimento di riferimenti temporali. Troppo presto per poter dire “quella fu l’estate in cui andammo al lago”. Mentre quel vecchio legato a lui da uno sconosciuto grado di parentela si chinava indicandogli il formicaio, con l’atteggiamento sollecito di volergli svelare i segreti del mondo e condividerne un certo qual senso di meraviglia, la terra polverosa gli entrava nelle scarpe i cui protuberanti tacchetti gommosi rialzavano le suole, a fargli vedere le cose appena più in alto come in una microscopica altalena o un sollevamento da parte di mani giganti, volavola, volavola verso il cielo; e mentre la terra gli entrava nelle scarpe, lastre di sole, come sempre ne avrebbe riviste negli spiazzi, nelle pause dei lunghi tragitti scagliati come lance nelle ore torride, negli album di fotoricordo e nei miraggi, in gran quantità prendevano slancio dalle lisce corazze di auto parcheggiate lungo i bordi delle strade che portavano lassù, villaggio a 600m quando collina smette di essere collina, villaggio a quota sopra altri paesini biancomarroni, giganti tiramisù di compleanni cancroleone posati tra le conifere nelle valli verdi, tra i graffi di forchette di plastica in piatti di plastica verdi; e lui, così appena rialzato, mentre gli vengono mostrate le cose del mondo da mani che afferrano e altalene e mani che indicano, ancor più sorvola e diventa Re Delle Valli, nuotando nell’aria e nella vertigine d’un prototempo dove memoria e presente s’amalgamano in medesimo magma, la sua realtà è quella dove i falchi accompagnatori della sua funivia di qualche estate fa -o forse la stessa o forse tutte le estati che costituiscono ancora una sola, sconfinata, tiepida Gondwana del tempo- vengono ridisegnati da cicciotta maldestra mano mentale, (in questo modo:)


, ed ecco, dita nodose, grigie, gli afferrano il petto, attorcigliando pieghe sulla magliettina con il gatto bianconeronasorosso e il canarino, lo sollevano per fargli veder più da vicino, come più s’addice a un Re Della Valle con le sue legioni di falchi nella memoria, il gran torrione del formicaio o termitaio, una verticale lacerazione di terra rossa nel suolo tra il paese e il Bosco e la madonnina di roccia che sorveglia dalla tozza vetta di un tumulo, tra le ombre e i raggi accecanti dove quel rumore intermittente che chiamano cicale sembra lanciarsi in geyser assieme alle ondate di canicola da ogni rettangolo di asfalto ed erba. (i.) dimentica per un breve istante il formicaio, pieno di leggende operose, mai ferme, cariche di semi e uova; sospeso per pochi secondi nel vento, sente un calore estraneo premergli le costole, e sente una durezza, qualcosa gli sta bussando contro il corpo: (i.) impara per la prima volta che cosa sono le ossa, e da quel momento per sempre avranno per lui quel volto di pelle arrossata, scottature e pazienza amerindia, e avranno sempre quelle rughe e occhi giallastri dove trascorre, innominabile e ancor priva di vocabolo, una malinconia sconfinata, dorme come un dragone cieco di grotta con tutte le spire arrotolate nelle profondità labirintiche dall’altro lato delle rughe, gli anfratti nascosti del volto i cui nebulosi bagliori riescono talvolta ad affiorare fino alle pareti, in forma di impercettibili vibrazioni; malinconia forgiata da assai più numerosi anni di memoria-realtà e da una luce che, come vento e neve e morte e altre intemperie, s’abbatte diretta sulle case arroccate, afelio degli elementi.


-ecco qua!-, ansima, voce roca, parente sconosciuto, tocco sconosciuto, estraneo. (i.) si abitua e accetta, non più retrocedendo all’estraneità, soffermandosi sul Formicaio Del Sole, sulla ferma roccia alle sue pendici, tessitura rugginosa, suolo di Marte. Forse una casa di insetti, forse un mucchietto di terreno bucato che è il papà di quello che s’era chinato a osservare vicinissimo fino a inalare l’acido formico, un’estate fa, tutte le estati. Forse non è neanche questo, forse è un monte in miniatura in omaggio a quel SassoGrande che li sorveglia austero in contegno da torre guardiana dalla parte opposta della valle, dove un santo locale, pacificatore di marsicani selvatici, aveva compiuto un miracolo d’acqua sorgiva, fatta sgorgare dalla sterile arsura di quel tratto di terra spoglia. Miriam geologica.


-ecco qua!-, ripete la stessa voce, ora arrancata dal fondo della trachea attraverso tremori di un leggero sforzo muscolare, il vecchio da testa a piedi è una foglia che vacilla al vento e (i.) si sente i piedi tornare a terra in sincrono a quel movimento che gli viene trasmesso, dalle dita stanche che non riescono più a cingerlo, dalle braccia che non riescono più a sorreggerlo, e (i.) non è più un uccello che vola e che regna sui paesi e sulle strade di curve da cui sono saliti nella macchina gravata di bagagli blu -“regna” è una parola che in lui significa “guardare da lontano”, con occhi d’aquila che centrano il disco solare, scorgendovi uno schermo, un oblò che affaccia sullo spazio. Le macchine, parcheggiate, portabagagli chiusi e portabagagli aperti che simili a bocche spalancate mandano voci al suo istinto -entra, mettiti qua, acciambellati tra le valigie e dormi, rannicchiato, per sempre, per la durata del viaggio-, continuano ad abbracciarlo, scaglie radianti, della specie che s’imprigiona nelle fotografie. Il vecchio sconosciuto (ora un po’ meno: conosce le sue ossa), il Vecchio Delle Ossa che esiste sempre quassù e mai giunge risalendo da strade dove caprioli neri balzano dentro triangoli biancorossi, lo aiuta ad abbassarsi i pantaloni e con un palmo aperto ampio quanto il centro della schiena lo aiuta a tenersi in equilibrio mentre orina e s’incanta sui rivoli che scendono e si biforcano contro le pendici della struttura stalagmitica, raggrumandosi in palline di sabbia bagnata, altro mare, altra estate, altra faccia del presente. Ecco perché, nelle concavità erbose e ronzanti d’api dei prati fioriti concimati da afrore di mucche e uri estinti, aveva potuto trovare conchiglie, rosa e gialle e acquamarina, incrostate di bitorzoli calcarei. Nelle tasche assieme alle pigne e gli aghi. In un balzo bosco diventa onde. Mero involucro del movimento del vento.


Sa già alcune cose, (i.) nei limiti fisiologici scorge, aquilottogufetto, fotogrammi di futuro già scritto, già archiviato nella sua estate interiore che ha appena scoperto essere tutto: sa per esempio che, tirati su i pantaloncini e stretto di nuovo il laccio biforcuto sbatacchiante contro il tessuto blu lucido, scenderà ancora un po’ a valle, la salitella che conduce al Formicaio e al limitare dell’ombra refrigerante del Bosco di fatefollettilucciolegnomirane diventa una discesetta, e lui ripercorre il lastricato intriso di sole caduto e pigri sonni interminabili di gatti e lanosi pastori abruzzesi, supera piazza, fontanella, blocco bianco di cemento che reca, quasi accecanti di riflessi di carta plastificata sulla porta marrone, mappe verdi di parchi nazionali e illustrazioni di camosci su pendii scoscesi, ritorna alla casa temporanea che già chiama “casa”, fingendo d’aver dimenticato quella di città, e racconterà, senza nemmeno sapere perché, a dei genitori, ad altri esseri simili di cui si fida di meno ma che riesce a far finta non ci siano, che ha fatto pipì sul Formicaio Del Sole, e sa che rideranno, che capiranno ancor meno di lui, e che a quel punto si chiederà perché ha detto quello che s’era detto di non dire; ma è già stabilito che racconterà, perché ci sono racconti dentro il racconto, estati minori dentro l’estate, parentesi tonde dentro le quadre; e sdraiato sul lettino premuto contro il muro d’angolo biancofrescoazzurrino, semisommerso in stordente sonno pomeridiano, tra passaggi svelti di gechi e ragni ballerini appesi sotto il soffitto gravidi di vago incubo di mani invasive, sfoglierà pagine del libro illustrato, estrarrà dalle tasche le conchiglie, denti del mare che raccontano acqua salata che annega le conformazioni dolomitiche; e in tutto questo s’addormenterà lentamente, una palpebra alla volta, carnose tende abbassate che cancellano ogni parvenza d’ordine nel mondo e nei pensieri, e dolcemente cullato in quella nebbia mentale, soporifera come gli sguardi da tarantola delle serrande calate, vedrà già parzialmente dimenticata la sagoma di quel vecchio, come rimasta eternamente lassù tra Formicaio e Bosco, lasciata là a continuare una vita autonoma, inabissarsi nel fogliame, in cerca di funghi, un gilet bruno e un basco visti di spalle, s’arrampicano, lontano dalla sua percezione, in cerca d’un cantuccio nascosto in cui continuare a esistere, senza far rumore. Alle undici di mattina (i.) con le caviglie già consunte per l’esplorazione mattutina, una propensione alla ricerca di cose da vedere non ancora deturpata da morbi di disincanto, (i.) lungo disteso sul lettino sogna d’una vastità nera, d’un se stesso tutto nero che ci brancola e nuota dentro, e rimane così nella memoria, e quell’oscurità si sostituisce semplicemente a quella che a intermittenza vede apparire dietro le palpebre, ancora al risveglio, ora d’avere appetito, ora d’alzarsi, di sentire ancora cicale di là dalla parete che entrano nella saracinesca, mormorii coniferi di là dalla finestra chiusa, passetti innumerevoli di ragni, di un vecchio che non c’è, di dialettali sonnolente leggende.]



2.[ -non ti allontanare. Si cade facile.


Sentendosi la schiena investita dai ricordi dei lampi lanciati dalle auto, ancora. Riceve l’avvertimento, identico, sulle mattonelle, rombi di salgemma del terrazzo della Casa, e ancora quando sono dentro il Bosco, macigni rivestiti di muschio. Sembrano parole provenienti da una stessa voce, un unico essere, che tuona più grosso ancora dei giganti di montagna che vivono là, dietro le ombre delle rocce nude, GrandeSasso, Campo di un imperatore di titani. Un Gigante diverso e invisibile, senza clava e senza impronte di piedi che scombinano il paesaggio, tuona nell’aria, dietro le orecchie e dentro le pulsazioni della fronte, nel cielo sopra il campanile della chiesetta, dentro l’ombra, parlando con unica voce, e tutti i giganti più piccoli di lui e dentro di lui (parentesi tonde nelle quadre) non sono che ripetitori, sue cellule, formiche del formicaio. Eppure quella voce ha qualcosa di diverso dall’altra che gli ha detto:


-se vai nel bosco è pieno di cinghiali che ti inseguono e tu corri e urli e chiami il mio nome perché sei un cacasotto e i cinghiali lo sanno ti guardano costantemente con quegli occhietti che perforano il buio seguono ogni tua mossa perché ti vogliono rapire e mordere le gambe e………….


Forse non aveva detto proprio così. Grado di parentela, gigante sì, ma più basso degli altri, non così tanto più gigante di lui, gioco, vuol farlo ridere fingendo di mettergli paura, lo porta in anticipo all’escursione nel Bosco di quel pomeriggio, facendolo inseguire da un branco inferocito, perché così sta scritto. Festeggiato il suo compleanno, uno di questi giorni, o altri ancora, lontani, forse scorti nel futuro, gufettoaquilotto; il fiato sulle candeline, torta è un oggetto che esala da narici di cera due paralleli torrioni di fumo viola, dispersi nel fluido serotino bluastro, le lanterne come i gechi e gli scorpioni abbarbicati alla parete ruvida adiacente la terrazza.


-macché cinghiali. Non ce ne stanno più tanti adesso, è difficile che si facciano vedere.-, spiegano così le voci in coro, riferendo così il pensiero del Gigante invisibile, mentre la macchina curva prudente e pericolante a destra, lasciandosi dietro un folto di faggi imbrunito in tinta orsocamoscio, (i.) vede un finestrino d’ombre e colonne lucenti frastagliate da maculatura di fogliame che scivola dietro e si rende invisibile, lontano dal vetro, assieme allo scroscio ghiacciato d’un ruscello che sotto la strada striscia, sotto l’asfalto e il terriccio fradicio e le rocce bianche, uova d’uomini fatti di terra, scivola e s’infiltra gorgogliante senza sosta. Calpestandolo e strusciandolo e investendolo con le ruote salgono verso l’escursione nel Bosco di quel pomeriggio, lui protetto sul sedile di dietro, retrocede nell’imbottitura quasi a scomparirvi dentro e rispuntare nel confinante agognato reame del portabagagli; con le parole, formule magiche, gli fanno vedere già che animali selvatici e pericolosi non ci sono, che nulla incontreranno e che vedranno soltanto passare la sera impigliata tra i tronchi biancastri degli alberi in un posto che conoscono e a cui sanno arrivare, praticello cosparso di comodi massi dove sedersi a bere un succo, tutto passerà sopra quel momento di riposo.

Ma cos’è il riposo?


(i.) lo chiede, senza pronunciare parola, solo lasciando che le labbra cadano spalancando costantemente un vuoto di comprensione, fissando in maleducata estasi le cose senzienti e nonviventi, precipitata in abissi d’ipnosi fino a superare la soglia oltre la quale non sta più guardando niente, non vedendo più niente che con un dito tozzo possa importunare; (i.) lo chiede, alle foglie accartocciate che rotolano tra i solchi che qualcosa di grosso e quadrupede ha lasciato ai margini dei sentieri nel bosco, delimitando mondi; lo chiede alle cose fruscianti trasportate dal vento, per fargli immaginare l’autunno di quei paesaggi e farglielo respirare in qualche segreto modo che gli resta dentro nutrendolo di tracce indelebili, farlo affacciare su un altro futuro un altro spazio e tempo; (i.) lo chiede ai picchi con le ali bianche e nere che svolazzano ondeggiando col moto di farfalle di cui si sono nutriti e scappano lontano dai rumori umani, lo chiede agli spiriti di cinghiali che non ci sono, così che domande inascoltate, com’è nella loro natura, passino fluttuando tra gli spazi tubolari che separano i tronchi bianchi, lanciati verso un culmine di luce in fondo ai tunnel e le fronde. Lo chiede a quelle ombre di gambe, s’allungano e s’assottigliano, frastagliate e frammiste alle ombre dei rami, i giganti parlanti sono come gli alberi e riempiono il paesaggio e, con le teste seminascoste nel cielo, lassù dove emettono penombra e sfuggono ai dilemmi riescono a osservare ogni movimento, a cancellare ogni spettro.


Cos’è il riposo? Il dilemma rintrona e (i.) ode ascendere dalla conca del paesello il muggito bronzeo del campanile fatiscente, riposo eterno; riposo è una cosa che s’intride d’incenso e quel muco appiccicosissimo delle mani, tenute giunte per lunghe ore di silenzio, occhi chiusi stretti, gioco di concentrazione; riposo è quello stesso odore sentito nella casa di quel nonno di qualcuno che non si alzava mai dal letto, qualche giorno fa dell’estate scorsa e di tutte le altre -nell’ombra indisturbata che annegava la stanza, retrocedendo impercettibilmente soltanto attorno ai moccoli rossi sotto le madonnine all’uncinetto appese alle pareti giallastre, si distingueva soltanto lo scintillare d’un sorriso di baffi argentei, e un cenno che lo invitava ad avvicinarsi, una rotazione periodica di mano, convolute galassie di vene bluastre intrappolate nel panno pallido d’una pelle rugosa, sottile, sottilissima, come la membrana che avvolge un cuore anfibio, sì vecchio, m’avvicino e ti omaggio perché tu sei il re dei girini e dei tritoni dei gelidi stagni appenninici, specie endemica della frescura di profondità, frescura di fossa, acqua di fosso; il riposo è i suoni gutturali che i giganti, che i grandi facevano uscendo, e gli ancor più gutturali rimescolii di consonanti bisbigliate che tra loro concitatamente si mormoravano in orecchie ed eloquenti mutamenti repentini di sguardo, relegando questi discorsi alle inaccessibili altitudini delle loro bocche, perché non potessero essere intercettati, perché aquilottigufetti non spiassero coi loro occhi iridescenti nella luce e nel buio, assetati di dilemmi. Oppure il riposo era soltanto quello che i grandigiganti facevano, diventando per qualche ora simili al vecchio re anfibio, dopo pranzo, dopo il grido lanciato dal calore dall’alto delle merlature dolomitiche. Il riposo era il veleno di sonnolenza che annebbiava anche lui, nei momenti indifesi, un buco viola dietro e dentro e attorno alle palpebre in cui tutto precipitava vorticando, rimescolando, cancellando contorni -come prima, come quella mattina, dopo aver visto il vecchio, l’altro, quello vivo, quello che non è un anfibio, prima di uscire, prima di mettere le scarpe ancora piene dei granelli della terra precedente, che dicono “bentornati” ai piedi sentendoli entrare, che dicono “ci sono animali e spettri nel bosco”, quelli che, dicono i grandi, non si faranno vedere, come non si fanno vedere fategnomifolletti, la vecchia dice che si vedono le loro teste nel grano e nelle felci selvatiche quando escono ad aiutare qualcuno o fare i dispetti a chi è antipatico. Staranno riposando anche loro, in questo stesso bosco, questa stessa parentesi d’ombra, seduti sui sassi, a bere succhi e sentirsi nella testa le canzoni che uscivano dagli impianti delle macchine parcheggiate qualche curva sotto di loro, sotto le foglie dei faggi e sotto le Stelle del Jazz; il riposo è fuga dal solleone che ruggisce e se vuole ti ammazza e a quest’ora sulle rocce bianche del Grandesasso non volano nemmeno le aquile come la tua mente, perché non c’è niente, né bestie della terra né bestie del cielo né re di anfibi che non usciranno mai più dalla tana di frescura e ombra e fossa, perché tutto sparisce nell’ora in cui i giganti minori parlanti s’addormentano e poi freneticamente caffeinati si muovono, è l’ora del nulla e del suo contrario inesorabile, il sole è un disco squarciato in due parti e una è nera e l’altra è gialla e il tuo occhio rapace è sclera e pupilla, ma è accecato e non riesce a scorgervi dentro.


Per questo (i.), quando un cugino che gli sembra alto il doppio di lui e forse lo è e senza dubbio non è né come lui né come i giganti minori, quando vede la sua canottiera nera che si stacca dal sudore del petto e alzandosi s’agita somigliando al fremito toracico d’un volatile che prende slancio, e senza ali macchia con lampi di tessuto l’alone bianco del mattonato della terrazza -quando vede che gonfia i polmoni e sta per spegnere le candeline, gli dice, bisbigliando, senza aprire bocca, “soffia sull’eclissi”. Perché il suo disco solare affonda nella zona scura.

“se ti prendono i cinghiali urla, chiama il mio nome!”, gli aveva detto. Sì, era un pensiero divertente. Era divertente per lui fingere di spaventarlo ed era divertente mostrarsi spaventati in risposta.

-se vai nel bosco a quell’ora trovi il fantasma.-, gli dice poi.

Ma quale ora? Durante quale riposo?


Il bosco diventa una palla d’oscurità. Grondata dagli alberi. L’ombra è un liquido ed è un sudore, come quello di (i.) nelle mani giunte in chiesa, riposo eterno, dona a loro, Signore. Nuota nel muco che avvolge ora il tardo pomeriggio, verso la sera, ma rimani dove ti possano vedere loro, altissimi; e appena non ti vedono, distratti, tu velocemente abbassati, cerca i passaggi nell’erba e il fogliame caduto in cui puoi scorgere le orme dei piccolipopoli, gli steli arcuati e cadenti al suolo simili a colli di stanchi brontosauri, gli sparpagliamenti di granelli e sassolini sul terreno e nei riquadri muschiati, rivelano che ci è passata una presenza nata per non essere mai avvistata; entra in un tronco cavo stramazzato, scivola dall’altra parte; in questo lato ombroso di foresta, in quest’altra faccia dello spazio e del tempo e del pomeriggio in cui la sostanza emanata dal cielo e dagli alberi e da un’imminente oscurità sembra aver restituito ai tronchi e i rami un loro segreto e intrinseco color verdeacqua, cangiante in grigio, traballante come un fioco lume di lucciola alimentata da linfa, in questo mondo silenzioso e fresco cerca i movimenti degli spiriti. Vedi all’improvviso qualcosa che smuove la terra, strascica rametti e pagliuzze e passi fruscianti nei sentieri non più distinguibili in mezzo ai tronchi disposti a formare un labirinto, nei cui ventricoli (i.) finalmente riesce a scorgerlo, pochi secondi, poche eternità: intermittente, un’ombra fuggevole, che gli si sta avvicinando, passi di zoccoli, ci sono creature che hanno legno ai piedi, ci sono passi che traggono sali minerali direttamente dal suolo, e respirano con la pellecorteccia, attraverso una coltre di peli e tempeste ormonali, tempeste solari -è una creatura del lato oscuro della stella, esce solo a quest’ora: è, dal cranio fino alla coda di crespa giunchiglia, tutto un grufolare inquisitivo tra le foglie e nel fango e tra schegge d’uova macchiettate cadute sotto gli ombrelli dei funghi; l’animale selvatico esala un muschio e un micelio pungenti da tutto il corpo: (i.), tornato folletto per un istante, tornato bestiola, visualizza, come disegno del suo libro illustrato, l’odore catturato dentro le narici, riesce a scontornare una forma nell’oscurità interiore: una pelliccia irsuta si staglia nella tenebra, che anche nel mondo circostante con i suoi appennini reali e rocciosi sotto le suole si è appena intensificata a una velocità impressionante, rendendo indistinta la sagoma d’animale che avanza. Ma ecco: comincia a brillare, dal suo interno, c’è qualcosa d’azzurro e senza forma a rifulgere nel suo nucleo, fino a irrorare le vene terminali del grugno, qualcosa che gli è disceso nel torace.


-sei tu il fantasma?-, chiede (i.), ricordando la storia che un gigante minore (no, un gigante dell’eclissi!) gli aveva raccontato per spaventarlo. Fantasmi, sonni eterni. Cose che non sarebbero dovute stare sulla terra, in mezzo ai vivi. Animali selvatici calati in numero per la caccia o per l’antropizzazione o perché sta scritto, che non sarebbero dovuti esserci, non avrebbero dovuto incontrarlo, cercarlo. Che si dicesse che c’erano, o che non c’erano affatto, venivano pronunciate solo bugie, blocchi di bugie componevano l’aria, riempiendo i vuoti della rarefatta atmosfera man mano che si saliva. O almeno era questo il pensiero concepito d’un tratto e per ragioni ignote da (i.), e probabilmente l’avrebbe dimenticato, alla prossima discesa del sonno nella sua fronte, al prossimo rimescolio selvaggio di tutto ciò che c’era stato nel giorno e nella notte e dentro quel loro promiscuo fondersi indefinito, il suo personale serraglio ululante del dormiveglia.


-sei tu il fantasma?-, chiede allora (i.), stavolta senza pronunciare, chiedendo nell’unico modo in cui la domanda può ricevere risposta da parte della creatura.


-sì-, sembra rispondere il grugnito. L’anima azzurra d’un morto, che come una lucciola si spegne e s’accende, è scesa dentro un cinghiale solitario incontrato nel bosco, che salta su, allarmato, e scappa non appena ode un grido che sorvola la foresta, un’agitazione aliena.


-(i.), dove sei? Ce ne andiamo!


(i.) salta su, allarmato, cerca i passi abbandonati nel sottobosco dei piccolipopoli e si lascia dietro le spalle le parentesi segrete della foresta, la coda dell’occhio ancora lateralmente sfrusciata dal lampeggiare sempre più fioco, il trapestio degli zoccoli che s’allontanano e spariscono in un buco dell’orizzonte alberato. (i.) torna a casa, assieme agli altri, tutte le figure della vacanza, spesso opache.]



3.[e credi che infine tutto si riimmerga. In una stessa pozzanghera, forse, in una stessa macchia d’un liquido scuro, colata sul terreno primevo di queste terre, che annaspavano dal mare antico, le guglie di roccia, ultimi scogli per le spoglie dei molluschi che vi hai trovato. Dici che dopo l’eclissi tutto quanto si mescolerà senza continuità, tutto quanto rientrerà nel mare lunare uniforme del lato ombroso, un mare da cui ti sembra, adesso, d’essere nato: schiudendoti da un uovo nero di guscio molle e fluido, recato in offerta alla spiaggia grigiobalena dalle onde gonfie e irrazionali. Tu credi questo adesso, (i.), e senti me, che ti sembro una voce che parla ininterrotta dentro le viscere del silenzio, diversa dalle voci dei giganti e da quelle bisbigliate dei folletti, diversa dai brusii delle vecchie della veglia del vecchio ReDiTritoni che si riuniscono ora come piccioni sulle sedie di plastica e sembrano esser fuoriuscite dai muri delle case ed essere esse stesse parte dei muri, e diversa dagli scherzi dei cugini e i loro amici -non senti che t’accompagno la sonnolenza, che lenta sale (o scende?), in te, nelle tue parentesi? Guardati attorno: segui i lampi microscopici abbozzati dalle traiettorie aeree di insettini notturni che attraversano gli aloni delle lanterne delle pareti esterne, e mi senti mormorare con la stessa intensità del corso d’acqua sotto il paese e sotto la montagna più vicina, non sai cosa sono, e quando avrai ottenuto raziocinio a sufficienza per potermi dare un nome, già non mi sentirai più, già di me non ti sarà rimasto che un calco semicancellato negli atrofizzati recessi di una memoria uditiva che non appartiene nemmeno alle orecchie vere e proprie. E sarà molto meno, ciò che di me ricorderai, molto meno consistente d’una conchiglia fossile che conservi in tasca. Ma ricorderai che è un’unica estate, che esce da se stessa e si ripenetra e ripete e rivomita da sola all’infinito, a immagine e somiglianza di ciò che trovasti scendendo da solo le larghe scale di pietra del paese, verso un prato ombreggiato dalla prima muraglia faggioquerciata del Bosco -un colubro le cui tonalità e disposizioni di scaglie volevano camuffarlo da vipera, infondendogli nella gola un veleno che non c’era, corto, un cucciolo forse, morto nei primi istanti come Ciro lo scipyonix, la mascella slogata dalla propria coda inghiottita che lo soffocava, e una ferita sulla nuca, un affiorare, da una rubescente denudata poltiglia sottocutanea, di sottili e affilatissime vertebre, tipo lisca di pesce. E sarò molto meno di quel fossile d’un estate e di tutte le estati, e dell’impressione del tempo che nettamente s’è già iniettata nel tuo sistema, cambiandoti il dna, riscrivendoti l’anima senza far rumore. Ancora non ti addormenti? Eppure dovresti già vedere tutte le cose che scivolano le une nelle altre, in lacrime squagliate di luce; e tutte le voci, tutti i mormorii, che ancora ti rintronano dentro quando le palpebre, scendendo in letargia, diventano il suono e la sua assenza, a intermittenza diventano un colore buio che è la somma di tutt………


(i.) vede che l’eclissi è passata: riconosce posate accasciate diagonalmente nei piatti usa e getta, grumi cremosi e briciole incastrati tra dentelli, minacciosi, arma del diavolo; vespe non circolano attorno agli avanzi: ora di insetti non ronzanti; le risate se ne sono andate, in grande migrazione, abbandonando la conca vulcanica della terrazza, banchisa di placche bianche ora galleggia nella deriva di continenti antichi, c’è da migrare, trovare un altro spazio e un altro tempo dove riprodursi e nutrire nuove palle di pelo e avorio, le risate sono bestie estinte; grilli invisibili, senza corpo, come cicale sono solo un rumore intenso, meno enorme, in cui nuotano altri insetti del buio e della luce elettrica, gocce d’inchiostro della notte; (i.) alza il collo per cercare le stelle e guardarle assieme agli insetti, vedersele ammiccare in mappa astrale di pupille da i loro giacigli di lontanissima rugiada cosmica, e sente crackcrack nelle ultime vertebre, senza motivo si sente stanco del gesto di sollevare il collo e guardare, (i.) ha di questi momenti nella sua infanzia d’ossa atrofizzate, dentro di lui è tutto uno scricchiolare di vecchietti come il Vecchio Delle Ossa che ha conosciuto quella mattina, tutte le mattine, ai primi bagliori della Mattina Di Ogni Cosa, (i.) ha di questi momenti in cui all’improvviso gli fa male qualcosa, come se stesse per rompere il contenitore che manovra per muoversi nelle montagne, vivo solo d’estate, corpo fragile esplora e gioca e registra gli spettri che incontra; e adesso assieme alle Ossa anche gli Spettri sono dentro lui, e in unisono con le Ossa dolorano, mandano segnali, fino alla superficie, (i.) con occhi umidi non smette di seguire le stelle e quello che sembra il loro sporadico sparire e i disegni illusori dei voli d’insettini, uova vive, volteggi attorno ai palpitanti cuori roventi, lampioncini e lanterne che sono occhietti sparpagliati ovunque nella massa nera del luogo in cui trascorre una vacanza, case di zii di parenti di cose che in silenzio continuano a esistere lontano o forse esistono soltanto ogniqualvolta gli vengono in mente, e tutti quei momenti come da un vortice vengono risucchiati nello stesso serbatoio estivo del tempoprimadeltempo, il recipiente del Tempo Unico.

Gli insetti sono già gechi muraioli svelti a rintanarsi nei buchi della parete della cameretta, sono lampi donatigli dalle palpebre in sporadici momenti di vigilanza, oblò sulla luce bruna aromatizzata del bagno, i suoi piedi immersi nella sorgente cristallina del bidet con il suo letto di levigata roccia bianca, ruscello, sulla sua pelle dormiente il tocco glaciale dello stesso ruscello del sottosuolo intero, e le sue dita sott’acqua mandano bolle, tritoni rosa, (i.) è già suddito di un Vecchio, (i.) ha visto passare il solleone intollerabile assieme alla sua faccia nera, (i.) ora è da solo, completamente solo, come sempre prima d’addormentarsi, (i.) è nel letto da un momento all’altro, ammantato da una patina d’erbe alpine saponificate, come incenso che gli obnubila le ciglia, mentre con l’abatjour ancora accesa lui si spegne e cancella la stanza, e vede uscir fuori in guizzi spettrali dal libro poggiato sul comodino al suo fianco e rinchiuso come scrigno i camosci delle illustrazioni, e mescolarsi con le aquile della sua mente ch’erano copie di se stesso, e i gufi, e una faccia di raggi e una faccia di crateri, e gli occhi suoi e degli altri, e il pigiama suo e degli altri, e un ruzzolare eterno di cose giù per i pendii che ha scalato, salire e scendere, salire e scendere, come tutto quello che ha dentro, ogni battito, ogni palpitazione, ogni vuoto e pieno; e (i.) scende in una dolcezza sconfinata e terribile, popolata di incredibili mostri e bestie mai viste né ricordate, fossili sprofondati, risucchiati da un vortice estivo nascosto negli strati geologici della crosta terrestre, mai ritrovati, mai resuscitati in nomenclatura, dimenticati, dolcemente dimenticati, per sempre, senza forma, come lui, che diventa goccia di quell’unico plasma che scorre, e s’arresta, e non capisce se si muove ancora o se è un morto, un riposo, un sublime nulla radiante che dentro le palpebre ancora giunge a intiepidirgli le superfici degli occhi, come una patina arancione trasmessagli dall’abatjour fin nelle carni della nerezza interna, o forse dal cuore di una voce silente che gli batte vicino trapassando le pareti di una parentesi che lo ingloba in eterna gravidanza, sprofonda (i.), nello spazio prima del sogno che mai saprà nominare, e lì diventerà re, sorvolando le montagne che lì s’ergono, e diventano lui, e lo cancellano, e lo annullano, e lo annegano, tornando al mare dell’inizio, la prima estate mai vista dall’universo.]



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