significante altro
- Milky
- 14 mag 2023
- Tempo di lettura: 19 min
Aggiornamento: 17 mag 2023
Come dentro un fluido, scivolo dall’altra parte. Mentre emergo dall’oscurità di respiri disciolti nelle profondità di una sorgente, continua l’impressione di ricevere segnali incessanti, mi inseguono ancora. Dall’altra parte una voce mi dice che è troppo buio perché possa distinguere lo scricchiolare del sangue che ho dentro dal digrignarsi delle fauci là fuori che lo bramano, e si separano e riuniscono per lasciar passare le formule, facendo rumore.
Lo scricchiolio dell’acqua si accumula nelle mie orecchie e ondeggiando, a destra e a sinistra di continuo, mi culla in un sonno che sembra la pancia buia di una barca, e in vertigine svanisco pacificamente come vorticando in uno scarico tenebroso di infinita dolcezza.
Acqua nera mi entra nelle vene.
…
Ci sono tracce bagnate sull’asfalto, strisce qua e là nel marciapiede. Custodisco questa informazione e me la porto al sicuro, dove diventa il gesto di qualcosa che trascina qualcos’altro da un fradicio nascondiglio tra i canneti, lasciando scie. Intanto dimentico il marciapiede e tutto il resto. Varco il cancello e prima di entrare nell’edificio che aspetta il quotidiano ripetersi delle mie azioni ininfluenti e torpide mi reco a pregare. Svolto per costeggiare le scale e cercare il luogo.
Come in un fluido, scivolo nella penombra tra il cortiletto e lo specchio d’acqua, sono un ospite abituale che viene accolto dal semplice scoccare della solita fase della giornata, assorbito armonicamente in un arco temporale. Questa è l’ora della tartaruga: c’è un odore membranoso di zampe palmate. Tra le dita un tessuto proteico che con particelle gelatinose cattura un’umidità profonda, moltiplicando gli odori, venendo moltiplicata da essi: fondi di vasi floreali pullulanti di larve di zanzare, sassi lisci e scivolosi, pioggia raccolta in corolle dai colori freddi sprigionano intensamente il respiro, come sempre, ogni volta che mi accorgo del venticello -quando cioè soffia abbastanza rapido da riuscire a sollevarmi la maglietta e scoprire una porzione d’addome, rendendomi vulnerabile.
Per pochi istanti mi sento rovesciato, con il carapace sulla pavimentazione a placche, forse anche lei carapace per una molle poltiglia ipogea -organi del sottosuolo, memorie che si decompongono. Mi guardo intorno: no, nessuno sta guardando, pronto all’assalto. Né sulla piattaforma sopra gli scalini, né nel marciapiede da cui sono venuto e che sto cercando di non guardare. Sono solo in questo luogo, questa frazione e momento. L’odore lenisce per insegnarmi che nel vento non c’è solo la potenziale brutalità che mi denuda, c’è anche un segnale buono, c’è una placidità segreta e preziosa nel suo soffiare, come il mio prezioso momento confessionale quaggiù. Ma in parte ignoro la morale contenuta nella parabola e facendomi più vicino al bordo dell’acqua mi metto a osservare con maggiore intensità le cose e i fantasmi che ci sguazzano dentro. I punti cardinali cingono amorevolmente quattro sassi collocati su ciascun lato dello stagno, quelli irraggiungibili e quelli transitabili dalla stirpe dei visitatori scemi di cui rappresento un esemplare. Uno dei sassi dovrebbe essere la tartaruga-serpente del nord, gelida nelle sue vene nere e blu. Io riarrotolo le mie spire dentro un carapace che non porto sulla schiena, non solo. Spazio e tempo e ogni cosa. L’ho costruito con ogni mezzo.
Un mormorio si nasconde nel vento come fanno quei sentori stagnanti nel più ampio odore del presente. Non c’è nessuno e si è al sicuro, ma qualcosa mi dice che tante cose stanno sollevando un chiacchiericcio insolitamente fitto.
Deve esserci una sincronia tra questa giornata, queste sparizioni degli altri pericolosi, la mia necessità di quiete e un qualche giorno di festività legato al santuario che anticamente sorgeva su questa stessa collinetta e di cui non rimane minima traccia e di cui nessuno sa assolutamente niente.
(santuario al cinghiale. Un affaccendarsi di passi veloci di genti pelose simili a galli cisalpini che trascorrono come ombre tra gli arbusti e le erbe alte del passato e lasciano sepolta nel terreno, qua sotto questi piedi e questa pavimentazione e questo suolo, una singola zanna.)
A un certo punto gironzolo, come quando c’è qualcuno e il tempo comincia a scorrere in un’altra maniera, i secondi che mi dicono affrettati, il cuore che mi dice “ahia”, sussulto della fretta e degli sguardi. Non c’è nessuno però. Avanti e indietro lungo il confine con l’acqua, scrollo le spalle, mi concentro sui passi. Le carpe disegnano con le pinne caudali numerosi vortici sul limo basso del fondale. Segnali di un mondo sottile. Arco d’ombra sotto l’incurvarsi del tronco che si rispecchia sulla superficie, roccia sporgente dove in solchi rugosi riposano acciambellate e invisibili le spire draconiche dell’est. Il vento passa di nuovo, insistente in questa giornata, e mi dice con maggiore insistenza di avvicinarmi e guardare bene. C’è silenzio attorno, non esistono sguardi, non di quelli che irrompono: saranno forse dentro l’edificio, in stanze ipotetiche che non vedi, e nella strada adiacente, nelle torride macchie di sole che, più grandi del giardinetto appena fuori dal cancello, tappezzano la città e le sue nuvole d’aria traballante sudate dall’asfalto. Chiudi tutto fuori di te: c’è lo stagno, e la tua faccia là dentro.
(Torna alle carpe. Pensa alle carpe. I pesci e le creature viscide e sguscianti. Nuotano nel mare della libido che preferisci, quella fredda che assomiglia a………)
Irrompono, gioiose. Simili a gatti con la coda ritta a buongiorno accorsi per i croccantini portati da una gattara abitudinaria, le carpe si precipitano sotto il mio riflesso come aspettando che da un momento all’altro si muova, traendo una manciata di mangime da una delle sue traballanti incorporee tasche. Appena sotto il pelo d’acqua sporgono le bocche in ventose intermittenti che mi baciano il vestiario e mi scompongono in un’ondulata danza di anonimi, effimeri riflessi. E in gratitudine seguo il loro movimento quando guizzando si ritirano, schizzano disorganizzate verso direzioni separate, giocano. Seguo per pochi istanti quelle che vanno verso la curva dello stagno che sembra diventare un ruscelletto, quell’incanalatura radente gli alberelli e le rocce inverdite che non si può seguire per via di una transenna. Ricorda le funi che cingono tronchi e recinti sacri. Seguo per un tempo assai più lungo (non saprei dire quanto, bisognerebbe chiederlo alla tartaruga eremita che dà il nome a quest’ora) le carpe che si immergono nell’acqua nera dall’altro lato, là dove lo stagno striscia fin sotto le fondamenta stesse dell’edificio sollevato a palafitta, diventando pura ombra. Sto a guardarci dentro per un po’.
Mentre i granelli bruni ricadono uno dopo l’altro in nebulose fluttuanti sotto le code delle carpe, uguali a ogni altro movimento incastonato nella trasparenza impercettibilmente clorata dello specchio d’acqua artificiale, qualcuno mi chiama all’improvviso.
Mi giro. Non c’è nessuno. Benissimo. Tornerò ai momenti che si ripetono e ripeteranno sempre, circolo di ripetizioni e deterioramenti. E come un ladro infiltrato dietro l’ombra delle carpe, un tallonatore di code di pesci, ruberò il tempo da loro tracciato. Seguirò le stesse tracce ogni volta per raccogliere manciate di quel tempo fatto vorticare bruno e viscido e così elegante. Invece di dar loro del mangime. Invece di ascoltare quelli che mi chiamano. Come uno stalker che fissa jpg imbalsamati dall’altra parte di uno schermo per ricomporseli a modo proprio nella fronte, in un collage intrasinaptico delle vite altrui, inoffensive, plastiche. Stalker di pesci. Ladro di secondi.
E mi chiama ancora. E adesso che c’è. E adesso mi hai proprio stufato. E va bene, l’hai voluta. Estrapolo, nervoso, da una tasca sporca di mangime per pesci d’acqua dolce una serie di frasi fatte che possono farmi comodo nel circonvenire il trauma del primo contatto, distraendo me e l’interlocutore nella sempre ripetuta forma di distrazione reciproca che in questi casi…… rinuncio a concludere il ragionamento, stanco di difendermi, rovesciato sul dorso. Abbasso gli occhi alle mie scarpe che stanno a pochi centimetri dalle increspature e mi volto verso l’area molto incerta dove più o meno mi sembra sarebbe potuta provenire la voce se fosse stata qualcosa di fisicamente esistente.
Sono in piedi affianco al basso hinoki storto e allo sciaguattare sporadico delle acque nere. Non c’è per forza un pesce. A volte qualcosa si muove. La voce da sola, senza che qualcuno esista per pronunciarla, dice qualcosa.
“e non c’è bisogno ogni volta di allarmarsi tanto. Volevo solo aggiungere dei commenti estemporanei. Delle citazioni, anche.”
Citazioni?
Ma sì, che male c’è. In fondo non è poi così orribile quando nel silenzio tutt’a un tratto ci si sente rintronare in testa una frase sbucata da chissà dove. Questa cosa non l’avrei accettata, un tempo. Starò cambiando molto, starò stancandomi molto, starò deteriorando, starò ripetendomi, starò facendo qualunque cosa sia quella che fa il tempo che trascorro in posti come questo, starò……….…
“volevi startene in santa pace, eh?”-, mi disarma la voce con una frase fatta che ha estratto molto velocemente.
In effetti non si sta male nemmeno con un mormorio ogni tanto. Ma sì. Se mi facessi rovinare da poche intrusioni dell’esistente un momento di preghiera -pochi minuti che diventano un arco di ore e ore, con tanto di carapace e dita palmate-, significherebbe che il mio raccoglimento è imperfetto. Ma sì. Giustifichiamo.
Un’altra voce di uguale inconsistenza, o forse la stessa che adotta un tono piuttosto diverso, dice all’improvviso, citando frammentariamente:
“La prima pietra nell’edificio della solitudine di Sōseki procedette lungo la via della conoscenza di sé, scavando sempre più a fondo negli anfratti dove si celano i dubbi, le angosce, gli smarrimenti, ma dove sta anche la linfa della creatività.”
“…andò a Matsuyama nello spirito di rinunciare a tutto e seppellirvisi….”
“…forse il suo bisogno di calore e affetto lo aveva spinto inconsciamente a…..”
“….dilemma della sua esistenza che lo aveva attanagliato fin dagli anni di studio a Tōkyō: nessuna lettura avrebbe mai colmato…….”
-sì.- rispondo tossicchiando.
Sento la voce che si sparge e allontana retrocedendo verso un orizzonte probabilmente ostruito da pini marittimi e fili fluttuanti del tram e palazzi e scalinate e sampietrini e squame di sole. Si fraziona in eco e fa ritorno verso lontane montagne di nebbia e muschio. E io sto là in piedi accanto al solito hinoki, che odora di piogge da giardino, e un ulivo, prosaico, che odora di una pausa d’ombra solitaria dal tedio di un matrimonio mediterraneo dove gli antipasti stipati in eccesso sulle tavole hanno cominciato a decomporsi in una schiumetta fermentante dal primo momento in cui sono esistiti. Nella pioggia del giardino rinfrescato dalla penombra sotto l’engawa o nella canicola pugliese, voci di libri vagamente ascoltate dai recessi delle meningi stanche, come passando di fianco agli scaffali mormoranti di una biblioteca.
Già. Ritornavo e ritornerò spesso qua e mi accompagneranno spettri di parole che non colmarono il vuoto di Sōseki quando non era lui a crearle. Mi proietto in giornate popolate da proiezioni di altri esseri lanciatesi da sole nello scorrere dei secondi, il cadere dei granelli di sabbia e limo e acqua: passo attraverso corridoi labirintici e raggiungo un angolo lettura dell’edificio, macchiettato dalle squame del sole filtrate dalle tende di carta sottile e i muri ruvidi e asettici, così che non siano più intrusive nell’ombra, e seduto a un tavolo apro ancora una volta Sanshirō e vivo dentro e fuori le pagine una biblioteca dove il sole entra e diventa concetti.
Sempre qua. Qualcosa fa un lamento gutturale e sguazza via in un angolo dello stagno -si è espanso, bagnando una porzione maggiore di mondo. Un tuffo di svasso nell’invisibile.
“ciao”-, mi fa cortesemente un signore di mezz’età in grigionero alla mia sinistra, alla stessa distanza dall’acqua. Potrebbe essere qualcuno in carne e ossa, potrei dover allertare nervi che mi costellano il primo strato sottocutaneo: potrei, ma non lo faccio: fermati un attimo: solo un attimo di silenzio: non c’è da temere. Respiro profondamente: l’inspirazione è regolare, non si frantuma. Faccio un cenno in risposta, si tocca la tesa della bombetta. Non è che l’abbia propriamente visto. Ho visto la fugace impressione della sua scomparsa. Guardando nell’occhio, ambrato e lentigginoso come una lancinante congiuntivite, di una carpa affiorata leggermente all’ossigeno suo veleno -guardandolo come naturale ritmo dell’interazione e della conseguente ricerca d’altro, per poi tornare alla sinistra dove il signore s’era presentato, ho visto la sua assenza e l’odore della sua uscita di scena, odore del fantasma di un ombrello. L’uomo con aria da professore è soffice e intriso di una pioggia come quella londinese, generata in latitudini dove i colori scompaiono naturalmente. È passato non per salutare. Pregare. Come me davanti allo stagno. Davanti al ritorno frequente quaggiù, un’ombra ogni volta diversa nell’impercettibile, uguale l’interno.
(capisco allora che dentro l’edificio in questo momento, nell’aula lettura completamente deserta, se ne sta, lasciato aperto al centro di un tavolo, un volume partorito dalla mente di uno scrittore semisconosciuto. Dentro le pagine l’amarezza ha edificato una città kafkiana dove oggetti come gli ombrelli, divenuti coscienti, hanno creato una burocrazia, un cimitero, matrimoni e funerali, e nelle vie claustrofobiche tra i condomini brulicano in perlustrazione regole e allegorie boeme, creando leggi e società e perfino un aldilà per gli ombrelli -tutto è spiegato con un’ossessione maniacale che nelle intenzioni dell’autore dovrebbe mandare attraverso la carta una zaffata di corridoi intasati da file chilometriche.)
Qualcosa compare alla mia destra. Come era il professore, in piedi come sto io, stessa distanza. Guardo avanti verso il masso del nord (ho deciso che il nord è sempre avanti, l’ovest sempre a sinistra, l’est sempre a destra, il sud sempre dietro). Ci sono molte parti di questo posto che non conosco. Mi farò bastare sempre lo stagno. Nelle acque c’è quel che cerco, nelle acque c’è….
(ma cerco ancora qualcosa?)
Un’ombra nera offuscata da una matrice di particelle nebbiose in contorsione mi sta accanto. Stesso cenno di prima.
Cerco nell’acqua le altre forme fredde che appartengono a questa unica preghiera d’ombra che è questo posto -rane, insetti d’acqua, pesci più piccoli, alghe, sassi scivolosi, uova, fori nella pelle causati dal morso innocuo di un serpentello.
L’ombra accanto a me è stata completamente sostituita. C’è un corpo ora al suo posto.
Penso al punto di incontro tra queste acque piene di carpe dell’est e il santuario che sorgeva qui millenni fa, retrocedo attraverso boschi ridotti a polvere e fossili nel sottosuolo, dove liane carbonizzate stanno abbarbicate a una zanna sacra sepolta. L’altro emisfero del cervello contemporaneamente pensa alla città frastagliata di escrescenze di tumorale cemento, di cui non ho letto, so che esiste nelle pagine dell’autore oscuro quasi mai aperte dai vivi. Il mio pensiero viene dissolto dall’apparizione di una persona.
Non c’è errore. Sta accanto a me una donna che esiste. Comincio a emanare un sudore fetido e ghiacciato, giro il collo a destra e sinistra, facendolo cigolare. Cerco nel mondo di là dal cancello se sono ritornate le persone, mi forzo a immergere per pochi secondi la testa dall’altra parte dello schermo per sbirciare là dove sta l’asfalto romano sporco e vessato dal sole, per vedere, come la carpa affiorata nel veleno, se è scoccata la fine dell’ora della tartaruga. Ma tutto sembrerebbe vuoto e sospeso come prima.
C’è solo lei. Solo lei è viva in una parentesi rotolata fuori dal tempo, fin dentro un tempo privato.
Per qualche motivo la cosa mi fa ancora più paura.
È vestita con abiti tradizionali che si addicono all’ambientazione. Un grosso obi le ricopre completamente la vita, sopra e sotto la quale si dipanano nel tessuto rivoli venosi ispirati a fitte ramificazioni rosse su fondo bianco, dove irrompono ogni tanto le gocce blu di un motivo di onde marine. Dalla giovane silhouette emergono, come un’esplosione di titani primordiali da una palla di caos, i capelli crespi, centenari nell’aspetto. Corvini ma sfibrati, si allungano fino alle caviglie, altri si sollevano, elettrostatici, come appesi tra pochi e quasi invisibili fili argentei sparsi qua e là nell’uniformità nera e rovinata della chioma. Sotto le masse stoppose separate da una riga l’ovale del piccolo volto, congelato in una giovinezza colma di rimpianti per qualcosa di interrotto troppo presto, mi cerca e per un tempo che sembra lunghissimo si gira fino a mostrarmisi tutto.
Continua a guardarmi, temporeggio cercando ancora l’occhio che… ah, la carpa è sparita. Una goccia verticale si è lanciata ed è ricaduta dritta, riassorbita in un istante dall’imperturbabile tensione superficiale. La carpa in tutto questo è nuotata altrove, sgusciando inafferrabile agli occhi da airone di qualunque cosa volesse leggere un rapporto karmico di causa-effetto nel suo esserci stata ed essere sparita. È difficile cogliere gli attimi dentro questo arco temporale che si comporta come l’acqua e il limo là sotto. Ogni cosa sfuma nel flusso dell’altra. Un professore diventa un’annegata o qualcosa del genere. I capelli hanno continuato a invecchiare mentre il corpo deteriorava e nello stesso tempo veniva conservato dal veleno dell’ossigeno irrespirabile, disciolto nell’idrogeno dell’ombra.
Non c’è carne né colore nel volto del tutto reale della persona che mi sta accanto.
-non ci sono più pesci?-, mi chiede all’improvviso.
Ah. Mantieni la calma.
-ah, eeh, a volte se ne vanno lì. Vedi?-, indico il canaletto laterale. Dove belle e aromatiche piante palustri stanno in fila lungo la costa bordata di cemento, mai disturbate.
E guardo a sinistra. Dove un pezzo di stagno striscia sotto la piattaforma a palafitta che conduce all’ingresso dell’edificio. Dove ci si potrebbe immergere per nuotare idealmente fino all’altro lato, visto solitamente soltanto attraverso le finestre della sala di lettura. Là dove stava l’altare per il cinghiale. Dove stanno i cipressi in fila, e le case dall’altro lato della collina, e mucchi di verde e mucchi di fili sospesi e mucchi di statue e roccia trasformata in solidità calpestabile, squame di sole che in stormi dal cielo assaltano Valle Giulia.
Se fossi un pesce andrei là sotto. Protetto da un tetto. Sembra di stare nella pancia della nave.
-mmmh…-, fa lei, come intercalare. Si scosta una ciocca da una spalla. Il kimono stretto cigola. È vero e solido. Raggela internamente la mia gola.
Penso al fatto che all’improvviso c’è una figura del genere nella mia percezione, intrusa nel raccoglimento di preghiera. E penso che l’antica esistenza di un santuario del cinghiale in questo luogo, da me captata senza dubbi, non mi emoziona più come avrebbe fatto un tempo. Bastava avvertire la presenza di essenze ancestrali negli angoli nascosti, prima, per sentire qualcosa, come fossi stato io stesso in ginocchio davanti al teschio della bestia, potendo toccare le zanne con le dita concave e assetate di una cosa chiamata anima. Tutto è dimezzato. O deteriorato. Le carpe sembrano grosse solo per la rifrazione. E immagino che ventri bianchi vengano talvolta ritrovati gonfi e rovesciati a galleggiare. Li recupera il retino impietoso del personale che stringe l’asta a mo’ di lancia. Li vedo aggirarsi quando entro, dico salve, esisto io ed esistono loro, e l’istituto scorre lento nel pomeriggio assieme alle lancette dell’orologio. Penso poi ad altri cadaveri. Innumerevoli libri aperti sui tavoli per la lettura, che irrimediabilmente si ricoprono di quantità sempre maggiori di polvere, così tanta da cancellare tutte le parole che un tempo avevano custodito interi mondi.
Si volta di nuovo, molto più velocemente di prima. Mi cerca. Occhi ridotti a due sottilissime ferite fluttuano sopra un sorriso ampio quanto l’intera faccia.
-utsubyō.-, dice, con il tono di chi prende in giro un bambino.
-eh?-, dico, avendo capito benissimo.
-usotsuki.-, dice allora. Imita spettri che prendono in giro.
-ma no, ma no…-, svago. Lo sguardo a terra, ho tutto il tempo per accorgermi piano piano di cosa sto guardando, pur essendoci gli sguardi di lei, il suo respiro, a incalzarmi. E mettendoci il mio tempo vedo l’ombra sua biancastra proiettata tra mattonato e sabbia, e l’ombra in alone separato dei capelli più ribelli. Vederli ha prodotto nella mia memoria il cigolio di un’enorme ragnatela congelata. Ho visto i piedi esangui di lei, color di valanga, mentre in un istante discendevano l’altura in cima alla quale sta una solitaria ma accogliente dimora lignea un po’ malmessa. In una finestra si scorge un singolo lumicino lasciato acceso. Non so se abiti là, ma ce la faccio abitare, dentro me, le dico entra in questa casa, te l’ho preparata, per tutti i momenti in cui sei lontana e per me non esisti. Se accettasse il mio invito e scricchiolasse sedendosi su una vecchia sedia a dondolo tra la penombra inespugnabile e gli spifferi che passano impetuosi da un camino, mi chiederebbe dove mando ad abitare tutte le altre cose quando le cancello dall’esistenza, quando le escludo. Me lo chiede inquisitiva. Forzandomi a costruire delle case accoglienti, solitarie in cima a monti separati da tutto, per ogni cosa.
La sua forma reale di nuovo interrompe il mio pensiero.
-ho preso il tram.-, fa lei.
-mmh..-, faccio io, intercalare incerto. Vorrei dirle: usotsuki. Mi sta fissando. I suoi occhi ora sono molto più definiti. Le guance un po’ più gonfie, ha un leggero sorriso chiuso, labbra piccole, elastiche, sanno rimpicciolirsi e ingrandirsi come un fiore di carne dispettosa.
Mi sento stanco e voglio andarmene. Il balsamo di questi momenti mi si presenta in tutta la sua esauribilità, una manciata nel mio palmo a ogni visita, una giara si svuota. Paura del suo deterioramento. L’emisfero del mio cuore che annaspa per poter respirare la frescura dell’ombra esisterà sempre, portandomi qua. L’altro emisfero fatto di tessuto e sangue si deteriorerà mettendomi faccia a faccia col tempo che scorre, finitudine di quei granelli di sabbia apparentemente infiniti -tanti sono quelli che si disciolgono fluttuando a mezzacqua ancor prima di ricadere, tanti sono i milionesimi di secondo per sempre perduti. L’emisfero in ombra mi dirigerà qui. Ma cosa porterò allora nell’altra metà? Il prurito che sento nel moncherino delle mie sensazioni passate si sarà mutato in un odio per tutto? Anche per i libri e le parole, e per gli dei ungulati collocati su altari di corna e zanne e rami nel bosco dove il sole scivolava in egual parte con l’ombra, dove luce e buio erano armonia. Non mi commuoverà più il passato, non mi terrorizzerà più il futuro?
Sto cambiando. Prude un pensiero mai sperimentato prima d’ora. Devo dire a lei del santuario?
Lei non sembra sentire quella voce fluttuante di prima, tornata e ascoltata vagamente, come il canticchiare di un vicino di casa che stia innaffiando dall’altra parte di una staccionata di bambù. Sembra essere una nuvola di vocali e consonanti che sta facendo il giro lungo dall’altra parte, otturata dall’edificio.
“Mi porta qui un vecchio impulso polverizzato, lentamente ricompattato in uno nuovo, significante altro.”
E mi accorgo immediatamente che sta imitando la mia voce quando la sento che si rivolge a qualcuno, lamentosa, sbagliata. Vola assieme agli uccelli del parco della villa, in cima alla scalinata che guarda la collina dove ci troviamo. Una triade di pappagalli storni e cornacchie sorvola i due tre alberi superstiti del millenario boschetto prelatino.
“raining all day, trying to reach you, feel so helpless, can’t stop counting time.”
-guarda che se vuoi arrivare dall’altra parte,-, fa lei, seria come solo tutto ciò che è solido e di zigomi spessi può esserlo -si può fare.
-eehm, sì.-, dico. Immagino parli di entrare nell’edificio. Corridoio. Chiedere al personale. Che nel frattempo dovrebbe essere ricomparso. È assurdo che solo lei esista nel vuoto che ho creato. O tutti o nessuno.
-no, ti sbagli.
Agita le lunghe dita unite della mano a formare una racchetta, tenendo il palmo all’ingiù le scuote con movimento ascensionale per tre volte in direzione dell’ombra dove ero andato in cerca dei pesci.
-là!-, esclama, invitandomi a guardare meglio. -guarda che ci si può passare!
Non riesco a non guardarla incredulo. Questa è una persona reale, che mi sta suggerendo di fare cosa, esattamente?
E per qualche motivo l’esitazione è stata completamente cancellata, completamente da sola, dall’interno delle mie gambe. La gamba sinistra è già in acqua, facendo un fracasso sciaguattante, un viscidume di fondo, una patina oleosa che non sembrava affatto esserci nelle increspature così eleganti come una calligrafia di inchiostri perfettamente dosati. Non c’è rimedio al reale: sono con un piede in acqua innegabile, a chiedermi che sto facendo, che sto facendo, che sto facendo.
Perché lo sto facendo, perché lo sto facendo, perché lo sto facendo. Perché mai si fanno le cose in questo mondo? Anche lo scrittore, disperato contro le leggi: per forza su carta doveva mettere le sue cose, e farle leggere? Non poteva fare come faccio io, e leggersi le cose da solo, e sentire voci e citazioni nel vento? Anche i galli cisalpini prelatini o chi diavolo fossero: non potevano venerare il dio cinghiale in silenzio, su un altarino d’astrazione privata, senza scomodare vere corna e zanne e rami, andando a pasticciare con l’esauribile materia del mondo?
-ma come perché!-, esclama lei, non interpellata. -sei strano forte tu: ma se hai detto di voler andare a vedere i pesci e quello che c’è dall’altra parte dell’edificio!
-no, è che, pensavo…-, provo a tergiversare. -..vabbè, dai, un giorno può essere che la faccio una visita guidata al giardino. Se mi va. Forse. Non lo so.
Sospira esasperata. Socchiude leggermente gli occhi nel darmi le seguenti indicazioni, le labbra come non mai in contorsione.
-vai, vai, fa come ti dico. E non voltarti.-, mi fa di nuovo il gesto scacciamosche.
Va bene. Continuo a camminare nell’acqua. Ogni volta un fragore esuberante. A malincuore osservo quanto più grassi e grossolani siano i solchi delle onde che si frangono dal cerchio dei miei polpacci nell’acqua rispetto alle eleganti pennellate di fluida terra sollevate dalle code delle carpe. Che per inciso sono tutte scappate da qualche parte, in un’ombra che non è questa, nel canaletto.
Comincio ad avvertire un gelo, diverso da quello di prima, dentro i femori, e il timore che da un momento all’altro venga uno dei sorveglianti, riesumato alla vita da una nicchia del tempo parallelo dove esistono delle persone e io non ho smesso di guardare la città schiacciata dal sole fetido di plastica bruciata. Mi aspetto proprio che dica una frase fatta del tipo “che cazzo stai a fa nell’acqua, esci subito!”, e non sarebbe una citazione fluttuante nell’aria. Nemmeno un rimprovero. Non lo so che cosa sarebbe né se ha una morale.
Comunque continuo ad avanzare. Mi piego per poter passare sotto la piattaforma. Non mi sembra però di star facendo davvero quello che avevo fantasticato di fare.
-vai, vai, non aver sfiducia!
Sono inclinato nell’ombra, meno gentile sui miei occhi rispetto a quanto avessi immaginato. Non si comporta in maniera così diversa dalla luce del sole odierno.
-ma non mi sembra ci sia un passag…
La sua mano è nei miei capelli. Li tira con forza inimmaginabile. Esercita pressione e qualcosa nel mio collo si spezza, plasmandomi al volere della sua presa.
Ok, adesso ha decisamente smesso di essere una persona reale.
-è ora di andare giù!-, esclama, prima di forzare la mia testa a tuffarsi in un turbinio di bolle del mio stesso respiro mozzato, sotto la superficie. Bianche e caciarone, se ne vanno in rivoli gorgoglianti ai lati delle mie guance e dei fili di muco che sfilano dai miei schifosi orifizi facciali, fluidi cacciati a forza dall’imbarazzo e la vulnerabilità. Polmoni e cervello mi si gonfiano dello stesso colore chimico che vidi quando mi immersi in piscina per la prima volta, ingoiando litri della forma liquida della nausea da spogliatoio che avevo avuto pochi istanti prima quando mi era parso di inalare tutte le babbucce di plastica azzurra e i calzini sporchi di questo mondo.
Il suo braccio inesistente è forte. Mi immerge, mi battezza ancora una volta.
-è bello là, dall’altra parte. Vacci, no? Non è quello che hai chiesto? Che volevi? Che non dicevi a nessuno di volere? Non è la tua bramosia, sconfinata e repressa? Eh? Vai giù, più giù ancora.
Comincia a essere davvero pesante immaginare ogni tipo di interazione con il prossimo in questo modo.
E va bene. Hai vinto tu.
Nella mia successiva fantasticheria non sono da solo. O meglio, non lo sono alla fine del transito dall’altra parte. Sei con me e ti mostro il santuario. Te ne parlo, anche, indicandoti i dettagli del suo aspetto e la sua storia, le cose che ho appreso e custodito con gelosia, prima di essere corrotto da desideri insensati.
(come pesci ritrovati a galleggiare da un retino, nell’ora che volge al termine. Chiude la biblioteca, un bagliore azzurrognolo si riga d’arancio nelle nuvole lontane oltre la collina e s’impiglia tra i rami dei pini che ombreggiano il marciapiede, tra fili elettrici, tra lontane ali dei gabbiani che osservano dall’alto questa sera e le stesse figure di sempre gettarsi nei tunnel sotterranei, sparpagliati in direzioni diverse sotto sette colli ormai invisibili. Da un laghetto artificiale vengono raccolti pesci finiti col ventre esposto all’aria, all’ossigeno velenoso, per colpa del loro nuovo desiderio di altri pesci, morti di crepacuore. Ciascun esemplare, in realtà, aveva disegnato leggiadri archi di sabbia, e così azionato il tempo, dentro una boccia segregata dalle altre. Dalle squame lucenti del bel manto grondano rivoli che passano attraverso i fori della rete e picchiettano la superficie, sollevando un afrore clorato e un frastuono che sembra dover demolire gli alberi e le infrastrutture.)
…
Mi ha messo nelle acque nere. Sto nuotando. Qua sotto si vedono cerchi di luce: se si nuotasse attraverso il buio si raggiungerebbe l’altro lato.
Se dei pesci hanno mai nuotato qui, lo hanno fatto da soli, ciechi, e poi accanto a banchi popolosi di macchie, portali distanti di biancore che sembrano istantanee da un altro mondo. Entrandovi, si uscirebbe dove c’è molta più luce, e gli alberi sacri sono stati tagliati. Dall’altro lato dell’istituto, dove dal declivio si sorvola con lo sguardo Valle Giulia, il santuarietto viene investito in pieno dai raggi obliqui, da poche gocce vaporose di uno spruzzatore serale.
Con la testa ancora mezza immersa nell’acqua, osserveremmo -io annegato e tu che mi hai portato qui- il ceppo dove giacevano le offerte che riceve qualche gocciolina passata attraverso le maglie della rete. Confine con una delle tante case collocate a varie altezze dei rilievi della zona, tumuli di morti anonimi.
Per l’effetto evanescente dell’ora da cui siamo venuti, non c’è nessuno e il tramonto è calmo, Roma è improvvisamente un paesello di villeggiatura abitato solo da parenti vecchi e rintanati al riparo dalle intemperie. Si vedono solo ondeggiare i fili bianchi nell’invisibile friccico serotino. Bavaglino rosa con topi bianchi, pantaloni camo, maglia arancione con i guerrieri Z e le sfere del drago, lunghi spessi calzini impregnati, si riflettono sul vetro offuscato del balconcino di mattoni rossi. Sta accasciato un triciclo mai scostato da là, nell’immobilità. Non ci sono le persone. Sono portato dal fiatone del nuoto e una maledizione a parlarti delle loro silenziose cose rimaste.
Tutto ondeggia quasi impercettibilmente, nei fili e nell’aria. E stiamo fermi a guardarlo, avidi di tempo.

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