shizumu
- Milky
- 15 apr 2022
- Tempo di lettura: 7 min
Non fai altro che attendere che le onde si sfrangano contro le pareti interne, avvolgendo in una morsa di spuma rifluente un organo, menzionato di frequente nelle pagine del diario che tieni, da non leggersi mai. Le pagine si saranno sicuramente sciupate, stando ammassate nella tasca di dietro. Inoltre i sedili del treno sono tutti impregnati senza eccezione del sudore di tutti quelli che c’erano stati, e non hai avuto scelta: sarebbe andata a finire comunque in quel modo, col sudore tuo o degli altri. Giornata calda, estate calda, cosa vuoi. Sudi e tutti sudano, ma non ci sono: il vagone è vuoto. Hai comunque scelto il sedile singolo, in fondo, in disparte vicino allo scalino. E ti sembra di lasciare lo sguardo libero di andare in profondità nella lunghezza del treno, ne sei una testa oppure un piede, sei un estremo. È tutto vuoto, solo il sudore resta. E pensare che dovrebbe essere una delle cose più effimere. Acquetta sporca, piena di ormoni.
Continui a condurre simili riflessioni. Continui a sudare, le pagine s’accartocciano premendoti contro la stoffa premuta contro la pelle. Dentro la tasca ondeggiano a ogni movimento, hai cominciato a muoverti: è una volta sceso senza nemmeno sapere che cazzo di posto sia, che ti accorgi della presenza di un animale.
Quella presenza è come una musica, quella che non smette mai di risuonare nella mente distratta. Il cranio ha la conformazione adatta, il tipo di consistenza che amplifica. Cassa di risonanza fatta d’un cristallo facile a sgretolarsi, pervaso di linfe viventi. Presto si arrestano e spariscono e il contenitore torna a essere solo una normale maschera di sabbia e polvere bianche, rese compatte da un principio sconosciuto per il quale giungono a massificarsi con la stessa pazienza dei millenni impiegati, per erigere torri calcaree, dallo stillicidio che è il pensiero fisso di una grotta profonda. Simili grotte si formano pure dentro i crani, e ci si può perdere. Teschio: i suoni rimbalzano puliti nella sua architettura. Cassa di risonanza con due fori circolari scavati da qualche parte, per poterci mettere i tuoi occhi. E allora? Oltre a udire, ogni tanto vedi pure qualcosa in giro. A che serve se nemmeno ti guardi intorno? Guardi le cose di un viaggio intracorporeo. E lì il visibile si immagina soltanto, perché fa buio o biancore d’ossa. A che servono le cavità dette oculari che ti scavano l’architettura della testa, se tutto ciò che percepisci è l’udibile? Vento e marchingegni e rotaie cigolanti e una canzone in testa, e silenzio.
Serve perché prendi in prestito i colori e la luce e le piante sputaossigeno che stanno in giro, usi tutto per comporti le immagini che succhiano il nettare della musica che porti. Che c’è di strano? Per uno che è sceso dal treno non c’è altro, a parte i pensieri e le fantasie, che musica e paesaggi. Si alternano lastre di luce accasciate al suolo, ombre dai mille occhi innocui, punti nelle foglioline. In certi momenti lontani, quando scendevi dal treno e confuso dentro la massa d’uomini senza volto tornavi al loro mondo, avevi pensato che quella frescura, come un principio opposto ma inseparabile dai marciapiedi torridi e tediati, t’accarezzasse i piedi stanchi, appesantiti dall’aria sporca e calda che dalle narici precipitava come piombo obnubilando il corpo nella sua intera lunghezza. Ora è diverso, ora eri su un vagone dove spirava il vento, simile al ricordo di un’estate mite, eri su un vagone vuoto, solo tu e le tue cose, senza stanchezza, solo un po’ tracce di sudore promiscuamente unite a ricordarti cosa sei e da dove vieni. Ora è diverso perché sprofondi con la mente negli elementi singoli che in blocchi compongono il mondo: tu, il treno che è già ripartito, la stazione, i luoghi inesistenti vicino alla stazione che da banale transizione si è ingigantita e ha preso il sopravvento su tutto l’orizzonte, e le montagne basse e il mare di cui non si capisce la distanza, e le piante e le loro ombre ai lati della camminata, e l’animale che esce da lì.
Allora l’animale si avvicina, l’animale sei tu che ti aspetti che ci sia, esce da qualcosa che rappresenta contemporaneamente una tana e un eterno vagabondaggio: ciò che sta ai lati del visibile, ai lati della tua testa. Margini di stazione che percorri, dove la vegetazione è ricresciuta, e avanti a te non vedi altro che questo. Se c’era una città, è sparita: sei riuscito a scendere in un posto dove si prolunga solo il mondo sospeso, il nonluogo, tra l’odore dei binari surriscaldati e quello della brezza tra pini e acacie che dovrebbero star lì da qualche parte, sotto un promontorio. Ma sei già lontano dal treno, lontano da tutto. Il vagone dov’eri seduto è sparito nel cielo, e fischiava, una canzone sua. Sei su un marciapiede bordato di bianco, e i passi bordati di marrone e verde, terra collinare che si ammonticchia ai margini. Le caviglie pallide che spuntano dalle gambe che spuntano dagli shorts, la sabbia su certi sandali che porti quando pensi che sia estate, il marciapiede che è fatto di bitume oppure potrebbe essere un tipo di spiaggia scura. Sotto questo caldo esistono solo stazioni, solo fermate dove scendere. E la musica che sfuma dentro te, simile a schiuma sul cuore, lo affoga e lascia che il sale invisibile continui a incrostarsi sulle cellule vischiose di rosso scuro. I colori sono chimica, lo sai tu che li assorbi inavvertitamente e in un recipiente interiore li mescoli alle note musicali, ma poco importa.
-che fai?-, chiede l’animale, l’ombra d’animale delle stazioni. Si tratta probabilmente di una scimmietta. Scappata via da una qualche metafora, e le zampe le sporge davanti al volto mascherato di bianco così da mostrare la curvatura del pugnetto prensile. E far pensare alla propria, di mano.
Con quella mano ci afferravi le note, come un bambino ci giocavi e le mettevi in fila, personali sassetti di un bellissimo dedalo che è un gioco perfetto. Stringi le dita, sei anche tu una scimmia. Già, che facevi?
-niente, prendevo il treno.
-ah, è questo che fate voi?
Probabilmente intende “voi umani”, gli animali parlano spesso così, soprattutto quelli allegorici.
-beh, sì. Prendiamo il treno.
-e che altro?
-cioè, vuoi che ti dica altre cose a caso, altre cose che riguardano me o…….
L’ombra della scimmietta annuisce tra le ombre dei fitti arbusti che crescono lungo il marciapiede. Questa specie di giungla nana si estende invece all’infinito, e a intermittenza come punteggiatura spuntano conformazioni di fichi d’india simili a succosi cancri verdeacqua privati della capacità di far del male. Nemmeno le spine avranno, quelle che si spargono perfino volando nell’aria ammassata sui loro contorni al solo scopo, simbolico, di spaventare i bambini e non farli avvicinare. Devono tenersi lontani dalle cose che pungono. Possono far male alle manine, alla loro creatività. Stai camminando e non te ne frega, avresti detto a quell’età. Età delle estati.
La scimmia scoiattolo annuisce, piccola, snella, lunga. Come le altre ombre, e anzi più veloce di queste, sparirà, tornerà in una foresta di simboli impalpabili per qualcuno che è sceso dal treno e da solo si è avviato per la traversata senza precedenti, l’intera lunghezza del marciapiede sfrusciato da certi raggi dorati che calandosi da un tetto gassoso del cielo producono impercettibilmente il rumore di uno sfregamento misterioso. Potrebbe anche essere un organo, un bel tappeto psichedelico destinato a salire in un lento crescendo.
La scimmietta chiede delle cose a caso. Tu rispondi, rispettando la sua natura incostante di primate. Rispetti la sua logica che sembra deformarsi, ma prosegue in realtà a scatti sparpagliati come odori e ormoni nel fitto e forma una mappa complessa. Rispondi:
-il treno, l’averlo preso perché si è tristi. Si getta nella periferia e ci si fa assorbire, è un vermicello frettolosissimo che vuole tornarsene da qualche parte. Sento una canzone e nel sentirla me la traduco nella testa, per fare uno stupido gioco.
-treno. Migrazione, cerchi luoghi di piante succose, vivere abitare. Treno, ma tu ci sei salito. Perché ci volevi tornare, dove se ne andava il verme. O non sai niente.
-non so niente.
Non si capisce se alcune delle cose che la scimmia scoiattolo dice sono domande senza punto interrogativo. Ma non fa nessuna differenza per te che sei sceso dal treno. Rispondi sia a domande che a nondomande, e quella specie di ombra di scimmia possibile annuisce perché lo capisce benissimo che tu capisci questo.
-e poi?
-e poi la parola shizumu, e poi you’re going to rip just what you sow.
-che significa?
-già, che significa?
Hai l’impressione che la scimmia sorrida, soddisfatta da chissà cosa. Un profumo di banane e noci provenienti dal mondo delle ombre giunge misto alla salsedine, al respiro di squalo sotto la linea dell’orizzonte riempito d’azzurro, ai granelli che fluttuano, uno scroscio lontano, macchie di catrame. Ci doveva essere un lungomare da queste parti, chissà in quale direzione, sotto quale bitume.
Vi salutate senza formalità. La scimmia se ne va, un pensiero passeggero sopra i passi che si allontanano sempre più dalla stazione. E sempre più fanno parte della traversata inusitata. Ci sarà un cazzo di forziere alla fine? Che sciocchezze. Non è per questo che uno prende il treno e se ne va per sempre affareinculo. È semmai per shizumare, e per reapare what he sowed, ti ripeti con un moto di disgusto per ciò che hai appena pensato: commistione, promiscuità linguistica, un lancinante balsamo per i vermoni attorcigliati del cervello, dopo che è stato ore a tediarsi d’aria viziata e linguaggi che andavano perdendosi. Non sul vagone, no, quello era un vagone speciale, d’aria pulita. Prima che ci salissi, però, era diverso. Tutti i treni del mondo erano ancora pieni, scarsamente respirabili. E tu avevi impedimenti alle mani.
Sei salito sul treno perché dov’eri, nella città lontana dalla costa, nell’entroterra spianato per farci un centro commerciale, avevi perso le mani -si intendono le mani secondarie a quelle di scimmia e fisiologia, le mani per costruire dedali personali bellissimi. La musica diventava senza note, e le lettere senza stanghette, le perdevano una a una e crollavano in un domino desolato, privo anche dell’eleganza del disfacimento. E i disegni diventavano senza contorni e senza colore. Prendi i colori in prestito, rubali al paesaggio del nonluogo che si dilunga come a voler ridisegnare lui tutta la costa, ma non per usarli nei disegni: usali nella musica, quella che ti rimane in testa, cambiando sempre titolo, e lingua, ma senza mai esaurirsi. E il silenzio è anch’esso una traccia, bellissima, dello stesso album. Con titolo e durata. 沈む, 3:46.
Che significava la frase ascoltata tante volte nella canzone? Ci avresti pensato tu, e ci avrebbe pensato anche l’animale incontrato tra le ombre dei cespugli di stazione, del lungostazione, del lungomare infinito.
In un giorno perfetto sprofondare, shizumu, sink. Ci sono respiri di grossi pesci che stanno sotto i bagliori, simili alle loro scaglie in certi casi, e in altri al laminato riflesso sulle pelli lisce e cartilaginee, lacerate solo da branchie parallele, minacciosamente rosseggianti fanno male a vedersi. Bagliori della superficie, e loro stanno lì sotto, in un mondo segreto. Cammini con la testa nella brezza e ce li hai a lato dell’orecchio, in lontananza, e ti sembra che attraverso i soffi del vento t’entrino dentro. Ce li avevi già dentro. Dove fa buio ma ti immagini di vederci tante cose, migliori dei luoghi della terraferma.
Commenti