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Sentinella nel paese dei morti

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 31 ott 2021
  • Tempo di lettura: 28 min

In cima ai pilastri dell’imponente cancello riposavano, neri e metallici, strani mostri pietrificati nell’atto di contorcersi, mordersi da soli, deformarsi. Erano preda di un impulso troppo a lungo represso e punito da forze più grandi di loro, pronti a riversarlo in quelle maniere incontrollate. Guardarono passare il fante con occhi storti, la testa sporta da sotto un arto o all’ingiù con la lingua di fuori. Sentendosi gli sguardi laterali che lo inquadravano, con un misto di fredda nettezza della pietra e di follia demoniaca, capì ciò che era ovvio: stava entrando in un’area sacra, molto particolare, murata nel cuore della città deserta, tra alternarsi di splendide piazze marmoree, campi, viali alberati, ruderi silenziosi dell’antichità o moderne macerie fumanti. Sapeva camminare senza sosta e raggiungere tutti i luoghi più lontani verso i quali nemmeno la sua squadra al completo sapeva avventurarsi. Ma si stupiva di non capire, di non poter avvertire il proprio ingresso in una terra mai vista, l’emozione che ne scaturiva, senza una qualche forma di presagio che penetrasse attraverso la corazza, attraverso la pelle che forse aveva là sotto, fino a farsi sentire sinistramente nel profondo delle vene. Un brivido allora scuoteva la bizzarra figura armata, quando impassibile e indecifrabile proseguiva, senza indugi, solitariamente per tutti i luoghi vasti e aperti che riempivano le mappe. Una lettera raminga sfuggita lontano dal proprio alfabeto, ma sempre memorizzando tutte le strade, tutti i ritorni e tutte le fughe.


Disposti ordinatamente in file, torreggiavano, oppure rimanevano acquattati nella terra e tra la vegetazione, tutti i morti, tutti gli abitanti che appartenevano al passato, e lì rimanevano, nella città del passato, che stava dentro l’altra città e anzi ne ricopriva a macchia un pezzo di centro, assomigliando a un cuore abbrustolito in una sua parte di ventricolo lancinante ma preziosa. Sulla pietra bianca e grigia che si ergeva o che riempiva le nicchie erano incisi i loro nomi. La figura corazzata passò nel mezzo della strada che s’apriva tra le due rive di tombe, e per il clangore variegato che si spargeva da ogni sua giuntura si destarono tutti, emergendo in fumi trasparenti e impalpabili dalle proprie tane sconosciute.


Non conosceva il posto, ma capiva, potendo veder fluttuare i volti di questi morti, che nessuno sarebbe stato capace di trovarli dentro la loro tana. Per quanto ci fossero i nomi, le loro epoche, i loro busti, le loro ossa là sotto, tutte queste cose non erano che delle segnalazioni, una parte che ancora esisteva sulla terra soltanto per dire che lì veniva a manifestarsi un’altra parte che operava e si collocava per vie inaccessibili. Ma era possibile stanare anche solo per poco gli occupanti attraverso quei segnali sparsi per l’enorme città dentro la città, che diventava sempre più grande, e che già appariva della vastità d’un continente, tutto pianeggiante e uniforme. Prima o poi avrebbe ricoperto la città intera, fino a raggiungere la cinta muraria più esterna dov’erano gli imponenti portali di ingresso, e con questi si sarebbe mescolata senza più confini. I primi morti che s’incontravano da quell’entrata, i più vecchi, luccicando diafani lungo fili di argentee capigliature antiche o trame di vesti appena percettibili, osservavano immobili l’individuo che veniva a intrudersi, senza portare nel cuore però alcun bagliore sospetto, di quelli che si vedevano baluginare instabili e febbrili negli istinti predaci, nelle tendenze distruttrici degli uomini. C’era un intruso innocuo che sembrava osservare, sorprendentemente, con lo stesso distacco che era proprio di quel loro pacifico reame. Questi vecchi morti sembravano ammonirlo con un cipiglio severo, la bocca ben marcata, le sopracciglia aggrottate che adombravano le fronti come nuvole di tempesta. Era però soltanto uno sguardo che gli apparteneva, similmente a come uno sguardo veniva fissato immutabile nel volto d’una scultura. Quel personaggio così strano sembrava averlo capito e procedere senza cadere in soggezione, oppure procedere portandosi semplicemente delle preoccupazioni d’altra natura, per cui poteva camminare senza timore nel mezzo della via avendo alla destra e alla sinistra schiere sconfinate di torvi fantasmi, fumiganti discontinuamente tra lo spazio delle proprie teste e i propri toraci. Ora scomparivano, ora traballavano, facendosi fendere da un raggio di sole, attraversare da una nube lontana in quei rari pezzi di cielo mutevole che s’aprivano tra le architetture fitte.

Chiamava se stessa “Sentinella”. Come fante, si muoveva sempre a piedi, sempre indossando la sua lucente armatura, d’un curioso materiale grigio: a seconda del riflesso o del tipo di tintinnio che produceva urtando se stesso o le cose attorno, poteva assumere l’aspetto d’un prezioso argento scavato fuori da una miniera incantata, oppure di un volgare metallo di bottega. E quando entrambi gli aspetti si univano, plasmandosi in un rifluire di riflessi mai fermi, sembrava la cosa più naturale del mondo. Doveva inoltre essere un materiale molto raro e resistente, così sicuro che il fante in questione aveva deciso di indossarlo per sempre, ovunque andasse, in modo da non temere nulla che esistesse nell’ignota oscurità o lontananza dei luoghi che raggiungeva in solitudine. O almeno, questo era quello che alcuni dicevano: nessuno aveva mai visto cosa ci fossa dentro quell’armatura, e poteva benissimo trattarsi di una creatura nata così come la si vedeva. Ma ai combattenti e quelli che li guardavano, gli avventori delle taverne e degli accampamenti, piaceva tessere leggende che spiegassero l’origine delle cose: c’erano maledizioni, ricompense, equilibri stabiliti dalle divinità e le entità magiche che sapevano osservare i comportamenti, sondare la moralità delle azioni e i pensieri. Così si era deciso che un tempo dovesse esserci stato un umano, dall’aspetto e il passato inconoscibili, un soldato o una principessa, che aveva cominciato indossando una normale armatura, con la quale avrebbe poi formato una cosa sola, fino a svuotarsi di carne e scheletro, di volto e immagine: rimanendo un guscio striminzito con la vita troppo stretta per contenerne una normale, con l’eco che si spargeva dalle gambe instancabili alle due sottilissime e tenebrose feritoie orizzontali dell’elmo. Con la voce che in chi la sentiva pareva provenire insieme da quelle fessure, da un’altra fessura nel proprio interno e insieme dal cielo attorno, senza però essere alta e rimbombate, diceva di essere una sentinella perché con quella conformazione -cui non accennava mai esplicitamente, ma questo era il senso- era la più adatta a sorvegliare gli eventi circostanti, vederli depositarsi lentamente (giacché tutte le cose, anche le più rapide, le apparivano in maniera sempre graduale, componendosi nel mutamento e nel disfacimento particella per particella). Questo voleva dire che se avesse voluto, avrebbe potuto congelarsi in un’immobilità di statua, di colonna di ghiaccio montano, in cima a un colle, su una torretta, mentre le nebbie si addensavano sugli accampamenti e tutta le terra sembrava sprofondata in una letargica e grave respirazione nel sonno. Ma sapeva camminare meglio di chiunque altro, senza conoscere la fatica del fisico, l’angoscia della lontananza dai fuochi della casa o delle squadre accampate. Doveva per forza essere anche un po’ fante, quella sentinella che si identificava così, che in marcia se ne andava a vedere cose mai viste, sempre armata e protetta. Pendeva come una coda o un pungiglione dietro alle gambe un’arma, una specie di giavellotto corto e sottilissimo, che nessuno aveva mai visto estrarre. Ma dicevano che doveva essere anche per quello, oltre che per la rara corazza, che la Sentinella non aveva paura.


Così se ne andava lontanissima a perlustrare, e sempre riferiva, anche molti anni dopo la sua ultima scomparsa (per queste sue caratteristiche e conoscendo le chiacchiere della gente, in qualche misura doveva accettare di attirare leggende sul suo conto). Lo stupore e la confusione, per quanto temprati da una sorta di abitudine o anticipazione tramandata per sentito dire, impedivano sempre a chi riceveva i resoconti di sollevare obiezioni, indagare ulteriormente su certe questioni o sul tempo della sua assenza, chiedere precisazioni. Ma a tutti pareva che quando stava là, come se niente fosse, a recitare una serie di avvenimenti e impressioni che per qualche motivo le si erano fermate nell’elmo per poi ritornare tramite le parole, la Sentinella non era soddisfatta di riferire quelle cose, così rimarcando quel suo ruolo a cui tanto teneva, similmente agli artisti; e nemmeno si sarebbe detto propriamente il dovere del soldato, che a dispetto degli anni e delle intemperie che a lungo lo hanno costretto alla sopravvivenza più ardita, sempre ritorna a compiere ciò per cui era partito. Quasi più un dovere verso se stesa e alla sua capacità mnemonica. O un tributo neutrale, da placida notte cosmica, nei confronti di ciò a cui le era capitato di assistere.


La Sentinella cominciava a notare le linee. Quasi invisibili, con la sordità di passetti impercettibili della moltitudine brulicante tra i sottoboschi e i cunicoli, le linee riempivano tutte le cose: si dilungavano lungo i bordi dei macigni intagliati, quasi a costituire rupi in miniatura sulle quali ci si potesse accasciare e riposare nella lunga marcia -che era dunque prevista dal luogo stesso- attraverso le sepolture e i monumenti, i mausolei colonnati o sormontati di guardiani come piccole fortezze. Le linee si lanciavano all’infinito dai bordi delle lastre che sigillavano le fosse, dai marmi e dalle pareti verticali. Informavano i corpi verdeggianti e succosi di viticci e liane che s’attorcigliavano attorno ai muri e alle pietre, adagiandosi sulle anime sinuose, spiraleggianti, che muovevano i nuclei. Un piccolo biacco serpeggiò in verticale tra i lembi di un rampicante, mimetizzandosi e sparendo nel sottotetto di una parete in cui i corpi, allineati, riposavano dentro cassetti sigillati. La Sentinella, anomala perché esperta tanto nel guardare quanto nelle lunghe marce, sapeva capire che segnali di questo tipo volevano sempre dire che si proseguiva in una direzione giusta -aveva anche imparato, andando dove la portavano i piedi, che tutte le direzioni erano fondamentalmente giuste; eppure c’era bisogno che alcune di esse si manifestassero disponendosi in un certo modo, come se nascessero in un ordine muto e vitreo della mente prima ancora che nelle strade vere e proprie, calcate da lei come anche dagli umani, dalle bestie, le loro ombre. Una linea portava sempre a un prima, portava sempre a un dopo. E le linee là erano moltissime, collegandosi a tanti prima e tanti dopo e tra di loro e tra tutti i prima e tutti i dopo, andando a incrociarsi con chissà quante altre cose… si irradiavano sottili e quasi invisibili, eppure rilucevano ai sensi attenti della Sentinella, che così andava, quasi provando meraviglia. Subito però quel sentimento si arrestava e tornava soltanto la sua volontà di essere sentinella: meraviglia e altre commozioni sconosciute erano tutto ciò che poteva introdurre nella corazza della Sentinella la voragine del dubbio. Ma sapeva sentirlo arrivare, e arrestarsi in quanto viaggiatore che si ritrova davanti un burrone nero. Vedendolo, si voltava, tornava sui passi che tra le montagne sapeva riconoscere.


La via era lunga, fendeva dritta tanto lo spazio della città nella città, quanto un tempo che introduceva dettagli, accumuli di forme. Gli orizzonti di pietre e architetture si erano andati riempiendo sempre più d’alberi altissimi, finché tra i monumenti s’era quasi creata una foresta. Quattro diverse specie d’uccelli planavano tra i rami e le fioriture. I loro richiami spandevano tranquille onde concentriche nella quiete quasi lacustre: anche un riflesso vagamente equoreo, di cobalto e bianco diluiti, riempiva la bassa atmosfera sotto le chiome d’un soffio remoto, dando al paesaggio l’aura di una sera perenne. Di rado scompariva quando i raggi del sole accesissimi si precipitavano tra i rami, imbiondendoli e infittendo per contrasto le ombre, come negli ultimi gridi del pomeriggio morente.


In quella zona gli spiriti erano più restii a mostrarsi. Favoriti e cullati dalle ombre verdescuro impresse dai cipressi e le altre conifere immense, se ne stavano rincantucciati nei reconditi rifugi delle loro esistenze che sembravano insieme vicine e lontane. Un viale trasversale al primo, da cui era giunta, oscurava la corazza della Sentinella, impedendo che il sole vi si riflettesse. Il respiro, o meglio, il suo modo particolare di respirare, soffiava tra le fessure dell’elmo (tutto ciò che era del volto), senza produrre eco sul metallo. Passando da queste si spargevano per il resto del corpo i rivoli della freschezza circostante, che restituiti all’esterno dall’espirazione, ammantavano di un’aura fresca e placida come una sorgente tutta la figura della Sentinella in movimento, il rapporto che instaurava con la sua collocazione. Fu certa che si trattasse di un luogo pacifico e ne provò in qualche modo contentezza. Dove i rami non si tendevano, toccandosi a vicenda per formare un tunnel, le chiome salivano così in alto da perpetrare l’impressione che il cielo fosse chiuso; eppure l’aria di mezzo, sopra le cose basse e sotto quelle alte, rimaneva sufficientemente aperta da annullare il timore per l’angusto e il soffocante. Ombre più piccole e distinte nella pavimentazione, più bluastre, sfrecciavano frullando ali e stridendo. La Sentinella alzava la testa: vide, come già sapeva, i merli sui cipressi, che becchettavano le sfere inapribili dei frutti legnosi, alcuni disperati e altri rassegnati. Saltavano da un lato all’altro della piccola via, che proseguiva a lungo in quel folto: la Sentinella l’aveva presa sentendo che anche quella lunghezza era un proseguimento della stessa via principale, sulla quale sarebbe ritornata poiché tutto in quella città le era costruito intorno. Tutti i percorsi secondari, le vie che si addentravano in tenebre di arbusti in cui solo le creature piccole si infiltravano, o gli interstizi tra i mausolei dall’eleganza decaduta che si rivestivano di edere… non erano altro che la stessa strada che ricompariva altrove e con altra forma, uguagliando tutte le dimore dei morti. Sotto i rami di una conifera, flosci come baffi di pescegatto, un solitario tempietto dal tetto piramidale riposava, accondiscendeva equanime ai segni del tempo. I piccioni si accalcavano nelle nicchie sotto il soffitto del porticato, facendosi calore, e sembravano svenire in un sonno privo di pensieri. Penombra e vegetazione avvolgevano l’intera struttura. La Sentinella si avvicinò all’ingresso. Sentì il mistero, solenne ma schivo, di una baita solitaria nel folto più profondo di una foresta nera, abbandonata da tempo. Bussò, un gesto consapevolmente inutile. Udì, o quasi vide, rimbombare sagome illusorie come macchie d’inchiostro nel vuoto di là dalle false finestre. Provò a leggere l’iscrizione sulla porta, ma nemmeno in tutti quegli anni la Sentinella era riuscita ad apprendere tutti i linguaggi scritti che si erano susseguiti in quella nazione invasa, lettere e pittogrammi e dipinti del passato. Stette a fissare per un po’ le stecche verticali scavate dell’alfabeto sconosciuto, affascinata dalla loro armonia.


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Anche la macchia sopra le tombe diradava. Una cornacchia si era posata su un appiglio che era parte di una scultura, un qualche simbolo che gli abitanti legavano al mondo dei morti e alle loro leggende. In un balzo calava sui lastroni a terra, qui razzolava e beccava, con l’aria raminga di un anziano abbandonato nel deserto. Ne comparvero altre due dai cespugli bassi, e insieme, in perenne ricerca di qualcosa con cui sfamarsi, se ne andarono zampettando con quella loro posizione rannicchiata da monaco grigio, la testa nera incappucciata. Le tre schiene saltanti, sfrusciandosi dietro le nere piume caudali, si tuffarono in un viottolo laterale.


La Sentinella trovava forme riconoscibili tra le edere: bassorilievi di acque, rettili, pesci, pane e spighe su un altare, fino agli astri del cielo, stilizzati per accompagnare sonni eterni. Erano così tante le immagini ricorrenti da superare tutti gli alfabeti uniti insieme, e la Sentinella ci si poteva raccapezzare soltanto per la sua pazienza, e perché solo lei era insieme sentinella e fante, che osserva e che marcia vedendo il susseguirsi dei simboli e non la loro immobilità. Certe volte, se solo avesse provato a soffermarsi di più su questa dualità, avrebbe avvertito anche lei un sussulto nel petto cavo di metallo, ma era anche questo uno di quei burroni spalancati per via, che sapeva evitare. Per una come lei, perdersi era anche peggio che per chiunque altro: trovando una via pericolosa, l’avrebbe esplorata indefinitamente, fino a indugiare senza sosta nel fondo, così come faceva con le altre vie. Si imponeva di stare attenta a poche cose come questa.


Anche lì la macchia cominciava a diradare. I fiori erano scolpiti, disegnati, e poi c’erano i fiori veri. Alcuni rotolavano mezzi distrutti, sospinti da un venticello rasoterra insieme a malloppi di piume, foglie, polvere. Qualche pappagallo verde incurvava leggiadro per evitare di sbattere contro i muri che tornavano a comparire tra i tronchi, recintandoli in piccoli labirinti. La Sentinella non aveva mai visto prima quegli uccelli, le facevano pensare che non era mai stata in un posto simile. La nazione era enorme, conosceva le onde del mare e al tempo stesso ne era lontana. Da tempo non giungevano più le navi sulle sue coste, e l’ultima invasione si era protratta da tempo, spargendo civiltà oppure rovina, dimenticando perfino se stessa e la sua origine. Era una zona piombata nel silenzio, dove i veri abitanti erano i ruderi e le cose sepolte, quella sorvolata dai colori di pappagalli e petali nel vento, fulgidi sotto i raggi obliqui, che li facevano cantare per pochi effimeri istanti riassorbiti in una coltre di pace inestinguibile.


Ma non era forse tutto così?


Una sentinella, un osservatore degli accadimenti ai margini della battaglia. Accadevano accalcandosi attorno alle sue nicchie di tempo, la pausa, il riposo, la mattina dell’assalto, i segnali di un’imboscata; oppure si verificavano nello spazio dei paraggi, manifestandosi alle pendici di un colle, in schiere di stendardi su una linea d’orizzonte… i ponti eretti dai conquistatori, l’avanzata incessante per addentrarsi sempre più nella nazione sconfinata, tutto continuava la conquista. Lei era nata in un mondo così. E si era detta sentinella perché in un mondo così era il ruolo che sembrava nascere spontaneamente nella sua costituzione, la sua peculiare forma (che un qualcosa doveva pur significare, nella sua testa). Ma un mondo del genere e una vita del genere, cosa l’avevano portata a vedere nel passare dei decenni, nel trascorrere di villaggi e paesi sempre più diversi, in riva a sentieri e strade maestre?


Gli uccelli e i petali dovunque sorvolavano un mondo che già si proiettava nello stesso destino di quel mondo che ora aveva davanti a sé: questa città dentro la città, questo paese dei morti e della foresta d’alberi e muri labirintici, non era forse la forma che l’intero mondo avrebbe raggiunto un giorno? In tutti i paesaggi dove erano passati i conquistatori, e gli anni e i secoli che conquistavano tutto, il respiro s’amalgamava in quella stessa quiete deserta, dove le cose vive si ritiravano e immobilizzavano in pietra, dove dimoravano presenze difficili da trovare, avvezze ai nascondigli. Ricordò le valli del passato, dove prima degli altri soldati era stata, ma che dopo molto tempo anche essi avevano raggiunto. Come dovevano essere cambiate! I monti brulli appiattiti, o riempiti di fortezze. E ancora sarebbero cambiate quelle valli, fino a rassomigliare a quel posto. Quando anche i luoghi di un tempo ormai remoto avessero raggiunto quello stato, dove sarebbe stata la Sentinella? Ancora da sola ad allontanarsi dalle truppe, per perlustrare senza sosta fino ai confini del mondo, ancora a chiamare se stessa in quel modo perché le battaglie non cessavano mai.


Così ragionando la Sentinella era nuovamente sulla strada simile a un grande fiume. Gli spiriti sopra le tombe che talvolta sporgevano il capo, a mo’ di cobra, erano molto meno densi dei primi spiriti vecchi, molto più inafferrabili, e si affievolivano passo dopo passo. La foresta d’alberi ora si ergeva lontana: gli alberi più alti, dei veri giganti, sembravano cingere tutto l’orizzonte lontano o vicino, come una valanga di tronchi che si abbattesse attorno al visibile, favorita dalla gravità. Sembrava in effetti che quei giganti arborei crescessero da un rialzo del terreno, di piccole montagne invisibili nella piattezza del paese. Era inspiegabile, ma si sarebbe detto che quella pianura fosse cinta da una catena montuosa, che si manifestava non con la sagoma di guglie e picchi che si frastagliano nella distanza, ma soltanto con le foreste che contiene. E che quindi assumono proporzioni alpine. La Sentinella vedeva frusciare le cime lontane, immerse in un vento d’alta quota. Lassù gli alberi sussurravano tra loro impassibili, servando freddi ma sereni sentimenti di linfa. Non si vedeva invece, negli spicchi di cielo tra le curve dei rami pieni d’aghi, la cinta muraria che anellava tutto ciò che aveva vissuto negli ultimi tempi -da quanto marciava?-, la struttura dov’era stato il suo ingresso. Per guardare l’alto fogliame nero, alzò il collo, nella posizione di chi ammira l’imponenza di una cascata, di un massiccio, di un tifone. Stette così per un po’, a sentinellare nella maniera tradizionale.


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A migliaia di passi avanti a sé, si distinguevano delle figure immobili e grandi poste al centro della via. La Sentinella era ritornata su quella strada, ponendosi alle spalle e all’orizzonte la massa di alberi, condotta da una domanda: conoscendo per istinto le linee e sapendole leggere, tracciando i prima e i dopo a cui portavano, si era diretta laddove secondo la logica complicata che aveva appreso poteva trovare qualcosa che rispondesse.


In molti modi diversi si era chiesta che tipo di sogno fosse quello che stava vivendo. Tutte le sue esplorazioni erano come dei sogni. Ma questa sembrava quasi un ultimo sogno, e aveva presentito che tutti i sogni precedenti confluivano in questo. Perché? Allora si era immaginata a chiedere, a qualcuno, un abitante più solido di quei morti che non potevano parlare, a un’entità qualsiasi: tutte le cose diventeranno così perché c’è questo posto, oppure è questo posto a essere così perché tutto tende naturalmente a diventarlo?... no, non era soddisfatta del mondo in cui poneva la domanda, e non era nemmeno ciò che più le premeva sapere. Ma ciò che più le premeva sapere, negli strattoni allarmati del suo cuore, somigliava così tanto a quei burroni da evitarsi nella marcia, la commozione, il dubbio, la paura dell’ignoto… eppure nascevano in lei, spontaneamente, spronati da cosa? Il linguaggio illeggibile delle sepolture doveva in fondo avere un qualche suo potere che prescindeva dalla decodifica. Qualche formula incantatrice insita nelle sillabe, che aveva trascinato perfino quella sentinella così cauta in un reame dove vigevano altre regole, dove tutto ciò che rimaneva dei morti, le piante e gli animali che qui nascevano, tutti questi elementi volevano condurre i visitatori con loro, nelle loro dimore senza ritorno. Ma anche questa era una spiegazione tipica da sentinella, un ingresso nei burroni del cuore attuato attraverso l’evitamento di ancora altri burroni, che si aprivano uno dopo l’altro in ogni angolo di tenebra che fuggiva quasi inosservato.


Continuando a camminare ripensava al lieve disagio scaturito da quel tipo di esperienza alla quale prima d’ora non aveva mai dovuto trovare una risposta. Vedeva lateralmente, avvertendone la strana aura senza soffermarsi, i bassorilievi e le sculture tombali su cui da tempo ricorrevano motivi acquatici, serpenti di mare che s’attorcigliavano a strani pilastri incrociati, pesci mezzi rettile che sbuffavano zampilli biforcuti accostandosi ad anfore rovesciate. Sapendo comprendere le linee già conosceva uno o più aspetti della figura con cui avrebbe parlato, che era venuta apposta a incontrare. Ma prima doveva continuare a domandarsi quelle cose, perché erano un elemento irregolare nella sua imperturbabilità di sentinella che in un certo senso si sarebbe potuta anche dire orgogliosa di esser tale (sebbene in un modo tutto suo, ignaro della propria eccentricità rispetto alla categoria scelta). Altrimenti come avrebbe potuto porre una domanda che trascendesse le differenze tra il mondo da cui proveniva, e quello delle divinità locali, o qualunque cosa fossero? Già si distingueva qualche dettaglio delle cose al centro della via. La prima statua, in piedi su un piedistallo cubico, e quella dietro di lei, aprivano le braccia con solennità, rivolgendosi al cielo. Le vesti erano fatte aderire e soffiate nei lembi adiacenti da una corrente che lo scultore doveva aver immaginato nella scena. I lunghi capelli rifluivano ondulati come schiuma marina sulle spalle delle sagome femminee, i volti ancora indistinti che si preannunciavano cupi.


Era venuta prima la città o quella che aveva dentro, prima la nazione o prima quel paese di presenze defunte? No. Quel paese si trovava proprio nella stessa dimensione di tutte le cose normali? Neanche. La Sentinella solitamente monolitica nella sua indagine non riusciva a trovare la domanda più importante. Si perdeva in biforcazioni, aspetti che emergevano dall’insieme, tutti inganni. Perché c’erano tombe fatte di pietra? Anche le cose che si muovevano erano in realtà addormentate?


La Sentinella camminava trasognata nel luogo in cui vagavano cose invisibili. Nello spazio sopraelevato degli alberi giganti nella distanza, e tra le ombre di quelli vicini, i ricordi dei morti si materializzavano in nebbie d’alba e crepuscolo di una foresta immaginaria, poi penetravano nel biancore dei marmi, delle lastre e sculture. Meditando e facendosi domande era infine arrivata proprio ai piedi della prima statua, quasi andandoci a sbattere. Di nuovo alzò il capo, piccola sotto le figure torreggianti. La prima era una ragazza dai tratti delicati della giovinezza, ma con una certa dignità del portamento che aveva qualcosa di più anziano. I piedi nudi reclini avanzavano cauti emergendo dai flutti, vortici e cavalloni s’innalzavano come un trono. Le stava aggrappato con le grinfie al torace, attorcigliandosi da dietro la schiena, un piccolo drago acquatico, dotato di branchie e con le fauci sporgenti da un rostro di murena. Come previsto, l’espressione del volto era colta in un dramma complesso, di cui era difficile individuare le sfaccettature senza conoscere la leggenda. Tutta la tensione insita in un temporale in mare aperto si concentrava nella marcata piega delle labbra serrate, negli occhi severi.


Dietro di lei, di altezza identica, stava più ritto e rigido un giovane dai lunghi capelli. Il suo corpo presentava curve femminili e una tunica simile a quella della ragazza marina. Se la prima spalancava le braccia come a domare la tempesta, lui sembrava invece lasciare che questa si posasse, rilassando le mani aperte in un gesto conciliatorio. Sembrava un emissario del cielo dall’espressione serafica, che pure tradiva un certo rammarico. Sembrava potesse provar dolore solo per cose distanti da lui, viste da sopra le nuvole.


La Sentinella lesse cosa c’era scritto dove poggiavano i piedi, in una lingua defunta i cui resti aveva visto apparire infinite volte nella moltitudine dei territori, sulle arcate cittadine o perfino scolpita nelle montagne. Sotto la donna, sul suo scoglio cubico, c’era scritto “speranza”. Sotto il giovane misterioso, c’era scritto “salvezza”. Allora la Sentinella si rivolse loro in quella stessa lingua. Forse per secoli nessuno l’aveva più pronunciata. Nel momento del suo ritorno, si articolava da una bocca senza denti e lingua, usciva simile a una catena di fantasmi dalle feritoie di un elmo che memorizzava tutto ciò che vedeva. La scena cambiò.


Sembravano essere calate improvvisamente le tenebre di una sera oppure di un nubifragio pronto a infuriarsi. La foschia, violacea e nera, turbinava riempiendo le nubi e gli spiragli di luce, e anche l’aria sembrava inumidirsi ed elettrificarsi. Al tempo stesso la scena non incuteva timore, apparendo distante. Non voleva essere un vero cataclisma, ma solo la sua idea. La Sentinella non conosceva l’origine di un simile fenomeno difficilmente comunicabile e per evitare di perdersi, esercitando controllo sulla sua curiosità come era abituata a fare, evitò la questione e si inoltrò nei suoi interrogativi; questi tuttavia non si presentavano come aveva creduto, né era riuscita per magia a estrarre la domanda nevralgica una volta trovatisi davanti i personaggi a cui avrebbe dovuto chiedere. Invece, senza porre domande, descriveva alcune impressioni. Secondo una di queste, le altre affioravano da sole, trascinate da una forza invisibile che probabilmente si irradiava dallo sguardo severo della ragazza, abbassato per fissarsi sulla sentinella che era venuta a evocare i loro spiriti dentro le statue che ne rappresentavano la forma. Da sotto le palpebre rocciose e gravi, lo sguardo poteva penetrare nelle cavità di quel corpo strano che non le causava alcun tentennamento. In questo potevano assomigliarsi, se non fosse stato che la Sentinella, in quella sua nuova esperienza, aveva cominciato a incarnare una certa vulnerabilità, che la rendeva diversa da come era sempre stata.


-nella foresta vagano gli spiriti, si annuvolano nelle pietre, e gli uccelli fanno i nidi nei nascondigli e le nicchie di questo territorio. E io, invece, dove vado?- anche l’ultima era un’impressione e non una domanda, visto che nessuno avrebbe potuto rispondere. Le due divinità lo sapevano e tacevano, attendendo che proseguisse.


-non ho mai visto un posto come questo, eppure mi sembra che tutti gli altri posti fossero come questo. Nonostante ciò avverto che qualcosa è diverso, qualcosa si trova qui che non sta da nessuna parte, o che semplicemente ancora non c’è ma che forse presto sarà.


Tacevano ancora. Il nubifragio scorreva nel cielo col movimento di una fiumana proveniente da lontano. Intorno, poggiandosi ai livelli delle sepolture, poco più bassi delle statue, comparivano dei titani incorporei, inconsistenti come ombre. La loro carne si sarebbe detta della stessa specie di quelle macchie che la Sentinella credette d’aver visto nelle finte finestre del tempietto quando vi aveva bussato. I contorni di questi attendenti, giunti ad ascoltare la conversazione -o soltanto perché erano forse obbligati a seguire i due personaggi ritratti in statua in qualunque loro manifestazione- sfumavano di continuo, non li si poteva mai toccare, vedere nella loro interezza. Erano schierati all’infinito da tutti i lati, circondandoli. Gli arti cilindrici certamente, se fossero stati tangibili, avrebbero contenuto una forza sovrumana; la sommità dei corpi, tozza e a montagnola, faceva pensare a busti privi di collo e testa. Nell’interno nero e fumoso si squarciavano a intermittenza fori a forma di noce, occhi numerosi allineati in verticale sul torace. La Sentinella comprese che questi dovevano essere dei titani appartenenti probabilmente a un ciclo di leggende in cui quei due erano vissuti, così come nel mondo della terra sotto il cielo le creature vivevano e venivano sepolte. Nel sogno che sembrava il sogno finale, l’avventura capace di stupire la Sentinella, ogni leggenda trascinava con sé le altre, e si riversavano lì per guardare l’incontro.


La Sentinella si affidava alle linee. Seguendole aveva trovato questi, che evidentemente attendevano d’essere evocati. Era questo lo scopo dell’intero paese? Mettersi in contatto, fungere da ponte. Voleva voltarsi a vedere se per caso non vorticassero ora più nitidi gli spiriti dei sepolti, ma la schiera dei titani infittiva tutta la circonferenza al centro della quale stava lei davanti alle statue, e non riusciva a veder nulla a parte questi e la tempesta. Comunque fosse, se avesse proseguito così come gli istinti la portavano, non avrebbe potuto sbagliare, e ogni cosa che fosse uscita da quell’incontro, sarebbe stata perché era destinata a uscire. Anche se avesse sbagliato, facendo infuriare quelle entità imprevedibili, quell’errore avrebbe condotto da un’altra parte in cui doveva proprio arrivare. In un istante di vertigine, quasi subito dimenticato talmente era fugace, la Sentinella sentì che in tutto il tempo in cui aveva creduto di vagare per propria scelta, era stato invece un destino a muoverla per il mondo, senza che lei scegliesse nulla, senza che scegliesse di chiamarsi in quel modo che suscitava dubbi nella gente, senza che scegliesse di essere o avere una corazza, capace di questa o quell’altra cosa. Allora, sbagliando, fece una domanda.


-sei una madre di questo popolo?


-non so cosa dici.-, rispose la ragazza che usciva dal mare, e un fragore d’onde echeggiò alle sue parole laddove erano i monumenti mortuari cosparsi di serpenti e pesci e acque. La Sentinella usava deduzioni e categorie che provenivano da un continente diverso, e si rielaboravano dentro una logica che non apparteneva a quelli.


-ragionavo su questa cosa.- riprese la Sentinella. -Qui le ossa stanno sotto la terra. Sopra la terra sono mostrati dei minerali, modellati ordinatamente. Grazie a questi, diviene nota la presenza delle ossa sotto di loro. Senza questa pratica, nemmeno si saprebbe in quale punto sotto il suolo dorme per sempre un corpo. Ho pensato che questo è il contrario di certi campi di battaglia che ho visto: i corpi sono esposti sotto il cielo, sono scorticati e il sangue rosseggia nel vento, lo riempie di un tanfo sordido. Richiama gli uccelli saprofagi. E intanto le cose sotto la terra rimangono dove sono, nessuna tempesta, e nemmeno il galoppo di interminabili cavalli spronati, o i colpi della guerra, riescono a disseppellire i minerali immobili che si sono formati là sotto e vi sono rimasti.


La dama un po’ draconica fece un cenno lento, chissà se annuiva. Il giovane dietro di lei forse sorrise, poi i suoi occhi tornarono vagamente incurvati in una piega malinconica.


-eppure sono quei campi di battaglia l’eccezione. Senza delle pietre che le indichino, non si conoscono le sepolture dei morti. Ma in verità, le interminabili terre che ho attraversato, mi dicono che queste pietre le si potrebbe collocare su ogni punto. E impilarle le une sulle altre, per le quantità di morti che si sono succedute sprofondando sempre più giù attraverso gli strati della terra. Se ci ritornassi ora, nei miei luoghi del passato, dovrei trovare nuove pietre. Torri altissime, foreste finché nemmeno io potrò più camminare.


La Sentinella si toccò inconsapevolmente la nuca. Il suo scarso senso del tatto non poteva rilevare né sudore né prurito su quella pelle metallica. Che stava succedendo? Cominciava a sentirsi stanca, per la prima volta. Non aveva mai parlato tanto a lungo, perché i capisquadra, al momento dei suoi resoconti, la congedavano esterrefatti una volta ascoltate le informazioni che volevano sapere. Non aveva mai proseguito tanto a lungo. Si accorse che all’interno dell’armatura potevano formarsi dei vuoti, dove un tempo stava l’energia. Non credeva che ci fosse una cosa del genere a muoverla, credeva che si muovesse e basta, perché per capirne la presenza doveva prima capire che potesse anche non esserci. E se fosse rimasta là, chiusa in quel paese e in quella scena di nubifragio imminente, proiettata come una visione, si sarebbe consumata del tutto? Sarebbe diventata, in questo caso per davvero, un guscio vuoto e nient’altro? Lei aveva sempre osservato le cose perire, senza mai credere di assomigliare a queste.


-tu mi chiedi che posto è questo e perché esiste.-, sentenziò lo spirito che era sceso nella statua, scindendo dalla pietra inamovibile il personaggio che rappresentava. Il suo compagno non commentava, ma sempre teneva le braccia aperte, sopra la sua roccia della salvezza.


Era un modo strano di metterla. Forse non era esattamente questa la domanda fondamentale, ma c’era qualcosa di piuttosto importante. La Sentinella si era spinta molto in profondità, fin nelle viscere di quel paese al centro di una capitale. Aveva notato la sua atmosfera altra, ne carpiva i significati man mano che la conosceva. Ma prima di tutto questo non si era davvero chiesta cosa fosse, si rispondeva senza porsi la domanda. Era importante? Beh, sembra di sì, si diceva, sentendosi addosso lo sguardo implacabile della ragazza draconica. La percepiva capace di compassione e proprio per questo pericolosissima, contenendo in sé, per equilibrio, il ribaltamento dei sentimenti puri e pietosi. Emergeva da acque chiare nella superficie che sovrastava miglia di abissi insidiosi. Se era arrivata a questa conclusione, voleva dire che bisognava anzitutto chiedersi cos’era quel posto, prima di metterci piede. Però la Sentinella, suo malgrado, per quanto accettasse di sforzarsi in questo senso, proprio non riusciva a capire dove voleva farla arrivare anteponendo la domanda alla risposta. Alla sentinella corazzata venne qualcosa che si potrebbe chiamare un “mal d’elmo”, e per quanto possibile questo la scosse ulteriormente. Si era scossa molte volte nel giro di pochissimo tempo, più che in tutta la sua esistenza, nella quale non aveva mai dovuto prendere medicine. All’improvvisò si immaginò tra le tende di un accampamento lasciato indietro anni orsono, a introdurre nella cappa sollevata dell’elmo un intruglio d’acqua benedetta, pozioni casalinghe, e sdraiarsi sulla brandina con le braccia tintinnanti incrociate sul torace, faccia in su.


-questo posto accoglie i morti per volere dei vivi.- continuò lo spirito della statua femmina- I fiori allontanano la putrefazione, restituiscono i colori, e i biancori accecanti di polline, a coloro che hanno perso la vista e l’olfatto. Attratte da tutto questo, le cose che si sono separate dai defunti fanno ritorno dove giacciono le loro forme precedenti, anche se è sbagliato pensare che coincidano del tutto. Queste presenze amano gli alberi e gioiscono quando la loro ombra è folta.


La Sentinella si limitava ad annuire, la mente in tumulto, girava su se stessa, dando l’impressione che potesse rischiare di scomporsi. Intorno, le pareva che i titani d’ombra si avvicinassero. Quasi il cerchio si restringesse, e con questo si avvicinasse anche il suo contorno rappresentato dalle tombe ordinate in schiere, che secondo ogni buonsenso sarebbero dovute rimanere immobili. Le linee, doveva cercare le linee: in effetti si erano spostate. Dai marmi, la strada, le radici, fin sulle mura… se ancora c’erano serpentelli tra le edere, si erano ritirati laddove il fitto era inestricabile, scavandosi una tana piuttosto che mettersi a rischio, nemmeno per omaggiare la loro regina draconica. Le linee che la distanziavano dai titani, ovvero la misura dal centro della strada alle rive (un riferimento astratto che nemmeno nella confusione la Sentinella aveva mai perso di vista), si era fatta tozza, claustrofobica. Tenendosi a questi suoi appigli per poter sempre interpretare la situazione, la Sentinella riuscì a vedere, se non altro, un risvolto chiaro fendere il fumo che si era accumulato nella mente: tutto ciò preludeva a qualcosa, un rischio in agguato; da cui l’obiettivo: sventare gli imprevisti spiacevoli. Non aveva più molto tempo. Ma la donna delle acque lo sapeva.


-non puoi rimanere a lungo.- le disse con la massima serenità possibile per quell’antica lingua aspra e gutturale. -ma so anche che non puoi reggere che ti sia svelata tutta in una volta la natura di tutti i tuoi dubbi. Non posso rivelarti quello di cui hai avuto segretamente paura, molto segretamente. Per questo non potevi rendertene conto, per volere della natura. Io ne sono una parte.


Tese un braccio con gesto arcuato, ponendo la mano come sorreggesse una cesta invisibile. Al che un fiotto di mare sbuffò a sfiatatoio in risposta, salendo da quel lato fino a circondarla tutta in un’alcova trasparente di spuma dissolta in fretta.


-te lo dirò per enigmi. Guarda nell’occhio del serpente di mare e troverai sempre un enigma, è così, non posso farci niente. Anche questa, è la mia natura.


Il piccolo drago marino aggrappato al torace mandò un fuoco azzurro dalle narici. Morse la pelle attraverso la veste. Il volto di lei non si mosse.


-non posso rivelarti il tuo dubbio, la tua confusione, il terrore che ha prodotto lo spaesamento in te che viaggi più di chiunque tra i mortali. Ma lo potrai capire in autonomia, con il lungo tempo posseduto dal compito che hai scelto. Attraverso le lande avrai modo di scontrarti con cose per sempre infinite, per quanto possano esserlo prima che anche il mondo su cui poggiano finisca. Ma prima di allora avrai trovato simili sconvolgimenti, e avrai meglio capito te stessa.


La Sentinella era scettica. Nessuno camminava come lei, nessuno si conosceva nel profondo come lei, che si sentiva rimbombar tutta internamente a ogni passo, e di passi ne aveva fatti. Nello scetticismo però si abbandonava alla ragazza, le dava ragione, le si affidava perché potesse “salvarsi” (e un po’ si affidava anche al suo compagno meno partecipe. Forse il suo star là, con le braccia aperte, aveva in qualche modo un ruolo fondamentale e il tutto sarebbe stato profondamente diverso se non ci fosse stato).


-devi però stare in guardia. Non estrarrai il pungiglione, l’arma che ti porti e che sempre porterai, ma non per essere usata in battaglia. È un amuleto che ti allontana le ombre, ma non sempre funzionerà. Incontrerai altre città di morti, come questa. E allora dovrai sapere questo: chi abita questi posti, può decidere di tenerti con loro. Tu non vuoi star ferma, vero?


La Sentinella scosse la testa.


-si capisce, sei come gli squali. Se si fermano affondano. E allora tu dovrai reagire, muoverti in un modo che ti consenta di sfuggire alla loro presa. Ombre, spiriti, anche quelli più vecchi e immobili che sembrano inoffensivi… se ci sarà la volontà, proveniente dal profondo della necropoli, di incatenarti a sé, tutto concorrerà a catturarti. E i quattro uccelli che nidificano tra queste fronde e mura scenderanno in picchiata per becchettare la tua carne, il tuo metallo.


Era un modo piuttosto nefasto di porre un enigma. Il giovane capelluto sorrise appena, di nuovo. Non condivideva quel modo di fare ma ne riconosceva l’efficacia. Doveva essere in fondo d’accordo con quel tipo di premonizione, e la Sentinella del resto non si sentiva di mettere in dubbio le sensazioni di quelli che erano immersi nei principi regolatori di un territorio del genere.


I titani erano sempre più vicini. Si udì il tuono tra le nubi cupe. Fulmini silenti a forma di vena facevano piovere fin sulla terra una luce inafferrabile. Alla Sentinella parve di vedere in un istante, donato da questa luce, la consistenza vera delle carni dei titani, non più d’ombra. Una muscolatura, un insieme di nervi insanguinati, accoglieva gli enormi e pulsanti occhi azzurri. Qualunque cosa sarebbe potuta svenire guardandoli più a lungo. Decise che si trattava di un’illusione dentro l’illusione. Ma i respiri dei titani, gli aliti marci, erano davvero più intensi.


-offriamo i fiori anche per placarli. Se decideranno di volere anche te, però, dovrai vincerli. Dovrai vincere la necropoli.


Sentì che era questione di un attimo, e dentro di sé si tenne pronta al peggio.


-c’è una cosa, allora, che puoi fare in questi casi. Una cosa che non hai mai fatto.


…silenzio. La ragazza non proseguiva. Guardava la Sentinella in faccia: gli occhi, grigi d’un mare visto da una scogliera sotto coltri piovose, scendevano dentro le fessure dell’elmo. Entravano dentro, si addormentavano lì. La Sentinella sentì che quegli occhi dentro la sua testa trovavano la tenebra, una tenebra che aveva sempre tenuto chiusa nell’elmo, che adesso era denudata. Ma sentiva anche che questi occhi, come pesci abissali, ci nuotavano bene. Provò vertigine subito dopo l’imbarazzo, era ubriaca. La ragazza sorrideva. Quanto tempo era trascorso? L’avevano già presa i titani sveltissimi?


Parlò allora il giovane dell’altra statua.


-devi correre.- lo disse con la placidità di uno che non ha mai corso e ha sempre visto le cose correre.


Era assurdo. La sentinella-fante aveva sempre marciato, ma non aveva mai corso. Non aveva mai caricato contro il nemico in battaglia. Non era mai fuggita dalle belve che abitavano le montagne inesplorate. La sua velocità, che le aveva permesso di arrivare dove gli eserciti non giungevano, risiedeva nella pazienza e la perseveranza, e non nella fretta dell’andatura. Non sapeva correre. Eppure adesso correva. Non si era nemmeno voltata a guardare un’ultima volta i due personaggi, che erano così scomparsi dalla sua vita, così come scompariva l’illusione in cui si erano fatti vedere. Finito di ascoltare, si ritrovava con un nuovo clangore di gambe, si muovevano come impazzite, in un modo in cui non le aveva mai mosse. La Sentinella credette curiosamente di essere bagnata e non sapeva che fare di un rimbombo insistente nel petto. Però procedeva, in quel modo che era scattato da solo, attendendo un comando nascosto, attraverso la stessa strada da cui era venuta. Non c’erano più tempeste o titani visibili, ma era da questi che doveva scappare, sapeva che c’erano.


Riconosceva un muro, un cipresso, un’incisione, una roccia muschiata sul percorso. Le cose, gli elementi statici del paesaggio, non avevano mai vorticato così, e non aveva mai creduto che potessero farlo. Aveva visto correre molte cose, certo, ma non sapeva indovinare cosa vedessero in quei momenti. Era abituata a vedere le cose modificarsi irreversibilmente, drasticamente: questo era l’effetto del passaggio attraverso il tempo. Un vago dolore, un’amarezza tenera, si sedimentava osservando questo fenomeno inesauribile, che univa tutto, che ammantava di una certa malinconia tutte le terre e i mari. Finché il sedimento diventava istintivo, incorporato, e si accettava come illusione d’immobilità quello che era invece in costante mutamento. Entrare nel movimento, incarnarlo, anche esasperandolo in quel modo, era tutt’altra cosa. Conobbe insieme la corsa e l’affanno, cose separate, ma che negli altri esseri venivano insieme, in successione. La marcia era molto meglio, ma forse anche quella cosa aveva una sua ragion d’essere. Strabuzzava all’idea, anzi alla concretezza, di quel mescolarsi di colori e forme, i contorni che si diluivano.


Apparve il cancello. Da lì era entrata. Le schiniere minacciavano di staccarsi dai ginocchielli e schizzar via per lo slancio, il clangore che producevano era fracassone, era in qualche modo buffo, in maniera disagevole. In quel modo raggiunse rapidamente la soglia, e in un balzo di molte braccia l’aveva superata. Si voltò, continuando a correre tra la sabbia che si sollevava: vide i demoni di pietra, tutti rattrappiti su se stessi e sulle proprie guglie, che dilungavano zampe rachitiche, zampe pelose o squamose, fino a raggiungere i battenti. Li trascinarono, gridò un sofferto cigolio di inferriate; il cancello serbava nel ferro un dolore raramente dischiuso, si faceva assordante nella distanza, e poi taceva. Era sigillato e gli occhi dei demoni, vigili e sospettosi, scintillarono un’ultima volta giallastri in direzione della figura che era fuggita e proseguiva lontano dall’ingresso della necropoli; poi tornarono dov’erano, nelle loro posizioni, e stettero immobili a sorvegliare dall’alto. La Sentinella si chiese se non fosse stato solo per uno strano tempismo che non era rimasta chiusa là dentro, o se era stata la sua nuova abilità nella corsa a salvarla da quella manovra di chiusura che forse i mostri rocciosi avevano voluto fare proprio per lei, perché volevano tentare di prenderla. Forse la volevano rinchiudere per sempre in quel paese, chissà perché.


Alla Sentinella sembrò che il paesaggio fosse diverso da com’era quando era entrata. Non trovava più la via lastricata, le rocce nere simili a quelle in un greto umido. Forse era un cancello diverso, ma molto simile all’altro, oppure le cose si erano ancora trasformate. Riprendendo il passo normale, tutta vacillante nelle gambe, si protese sulla cima granulosa d’una sporgenza, lasciando tracce magre come il suo corpo sulla sabbia chiara e fine macchiettata di arbusti spinosi. Guardò l’orizzonte con le costruzioni dello stesso colore, simili ad alveari polverosi, addormentate sotto la calura. Non poteva far altro che procedere, cercare linee. Aspettandosi di trovare prima o poi un’oasi con delle acque dissetanti, un’ombra sotto cui riposarsi e dimenticare gli aspetti sfiancanti di quella vicenda.

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