rosa dentro gli occhi
- Milky
- 11 apr 2022
- Tempo di lettura: 9 min
La creazione dell’oggetto produce un fracasso agghiacciante, ci dev’essere nei sotterranei di tutto il mondo una gigantesca sega che scivola su un enorme piastrone di metallo non oliato. Osso di seppia degli strati sottostanti, ci abbiamo fatto sopra i palazzi. Continua a girare su se stesso il pianeta, l’organismo fatto d’acqua e squame, bilanciato internamente da questa sua lisca. I suoi cancri numerosi, in superficie, fanno rumore.
Ma no, è solo un cigolio che proviene da un edificio in particolare, una comune bottega. Non ricordo nemmeno come mai ci fossi entrato. O da quanto tempo sono in attesa davanti al bancone.
-ecco, un attimo di pazienza.
Dice il bottegaro.
-fatto.
Dice subito dopo.
Mi mostra l’oggetto, ed è un cacciavite con un’appendice contorta. Mi sembra un narvalo cresciuto in un mondo di ghiacci astratti, dalle forme innaturali e conturbanti, e in cui sotto la superficie liscia dell’acqua la luce rimane catturata giallastra e azzurrina tra nervature granitiche degli iceberg sommersi. Un polo di un altro pianeta che è giunto fin qua, si va a nascondere dietro i nostri freddi, le nostre acque gelate. Ma in realtà è un altro mondo, a me non mi ha mica fregato. E nemmeno al signore che sembra essere così bravo nel suo mestiere.
Guardalo, invidialo. Soffermati sui dettagli. Peli simili a fil di ferro sulle dita. Invidia le macchie, i lividi, invidia le sue nocche che si cospargono di calli nel maneggiare giornalmente la materia dura che compone gli attrezzi che mettono in moto il mondo. E che attirano i clienti in questa bottega, dove sono in esposizione, per la loro vasta gamma d’usi, di situazioni dalle quali possono salvarti con incredibile efficacia. Stanno appesi, eccoli, ai ganci delle pareti, numerosi come tanto pescato ancora sgocciolante. Negli abissi si evolvono le forme più strane. Nelle mani di una specie di fabbro si evolvono forme ancora più strane, per risolvere l’infinità dei problemi di tutti quelli che entrano. Psichiatra e sciamano della ferraglia, della materia dura, dacci un attrezzo per renderci pigro e comodo lo sforzo di vivere. Ma perché sono entrato, e che razza di posto è?
A un tratto ricordo solo una cosa. A questo tizio con la mascella d’argento, che curiosamente assume a volte l’aspetto dell’idraulico che viveva nel mio vecchio condominio, avevo chiesto a un certo punto: estraimi il sonno, per favore. E con l’indice mi ero picchiettato un punto della fronte, un punto esatto. C’era dentro un nervo, e dentro al nervo, dentro i suoi organi interni microscopici, stava tutto avvoltolato un corpo estraneo di massa enorme, condensata in una singola puntiforme particella. Mi dovevo esser reso conto all’improvviso della natura fisica del sonno, la sua capacità di ingombrare. Poteva essere particolarmente fastidioso. Canali, tubature che si sentono ostruite, si vuole eliminare qualcosa. C’è una bottega che ti aiuta a espellere.
Così eccomi qua, senza sapere il prima e il dopo. Mi ero avvicinato al bancone, magari dopo aver dato qua e là un’occhiata assente agli scaffali? E chissà, il mio atteggiamento poteva esser sembrato quello di uno che “va al dunque”. Se ho letto il nome della bottega, non lo ricordo. La battezzo la bottega del dunque. Eseguo simbolicamente, fantasizzando, gesti della mano che consacrano l’ambiente, officiano la buona fortuna e la protezione, conferiscono un nome.
Comunque quello, il signor dunque, non fa domande: chissà quanti scemi gli capitano ogni giorno. Lo si intuisce anche solo guardando che razza di oggetti gli fanno fare.
E allora comincia a infilzare, proprio dove ho indicato, una volta costruito l’arnese. Che sarà mai, un’estrazione del sonno, per uno come lui. Non sono che l’ennesimo stravagante che si è accorto di avere un capriccio. Il rostro di metallo zigzagato comincia a girare, e la mia pelle, più precisamente una strana pasta fatta di mistura di pelle e cranio, comincia a sfibrarsi nel corso del processo, e si separa dal resto attraverso uno spiraleggiante nastro simile a segatura. Si stacca in tante piccole bucce sottili a forma di molla. Il rumore dei giri che questo raro cacciavite produce nel penetrarmi la testa è un cigolio ancor peggiore del lavorio di mani del fabbro, quando sottobanco metteva insieme i metalli rari, le cose sue che sa lui. Questo lo so io, invece. Diavolo, riguarda il mio corpo, una cosa che, teoricamente, mi appartiene. E gli sta succedendo qualcosa di strano. La segatura di pelle e cranio comincia ad accumularsi inesorabilmente sulla pavimentazione marrone quasi arancione, tipica di un negozio di articoli per la pesca sportiva, tipica illuminazione di lanternine fioche che andrebbero bene in barca o in una giornata in cui la lunga pioggia ha reso il mattino simile alla notte. Quindi è qui che sono? In un giorno di pioggia, in un negozio di articoli di pesca (ma non era un fabbro?)? Ma io non voglio pescare un bel niente, voglio solo…
Tirami fuori questo sonno, avanti! Ora che mi sono accorto del fatto che occupa uno spazio e che ha un peso, dentro la mia testa, e quindi anche un potenziale di tangibilità, sto temendo di non riuscire mai più ad addormentarmi. Se continuo a pensare che c’è, sarà come una febbre, e frammenti di fuliggine dentro i polmoni, respirazione accidentata. Ho necessità che venga estratto, che io lo dimentichi. Dovrei forse passare lunghi secoli in solitario vagabondaggio, in attesa che nella mia mente rinasca spontaneamente, come ricreandosi per aver avvertito la mancanza di un principio a sé affine, qualcosa di simile alla capacità di addormentarsi. Del tutto separata, per natura intrinseca, dal sonno che c’era una volta, oh nossignore, il nuovo sonno non avrà nulla di corpuscolare, sarà una nube perfetta senza linee di confine che giungerà ad avvolgermi e inglobarmi senza mai incarnarsi in nervetti e sinapsi e punti dentro la fronte. Via il sonno che ha avuto l’esuberanza di manifestarmisi, come un tormento diabolico. Quello che sto facendo estrarre proprio in questo momento. Cigolio sinistro di pelle e cranio, un gran casino di molle sul pavimento che poi qualcuno dovrà ripulire, uscirà dalle penombre del retro un garzone armato di scope e palette nere in questa bottega di barbiere -ma non era un negozio di pesca, non era un fabbro? Il sonno se ne va. Percepisco simultaneamente che una strana lastra di frescura, diafana e simile a un velo impalpabile, mi fende l’interno della faccia, calandosi dalla linea degli occhi e discendendo lungo le guance in un movimento perfettamente geometrico, repentino, che distribuisce una sorta di sollievo. I pori della pelle sembrano aprirsi uno a uno e spargere una fragranza, ma mi sento anche in un certo senso svuotato. Sembra che stia evaporando, dai pori e da questo fenomeno assurdo, una cosa che era presente nel cervello.
-ah, ecco qua! Una bella marmellata di maiale!-, esclama il signor dunque, lasciando adagiare senza esagerazione una sottospecie di soddisfazione in due fossette simili ad abrasioni disegnata tra peli metallici di barba incipiente.
Dal foro praticato nella mia fronte, è stato fatto gocciare in colate lumacose con uno sgradevole e grasso rumore di risucchio una specie di unguento densissimo, un’altra pasta dentifricia da me prodotta. È tutto il sonno che stava ammassato nel punto dentro la fronte -simile all’intestino, messo a essiccare su stecche al porto, di una creatura filamentosa, un lombrico d’abissi. Lui però la chiama “marmellata di maiale”, questa pasta rosa che s’adagia nel secchio in un cilindro oblungo bobinato su se stesso. Beh, ci saranno nomi diversi per la stessa cosa. Strano però. Un nome da marinaio sarebbe andato molto meglio per questo individuo, idraulico fabbro barbiere esperto di malattie spirituali. E invece parla di maiali. Costui aveva saputo che un tempo i demoni furono ficcati nei corpi dei suini, che si gettarono dalla scogliera. I maiali erano esseri posseduti, ospitavano con facilità parassiti e vermi e virus e demoni, e impulsi incontrollabili. Ne ho prodotto una marmellata? Così dice lui. Sta là, traballante e gelatinosa nel secchio. Poggiato sui rimasugli della segatura mia. E dentro manda rilessi scintillanti ciò che la segatura, un tempo fronte, aveva conservato. Ci devono essere condizioni ideali all’interno della fronte per la sua conservazione e fermentazione. Poca aria, buio, umidità moderata.
Il secchio di legno che ha tirato fuori, ma quanta robaccia tiene là sottobanco? Mi vedo, mi immagino dal basso, come se per un momento fossi il mio sonno che è finito nel secchio. Mi guardo incombere su di me, un volto ombroso pieno di ribrezzo, sentenza, separazione. Ho molti peli scuri nel naso, da sotto si vedono bene.
Dall’alto guardo dentro il secchio di legno, guardo i riflessi viscidi sulla consistenza della sostanza estratta. Mi fa impressione, e continuo a fissarla. Questa roba ce l’avevo dentro la fronte.
…
In un recinto circolare, coi pali in legno ben conficcati nelle ribollenti ferite aperte in un pantano, molti maiali grufolano e di tanto in tanto sollevano a scatti le orecchie, ansiosi. Sembrano avvertire attraverso un presagio incontrastabile che morde le loro interiora l’arrivo di qualcosa. E quel momento lo temono: sanno che perderanno qualcosa. Sono animali che vorrebbero conservare molto. Cosa? Tutta una serie di cose. I denti sporchi e gialli dentro il grugno, le riserve di grasso, le abitudini, la vita. Stanno lì dentro i maiali, nel loro cerchio, e ce ne sono di tanti tipi: grigiastri, bruni, bianchicci e ciechi come esemplari cresciuti in apnea tra le pareti gelide e disinfettate di un laboratorio buio. Ma no, sono tutti cresciuti qua, in realtà, nel cerchio. E sono tutti un po’ rosati, sia quelli pelosi che quelli più nudi. E tutti hanno una specie di barbetta fatta di grumi di fango che rimangono impiastricciati a cristallizzarsi al sottogola, alle froge, ai ciuffi di pelo che spuntano dai porri dei volti bitorzoluti. Con volti del genere continuano a scavare, e sembra loro di rinfrescarsi il naso palpitante e un punto dolorante in mezzo agli occhi. Li chiudono a volte per godersi l’immersione, la colata fresca che li investe, che scavano col movimento.
Arriva un uomo. Le sue scarpe lunghe e nere scricchiolano sulle poche erbacce che affiorano dalla fanghiglia, si fermano davanti a una porticina sbarrata del recinto. Poggia una mano secca e allungata, ramificata di vene violacee e cicatrici rosse, sulla trave più alta. Ci si avvolge, pare voler affermare che la possiede. E sopra, sbucando da un gilet di tweed sfilacciato, fluttua dalla cima dell’alto collo un volto rovinato, ghignante. Fa paura. Farebbe paura a tutti, anche ai maiali, comincerebbero a scappare follemente e senza ragione dentro il recinto, se quell’uomo d’altezza imponente ma di corporatura scheletrica non sembrasse sul punto di morire. Ai maiali, privati dell’impulso alla fuga o l’attacco da questo strano istinto, convinto che l’uomo possa trasformarsi in uno spettro a ogni istante, non resta che il sospetto, le occhiate strabiche che fanno rimbalzare l’un l’altro e che vanno a convergere contortamente sui tratti netti del volto, lì a galleggiare per loro. Le sclere bianchicce dei suini si allargano nell’apprensione, stimolate dalle punte avvitate dei baffi a spazzola, la dentatura aguzza, il ghigno, il naso prominente e gommoso, la carnagione giallastra. Non smette di ghignare, è incredibile. I maiali avrebbero già cominciato a colpire a craniate le travi, se la presenza di ossa visibili, intuibili dietro il ghigno e il gilet, non li fermassero per qualche ragione. Attendono di vedere il momento in cui il porcaro entra nel recinto e comincia a scomparire e disintegrarsi selvaggiamente, sempre con quella sua sicumera minacciosa, i suoi baffi ruvidi, gli occhi gialli come le zanne loro.
Ma il porcaro non entra nel recinto per evaporare. Ha con sé quella che chiama un’esca: estrae da una tasca del gilet di tweed una forma strana, pare estratta tra le stranezze del mare, da un fossile.
I maiali rizzano le orecchie, simili a fazzolettoni varicosi. Ondeggiano desolate sui bernoccoli dei crani. Tutti si voltano verso una mano del porcaro, ben stretta sulla coda, segmentata da vertebre. Lo strano pesce, d’aspetto scheletrico, è vivo, e si contorce, a testa all’ingiù, ammesso che sia quella la testa. E come potrebbero capirlo? Non ha occhi, bocca. Solo una vaga forma di un pesce mai visto, pieno di scaglie ai lati, e spinose costole color crema per pinne. Ossa chiare e belle, con un esoscheletro di carne nera e marrone. Appendici sguscianti, viscide.
La mano del porcaro lancia, il pesce fa un tonfo nel fango che schizza gioiosamente e colpisce in mille goccioline fetide i volti dei maiali. In cerchio, si dirigono tutti verso il pesce, e con le zanne gialle sfoderate cominciano a dilaniare le sue carni, o scalfirsi dall’impatto con le sue lische. Si fanno malissimo tra di loro, tutti avventati sulla creatura aliena. Impossibile capire se soffra, se ci sia opposizione alla frantumazione dei pezzi di sé. Non fa che agitarsi come avrebbe fatto comunque. E intanto i morsi la forano. I maiali si mordono e forano tra di loro. Sono una massa irriconoscibile di strattoni rosati, pieni di porri, imperfezioni sulla pelle trascurata e scavata da continui parassiti. I loro lividi affiorano dal fango acido sotto una pioggerella che ha iniziato a cadere in aghi neri e pungenti.
…
Questa roba avveniva nell’arrossamento degli occhi quando mi sono accorto che avevo un sonno dotato di forma, nocivo. Sbobba, un pappone rosa che avrebbe cominciato a puzzare: questa roba ce l’avevo dentro la fronte. Immagino nasi frementi di bestiame famelico che si gettano all’interno del secchio e setacciano le profondità oleose del fluido. Questa roba ce l’avevo dentro la fronte.
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