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rinvenimento della venere tricheca

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 5 lug 2022
  • Tempo di lettura: 11 min

Mettiti su quella sedia. No, non c’è nessun bisogno di correre. Né per andartici a mettere, né quando ti metterai a scrivere la tua giornata, né quando fai qualsiasi altra cosa. Ti fidi poco. Ora, tu scuoti la testa, mostri un atteggiamento scettico fatto di sguardi, che sembrano voler togliere il perdono a qualunque cosa, sembrano volerti convincere del fatto che hai questo potere. Che tu stesso non vuoi usare, tu scegli cosa vuoi, eppure in alcuni casi ti viene voglia di usarlo lo stesso, ignorando le tue idee. Come se in te ci fosse un altro che ti controlla, agisce, e poi si spegne senza lasciare altre tracce che le sue vergognose azioni -ma no, non è questo, forse è che non te ne rendi conto in quel momento e le tue azioni s’animano di violenza e intolleranza; no anzi non è nemmeno questo, è proprio che in quel momento, per quanto poco duri, vuoi che sia così, e riesci ad accettarlo perché passerà. Sbaglio? No, non sbaglio. Tu neghi, scuoti la testa, ti mostri reticente e proprio quando cerchi di sfuggire dalle dita che ti prendono e ti affanni a sgusciare tra le falangi, per ritornare strisciando a un mare di primordi tra creature d’acqua e fango fresco e limo che ti accolgono in una famiglia argillosa e di branchie, è in quei momenti che la vulnerabilità tua è la stessa del tuo addome, che diventa la tua personalità intera, che diventa i tuoi strattoni fermi sul posto, la tua gamba che non si ferma mai anche quando stai seduto, apparentemente fermo. E non puoi voltarti per offrire il guscio duro agli attacchi, e un rossore ti brucia dentro le orecchie, e le tue orecchie si riempiono d’occhi, parabolicamente posizionati all’esterno della tua faccia per poter vedere al contempo dentro e fuori, e potersi vergognare d’entrambe le facce. E t’agiti, piccolo ventre, t’agiti. Ma anche se sei scettico, qui va benissimo. In questa stanza non c’è minaccia e puoi sederti, puoi essere un addome molle indifeso e cagionevole per i colpi di freddo. Tremola gelatinoso per incapacità di sentirsi al sicuro. I cilindrici piedi color formica della sedia impercettibilmente si spostano e cigolano sussultando sulle linee scavate nel pavimento. Il nervosismo tuo e quello del pianeta che ruota su se stesso fanno muovere le cose inerti.


Ribatti, rigetti dalla psicosomatizzata epiglottide l’idea che ti si stia aiutando, anche se è il tipo di aiuto che spessissimo, tra grida che rimangono private e rimbombanti dentro tue inaccessibili pareti, chiedi, lanci al cielo, disperi per vederlo comparire esclusivamente nel mondo delle tue fantasticherie. Rifiuti, sadicamente si dice, ciò che ti viene offerto; vedi come un atto promiscuo il concretizzarsi di talune fantasie nel reame della realtà che deve tenersi distanziato, senza mai contaminare l’inafferrabile. Tutto colpa di questo. I continenti affondano e si sciolgono, il veleno scorre sulle onde, perché qualcuno ha spostato i continenti e le onde dal loro piano ideale per concretizzare un avvicinamento a quello reale, dove nascono le volontà e i comportamenti dannosi. Ti fanno domande scomode, surriscaldano il globo, sporcano le strade e la tua nobile pazienza.


Ti stai dimenando. La stanza, l’ambiente circostante in cui sei stato convocato o che tu stesso hai inconsciamente evocato, lentamente e in segreto comincia a insinuarsi nella tua percezione. Nuove ombre e pareti, non tue, attorno al tuo visibile. E mentre concitato ti difendi, lati incontrollati della tua faccia lasciano trasparire il fremito che se ne impadronisce quando ricevono i bagliori luminosi del pavimento e della carta da parati, del pomeriggio e delle cose stranamente, nostalgicamente familiari che ti circondano. Così c’è una specie di lacrimosa instabilità, molto in sottofondo, anche nella tua voce, quando rispondi alle domande, quando controbatti, e t’inquieti sospettando che qualcosa sia in atto per costringere certe parti di te a uscire allo scoperto. Agiti anche le mani, come a scacciare le componenti più insistenti dei raggi solari che entrano dalle finestre, alte strette orizzontali forse seminterrate, da qualche parte dietro e attorno a noi. Nel farlo erigi poi giustificazioni morali al tuo rifiuto nei confronti del nostro “aiuto”. Non lo meriti dici, non è giusto dici, ci stiamo sbagliando dici. Ma qui commetti un errore: non sempre si fanno queste cose perché ti si vuole bene. Quindi non lamentarti se qualche essenza ti sta volendo del bene ingiustamente: non puoi nemmeno sapere se ti sta volendo bene. Ti dice solo, siediti. E siediti allora su questa sedia. Sei già seduto, lo sappiamo. Ma sieditici davvero. Come? La differenza tra guardare e vedere, sentire e ascoltare. Ostenti una smorfia ai limiti del linguaggio, li disprezzi e insieme li ami dalla distanza, hai visto muoversi le ombre d’uomini vicino ai bar ai parcheggi alla stazione dall’altra parte della strada sulle coste di abitazioni e igloo. Ma sei venuto qui senza chiedere indicazioni nella lingua di quelli, e dunque facendo un ritardo clamoroso perché non esiste in te il senso d’orientamento. E noi qua che ti aspettavamo. Il minimo che ci devi è di sederti sulla sedia che abbiamo scelto per te.


Ti piace? Sì, immaginavamo. Sei carino quando annuisci. Anche quando arrossisci. Ti tocchi il mento perché la mano è fredda e vince il rossore, vince il sangue, con la mano fredda credi di scolorire l’emozione che credi non sia affiorata nemmeno tanto a causa della carnagione scura. Cosa hai fatto con quella mano per farla diventare così? Eh? Inattività totale, oppure attività di morte? Ance se non sai proprio che rispondere e l’imbarazzo ti domina come di consueto, cominci in parte a interessarti, per il genere di domanda che normalmente manca nelle conversazioni noiose, in cui taci e più o meno inconsapevolmente ti proietti sulle altrui pupille come i riflessi conici di un arrogante distaccato iceberg, e te ne galleggi, sui mari freddi e le correnti centrifughe, finché non t’incagli a una rotatoria, e blocchi il traffico, e gli uomini indaffarati impazienti immorali che s’affacciano dai finestrini sputazzano da labbra abbronzate e barbe metalliche, e clacson, ed esalazioni, e insulti e allusioni alla lentezza della tua mente, e allora ecco che il ghiaccio snob delle tue pareti squarcia sulla superficie delle fessure da cui escono bestemmie e volgarità di strenua patetica difesa, così che anche l’iceberg girovago ritorna a galleggiare goffamente collocandosi su correnti meno discoste dagli irritabili mondi umani del pack. Dove gli umani hanno battuto la banchisa, stringendosi le mani solidalmente in guanti di foca, così alleandosi per vincere l’inverno eterno, e correndo sulle pianure bianche e crepitanti hanno raccontato i miti scritti nell’aurora, nella carne e il liquore scaldabudella che ti hanno offerto e che tu hai rifiutato. Se ti dicono di tornare, di prendere il mare galleggiando su un fegato di megattera, tu in risposta ti squarci il ventre. Sangue rosso e vermi rosa t’escono da dentro, vermi fettuccina lunghi quanto le spiagge. Li vedi amalgamarsi alle acque gelide e, adagiandosi sui mulinelli impercettibili appena al di sotto della superficie, disegnare una profezia.


Puoi stare tranquillo, signor sogni d’apocalisse. Qui c’è una sedia che ti piace. L’abbiamo messa apposta. Non è vero, forse, che è una delle sedie che associ a una certa zona, o un certo periodo -in fondo è la stessa cosa- e a un modo d’essere delle sedie che inconsciamente ti è rimasto molto caro? Senza schienale, plastica nera, un cuore di falsi vimini color crema. Una festa cui partecipasti indirettamente, trincerato nel privilegio dell’infanzia e le dimensioni ridotte della tua schiena nella foresta di schiene gigantesche? Sì, questo ti sembra di ricordare. Sono quelli, quelle schiene danzanti, i giganti di ghiaccio che si proiettavano sui cieli polari e che fondarono le storie ancestrali della gente. E lì in quella festa non lontana dal litorale, in una specie di sala hobby o sala per le feste di una qualche pizzeria simile a un arioso sottoscala coi soffitti ricurvi, i giganti d’aurora che per te erano così alti proiettavano se stessi sulle pareti, insieme a numerosi globi cangianti e malinconici, danzanti su tutto il blunero che allo spegnimento delle luci aveva umettato profondissimo tutto l’interno del locale… luci di giganti boreali e polle di diafano verdino, musiche che erano uguali alle luci, e i secondi che in quei momenti ti sembrava d’afferrare con le dita protese e annaspanti della tua manina, come a poterli conservare per sempre e disporli dietro la tua retina, tante preziose biglie intraoculari assieme a tutte le altre… momenti che hanno superato tutti gli altri in qualcosa di ineffabile e senza farne capire il motivo. Superato altri gruppi di secondi disintegrati nel loro destino comune di sfuggire e sparire per sempre. Perché ci sono stati dei momenti con una così forte illusione d’immortalità? Perché la tua manina li ha afferrati in tempo? Bambino lento e di riflessi lenti, sii meno geloso di quello che sei riuscito a ficcarti in tasca, o nella tua bisaccia di provviste che servono a vincere la durezza dei ghiacci estendentisi sconfinatamente, in tremendo e vuoto biancore, lungo le coste del tuo futuro. Apri la manina…


Dal palmo si solleva una bolla. Come quelle sulla parete di leggero, infinitamente quieto buio, non si sente profanato dalla musica. Buio in cui galleggia la sala che esploravi, piccolo e senza linguaggio, la sala con un tavolo di bevande irraggiungibili a un angolo, carte colorate appese, effigi di feste passate e della festa di allora, e un nuovo disegno luminoso, e le sedie, quelle bianche di plastica e quelle come quella che…


Piangi, ti commuovi, non sai neanche perché. Ti porgiamo un fazzoletto, tieni. Sai che il tuo potrebbe essere un falso ricordo, una sedia di tutt’altro posto. Il tuo cuore è grande oppure infinitamente arido e piccolo, come la tundra che sta disintegrandosi in questo momento? Non siamo qui per compiacerti rispondendo a questa domanda. Ti facciamo una domanda scomoda.


Cosa hai fatto oggi? Mh mh, mh mh, bene, capisco, capiamo. Altre domande si susseguono. Tu annuisci oppure scuoti la testa, sei carino, sei adorabile individuo al quale è tuttavia difficile stare accanto, spigoloso reticente. Dici che ti senti confuso, non sai se sei di quelli lì, o di quegli altri là. Di quelli che vogliono amare o di quelli che vogliono odiare, non capisci più se la tua forza è nella tolleranza e nel cuore che una volta avevi, sprofondati ormai tra gelidi flutti, o se devi insistere nello sforzo di diventare l’individuo che vuoi e ammiri quando lo vedi fuggire per sempre dalle tribù e vincere ogni temperatura, vincere tanto la natura quanto la sua fine. Ma sì, sai quanti vengono su questa stessa sedia a chiedere proprio la stessa cosa… alzi la testa di scatto, simile ai cavalli cinetici disegnati sulla carta da parati sgualcita che si può intravedere con uno sforzo antisfuocatura, lì dietro le tue spalle, lì dove esistono i confini dell’interno del locale. Anche questo adibito ad area feste, sì. Se ci sei stato, per caso, in una di queste, trascinato per la manina?-chiedi improvvisamente, destato da una possibile epifania. Mmh… ci fanno cenno che non possiamo dirtelo. Torniamo al tuo scatto inquieto di poco fa. Chiedi, anzi vorresti chiedere ma ovviamente non lo fai, se proprio questa stessa sedia è stata vista anche da altri, venuti qua prima di te -che ti frega, eh, degli altri? Non devono aver visto la tua stessa preziosa sedia? Non importa che fosse la stessa, diciamo noi. L’importante è che ci sia una sedia. Ma tu sembri deluso. Sembri voler sapere ancora se il tuo è un falso ricordo. Cominci ad averne abbastanza della tua astrattezza, ecco perché. Non ti sta più bene nemmeno la tua soggettività che crea un sogno dagli angoli fluidi vischiosi, plasmabili al tuo stesso essere quando come un bipede nudo padrone dei luccichii dell’unico giardino creato ti avvicini ai suoi confini e sollevi un braccio per inventare un cenno, e facendolo lo vedi colare simile a miele nel miele che dalle pareti vicine già si protende, e vedi il tuo color carne fluire e già amalgamarsi a quello variopinto del mondo… non torni più nemmeno in quel posto. Ne hai abbastanza e ritieni che ci sia un’immoralità, ormai, nella tua incertezza. Nel fatto che quando ti chiedono le indicazioni non le sai dare, nemmeno dal semaforo a casa tua. Kayak affondano per causa tua, dilaniati da orsi polari che incombono subacquei e attentano le vite sicure degli igloo, profilandosi spettrali come loro nemici -nemici dell’umanità. Sei un ecoterrorista e ti siedi su questa sedia, ma non è di questo che tratta il processo, non è nemmeno un processo. Basta che sai che non ti verrà detto altro a proposito della sedia. Ora ti metti gli occhi nelle mani concave, forse singhiozzi un po’. Va bene, goditi ancora un po’ il tuo ricordo. Una cosa era vera: c’era una festa avvolta nell’ombra, un’ombra d’incanto che nettarina filtrava nei tuoi occhi meravigliati di bambino, rinfrescandoli. Una meraviglia mai più trovata in nessuna festa, nelle loro squallide finitudini. E a tre anni invece vedesti l’infinito proprio nella finitudine, nella sua nostalgia. E c’era una musica. Riascoltala. Succhiati tutta la nostalgia salata di cui hai necessità, in questo tuo affogare tra i ghiacciai dei polpastrelli tuoi.


Sei un ghiacciaio come tutta la stirpe, piccolo iceberg.


Altra domanda scomoda. Avete parlato oggi? A cena, per esempio. Scuoti la testa. Sei un testardo, fondamentalmente. Parlerai domani? Fai una lunga pausa. Sarebbe meglio se fumassi e avessi una sigaretta in questo momento, a disintegrarsi in una ipnotica languida serpentina grigiastra che si collega a un ipotetico soffitto che ci copre, una gif di fumo infinito in cui tu rifletti, aaaah così tormentato dai conflitti tuoi e la sudorazione tua. Lungo silenzio poi rispondi. Perché la tua astrattezza non se n’è andata, in realtà, e di conseguenza per te la domanda è un simbolo, e non parla per forza di domanidomani. Quel domani significa qualcosa di più esteso, che potresti o non potresti veder comparire e vivere un certo giorno. Rispondi che non lo sai. Risposte vaghe come falsi ricordi ti accompagnano dovunque vai senza mai andarsene, e tu le fai uscire da te a volte anche dopo inutili pause, per nulla influenti sull’esito, sempre uguale, di un vuoto che sconcerta. Noi ti sorridiamo, non arrossire, non pensare che ogni descrizione si faccia di te costituisce una trappola assassina. Non ce ne frega niente di questa descrizione che ti stiamo facendo, puoi stare tranquillo. Quando capirai che non frega niente a nessuno? Un’altra pausa. Vagheggiamo, con quasi la tua stessa astrattezza e distanza prona alla fantasticheria inconcludente, quanto saresti bello se avessi ora la tua sigaretta, e le sue aurore di mammut di tabacco! Lunga inutile pausa alla fine della quale dici “mai”. Ti figuri le facce che ti osservano dalla costa, in sadica attesa che ti sfracelli contro le cose spigolose che galleggiano, e allora hai paura e rabbia e intolleranza. E pensando questo rispondi “mai”. Annuiamo. Annuisci, ridi di un nervosismo con cui puoi rifornire il tuo mondo e i tuoi sudori fino ai confini del mare e del tutto, fino allo scioglimento ultimo dei ghiacci.


Se succede, vieni qua. Ci sarà sempre una sedia. Ma tu scuoti la testa e ti mostri scettico, estremamente scettico. Ti daremmo pacche sulle spalle, bonariamente deridendoti. Ma sappiamo che le respingeresti per l’uno e per l’altro motivo.


Quando esco dall’edificio mi sembra quasi di venirne gettato fuori, come se i corridoi, invisibili e intricati oltre i muri, che conducono alla stanza nel nucleo, fossero stati invasi da violenti vortici. Il tempo che passa prima che mi ritrovi di nuovo all’esterno, anzi dall’altra parte della strada così che la struttura a un piano mi appare come una gialla conformazione addormentata che potrebbe essere qualsiasi cosa, è un tempo irrisorio che sembra dileggiare il lungo tempo d’attesa e smarrimento che c’era stato al momento di entrare, cioè smarrirsi e cercare. Esco e ritornano i frastuoni e i rumori flebili, il traffico, la sera di luce che si avvicina dai margini del cielo per convergere in un punto sopra la mia testa. Tre uccelli grandi e neri controluce, veloci. Le punte di certi palazzoni popolari, odore di crosta bruciata sale fino alle nuvole. Mi sembra che l’edificio sudi.


Facevo fantasie polari mentre venivo qui, per spiegarmi la distanza e il mio impraticabile rifiuto nei confronti della mia stessa specie. Scimmia che si allea per dominare i ghiacci. È piena estate e io mi ritrovo non lontano dai posti delle vacanze. Riconosco questa zona che vedevo dai finestrini, riconosco il cinema non lontano. In vacanza cambiavano gli elementi del mondo, cinema diverso da quello solito supermercato diverso da quello solito una chiesa diversa dalla solita aveva nel cortile una voliera d’uccelli variopinti che osservavo immobile. Allora raccoglievo quei momenti e li mettevo dentro la retina, intuendo che avrebbero atteso prima di schiudersi e rivelare un significato profondo. Per ora rimango solo a guardarli. Potrebbero non schiudersi mai. Ma li guardo. Custodiscono un qualcosa che almeno è bello esteticamente, innocuo come il margine del tramonto che s’addensa nel cielo, sulla città, su questo mondo di campagna. Un camion sfreccia alzando un fiato di vento nerboruto che fa traballare l’asfalto, clangore di transenne di un parcheggio si propaga e mi raggiunge carico di nevrotiche pressioni mentre sono avviato lungo la strada. Mi volto ancora verso lo strano posto. Suda e così facendo scioglie gli ultimi ghiacci polari della mia mente. Rimangono però, sospesi come strani e fulgidi cristalli d’estinti fossili che s’erano intrappolati nel ghiaccio, una sedia, una sala, i frammenti di questo posto confinante con le vacanze, gli attimi precedenti migliaia di tramonti simili a quelli attuali, una musica disturbata da rumore di fondo che sembra equiparare il tutto, uno strano incenso. E l’edificio stesso, no, filari d’edifici che scorrono alternandosi a canneti e recinzioni e canali, edifici tutti anonimi e senza interno, come adesso quello strano posto ritorna a essere mentre mi allontano.

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