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re di dicembre

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 23 dic 2021
  • Tempo di lettura: 11 min

Finisco di fare un sogno soltanto apparentemente tranquillo. Una casa, dei corridoi, uno sfondo. Popolato di gente fatta di voci e dettagli dimenticati, quella che quando torna in mente causa crampi e l’anticipo del lancinante imbarazzo che scaturirebbe da un incontro. Tutto normale. Sollevo due palpebre lente che assorbono ciò che qui giunge del sole sorto sul nuovo giorno, guardo questo sole come se fosse una ributtante palla di fuoco marcio, nel cui nucleo inceneriscono sostanze vischiose appiccicate l’una con l’altra, appallottolate. La combustione proviene dall’interno, sfrutta le naturali proprietà chimiche di questo composto che si direbbe provenire dalle profondità della terra. Eppure fluttua, e il suo fiammeggiare può quasi sembrare un fenomeno ipnotico, affascinante. È con un misto di ribrezzo e incanto che lo accolgo. Per questo faccio in modo che passi soltanto per gli occhielli della serranda. Palpebre e poltigliosi occhi di cispa si irrorano delle onde termiche dissolte nell’aria, ne hanno sete, inconsciamente diurni. Li richiudo subito e ho l’impressione di sentirli dolere, pieni di disprezzo per le ore successive all’alba.


Questa sensazione, mista a un’emicrania persistente da giorni, viene fuori da qualcosa di molto preciso che si è assestato dentro me, come sonnecchiasse tra il fondo della cassa toracica e lo stomaco, da qualche settimana ormai. E sebbene sia molto preciso, presentandosi in nette e violente immagini alla consapevolezza, per sua stessa natura ama anche camuffarsi, sfruttare le proprietà di una composizione scura e fumosa. Sta di nuovo mutando: stiracchiandosi letargicamente, solleva una sinuosa coda e sfilaccia in lunghezza lembi evanescenti d’oscurità tentacolare, che soltanto stando a contatto con l’aria, o con il vuoto cieco che mi riempie il torace, prende a evaporare e disegnare nuove figure nell’incrociarsi mellifluo dei fumi. La natura di fondo rimane la stessa. In questo gesto la creatura predispone il proprio risveglio e il palpitare della veglia che seguirà, imitante quello degli esseri viventi, con cui mi accompagnerà anche per questa giornata; e al tempo stesso è una mossa che comunica anche la sua scontentezza, per non essere apparsa nel sogno che ho appena fatto. Desiderava una parte nel dramma automatico della mente, là dove hanno genesi i conflitti insiti alla specie a cui appartengo, una specie senza la quale non potrebbe esistere quella sua e di tutte le cose che hanno lo stesso sangue di veleno vagamente inebriante. Desiderava essere un personaggio di quella narrativa, nel buio del sonno e dell’incubatrice delle immagini mie, collegate attraverso certi tunnel alle incubatrici di tutto il mondo. Si direbbe una creatura tendente alla reclusione, amando i luoghi profondi e accomodandocisi così grassamente come ha fatto nel caso del mio petto, eppure per quanto riguarda i sogni ha un desiderio di apparirvi con un ruolo importante, e forse di prendere il controllo su di essi. Manovrare la scena. È un regista giunto dall’abisso quello mi riposa nella carne, si stravacca sulle costole, ci si fa gli artigli. Il giovane Dedalo, con gli abiti corvini sulle scogliere atlantiche, li chiamava agenbite dell’anima. Io li chiamo agenclaws. Segni della sua presa di territorio.


Bestia mammifera poligama dal pelo nero viscido come una notte che se ne va rifluente attraverso lunghe ore, disseminando i figli del buio nell’atmosfera prima di sparire. Mi ha già lasciato quattro (o cinque o sei, c’è sempre la questione del falso dito) marchi orizzontali e paralleli su una costola, e non sono passati nemmeno cifragenericadisecondi dalla sveglia. Assumerà un’altra forma, ma senza abbandonare la capacità di segnare così la sua presenza. Sarà una nuova cosa sempre dotata d’appendici taglienti.


Immagini residue dal sonno, emergono uno dopo l’altro spettri di stanze e cianfrusaglie, al loro interno fluttuano volti. Comparse, come anonimi di passaggio tra corridoi di scuole passate, o volti che mi hanno spaventato, o gente conosciuta in luoghi frequentati e abitati, o nemici immaginari. Scrutano gli angoli di una camera che conoscevo come cercassero me, che sono dall’altra parte dello schermo, spettatore in questo sogno. O forse non mi trovano perché non mi riconoscono più? Assomigliano all’istinto cacciatore di questa cosa assente che voleva aver parte nella scena… non c’è, ma la sua presenza riempie tutto, è la penombra della scena che sto ricordando fintantoché rimane vivida nella mia mente, pochi minuti da che si è dissolta nell’alba.


Perché vuoi ficcarti nel sogno? Ho un mostriciattolo che mi fa tana pericolosamente vicino al battito cardiaco, una macchia nera senza volto, ma ne vedo la sagoma temporanea, ha la lussuriosa pigrizia dei predatori capaci di scattare dal sonno all’uccisione in un lampo. Mi bussa (o graffia, appunto) dentro, ricordandomi ogni mattino che c’è ancora. In tutto questo, ovviamente, non mi sono mosso. Ho messo il cuscino nella stessa posizione in cui lo metto di solito, quando ho voglia di leggere a letto. Standoci contro per molte ore avverto un dolore alla schiena, lo stesso di sempre e delle mie posizioni sbagliatissime. Ma per fare questa cosa non c’è un modo migliore. Ora, non sto leggendo, non c’è ragione perché io mi sieda facendomi del male fisico, giusto? Ma così mi figuro il sole maledetto di là dai buchi della serranda, e al contempo rimango a letto. Godo di quell’oscurità moderata che annuvola la mia stanza, un tonico che ho creato per questi miei giorni dolenti. Fisicamente, sto bene, a parte la schiena, che ho cominciato a compromettere per non farmi mancare tutti i miei stessi dolori e comfort di adesso anche in futuro. Per il resto…


Mah, che importa. La cosa più importante che posso interpellare è proprio questa bestiola. Hey, tu lì dentro, mi hai sentito, non è vero? Sento che fai le fusa, o qualcosa del genere, e non hai idea dei brividi che questa tua azione sparge all’interno delle mie braccia, non hai idea di cosa faccia ai pensieri quando sale fino al cervello e li cattura in una morsa fredda. O forse ne hai un’idea perfetta. E per questo lo fai. Non dico che godi nel vedermi in difficoltà, ma probabilmente, in questa nostra simbiosi che ci ricongiunge ogni inverno, e in minor misura anche ogni mese dell’anno, tu sei come una creatura parassitaria che non può farci nulla se per il proprio sostentamento necessita di danneggiare me. È in realtà un rapporto di spostamento d’energie molto ben congegnato, un flusso che ha simmetria integra, molto più logico della maggior parte dei rapporti, questo va riconosciuto: mi sottrai, cedo, o viceversa, infinite combinazioni, sempre ben distribuite. Sei solo parzialmente parte di me, mezza immagine, mezza suggestione, mezza ansia del mondo esterno, mezza organo interno. Chimera del cazzo. Eppure funzioni meglio che se fossi stata interamente parte di me, che se fossi stata un organo in tutto e per tutto. Combaci meglio con questa macchina umana, ti ci rapporti splendidamente ed è solo un caso sfortunato, forse, se i prodotti di questa simbiosi appartengono tutti a quella categoria di cose che qualcuno ha chiamato “emozioni negative”. Volevi apparire nel sogno? Ecco, è su questa parte che devo questionarti. Tu sarai indubbiamente una creatura d’ombra, avvezza agli habitat delle altre tue simili, ma non sei mica così definita. In un certo momento palpiti e ricordi una sudorazione fredda per qualcosa di spiacevole che deve essere accaduto, come un timore improvviso di un male che colpisce qualcosa di caro, oppure soffi selvaggiamente e ti si sente da fuori, i sibili sfrigolano dai buchi del torace e ricordi in quei casi una paura primordiale, un’immediata angoscia per il proprio corpo fisico e per le cose immateriali di cui questo si sostenta -concetti, comfort, di nuovo. E in un certo altro momento rizzi il pelo irsuto, e lungo il dorso inarcuato la pelliccia sollevata come aculei sembra disegnare le facce degli altri. Deformi, perennemente ridenti. Teschi. Io vedo che sono teschi, che lo siamo tutti. E allora perché i teschi degli altri non mi appaiono come uguaglianza, somiglianza umana nella disperazione della fine insita nell’essere, ma invece come teschi che più di me meritano di esserci, non spaventati di essere ciò che sono? Teschi che ancora sanno ridere, e deridermi, e puntarmi le vuote cavità oculari a scavare ancora nella carne mia e nelle debolezze, come facevano quand’erano piene… oppure ancora, altre volte, la tua forma è quella di una caccia infernale, dislocata dalla glaciale oscurità nordica agli angoli bui tra gli organi interni e le ossa biancastre. E ancora… beh, non sto a elencare. Ti parlo giusto per farti capire che ho capito. E ti chiedo, perché vuoi apparire nel sogno? Come ti presenteresti, in questa circostanza, lo hai deciso?


La creatura soffia, e mi sembra che così facendo risponda affermativamente. È un fischio, un fischio raggelante. Il fischio, se fosse una forma fisica, sarebbe un cristallino solco perfetto, un’incrinatura drittissima sulla superficie poligonale d’uno specchio. Nella consistenza vitrea mi riflette, e così mi prende in giro.


Mi sta dicendo: bene, ti sei appena svegliato, e intuisci che il sole ostruito dalla serranda abbassata è una presenza ostile. Ti è ostile la rinascita che infonde, ti è ostile il calore inteso come principio naturale, nonostante tu lo vada continuamente a cercare per dimenticare il freddo che odi. E perché? Perché, uscito dal tuo sogno notturno, hai bisogno di convogliare da qualche parte la malizia che è dentro di te. Un bisogno di odiare qualcosa, di scaricare il malessere dato dalla mia presenza. Se fossi stata anch’io nel sogno, sarebbe stato diverso. Il mostro alla fine del tuo contortissimo labirinto, avresti potuto fare qualcosa, affrontarmi. Sempre venendo sconfitto, certo. Ma mi avresti reso parte di una storia: la tua, quella che nessun altro può vedere perché sta nell’accessibilità dei tuoi sogni dentro il tuo cranio. Lì non sarebbe necessario nascondermi.


Parla di un labirinto, ruba concetti -del resto, risuonano così bene. Deve essere perché questi passano per quei tunnel collettivi che vedo inarcarsi lontano dagli orizzonti dei sogni, le incubatrici di immagini proprie e di tutti, nostre, a cui pensavo prima. Parla di quello e del sogno di stanotte… toh, un labirinto. Da casa mia vecchia. È lì che era ambientato il sogno. Da dove ci si arriva? Dal garage? Probabilmente, sì, il box sempre aperto con gli attrezzi da idraulico accanto al nostro, buio dove si proiettava sempre luminosa la sagoma d’un pilota chino, un effetto ottico dato dalla forma dei tergicristalli. Il box dell’idraulico da cui era uscito un pipistrello, una volta. Il box dei vicini di casa: puzzle incorniciati appese alle pareti, una macchina che tiene in vita dei pulcini presi alla festa del patrono, vederne gli occhietti violacei chiudersi rugosi quando io bambino incombo su di loro per osservarli e ostruisco l’unica luce. Altri ricordi sparpagliati, un calzino caduto dai balconi sull’asfalto che costeggia questo sotterraneo, una cassa di giocattoli portata giù. Il box lasciato sempre aperto chiama dentro di sé, nelle complicate intersezioni di tubature ed effluvi di gasolio. Prosegui in quell’oscurità, tra gli occhi rossi dei ratti, i cunicoli, i nidi di polvere dove risiederà una regina, perché la polvere è un acuminato e fertile insetto eusociale. Proseguendo puoi uscire nel giardino del piano terra, quello lussureggiante con le palme, collegato internamente -come tutto in tutti i palazzi si collega internamente, intrico di tubature- anche a quel box. Scosta le foglie e le radici emergendo alla luce, a cui non sei più abituato. Il contatto con la vegetazione ti lascia cicatrici verdi sulla pelle, prudono come allergie di primavera. Cammina, cammina là fuori. Si estende certamente un labirinto anche da queste parti, speculare a quello sotterraneo.


Ma non trovi la bestia maledetta. E adesso che si fa? Leggi, consulti i libri, il loro riflettere il mondo della mente? Il giovane Dedalo, come si è rapportato al proteo, alla pantera che minacciava il sonno? Qualunque cosa faccia non esci dal labirinto che hai concepito.


Prosegui la tua giornata detestando il sole che infonde vita e un calore diverso da quello che richiedi tu, artificioso, un calore che esiste in un’assenza totale di freddo non è vero calore. Odia il tuo desiderare un privilegio, perché è giusto che tu odi qualcosa, come rimedio a questa impotenza. Non temere: parassiti come me hanno ridotto mammiferi ben più grandi di te a un nulla! Dice la creatura intrusa. Sono potente, io, dice. E tu?


E lei mi risponde, anzi risponde a se stessa, e nel farlo di nuovo muta, sta facendo una metamorfosi. Si squarcia un guscio di tenebra per partorire un corpo di tenebra identica, indistinguibile dalla consistenza precedente. Afferma se stessa, rispondendo, raccontando, acquisendo una voce molto più forte della mia. E al tempo stesso, affermandosi, quindi dicendo di avere una forma separata dal resto, non riesce comunque a non cambiare. Gode in spasmi incontrollabili nel vedermi perso nella contraddizione che rappresenta. Le cellule di materia oscura fibrillano e fanno un fracasso come di sonagli, mentre quasi ridendo si spoglia delle sue ultime pelli vecchie. Così sgusciando, sporgendo sagome ombrose di incalcolabili brulicanti zampe dalla vecchia carcassa pelosa già evaporata, risponde così.


-Tu sei un re di blatte.- (io sono un re di blatte.) -Le hai evocate tu, dici a te stesso. Quest’estate, tutte quelle blatte che non finivano mai, prima che fossero sterminate, erano volute dal tuo inconscio, le avevi chiamate te? Per mancanza del mostro nel sogno. Salite dai sotterranei dei palazzi, passati o presenti. E allora ecco: così sarei apparsa anch’io nel sogno di stanotte, sarei stata una creatura invertebrata, d’esoscheletro e zampe rosse, moltiplicantesi, brulicanti, di vita propria. Attendendoti nella cavità in fondo alla storia, senza volto avrei roteato le antenne e alitato una pestilenza di carne decomposta, fauci prive di zanne ma floride di batteri incrostati come appendici e sempre attivi, sempre vivi di tanfo. Le orecchie ti avrebbero martellato, vedendomi, come fanno quando sfiori le creature di cui hai soggezione. Ma non mi hai sognata! Né in questa forma, né in altre. La tua impotenza di quei giorni trovò una spiegazione agli eventi: le blatte erano i non privilegiati, le gambe rosse e infinitamente fertili giunte a prendersi il nutrimento tuo, principesco individuo d’ingiusta esistenza, ammorbidita dal calore… sì, dovevano essere sudditi violenti di un re suicida, obbedienti al suo proclama di annientarlo, annientargli il piccolo mondo delle sue convinzioni nonviolente e inerziali, per farlo rinascere dal suo stesso cadavere o in alternativa decomporre per sempre. Ti sei consegnato alle armate rosse. Poi però, complice con gli altri abitanti della casa, le hai fatte sterminare. Non ti senti in colpa, “era una situazione ingestibile”. Ma allora vuoi o non vuoi che qualcuno o qualcosa venga a punirti? Sei tu che devi deciderti, non io, la stessa cosa che accusi di incorporeità, flessibilità gassosa ostile a voi forme umanoidi.


(punirmi, era questo che volevo? E per questo la lascio entrare, e risiedere dentro di me? Credo che a questa cosa, pur standomi dentro, sfugga qualche aspetto importante. La verità non è solo quello che dice lei. È solo perché lo so che forse di tanto in tanto se ne va e sparisce. Non prima che finisca l’inverno. È ancora con me, bestia mammifera trasformata in insetto. Tento di risponderle.)


Entra soffuso dalla finestra lo sfrecciare di movimenti mattinieri, canzoni festive al semaforo. Una slitta, chissà. Lo stregone saggio con i baffi bianchi teutonici, Sinterklaas o Jung, disse che nel sogno si nasconde l’Ombra, ma tu non comparisti. O forse sì? Io dico che sei comparsa, Ombra, perché sei anche le cose e le persone con cui non ho più rapporti, sei i volti, le voci. Sei la mia incapacità, il fatto stesso che li riproietti e che detesti questa cosa. Chiamo in sogno delle forme assenti, legate al conflitto, o all’irreversibilità dei secondi, o al mio averle allontanate, le faccio rivivere ma se fossero presenti in carne e ossa fuggirei velocissimo. Tornano i ricordi di un tempo diverso, in cui tu già c’eri, nel mio petto, e ti vivevo diversamente; eppure, se domani mi svegliassi e dopo il sole putrefatto vedessi che quei giorni tornano davvero, non ne sarei felice, la nostalgia diventa un inganno paralizzante come ormai tutto ciò che ci appartiene. Ombra, sei il mio soppresso richiamo d’aiuto rivolto a forme umane altrui, e il mio non saperle sopportare e non saper sopportare che le richiamo, sei il mio odio per tutti i corpi e per le volontà altrui, sei tutto quello che ho detto prima… ma soprattutto, da quest’estate, sei una blatta. E insieme sei bestia mammifera, stirpe da cui prendi il peggio, ma rimani una blatta centopiedi regina di polvere, accumulata nel buio d’un garage sotto di me, sotto i giorni della mia vita passata, sotto i luoghi che ho abbandonato. Collegata al labirinto e anche al giardino, del mondo esterno che fa la fotosintesi. Forse predi i pulcini dell’incubatrice, e le ovoteche tue le spargi come baccelli nelle viscere dei tubi abbandonati, e al tuo passaggio, felina o insettoide, puoi sempre lasciare lacerazioni, agenclaws che segnano il tuo territorio. Sei una chimera enorme vettrice di malattie, adattabilissima a questa vita d’appartamento e di angoli nascosti, di tubature calde e umide che ti hanno fatto sopravvivere il freddo. Il palazzo intero sembra avere la febbre. Sei una blatta e deponi le uova da cui si schiuderà la progenie che ribalterebbe la situazione, se glielo concedessi, se cedessi il mio trono. Sono un re di blatte che ha cancellato il suo popolo, e per tutto il giorno non faccio altro che contemplare un punto imprecisato nel vuoto della stanza, nel vuoto dentro. Fuori fa certamente un freddo che non voglio nemmeno immaginare, causa allucinazioni in chi ne soffre, visioni artiche di caccia morta sanguinaria. Tiro su la coperta per accaldarmi fino alla nausea. Per stare seduto a letto tengo su il cuscino che mi fa male alla schiena e chiudo per sempre le serrande sul sole del mese della mia nascita.

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