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racconti delle cinque dita- "nessuno sapeva dove facessero i nidi" (pt.1)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 14 apr 2020
  • Tempo di lettura: 15 min

NESSUNO SAPEVA DOVE FACESSERO I NIDI

Sarebbe sbagliato affermare, dal punto di vista di un osservatore “umano”, che in quel posto vivessero soltanto creature dell’altro mondo.

-ma quale altro mondo, noi qui si lavora!-, voci dal pubblico.

In fin dei conti non sembra esistere un paradiso, per quanto lo si cerchi. E se esistesse lassù tra le stelle lontane, nei meandri più antichi dell’universo che a noi appaiono non diversi da qualsiasi altro spicchio nero di cielo (anche quelli più vicini in cui i satelliti delle televisioni si lasciano trasportare alla deriva, indolenti come meduse metalliche), comunque significherebbe che per “noi” non c’è alcuna possibilità di cercarlo. Perché “cercare” è un’azione che fanno solo gli esseri che sono costretti a poggiare sulla terra. Qualcuno, nascosto nella foschia, chiede se i pesci rientrano in questo insieme. La risposta è: non lo sappiamo, ma ci stiamo lavorando; diciamo che per come siamo fatti, con queste gambe e queste braccia, siamo più portati a credere che siano esclusi. Non importa se ci sbagliamo. Anche se venisse fuori che avevamo torto, continueremmo come prima. Forse è perché pensiamo questo dei pesci che li trattiamo così male? Così le rivalità che scuotono il mondo si riducono a un banale problema di invidia. Ecco perché il paradiso non può stare sulla terra. finché ci saranno anche un solo “umano” e un solo “pesce” non ci potrà essere l’equilibrio. Tutto questo va detto, in modo da mettere le mani avanti: il posto di cui si parla non è lo scenario di una favola; non è la Terra Pura; non è un territorio dove prendono vita le forme dei sogni (o meglio, lo è proprio come tutti gli altri). Perché se ne deve parlare? Beh, perché è sempre bello parlare di una storia in cui sono presenti dei mostri strani. Ai “bambini” i mostri piacciono tanto. E agli “adulti” piacciono le storie ben costruite. Quelle in cui ci sono un pescatore e un pesce. Tutto in regola allora, perché chi ha parlato prima era proprio un pescatore. “Noi qui si lavora”… per forza, ogni secondo che passa c’è da qualche parte un pescatore che pesca senza sosta. Lui stava sfilacciando le reti, tutte impigliate in un groviglio di alghe sudicie e gusci vuoti di molluschi, quando dall’altro lato del promontorio scosceso, decine di metri al di sotto della sua sommità, ha ascoltato la conversazione di quelle bestie alate senza nome. Stava riparato, mezzo nascosto, mentre consumava il privilegio di prestar orecchio per primo tra tutti alle opinioni provenienti da forme tanto estranee. Ci chiediamo cosa abbia da dire a proposito di ciò che ha sentito.

-e che devo dire, quelli là sparano un sacco di cazzate altroché. Figlio mio, se te lo dice un pescatore puoi pure starne certo. Tant’è che ci sta un amico mio no, che dice che ha acchiappato un pesce persico grosso trenta metri. Quello manco s’alza bene la mattina, e vuoi pure che t’ha preso un pesce così grosso! Ma perché, quell’altro? Quello che dice che ha preso un luccio che sputa fuoco, pure sott’acqua. E quello del pesce gatto addormentato tutto d’oro, e delle trote con le macchie a forma di stella a sei punte, e l’anguilla che fa la casa nella foresta, e così via… i pescatori ne raccontano di storie, io no però, e se gli altri ti dicono che la mia Carpa Intelligente non esiste non devi credergli, che l’ho presa con queste mie mani…

A questo punto gli si potrebbe ricordare, gentilmente, che non gli era stato chiesto di riferire le storie dei pescatori. “Vogliamo saperne di più sulle creature alate”, reclama il pubblico invisibile (sono anche loro creature costrette a toccare la terra e a “cercare”, non è così? Sia le creature che il pubblico, si intende). Così da non sbagliare nel farsi un’idea di quel posto, che non ha niente di metafisico (non in più di tutto il resto)…

-e che devo dire,- ripete, -quelli so strani forte. Ma sapessi quante ne hanno dette! E ci stanno quelli al paese, quando vai a vendere il pesce al mercato, che chiedono “ma quest’anno li avete visti gli angeli del lago?”, gli angeli li chiamano capito? Figlio mio, se quelli so gli angeli noi altri quaggiù siamo rovinati, te lo dico io. Ma poi l’hai visto quanto so brutti? Tutti scuri, neri, co ‘sti artigli, ‘sti occhi a palla, mamma mia…

Direi che è abbastanza. Questa è una storiella per niente seria che tratta di un lago. Un lago normalissimo che si può raggiungere con un fuoristrada o in una scarpinata bella lunga dopo aver preso i mezzi. Sta un po’ infrattato, per carità, e non è proprio un posto per turisti alla fine. Però, sul serio, fosse stato il paradiso o qualcosa del genere, non ci si sarebbe potuti arrivare con la Jeep.

...

Nessuno sapeva dove facessero il nido. Li si vedeva sempre in cielo: volteggiavano, in cerchi ampissimi a centinaia di metri dalla superficie dell’acqua. L’esile corpo nero, di contorni in perenne movimento, pareva traballare per effetto di un sole che si stagliava sopra di loro come a voler inglobare ciò che stavano a rappresentare, che significavano all’interno del mondo toccato dal cerchio radioso della sua figura. Un cerchio, in effetti, per i terrestri, un’effige semplificata e incastonata nel cielo, per effetto dell’atmosfera terrestre, la quale priva le cose del cosmo della loro essenza cosmica. Ne cambia il contesto, le rende imprigionabili nella carta e nella pellicola della storia del pianeta, una storia dai limiti molto rigidi. Enorme e bianco, accecante… il sole era un lampo non nettamente distinto dal pallore della volta celeste, in cui queste piccole macchie alate sembravano allargarsi e restringersi, allargarsi e restringersi nei suoi dintorni come sue proiezioni e prole. Nei loro cerchi si mantenevano a distanza l’una dall’altra, poi eseguivano piroette, si incrociavano nei propri percorsi, dandosi colpi violenti che erano come dei saluti, lanciavano strida assordanti che fortunatamente non giungevano mai al suolo in tutta la loro potenza. Per qualche ragione invece, non emettevano mai i loro richiami quando volavano più vicini al suolo, se non in rarissime occasioni. Era il marchio distintivo del loro volo ad alta quota, non meno importante delle geometrie di ali e ombre che componevano mescolandosi ai raggi solari, e tutti quanti gli erano grati per questa loro discrezione: non solo quelle volte in cui gridavano vicino agli altri esseri questi si ammalavano, ma anche smettere di sentire le loro strida fastidiose confinate e depotenziate nell’alto dei cieli avrebbe avuto delle conseguenze, simili a quelle portate dalla comparsa improvvisa di un relitto pirata nel pieno centro di una metropoli, dove la sua carcassa di legno fradicio assorbe clacson e grattacieli invece che gabbiani e palme. Ogni mattina erano là, e poi si gettavano in picchiata, sfiorando il pelo dell’acqua. Il sangue colava dalle ferite fresche che si lasciavano l’un l’altro coi loro saluti taglienti, entrando così a far parte della vita del lago. Il rosso denso sfumava sotto il velo salmastro e patinoso, scomparendo lento come vapore nell’acqua dolce che assorbiva ogni cosa, mandando cavernosi gorgoglii nelle imperscrutabili profondità del sottosuolo carsico, in quella voragine umida scavata nella terra, da cui le lacrimose molecole dello specchio d’acqua continuavano a sgorgare sin dai giorni dei meteoriti. Nuovo sangue poi riaffiorava, quello dei pesci che venivano afferrati dagli artigli delle bestie alate. A causa di quelle picchiate violentissime, ogni volta il corpo dei pesci veniva quasi disintegrato all’impatto, lasciando ben poco da mangiare. Non sentivano niente, non facevano in tempo ad accorgersi dello strappo che andava propagandosi dalla punta della testa fino a quella della coda, lacerando indiscriminatamente lische, pelle e muscoli nel suo delinearsi. Erano però condannati a veder morire i loro simili di una morte così brutale e insensata, che scagliava come in una propulsione operata dal caos gli organi interni al di fuori dell’acqua, facendoli ricadere a grande distanza con tonfi sgradevoli, incombenti come voci oltretombali. Forse per questa ragione i pescatori che di tanto in tanto si recavano al lago non nutrivano grossa simpatia per quelle creature volanti: ai loro occhi quello non era altro che uno spreco di ottimo pesce. Ignoravano in realtà che le creature conoscevano anche altre tecniche di caccia molto più efficaci, forse meno plateali e per questo non immediatamente riconducibili a loro tanto quanto questa famigerata pratica, la quale in realtà più che una vera e propria strategia per procacciarsi il cibo costituiva una forma di comunicazione. Ma in fin dei conti i pescatori non avrebbero comunque cambiato idea venendo a sapere questo. Loro credono e sperano di far parte di una categoria che non si lascia andare in chiacchiere inutili, non come quegli uccellacci che invece conoscevano così tanti modi diversi di comunicare. La capacità di comunicare mediante codici snatura un essere, allontanandolo progressivamente dalla forma genuina, designata all’origine per stare nell’eden, così da avviarlo invece verso una disfunzionale metamorfosi in qualcosa di simile a un sarcofago riempito di spiriti maledetti in perenne sgretolamento, tentacoli nascosti che brulicano di astrazioni e congetture senza mai cessare di contorcersi e sibilare. Se era questa la natura di quelle bestie del cielo, non c’era da stupirsi che il loro aspetto fosse tanto peculiare, tanto ripugnante a dire il vero. Bipedi, di forma antropoide, ma ben più alti dei pescatori, oscillando tra i due e i tre metri di altezza. Gli arti erano più lunghi delle restanti parti del corpo. Le “braccia” erano piuttosto ali affusolate che non potevano piegarsi, lasciate a penzolare come nel cadavere di un orango, e da cui spuntavano con fare di pungiglioni le piume più grosse; le gambe, allo stesso tempo sottili e muscolose, si biforcavano in maniera precisissima, quasi fossero state intagliate con il laser all’interno del torso, tozzo ed esile, con le costole ben visibili da sotto la pelle nuda. E oltre a questo petto ossuto, quei seni lacerati e quell’addome eroso dalle intemperie, soltanto il volto rimaneva scoperto dal rivestimento di un manto scuro. Gli arti, la schiena, le spalle, la testa, erano tutti infilati, come in una calzamaglia fatta aderire alla pelle in modo irreversibile, in una impenetrabile coltre di orrende piume nere, che parevano composte di un fluido vischioso messo a indurire, come se inzuppate in petrolio appiccicoso. A volte da queste si staccavano, colando come da colla calda, delle gocce di inchiostro scurissimo, e quando la temperatura si alzava il manto si ricopriva di bolle che affiorando tra una piuma e l’altra scoppiavano fischiando come la pece incandescente. Quando cadevano a terra, queste piume si scomponevano come a confermare di non possedere una consistenza solida, lasciando nient’altro che una macchia sporca che sarebbe scomparsa col tempo, come un nevischio corrotto che non attecchisce. Nel volto si spalancavano gli enormi occhi semisferici privi di palpebra, due opali di uno sporco giallastro che si espandevano dalla fronte fino alla parte inferiore della zona mediana del volto, grandi come palloncini. Il bulbo era attraversato da sottilissimi cerchi concentrici, appena visibili, come quelli che si vedono nei tronchi tagliati, e pareva privo di pupilla. A guardare bene, però, il più piccolo di questi cerchi restringentisi poteva assomigliare a una pupilla minuscola, posta al centro esatto della palla. Si diceva che sotto gli occhi ci fosse anche un piccolo naso, ma non si vedeva. Alcuni arrivavano a sostenere che fosse estremamente acuminato, e che lo usassero come prodigiosa arma di difesa quando capitavano dei rari scontri a mezz’aria. Sta di fatto che pareva non esserci (dopotutto, era noto che non si servissero molto dell’olfatto), e sotto gli occhi rimaneva soltanto una bocca molle e flessibilissima, in grado di aprirsi in orizzontale come in verticale, di distendersi e rimpicciolirsi, facendosi delle dimensioni di un buco risucchiato verso l’interno come la ventosa di una lampreda, o dilungandosi come una ferita aperta da uno zigomo all’altro, ma pur sempre nella stessa tremenda cerniera piena degli stessi piccoli denti scuri e appuntiti, disposti in file strettissime. Tutti questi elementi sommati componevano gli “angeli del lago”, che gli osservatori esterni alla vita del posto avrebbero definito gli animali più interessanti da trovarsi nei paraggi, con lo stesso atteggiamento di una guida turistica che focalizzi l’attenzione degli escursionisti su una particolare fauna resa pregiata da una fama dalle implicazioni commerciali. Non sarebbe però stato possibile fare del merchandising ispirato a queste creature, se non negli ambiti ristretti del grottesco e del “creepy”. Nessuno voleva stendersi su di un telo da mare con le ali nere e gli occhi giganti, nessuno voleva veder penzolare quei mostri insieme alle chiavi della macchina, e certamente nessuno avrebbe mai voluto comprare un lampioncino che riproponesse le sembianze di quei corpi spaventosi nel fusto sorreggente la lampadina: non sembravano affatto dei portatori di luce. Eppure, per la delusione di poeti attratti da lugubri piaceri, non erano uccelli notturni. Anzi, col calare delle tenebre nessuno sapeva dove sparissero. Chi aveva già aperto gli occhi alle prime luci dell’alba, e levato il capo verso le evanescenti nuvole scarlatte che si scomponevano sopra il canyon riempito dei riflessi sanguigni del nuovo sole, vedeva gli stormi sopraggiungere dal nulla, da un punto del cielo nascosto dalle sommità sull’orizzonte. Circolavano, si gettavano in picchiata, facevano i loro strani rituali, poi più tardi risalivano e da lì lanciavano i loro schiamazzi caratteristici, e di nuovo scendevano… così a ripetizione fino al tramonto, quando scomparivano dietro i massicci rocciosi che rinchiudevano la conca così come erano apparsi. Avevano i nidi su scogliere lontane, o magari nelle insenature irraggiungibili che perforavano la roccia ospitante l’acqua fresca di cascate? Non lo sapeva nessuno. I territori oltre la conca erano ancora troppo impervi, troppo selvaggi, e nessuno mai si azzardava a esplorarli. “La vita è tanto spesso troppo pericolosa così com’è”, dicevano i pescatori nei villaggi più vicini, che per questo motivo credevano di poter dire che dietro le vette lontane potesse esserci il paradiso. Non tutti, ovviamente. Un pescatore in particolare era convinto di avere la ragione dalla sua parte, a differenza di tutti gli altri. Si sentiva legato alla comunità, questo è certo, ma era convinto di avere qualcosa in più. Dopotutto, doveva esserci un motivo se in mezzo a tutti gli altri che dicevano di aver preso pesci dotati delle caratteristiche più stravaganti e barocche, lustri sfarzosi e ingombranti che non portavano a nulla di rilevante, proprio lui aveva messo le mani sulla Carpa Intelligente. Quel giorno il lago gli aveva sorriso, dicendogli : “ecco, prendi. Questo è il mio frutto più bello e importante. Il migliore. È tuo..”, e ovviamente qualcosa cambiò in lui. Non divenne arrogante: non faceva sfoggio dell’intelletto che era convinto di aver raggiunto, non esibiva la sua conquista (non con la stessa frequenza degli altri), e continuava nei suoi doveri di membro della comunità; alle riunioni del capovillaggio partecipava sempre, ascoltandolo in religioso silenzio, durante i periodi di carestia aiutava sempre con parte delle sue scorte le famiglie più deboli, insegnava ai bambini come intrecciare i nodi per le barche e le trame delle ceste per raccogliere il pesce, salutava quieto e sornione i suoi compatrioti. Rispettava i giorni di festa e le parole dei saggi. Ma non sempre nell’animo ospitava una vera comprensione nei confronti delle stesse, avendo imbarcato dubbi per mezzo della sua maggiore cattura: la notte era come un luogo giusto per ospitarli, farli moltiplicare come spore criofile; si metteva sulla barchetta da solo, davanti a tenebre e quiete che avvolgevano tutto. L’acqua si riempiva del nero vuoto del cosmo, come risucchiandolo dall’aria soprastante, facendosi così più limpida che mai, i suoi schiocchi più pieni d’eco che durante il giorno: lo spazio era svuotato dal caos dei viventi. Poche creature discrete e piccole si davano da fare sotto le numerosissime costellazioni cantate già dai primi abitanti, sporadicamente pochi respiri di dormienti e fantasmini di palude parevano far capolino dalle case lontane come sobrie nuvolette di vapore, soltanto di passaggio. I suoi gesti si propagavano sullo specchio d’acqua avvolto nella calma ed egli credeva forse, ovviamente nei suoi termini poco sofisticati, di aver compiuto quello che poteva essere un passo in avanti nel processo dell’evoluzione. A quel punto sarebbe anche potuto morire assieme a tutti gli altri pescatori vecchietti, senza sfuggire alla decadenza che mai cessava di tallonare tutti quanti. Però, chissà, la sua particolarissima condizione, il rapporto più speciale con un pesce unico nel suo genere, avrebbe potuto aprirgli una nuova porta anche sul letto di morte. Chi poteva dire quali cose comportava un simile fatto? Forse anche la capacità di camminare, di passeggiare tranquillo e indisturbato come tra i costoni circondanti il lago, sullo stretto nodo nebuloso che separava il mondo dei vivi da quello dei morti, in quell’assenza di spazio in cui si poteva entrare soltanto una volta valicata la soglia che si apriva oltre le palpebre chiuse… tanto, la Carpa Intelligente sarebbe rimasta al sicuro nella capanna, in una cassa riempita d’acqua. Entrambi gironzolavano di qua e di là, chi al chiuso nell’acqua e chi all’aperto intorno alla costa, entrambi a formulare pensieri unici. Da quando l’aveva pescata, infatti, il pescatore era diventato più meditabondo. Come tutti gli abitanti della conca, era sempre stato di un silenzio diverso da quello dei pensatori, poco protratto in riflessioni d’eccessivo trasporto: è invece un filamento del silenzio ostinato che mandano gli oggetti. L’uomo setacciava nel sacchetto delle esche, ne prendeva una, la attaccava all’amo, e così via senza intoppi. Ma c’era stato un cambiamento poiché, pur continuando indisturbato nelle sue azioni, queste avevano iniziato a veder concentrarsi tutta una serie di problematiche attorno alla sfera del loro svolgersi, così che un vermetto spostato da una sacca all’amo diventava una questione la cui importanza, per quanto marginale, non andava dimenticata, un ingranaggio da inserire in un più ampio ordigno costantemente in via di costruzione. Era convinto del legame tra questa sua nuova disposizione e il ritrovamento della Carpa. Bastava che ricordasse che lei era lì, come un talismano custodito in un santuario segreto che esisteva per proteggere e allo stesso tempo far funzionare a distanza la sua forza mentale. Accoglieva con una rinnovata curiosità le cose insolite che gli si presentavano molto sporadicamente nella sua pacifica vita, avido com’era di rielaborarle in modo tale da riaffermare ogni volta con maggiore convinzione la prospettiva che si era fatto del suo nuovo “ruolo”(se di ruolo si poteva parlare, stando l’apparenza rimasta immutata delle mansioni che svolgeva, e si sa che sono proprio i gesti a definire un ruolo. Un normalissimo pescatore, dunque). I suoi baffi fremevano, proprio come quelli della Carpa, quando si vedeva la neve in estate, oppure quando spuntava dal lago un pesce particolare. Il vecchio però non sembrava mai particolarmente interessato agli strani angeli. In fin dei conti questi, malgrado le leggende circolanti sul loro conto, non erano oggetto di venerazione neanche presso gli altri abitanti del villaggio. Nel corso del tempo avevano inevitabilmente catturato la loro attenzione, questo è indubbio, ma neanche erano stati eletti animali rappresentativi della cultura locale. Erano diventati ai loro occhi un simbolo vivente di vita propria, senza la capacità di insegnar loro a proposito degli antenati, della storia, del futuro, dell’amore, della nascita o della morte. Non c’erano statuette o idoli, e non c’erano totem di legno che spiegassero le stesse ali degenerate. Piccoli manufatti di legno sostavano in qualche abitazione, ma la loro era la forma di creaturine mansuete, come le folaghe e i salmoni. Ma anche in questo, pareva esserci stato un cambiamento. La Carpa in casa aveva sbadigliato, e il pescatore galleggiante sul riflesso della luna si ricordò all’improvviso di quel tale. Era arrivato con delle cose nuove, “informazioni” mai sentite, che dicevano cose diverse da ciò che si era sempre saputo. Che se le ritrovasse anche lui tutte d’un tratto a spuntare nel bel mezzo dei suoi pensieri consueti, anche lui padrone di un pesce magico che gli infiltrava eccentricità mescolate al quotidiano? Era uno studioso, in visita al villaggio come provenisse da una stella lontana, “ricercatore”, si diceva, uno giunto fin dalle lontane città per far domande a gente umile. Sosteneva di aver trovato in una grotta sotterranea tra le depressioni del canyon delle pitture che ritraevano proprio quegli animali, i cosiddetti “angeli”. Pensando che gli abitanti di oggi avessero qualche legame con quelle dimenticate tribù che avevano abitato le caverne, chiese loro (soprattutto agli anziani) se per caso non ricordassero qualche vecchia canzone, di quelle tramandate da generazioni senza subire modifiche, che facesse menzione di certi perduti rituali di notti intorno al falò, in cui magari si adoperavano le piume gelatinose dei mostruosi pennuti o ci si dipingeva il corpo in modo da assomigliare a loro. Nessuno però ricordava niente di tutto questo. Alcuni avevano riportato una filastrocca in cui si parlava degli angeli, riferita in maniera ogni volta un po’ diversa, per quanto simile nel contenuto, a seconda delle persone che l’avevano recitata (molti vecchi a cui si illuminava il volto canticchiandola, pochi bambini, pochissimi adulti che la recitavano senza intonazione come a leggere un proclama, una donna solitaria dal volto coperto). Grossomodo, faceva così:

Prega per chi riposa nel fango, così (e mimavano il gesto della preghiera)

Ricorda di farlo ogni lunedì

Che se il pescato non porti alla tomba

Scompari nel cielo come il tuono che romba.

Rispetta il villaggio e la sua pietra, così (accarezzavano l’aria, come strofinandola)

Accarezza la pietra nel Gran Venerdì

Che se non ami casa tua e la sua storia passata

Dal cielo cadrai, uccellaccio in picchiata. (questo verso si riferiva a loro, come poi ebbe modo di confermare ascoltando un’altra versione che usava il termine “arpia” al posto di uccellaccio, e come del resto confermava il penultimo verso del piccolo componimento)

Canta nel Giorno della Danza, così (agitavano le braccia al cielo, tenendo i palmi delle mani aperti)

Ricordati che cade in un mercoledì;

Chi non canta e non balla bestemmia e si sbaglia,

E come la frana dal cielo, tutto sbaraglia.

Tuono, angelo e frana sono così:

Fai il bravo e fuggi da lor tutto il dì.

Lo studioso però aveva reputato la filastrocca di poco conto. Pareva deluso dal fatto che l’unica testimonianza orale relativa agli “angeli del lago” da parte delle persone che gli abitavano più vicino di chiunque altro fosse una semplice filastrocca per far ricordare alcune festività ai bambini. In verità, esistevano anche altre canzoni, ma gli abitanti del villaggio ritenevano che lo studioso non avesse fatto loro le domande giuste, perciò si erano sentiti in diritto di non parlargliene. Poi quello non si era fatto più vedere, forse si era perso tra le caverne, nel canyon, o nella foresta un po’ più lontana. Non aveva fatto più ritorno, colui che aveva introdotto quelle strane questioni… comunque anche allora il vecchio pescatore, prima di trovare il suo gioiello, aveva pensato che se l’avesse chiesto a lui non avrebbe avuto problemi a recitargli i versi di quelle canzoni, poiché le teneva in così poco conto da credere che non ci fosse motivo tanto di ignorarle quanto di volerle approfondire. Non meritavano attenzione, si poteva star sicuri di questo. D’altre parte, si trattava soltanto di vecchie canzoni. E quegli angeli ancora non suscitavano la sua curiosità risvegliata, andava dicendosi; se l’era detto allora e se lo ripeteva nel presente in cui mesceva tra i ricordi, e intanto traeva la lenza dall’acqua annerita di notte. Quando si era presentato sulla via terrosa quel bizzarro forestiero, vestito strano, il pescatore aveva gettato l’amo senza remore, convincendosi che quell’individuo dalla vocetta ansiosa avrebbe fatto bene a smetterla di indagare simili sciocchezze. Stranamente però il vecchio, quel giorno in cui vide due angeli più da vicino di quanto avesse mai fatto, o di quanto con molta probabilità potesse dire di aver fatto la maggior parte degli abitanti del villaggio, non poté fare a meno di ripensare a quel giovane ricercatore. “toh”, -aveva pensato- “questo sì che sarebbe piaciuto a quello là. Bah, non capisco proprio. Certo che sono brutti quei cosi. Grossi come sono, con queste ali-braccia così lunghe, quando camminano a terra sono goffissimi. Stanno ingombrati come gli avvoltoi. Non sono fatti per stare qua. Bah, pazienza. Hey, certo che questa rete non ne vuol proprio sapere di districarsi!”

Ma la rete si districava facilmente. Un bluff raccontato da un pescatore per se stesso.

...

(fine prima parte)


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