racconti delle cinque dita- "l'esodo degli gnomi" (pt.2)
- Milky
- 14 apr 2020
- Tempo di lettura: 13 min
Aggiornamento: 18 apr 2020
Fortunatamente qualcosa aveva incanalato altrove l’attenzione di una discreta fetta di folla, e attirava sempre più curiosi che a turno si accalcavano intorno a sbirciare. Al centro del gruppetto degli esperti di tecnica, si era riuscito a far spuntar fuori un pezzo di locomotiva. Adiacentemente alla calca avevano costituito un piccolo nucleo lontano dall’animosità generale, concentrati com’erano da quando gli era stato detto che c’era bisogno di quelle competenze. Avevano l’aria di un professionale comitato di supervisione dei macchinari, la cui massima priorità era quella appunto di verificare funzionamenti e meccanismi. Il panico non li aveva ancora raggiunti e avrebbe potuto farlo solo a lavoro concluso, verificato secondo tutte le prove e controprove che quanto si chiedeva fosse in effetti fattibile. Anche quando un eccitato “oooooohhh” si levò dalla prima massa che aveva notato la comparsa di quel modello tentativo di locomotiva, ancora tagliato metà e privo di molti dettagli, loro avevano semplicemente continuato ad annuire e fare annotazioni, le mani ad accarezzarsi i menti. Certo quell’oggetto nostalgico aveva fatto passare momentaneamente in secondo piano il motivo funesto per il quale s’era reso necessario, e una certa eccitazione si era diffusa tra gli osservatori che già fantasticavano di provarne l’ebbrezza dopo tanti anni. Monica e il Bonella ne approfittarono per rimettersi un po’ a posto come auspicavano, stabilire l’assetto dei prossimi passaggi.
-è la fine del mondo, non è vero?
-non c’è nessuna fine del mondo. Nulla sta finendo.-, rassicurava Monica con tono fermo, da esercitazione antincendio –dobbiamo solo star certi che, mantenendo l’ordine e la calma, riusciremo a superare tutto. Siete tutti spaventati, ma sono sicura che non sarà difficile.
-oh, Monica, benedetta ragazza!
“già, meno male che ci sei tu, ora mi tocca il lavoro sporco...”
Il Bonella si avviava a spiegare senza spiegare.
-gente! Descrivervi cosa sta succedendo, ahimè, non è possibile. Si tratta di qualcosa di cui solo in pochi, e sfortunati aggiungo, abbiamo avuto modo di accorgerci. Quello che chiediamo è massima fiducia nella gravità del problema!
-e certo, vero?! Che vi costa dirci cos’è?-, protestavano.
-saperlo non vi aiuterebbe, e non agevolerebbe in nessun modo le operazioni.-, disse Monica, quelli facevano “mmmhhh…” come a significare che se gliela si metteva a quel modo potevano anche cominciare a valutare la cosa.
-vi possiamo dire poco-, continuava il Bonella senza guardare nessuno, preso dal suo deambulare e dalle curve dei suoi baffi –ma sappiate che, beh.. alcuni, diciamo, tra i vostri stimati concittadini, e non mi riferisco solo alla mia stirpe degli gnomi ma anche ad altri tra i popoli qui presenti, insomma abbiamo dei modi per assicurarci che vada tutto bene, monitorare insomma, e...
C’era forse un lieve imbarazzo nell’esposizione solitamente impeccabile del Bonella? Chi ascoltava si sentiva confuso, sospettoso come non mai. C’era chi si infilava di fretta come un ladro in fuga per un boulevard affollato tra i fianchi delle persone ferme in piedi, mormorando “permesso, scusate, mi sento poco bene...”, anche quella gnoma spiritata e gobbuta della Penelope Sarti, timorosa che quello scemo del Bonella stesse per vuotare tutto il sacco. Tanto era sempre lei a beccarsi i sospetti quando succedeva qualcosa, e tutto perché a nessuno piaceva il colorito verdognolo delle sue occhiaie. Non ci avrebbero messo niente a capire che lei aveva grossa parte nella preparazione degli intrugli consumati nel corso degli incontri notturni, e anzi già andandosene si era sentita con chiara pesantezza sulla nuca qualche occhiataccia rivolta ai suoi sporadici capelli bianchi, costanti oggetto di altrui disprezzo per esser spuntati troppo presto in rapporto all’età ancora giovane. Forse quella degli gnomi non era una comunità con piena coscienza di essere tale al di fuori delle poche assemblee; eppure in qualche modo questo non doveva pregiudicarne le funzioni poiché a velocità notevole si diffondevano i pregiudizi, con solidità si formavano le opinioni su quanto fosse da considerarsi morale o al contrario immorale.
-ora non statevi a chiedere come facciamo noi a esser certi di come vanno le cose, insomma, non è così importante e in più vi assicuro che è un discorso noioso, dobbiamo andare al dunque...- il Bonella agitava orizzontalmente i palmi aperti (il rapace sembrava ora vagamente spennato, perdeva un po’ di quota…), con Monica accanto che tentava di rabbonire i questionanti con continui sorrisi, stavolta addirittura a denti scoperti, e altri cenni d’assenso. Penelope Sarti lo malediceva tra sé, ormai rincantucciata lontana dalla sala, in un corridoio senza finestre, coi suoi sortilegi incitava funghi e muffe delle pareti umide a mandargli contro qualche spora dispettosa. Ce n’era là, di gente che non sarebbe stata per niente contenta di sapere che c’era una certa “élite” di gnomi (e non solo) che si divertiva a fare come gli antenati dei boschi, quelli che nella notte antica si incontravano per danzare sotto i cappelli di ammanite bioluminescenti, a godere le meraviglie di strani pollini e linfe prodotti dalle piante più segrete delle foreste. Nelle case degli esseri umani c’era chi non aveva dimenticato queste usanze lontane dalla civiltà, ed erano gli unici in grado di comprendere che per mantenere la stessa era necessario che col favore del buio qualcuno le trasponesse nella modernità, mantenendole vive e costantemente aggiornate mentre tutti gli altri vivevano ignari la propria vita. Un bel macello aveva fatto il Bonella anche solo ad accennarvi, nel cercare di spiegare che proprio non poteva dirgli cosa avevano visto.
Penelope ebbe un brivido che le fece tremare tutto il vestito di foglia di larice, seduta là da sola contro lo stipite di una camera da letto. Non avrebbe più dimenticato quella notte. Si udiva da fuori qualche grillo in anticipo sulla stagione, cani da cortili vicini ululavano e tossivano, e dentro la casa chi era intento all’appuntamento, come sempre, si orientava per gli anfratti bui grazie alle numerose luci fatate e variopinte di prolunghe attaccate alla corrente, ripetitori di Wi-Fi, l’allarme che non suonava mai, decoder e console in fase rem che mandavano un ronzio costante come corpulenti mostri brontoloni, raggomitolati con un solo occhio rosso rimasto mezzo aperto a scoraggiare gli scocciatori. Lei portava in una sacchetta la miglior merce della settimana, raccolta di soppiatto alla luce del giorno. Non vivendo nel folto della vegetazione, raramente si riusciva a rimediare secrezioni magiche di materia vivente ma, anche grazie alla collaborazione di folletti e altre creature che rizzavano le orecchie al calar del sole, gli gnomi urbani avevano scoperto degni sostituti che imperversavano in quantità nella casa: per un umano è roba da poco, ma esseri di tali dimensioni percepiscono nettamente la presenza di certe vibrazioni, onde invisibili ma calde e sostanziose come nebbia, che di continuo rimbalzano tra un muro e l’altro, che si possono raccogliere a manciate e mischiare alla polvere. Ci si accorge del passaggio di un banco bello denso per un distinto trillo che emanano, come stridio di pipistrello, e mettersi al centro di un’ondata procura sensazione di un idromassaggio di emicrania estasiante. Serrando le palpebre, così abbandonati all’immersione, ci si vede attraversare la mente, dietro la cavità degli occhi, da una parata di immagini in successione che raccontano mitologie fatte di pixel, cronache di cronologia ricerche, bassorilievi di emoji e steli di antichi meme. Basta afferrare un pugno di tale sostanza e gettarlo in pentolame gnomico assieme a foglioline smangiucchiate, polvere di angoli e altra polvere strana portata da insetti ignoti, più altre cose variabili, per farne un “oracolo” niente male (in più si ha sempre da parte per insaporire il tutto qualche pezzetto di fungo caduto a terra quando i Roggeri prendono la pizza al taglio). Penelope ancora non sapeva spiegarsi l’intensità delle cose visionate, forse aveva esagerato con la quantità di sostanza raccolta quella volta, forse qualcosa ne aveva intensificato all’improvviso i principi attivi, forse aveva giocato troppo con le sue fatture, e si sentiva un po’ in colpa... ma ciò che più spaventava era il contenuto della profezia. Là nel sottoscala dove tutti in cerchio ricevevano la parabola del nettare, in diversi avevano vomitato copiosamente dopo aver visto quella roba. Possibile che simili cose si nascondessero nelle vibrazioni della casa? Anche i folletti, più avventurieri e di stomaco forte, non avevano retto. Se l’erano pure presa con lei in un primo momento, “Penelope, che roba ci stai dando?”, ma la questione non era da scherzo e subito il risoluto ma traumatizzato Bonella disse di andare di corsa a svegliare Monica e farla venir là, per discutere di certe misure da prendere. Proprio in tal modo, pensava Penelope, la festa notturna aveva iniziato a mutare nei preparativi dell’assemblea, quella in corso dall’altra parte, e che era arrivata a un punto difficile. Si doveva far capire a tutti gli zucconi dimentichi del proprio retaggio magico che non c’era da far storie e scappare di corsa, lontano da quella roba. Santo cielo, da quale inferno sarebbero fuggiti senza sapere e senza possibilità di capire... ma lei, Penelope, di questo non doveva occuparsi, affari del Bonella e della sua “collaboratrice fidata”. Sospirò, ristette quieta nell’ombra grigio-bluastra del pomeriggio, fiacca al principio dei suoi sette anni (circa trenta umani), si attorcigliava con nervosismo attorno alle dita da streghetta i capelli scoloriti. Cominciava lei stessa a detestarli acutamente. Se fosse riuscita a salvarsi, per prima cosa li avrebbe tinti.
Intanto nella sala i discorsi erano andati avanti e, insieme agli ultimi granelli di polvere che cominciavano a riflettere i primi pastelli del sole stanco, era scesa anche una sorta di calma. Le acque irrequiete del panico continuavano a scorrere in una dimensione insondabile presente nel sottofondo della scena, il lavorio di ansie e paranoie non si era arrestato; nonostante ciò sembrava che la folla avesse adottato una nuova “faccia collettiva” che assomigliava a rassegnazione, tutta in sintonia nella sua atmosfera come un banco di pesci che ragiona con un solo cervello. Non si può dire con certezza se fosse un risultato ottenuto dalle semplici chiacchiere del Bonella messo all’angolo miste ai sorrisi di Monica, ma avevano cominciato a capire, forse perché in fondo lo sapevano già ognuno per sé. Era il momento di accontentarsi delle arrampicate sugli specchi, di tutto ciò che eludeva il nucleo della minaccia.
-insomma, noi non possiamo dire oltre, ma certo qualcosa avrete intuito anche voi, no?-, si destreggiava il Bonella, trovandosi davanti facce desolate, spaventate come prima e ora sconfitte per non sentirsi più in diritto di schermire la paura con l’irritazione.
-ciò che accade in un luogo lo si percepisce dai suoi abitanti. Certo, noi non ci curiamo delle cose degli umani, ma è praticamente impossibile passare una vita senza ascoltare i loro discorsi. Non stanno zitti un attimo, è normale sentire qualcosa. E di certo tutti noi abbiamo avvertito nelle ultime conversazioni quella presenza allarmante...
-ma cosa, cosa avremmo dovuto avvertire?- tentò ancora strenuamente di opporsi Verrante, un salmone stremato.
-Verrante, non facciamo finta di nulla. Sarà anche vero che quelli parlano sempre delle stesse cose insulse: vogliamo o non vogliamo comprarci questo, i prezzi del cibo sano sono diventati proibitivi, hai visto che ha fatto quella persona famosa, poi commentano il programma in televisione e a cena si aggiornano sui fatti degli altri che hanno sentito nel corso della giornata. Ma non si neghi che a un certo punto, inevitabilmente, si comincia ad avvertire che c’è sotto qualcos’altro, anche dietro discorsi che sembrano non cambiare mai si insinua una sensazione diversa. L’avete sentita, no? Magari non riusciamo più come prima a giocare disinvolti sui davanzali, a sonnecchiare nell’ombra dei cespugli del giardino, a rubacchiare per casa e nascondere la refurtiva sotto i tappeti. Nelle azioni quotidiane, un tempo senza screpolature, subentra una stretta invisibile che tende a soffocare il fiato nel petto, e ci si chiede per la prima volta “perché” facciamo quello che facciamo. Uno gnomo normale e in piena salute mentale non fa certe cose. Non so ora le altre creature, ma credo sappiano tutti di che parlo. Dite, gente, non vi è capitato ultimamente di scoprire con un certo preoccupante rintontimento che, nel mezzo di una vostra attività, vi eravate fermati a fissare il vuoto per diversi minuti senza far nulla?
Corse un certo sgomento tra gli uditori che rimbalzò di testa in testa cavalcando i bisbigli preoccupati, quello che il Bonella diceva “aver colto nel segno”. Erano colpiti, ci aveva visto giusto a individuare un capro espiatorio negli umani che coabitavano l’edificio. Il Bonella e gli altri nottambuli avevano maggiore coscienza di sé, conoscevano meglio le sfaccettature della natura gnomica: apparentemente indifferenti alle faccende degli esseri troppo più grandi di loro, con il finissimo udito erano pur sempre dei grandi origliatori.
-vedo dalle vostre espressioni che sapete. Avete udito che gli umani cominciano a stancarsi, senza ammetterlo a se stessi. Così mentre accusano le scelte di vita di un altro o esprimono desideri che neanche sono certi di avere, lasciano passare quel fastidio che giace più in fondo. Si chiedono senza saperlo, “perché deve essere sempre così?”, ma non hanno il coraggio di rispondersi, ignorano la domanda, preferiscono continuare all’infinito a dire ciò che li porta allo sfinimento. È meglio per loro quando sono contenti e basta di quello che fanno, privi di coscienza e profondità. Ma quando iniziano in questa maniera, è segno che la casa va lasciata: una creatura di piccole dimensioni, come siamo tutti noi, risente fortemente di un clima del genere. Non si sa mai che cosa orribile potrebbe accadere.
Si udiva poco traffico lontano, la sirena di un’ambulanza. Stavano tutti in silenzio. Era il lutto di aver scoperto la propria tristezza e la propria noia, la concentrazione di farne un problema esistenziale che si generava a partire dalle chiacchiere degli umani. Tutta colpa loro!
-ma allora dove andremo?-, chiese qualcuno dopo un po’. Di nuovo si guardarono Monica e il Bonella, ricordandosi l’imperativo: “mai mostrarsi stanchi”, e ora un altro, “mai mostrarsi imbarazzati”, questo assai difficile: ecco venir fuori la mancanza nella loro organizzazione precisa e funzionale.
-ecco, non vi allarmate. Sappiate che non è il gran problema che sembra: non lo sappiamo ancora con precisione.
Qualcuno singhiozzò, qualcuno si mise le mani nei capelli.
-ma non c’è motivo di angoscia! Per la miseria, anche gli gnomi e i folletti vengono da qualche parte. Ce l’avremo, un posto dove tornare.
Seguì un periodo di profonda interrogazione privata, come chinassero tutti il capo in preghiera al gesto del sacerdote, interrotta solo dagli sporadici clangori dei macchinari evocati dall’equipe tecnica, progressivamente più esatta nei risultati. Dovevano tornarsene nei boschi? Da secoli non vivevano più lì. E i ratti, allora, che erano stati i primi a scapparsene, se n’erano forse tornati nelle steppe della Manciuria? No, al massimo erano andati nelle fogne. Ma per questi gnomi abituati ai comfort non c’era un rimpiazzo idoneo regalato dall’ambiente. No, dovevano tornarsene al luogo primordiale e lì reimparare a vivere. Certo era un viaggio lungo, certo che serviva memorizzare la materializzazione di treni, aerei, perfino navi un tempo piene di piccoli pirati di plastica. Gli uomini dovevano forse far ritorno alle praterie africane, o forse alle caverne, insieme ai ragni? I topi si chiedevano se esistesse la campagna prima degli uomini; le tarme si curavano solo di sapere se sarebbero arrivate in tempo da qualche parte prima di arrivare alla fine dei pochi giorni rimasti, una farfallina (in questo senso praticamente già morta) russava. I folletti si chiedevano se non fosse più facile per loro adattarsi a vivere soltanto nei giardini delle villette, tanto anche dentro casa si comportavano in fondo come ospiti vagabondi e opportunisti; non arrivavano a interrogarsi sulla complicata questione del luogo a cui far ritorno, si sarebbero arrangiati come sempre era stato vanto della loro specie. Ma gli gnomi? Monica rimpiangeva i suoi abiti da umana, i suoi scacchi solitari e le soap opera; Verrante amava alla follia le briciole lasciate dalle ciambelle della colazione. E Il Bonella aveva visto qualcosa di assurdo.
Tutti avevano ricevuto lo stesso presagio, la stessa ombra che ora era finalmente calata su tutti infiltrando negli animi di ciascuno una paura dimenticata, la vaga forma scura di un’aberrazione zannuta e gorgogliante, che risvegliava il sopito istinto alla fuga. Era anche quello un segno che dovessero tornare alle origini dove simili sentimenti brulicavano. Ma tra tutte le visioni dello stesso contenuto infausto, ognuno aveva ricevuto sprazzi di qualcosa di diverso. Penelope aveva visto un forte temporale, un vento impossibile, così tanta acqua da chiamare fuori le navi malridotte. E il Bonella, spiritato e impallidito, gli occhi più spalancati di quanto avesse mai fatto qualsiasi uccello predatore, aveva visto proprio lei. La Grande Montagna Luminosa. Era la visione di un folle, c’era da preoccuparsi per la propria salute mentale, ma l’immagine era stata nitida, ed era convinto di essere l’unico ad averla vista tra tutti gli allucinati. Non poteva confessarlo, ma in qualche modo, parola sua, avrebbe col suo ingegno arrangiato le cose in maniera tale da dirigere la grande migrazione, senza farne parola, proprio verso quella meta di sogno. Sentiva il suono del fiume, un suono antico che si dice sia per sempre rimasto come un’eco nelle orecchie della stirpe gnomica. Chissà se laggiù c’erano sostanze altrettanto buone come le vibrazioni di casa. Se c’era da qualche parte qualcosa che ci si avvicinava, era per forza in quel luogo mitico, non certo in un boschetto insulso. Il povero Bonella aveva fatto tutto solo per questo. Da tempo sentiva quel vuoto nelle azioni quotidiane, nei suoi dibattiti pubblici e nel nulla degli “ordini del giorno” delle assemblee. Ormai gli infusi incantatori era l’unica cosa a mantenerlo in grado di fare tutto questo. E a qualsiasi costo (“per dio!”, si diceva) sarebbe andato dove potevano essercene in abbondanza, verso la visione promessa. Ed ecco in poche parole qual era l’obiettivo del “sindaco” inconsapevole e non eletto.
Quando quasi tutti se n’erano già andati a fare i preparativi, i tre spiritelli familiares ancora si guardavano sbigottiti, spaesatissimi, ridicoli a vedersi come caricature tragicomiche. Dove diavolo sarebbero andati, senza la casa? La loro razza era nata insieme alla formazione dei primi nuclei famigliari umani, o forse esistevano già prima e si erano in seguito evoluti in modo da fare quel tipo di vita simbiotica? C’erano familiares allo stato selvatico, magari sottoforma di gelidi fuochi fatui nei campi d’inverno? Sapevano purtroppo che non avrebbero fatto in tempo a risolvere la questione della propria esistenza prima del ritorno dei Roggeri. Il loro istinto dispotico gli imponeva di farsi trovare dagli umani sempre nel posto per loro designato, immobili e privi di vita, nient’altro che oggetti che hanno una collocazione nella casa. A testa bassa l’abat-jour salutò gli altri, dirigendosi al suo vecchio comodino in corridoio. Il soldatino dovette semplicemente arrampicarsi e sedersi su un mobile vicino, la coccinella di plastica fluttuò in cameretta e dentro un cassetto di cianfrusaglie.
...
-guarda, si muove ancora!
-mi fa schifo. Ammazzala.
-poi lascia una macchia di sporco.
-allora usa un fazzoletto.
-lo facciamo fare a papà. Mi fa impressione sentirmi il corpo che ronza dentro la mano.
Erano circa le sette di sera. Il sole ancora penetrava solenne nella sala luminosa, arancione e calda, bellissima, il vero vanto di tutta la casa. Rientrando il ragazzo si era accorto di aver spezzato, calpestandola, la punta dell’aluccia nera di una patetica farfalla posata a terra, tutta stordita, pareva addormentata. E in effetti stava sognando. Uno strano sogno: c’erano un treno che correva nella notte, qualcuno urlava e bestemmiava: pareva che un pezzo di ferrovia si era spezzato, tutti sembravano così spaventati che solo a guardarli ci si spaventava di propria volta; poi la scena era cambiata, e da un canaletto d’acqua piovana sotto un marciapiede saltavano fuori strani mostri marini, simili a delfini carnivori, che si avventavano su una nave giocattolo. Una bizzarra luce lunare inondava la scena, attraversando i nuvoloni da cui inesorabilmente precipitavano appuntite lame d’acqua. Già, uno strano sogno. La farfallina era stremata, ormai non si rendeva conto di quanto tempo avesse passato in un dormiveglia confuso. C’era stata davvero un’assemblea quel pomeriggio? Mentre si perdeva come un viandante anestetizzato tra i suoi ultimi pensieri, stillava dalla ferita all’ala una strana polverina bianca e grigia, che in molti avrebbero apprezzato per le sue proprietà psicotrope.
-ma che è quella roba, che schifo! Levala, levala!
-e aspetta, dai. Papà avrà trovato fila al Mac.
-puliscila subito, altrimenti ti dimentichi e magari quando viene Giorgio quel suo bastardino la lecca e ci crepa in casa.
-non è un bastardino, è un Jack Russell.
-non me ne frega niente, mi chiedo perché debba portarselo appresso.
-mah, pare non possano stare a casa da soli...
-aspetta, zitto. Mi pare il campanello.
Si diressero all’ingresso. Nulla più respirava in sala. Un soprammobile batteva le palpebre di tanto in tanto, chiedendosi che ne sarebbe stato di lui.
(fine)

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