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racconti delle cinque dita- "l'esodo degli gnomi" (pt.1)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 14 apr 2020
  • Tempo di lettura: 20 min

Aggiornamento: 17 apr 2020

L’ESODO DEGLI GNOMI

Venne stabilito che per quell’urgentissima occasione si usasse la sala principale della casa. Era quella con il parquet di colore arancio, i suoi spazi grandi che cominciavano ad aprirsi sin dal corridoio d’ingresso producevano il senso di calore e benessere che i proprietari della casa volevano si imprimesse subito in qualsiasi visitatore: “sappiate che in questa famiglia si ha un cuore caldo di premure che arde come un fuoco, che qui si sta più spesso bene che male e se c’è il male abbiamo i mezzi per superarlo, e sappiate anche –perché non dirvelo?- che possiamo pure permetterci qualche sfizio.”

Nella sala era incorporata l’essenza stessa di tutto il resto, era la definitiva manifestazione fisica, e la più fortemente foriera di orgoglio, di ciò che lì si era voluto costruire. Non aveva porte ma due muretti tagliati a metà, quello che proseguiva dal fianco della porta d’ingresso e un altro speculare che usciva dalla parete opposta, lambivano come braccia aperte quella vasta e ariosa area la cui soglia era costituita da una linea di confine immaginaria. E sì, c’erano anche molte cose: due divani disposti perpendicolarmente l’uno all’altro, ugualmente grandi, comodissimi a vedersi; il televisore enorme e piatto, circondato dai molti altri elementi del suo campo semantico, nel suo personale angolo; mobili, appoggiati col dorso a ogni parete, credenze piene forse di bottiglie e posate pregiate, forse di vecchi album di fotografie; anche un tavolo, proprio dietro uno dei divani, certo. E nonostante tutta questa ricchezza -sulla quale in fondo non conviene soffermarsi perché di dimensioni troppo grandi per interessare agli esseri che lì avevano deciso di riunirsi-, nonostante tale concretezza, la sala appariva comunque spaziosa. Le cose ammassate non la rendevano angusta, non bloccavano il passaggio ai respiri che vi si libravano e ai raggi che attraversavano le eleganti tende dell’ampio balcone. E questa spaziosità era ciò che, molto più della funzione della stanza o della sua capacità di far bella figura, maggiormente impattava i sensi dei più minuti ospiti dell’edificio, che l’avevano decisa come piazza per il loro comizio. Ma non si trattava soltanto di questo: era infatti quella la stanza dove anni prima, quando i “ragazzi” erano ancora pargoli, venivano posizionati sul pavimento i più importanti balocchi di natale, l’indimenticabile ferrovia col suo trenino e le molte case di plastica che formavano un paesello, la cucina giocattolo, la pista delle macchinine, le navi. Quando gli esseri umani erano distratti, quando l’attenzione dei bimbi era passata a un altro gioco o quando nella fretta la casa veniva abbandonata senza che i giocattoli venissero rimessi al loro posto, gli gnomi godevano di queste cose. Si facevano un viaggio in treno, una crociera, un adrenalinico giro in macchina e addirittura si trasferivano per un po’ di tempo nelle casette, come in villeggiatura, tutti contenti nel vedersi l’un l’altro sulle soglie vicine intenti ai giardinetti finti o a riposo sui due tre scalini sotto le porte minuscole. Occorre sapere che alcuni tra gli gnomi (insieme ad alcuni tra le altre specie di piccole creature lì riunite) erano capaci di far comparire dal nulla come per magia determinati oggetti con proprietà particolari, oppure di nasconderli alla vista. Tant’è che capitava spesso a qualcuno in casa di gridare che una certa cosa era sparita, che non la si trovava da nessuna parte, per poi ritrovarsela lì presente e palese proprio nel primo luogo dove s’era controllato; a volte a quel punto c’era anche qualcuno che, inconsapevole veicolo di verità, diceva fosse opera di piccoli ometti usi a portarsi via le cose, senza intento malevolo, “dispettosi”. Ora, è anche possibile che ce ne fosse qualcuno di veramente dispettoso tra loro, ma in linea di massima questo comportamento rifletteva soltanto una tendenza naturale, il rapporto tra la gente piccola e gli umani era di normale convivenza: i primi non si curavano dei secondi se non per quegli sporadici discorsi di interesse comune, prettamente sull’ambiente tacitamente condiviso; i secondi dei primi addirittura ignoravano l’esistenza, riconoscendola soltanto in fugaci momenti dalla memoria breve, come l’allarmato udirsi notturno delle lamentele d’una bottiglia o d’un legno che nessuno aveva provocato, o il passaggio fuggevole di una piccola ombra tra un mobiletto e l’altro. Anche le riunioni, che potevano presentarsi con una cadenza annuale o non verificarsi proprio, rara com’era la necessità di consultarsi su emergenti problematiche, avvenivano in momenti separati dalle esistenze degli abitanti più grandi, così da non disturbare e non essere disturbati. La sala era non solo spaziosa, bella, ideale per l’incontro, ma appunto i ricordi legati a essa rendevano più facile la materializzazione di certi oggetti che, purtroppo, potevano servire (a gnomi o folletti bastava una nitida immagine nella mente per portar fuori quell’oggetto. Non si creda però che un simile potere sia tanto straordinario: nelle loro vite esistono altrettante magagne e problematiche che in quelle degli umani incapaci di far comparire gli oggetti; e tanto per cominciare, saper materializzare un arnese non equivale a saperlo far funzionare per bene: uno gnomo può far comparire un barattolo di sottaceti, ma aprirlo è sempre una rogna). L’atmosfera era tesa, concitata, di una preoccupazione cui non si voleva accennare in maniera esplicita ma che traspariva sommandosi nella moltitudine dei presenti, dai quali si levava come un incorporeo ma palpabile alone di vago allarme. Era passata la voce dagli “organizzatori”, quando ancora si stavano informando tutti della riunione, che potesse esserci la necessità di riportare fuori proprio la ferrovia col treno, le macchine, le navi, perfino l’aeroplano radiocomandato e l’elicottero della polizia. Gli veniva in mente tutt’a un tratto di fare una vacanza come ai vecchi tempi, o forse una festa con quei divertimenti d’una volta, così a caso? No, c’era qualcosa sotto, erano stati menzionati solo i mezzi di trasporto. Che ci fosse da fare un qualche spostamento? Già cominciavano i più ansiosi a piangere addirittura il “trasloco”, a dire addio alle proprie cose, mentre quelli sempre scettici rispondevano che non c’era nessun motivo di credere una cosa del genere e che se qualcuno avesse avanzato una simile proposta era il caso di farlo ragionare. Certo era che non fosse una cosa da niente, dal momento che proprio all’inizio di Marzo c’era già stata la riunione annuale e che mai in tutta la storia ne era stata indetta un’altra a così breve distanza dall’ultima. Comunque, in “piazza”, stavano tutti aspettando di ascoltare, sperando non proprio in una smentita ma almeno che non fosse grave quanto sembrava, e intanto cercavano come detto di non dar tanto fiato e peso alla collettiva agitazione. C’era da aver pazienza, tutto qua. Dunque, le presenze erano molte e variegate: la comunità degli gnomi al completo, non la più vasta ma certo la più vivace ed evidente; diversi dei vispi folletti e ancora quelli di quell’altra specie più “crepuscolare”, le unghiute creaturine del buio che si arrampicano nei condotti d’aerazione e strisciano in angoli stretti tra letti e pareti; i tre spiritelli familiares, rispettatissimi: sono questi dei numi normalmente invisibili di cui nessuno conosce la composizione (alcuni ritengono, con scarso sostegno, che si tratti di certe “emozioni” che può capitare si addensino nell’aria fino a dar vita ad allegorie). A volte però, se ci sono le condizioni particolari, prendono possesso della forma di un qualche oggetto predisposto a fare da amuleto, abitandolo di lì in avanti come fosse un corpo. In casa Roggeri erano una bambola di finta porcellana, in verità il “torso” di una vecchia abat-jour, appartenuta alla bisnonna e tramandata attraverso le generazioni, poi un affezionato soprammobile di legno somigliante a un soldatino esile e spilungone, e infine un portachiavi di plastica a forma di coccinella, un tempo pendente dallo zaino rosa della figlia più piccola. E ancora, erano presenti qualche tarma, dieci mosche, una nera farfallina notturna rimasta intrappolata in casa, tutta stordita con due occhiaie tremende. Pochi rappresentanti delle sconfinate comunità dei ragni e vermetti della polvere, costrette in quella casa così linda e integerrima a vita pressoché reclusa (ma non per questo indifferente). Poi i topolini che a notte fonda attraversavano il cortile esterno, e perfino due ratti molto cauti che sempre cancellavano ogni traccia del loro passaggio nelle cantine. Insomma, gente di ogni tipo aveva risposto alla chiamata a raccolta, con gesti e dialetti diversi confabulavano di variegate faccenduole in attesa che i rappresentanti dell’assemblea si decidessero a prender parola. Chiazze di luce cadevano calde su spicchi di folla e il pulviscolo pomeridiano calava lento e soporifero, respinto da certi dei più piccoli con insignificanti pezzetti di carta usati a mo’ di ombrello.

-mamma, ma quanto dobbiamo stare ancora qui in piedi?-, chiedeva uno gnomino tirando con insistenza la manica di un giacchetto.

-se non vuoi stare fermo, puoi andare a giocare con gli altri, purché ti possa vedere da qui.

-ma non conosco nessuno di quelli…

-vorrà dire che farai amicizia, altrimenti aspetti buono buono.

Un po’ fuori dalla folla c’erano molti dei piccoli che scorrazzavano avanti e indietro, facendo acchiapparella e altri giochi, tutti insieme tra omuncoli, topi nudi nella grinzosa pelle arrossata e larve di varie specie, più o meno viscide e bizzarre. Ogni tanto l’inquietudine generale trovava una momentanea valvola di sfogo nelle brevi lamentele sul conto dell’assemblea che tardava a cominciare, “ma insomma questi vogliono farci perder tempo”, e altre frasi lanciate così a dar consistenza a una certa solidarietà che investiva tutti, insetti e mammiferi, concetti astratti e mani svelte. Ma ecco che compariva Monica e con un mucchio di sue scartoffie già si avviava a prender posto al banco, una specie di tozzo piano d’appoggio costituito da due tappi di sughero, sgraffignati da sotto i mobili in compleanni lontani, e cuciti insieme l’uno sopra l’altro per essere utilizzati in queste occasioni, come un altare solenne da cui alzare la voce e farsi ascoltare da tutti. Monica era una gnoma di modi sobri, molto precisa e organizzata, che spesso aiutava durante le riunioni o in generale quando c’era bisogno per una qualche situazione delle sue capacità logiche. Al principio della giovinezza era ritenuta un po’ eccentrica a causa delle sue abitudini che un po’ sembravano imitare i comportamenti umani (difatti ancora vestiva come un’umana, dalle scarpe coi tacchi alla corta gonna rettangolare e la spigolosa giacca da impiegata, entrambe blu); ma l’impeccabilità del suo problem solving, e il fatto che si rivolgesse a quelli con cui aveva a che fare sempre in modo da metterli a proprio agio, erano stati sufficienti a renderla ben accetta, anzi secondo alcuni proprio l’aver imparato -anche inconsciamente- dagli umani poteva esser stato determinante nel perfezionamento della sua acuta attenzione a certi dettagli d’ordine razionale, sfuggenti agli altri gnomi. A vederla armeggiare con le sue carte (in realtà pezzi di bucce e foglie varie), già in diversi avevano preso a dare sospiri di ripagata attesa, “oh, ecco, finalmente, era ora”, abituati com’erano ad associare quei suoi movimenti macchinali, intagliati alla perfezione, con l’idea di essere arrivati al punto, nessun tempo per chiacchiere inutili. Da dietro i larghi occhiali, gli occhi ocra rimbalzavano dritti e a velocità costante tra sinistra e destra, senza lasciarsi sfuggire una sola parola incisa con punta di stuzzicadenti sulla parte bianca della buccia di un mandarino, nell’alfabeto inventato dagli gnomi di casa Roggeri. Intanto il Bonella, poco più indietro, discuteva animatamente con pochi informati dei fatti, senza farsi sentire dagli astanti. C’erano due gnomi corpulenti e tetri che annuivano chiudendo gli occhi, come ascoltassero carichi d’accettazione moniti di profonda intensità drammatica, e accanto, più partecipe, uno smilzo folletto di pelle viola chiaro, con aria di professore, gesticolava insieme al Bonella di tanto in tanto tormentandosi l’appuntito pizzetto rufo. Pareva la sapessero lunga, seri com’erano tra le questioni di quel piccolo consiglio appena formato, poco visti sotto l’ombra di un basso comodino pieno di dischi e telecomandi. Il Bonella a intervalli chiamava Monica, che si girava, e le indicava di avvicinarsi quel tanto che bastava perché udisse cosa aveva da dire, senza che arrivasse a tutti gli altri. Poi Monica tornava al pulpito e come nulla fosse riprendeva a leggere, e quegli altri dietro di nuovo a borbottare, tra picchi e gole di concitazione. Era chiaro che il Bonella, come suo solito, non retrocedeva dall’intento di fare anche in quell’occasione un po’ “il capo”, una sorta di sindaco momentaneo per quella multiculturale comunità normalmente priva di una guida univoca. Non c’era uno che potesse rappresentare tutti gli esseri compresi tra gli ordini del millimetro e dei trenta centimetri, ma il Bonella sapeva che quantomeno gli si potesse riconoscere una certa capacità di farsi ascoltare, e di parlare soltanto di cose molto serie e importanti; sicché nessuno in fondo se ne lamentava, e del resto non c’era da temere che dietro quegli atteggiamenti si celassero manie di grandezza poiché soltanto a un pazzo sarebbe venuto in mente di mettersi sul serio a fare da presidente(il Bonella era tante cose, ma certo non matto). All’improvviso Monica cominciò a chiamare dei nomi ad alta voce, faceva l’appello. Questo aveva generato grossa perplessità, e già al primo nome Monica dovette ripetersi più volte, alzando sempre più la voce, tra occhiate e mormorii confusi, prima che un topo capisse e alzasse la zampa. Non si era mai fatto l’appello, in nessuna riunione, e non aveva nessun senso cominciare adesso. A meno che, per qualche motivo, non fosse strettamente necessario… piano piano, senza fare troppo rumore al di fuori di un incombente ronzio, il panico aveva iniziato a sbloccarsi lungo le file della folla, era l’eco di un turbolento ruscello sepolto dai sassi. Perfino Monica, se la si osservava con attenzione, risultava leggermente imbarazzata dal suo compito, per la prima volta: un impercettibile rossore in fronte, la mano che nervosamente dava colpetti periodici alle ciocche castane che le ricadevano sulle spalle. E ancora il dito le si impigliava e faceva un ricciolo, vorticando compulsivamente le punte bionde dei suoi ondulati capelli, simili a certi stili a volte visti sfoggiare dalla signora Roggeri, con il colore che passa da scuro a chiaro scendendo; mai tale livrea era stata tanto manipolata da crescente insicurezza. i tre spiritelli familiares si cercavano l’un l’altro, scambiandosi sguardi carichi di implicazioni ignote. Le loro facce plastiche, le palpebre semiaperte sempre bloccate così sugli occhi vacui dell’abat-jour, le pupille di spilli neri sulla pelle di legno giallastro del soldatino, accentuavano con forza l’impressione che si comunicassero intenzionalmente un silenzio gravato da presagi temibili. Le mosche facevano quella loro cosa strana in cui si sfregavano le zampe anteriori in movimenti ondulatori, parevano un coro vestito di nero che disponesse i preparativi prima di attaccare con canti d’apocalisse.

-ecco che ricominciano a fare in quella maniera… oh, ascolta, è più forte di me: non posso soffrirle quando fanno così. Mette i brividi…-, disse uno gnomo rauco a un altro, sospingendolo a farsi più in là rispetto alle mosche, come temesse di ricevere sugli abiti i resti di una sporcizia sgretolata come forfora da quel rimescolio di zampe. E insomma, tra lievi squittii e fischi di diverse frequenze, non serve stare a spiegare oltre che se si era sperato di essere tranquillizzati, adesso c’era solo da aspettarsi che di lì in poi le notizie peggiorassero. Ma ecco il Bonella che da sotto l’ombra del balconcino si faceva avanti, dopo aver congedato i suoi interlocutori apparentemente scomparsi nel buio, e camminando pensoso ammoniva con sguardo severo il pavimento su cui avanzavano i suoi passi ritmati. Pronunciava l’esordio del suo discorso camminando avanti e indietro per un breve tratto di fronte alla prima fila di presenti, rivolto ora alla terra ora all’aria, gesticolando a indicare direzioni generiche, sempre attento a fare delle pause per permettere a Monica di continuare a chiamare nomi. Abbini, Alberigi, Albini, Astorocchi, Atterra, Aqquadifosso, famiglia Barré… A un certo punto un grigio ragnetto peloso, dall’aria piuttosto scocciata, uscì dalla folla incontro a Monica a farle presente che per quanto riguardava i ragni si faceva prima a dire chi ci fosse e che a passare in rassegna tutti i nomi si sarebbe fatta notte. Subito dopo lo imitò un vermetto della polvere, curvo sotto il suo ombrello di carta, e insieme a Monica guardarono sulla buccia di mandarino mentre lei si limitava a mettere delle spunte di fianco ai nomi che le sussurravano. Dopo questa interruzione, al Bonella parve il caso di accelerare un po’ i tempi, più spavaldamente diretto al dunque per quanto complicato, come un predatore invecchiato che si decide a balzare nonostante il timore di fratturarsi qualche osso.

-e allora, gente, quello di cui avevate sentito parlare nei giorni passati corrispondeva a verità. Abbiamo convenuto-, diceva riferendosi a una non meglio precisata cerchia di decisori, forse comprendente gli stessi gnomi e il folletto di prima –che la sala facesse al caso nostro, come spesso accade, ma non tanto per i soliti motivi. Ebbene sì, servirà fare una materializzazione di quei vecchi marchingegni che una volta vedevamo proprio qui, quelli delle gite di lusso e dei passatempi domenicali. Capisco che ne sia passato di tempo, certo, ma contavo sull’aiuto di alcuni di voi pratici di faccende d’ingegno e tecnica per ricreare nel dettaglio il ricordo di quei macchinari; alludo per esempio a voi, Scovenzani, Marchetta, Frolla e compagnia; e, dicevo, con le vostre conoscenze, non dovrebbe essere particolarmente…

-mi scusi, Bonella-, interruppe una voce nasale da papero, da una delle prime file, avente una certa punta ardimentosa inaspettata nel rivolgersi al Bonella –sono io, Verrante, qui. Scusi se mi permetto, ma nel concreto, di che si sta parlando? Il treno, l’aereo? Non si sarà mica fatta una riunione, appena un mese e mezzo dall’ultima, per decidere di farci tutti insieme la villeggiatura?

-Cerasi, Crocetta, Cumulo…-, continuava intanto Monica. Verrante era uno gnomo alto che soleva indossare una specie di copricapo marrone scuro, simile a una bombetta. Il Bonella gli scrutò l’animo dalla distanza: la barba argentea rada e acuminata sul viso gli dava l’aria, ogni volta che si metteva in testa di dire la sua (non era infatti chissà che novità), di essersi fatto strada tra la folla a colpi di pelacci fendenti apposta per farsi sentire. Il Bonella trattenne a stento un’alzata di spalle, e con pazienza si dispose in modo da rispondere alla cascata di domande che sarebbero zampillate di lì in poi. Giusto, non si aspettava che cominciassero ad aver da ridire così presto, praticamente subito. Di sottecchi raccolse un po’ di comprensione da Monica, sommessamente si incitarono a non mostrarsi per nessuna ragione, in nessun momento dell’assemblea, scoraggiati o stanchi.

-ah, Verrante. No, beh, penso sappiate tutti che non si tratta di questo. E mi auguro che, col tempo che stringe, vogliate confidare nella nostra serietà quando chiediamo partecipazione in questi eventi, sempre che abbiate l’intenzione di collaborare e non fare domande inutili. Se fosse serio, significherebbe che ci crede tanto frivoli da indire un’assemblea e scocciare tutti quanti per un motivo futile, non trova? Perciò la intenderò come una domanda retorica, già, dev’essere per forza così.

Aveva preso un certo tono insinuante minaccia, ma non perché fosse nervoso. Era la verve che non bada a eccessive gentilezze tipica del Bonella, la sfoderava con naturalezza senza che fosse in risposta a un particolare stimolo, doveva solo emergere prima o poi. E quando succedeva, a un po’ tutti tornava la voglia di starsene composti in riga. Certo Verrante non si era pentito di aver fatto la sua domanda, ma un po’ intimidito ci era, con quel piccolo groppo in gola che sempre sovveniva nel sentirsi rispondere pubblicamente dal Bonella, forse inconsapevole del livello d’asprezza nel suo fugace sguardo. L’eloquente gnomo, avviato verso l’anzianità ma ancora autoritario in qualche modo, possedeva l’austerità di un falco nel taglio incattivito degli occhi smeraldini e nel modo in cui sul capo ricadevano le ciocche di capelli grigi, spesso spettinate eppure a proprio modo “composte”. Il suo aspetto aveva inoltre qualcosa che lo faceva assomigliare a uno gnomo più “primitivo”, il profilo frastagliato delle orecchie appuntite e i numerosi dentelli aguzzi che spiccavano quasi luccicanti a ogni apertura di bocca vagheggiavano il tempo lontano in cui la razza degli gnomi non aveva ancora mescolato il proprio sangue alle altre. Lontano, dunque, dagli gnomi urbani. Si stava riprendendo, i passetti erano più trepidanti perché si sentiva in grado di rispondere a tutto, o forse un certo nervosismo nascosto esitava a lasciarlo?

-è anche vero- continuò guardandosi nuovamente l’agitarsi dei piedi, una strana nota amara nel tono –che in qualche modo, sempre “villeggiatura” potremmo chiamarla… ma non del tipo che vi aspettate voi, temo. In sostanza, si tratta di salire su quei mezzi e andarcene. Partire.

Ci fu lo stesso chiacchiericcio di prima, con i timori ronzanti ancora restii a tramutarsi in grida. Si prospettava che andasse per le lunghe in questa maniera, un continuo battibecco tra ciò che già sapevano tutti e la volontà di rifiutarlo.

-ecche è, na migrazione??

-ecche, ce ne andiamo da casa Roggeri dopo tanti anni?

-e che è successo, si deve traslocare adesso?

-beh, forse, sì, la si può mettere in questi termini.-, tentò di rispondere il Bonella alle varie voci che avevano chiesto -signori! Non nego che la situazione è drammatica. Forse c’è stato anche troppo poco preavviso, ma ringraziamo il cielo che il tempo abbia voluto disporci di questo spazio per indire la nostra assemblea, forse è poco ma, per dio, sarà abbastanza. Ora siete allertati e, con un po’ di lavoro e la collaborazione di tutti, riusciremo a lasciarci alle spalle questa brutta situazione senza più voltarci indietro.

I due ratti, creature astute e adattabili, si guardarono per poi voltarsi e andar via senza dire neanche “con permesso”, le code verminose che oscillavano sul pavimento facendo ciao ciao. Per loro casa Roggeri poteva pure sprofondarsene in una voragine improvvisamente aperta in terra, non avrebbero certo tardato a trovarsi un’altra tana di umani in tutto identica, almeno quanto alle loro esigenze, o meglio un tombino. Dello stesso parere dovevano essere anche i topi, ma essendo un po’ fessacchiotti campagnoli, più confusi e titubanti sul da farsi indugiarono ancora in salotto. Per molti degli altri, invece, si trattava di un vero e proprio dilemma. Un’intera comunità di gnomi, dove si sarebbe potuta stabilire una volta perduto tutto il mondo costruito addietro? Per non parlare dei tre spiritelli, abituati a rapportarsi a una sola casa o una sola linea di sangue… le creature-folletto del buio soffiavano terrorizzate nel loro macabro linguaggio. Si capisce come mai l’idea di migrare creasse tanto scandalo, accentuato peraltro dall’assurda proposta che vi era alla base, di partire servendosi di un qualche giocattolo dei bambini, ridicola.

-e se ce ne dobbiamo andare, perché non a piedi?

-giusto, giusto!-, ribattevano tra l’ironia e il fervore conformista quelli vicini al ragionevole Mastrociuffi, le cui opinioni risultavano sempre puntuali e chirurgiche.

-Zuccaforte!-, concludeva a quel punto l’appello Monica.

-quaggiù!- rispose Zuccaforte, una gnoma robusta dalle braccia a mattarello –e ci avrei anch’io da ridire qualcosa. Noi qui sempre a casa Ruggeri abbiamo sgobbato da mattina a sera, e adesso ci volete mettere a sgobbare per far uscire un trenino e due macchinette, e non sappiamo neanche perché. E meno male che non volete comandarci, altrimenti lo sa il diavolo che pretese avreste avuto!

“brava, brava!”, applaudiva qualcuno. Il Bonella si accarezzava i folti baffi per non dover alzare gli occhi al cielo, stufo dell’andazzo tipico della turba. Erano agitati, e perciò volubili: a nulla era servito che Verrante si zittisse per il cipiglio del Bonella, era stato sufficiente un nuovo motivo di indignazione per ringalluzzirli tutti quanti. Il Bonella e i suoi da parte loro speravano che la cosa non dovesse proseguire per forza a ping-pong tra risposte dure e nuove proteste, che il tempo stringeva e c’erano dei motivi per cui si era deciso di prendere certe misure. Occorreva starglielo a spiegare, purtroppo. Monica, non sapendo come altro rendersi utile al collaboratore, un po’ impacciatamente si limitava a spostare una sua espressione che voleva sembrare decisa, “va tutto bene”, lungo i volti conosciuti della folla, che sperava si rassicurassero a vedersi rivolgere così da una faccia che avevano imparato a conoscere come onesta e amichevole, sempre la stessa nonostante la crisi. Il Bonella si ricordò del perché, subito dopo aver preso coscienza dell’incombente catastrofe, avesse chiesto come prima cosa di andare a chiamare proprio lei. Era un dibattitore, la sua mente era svelta: c’era sempre da fidarsi d’un suo primo impulso. Parlò sciolto come gli veniva.

-è importante che, in accordo alle misure che più conviene prendere nel corso dell’evacuazione, e tenendo conto di certe problematiche che impongono determinati comportamenti, noi tutti si faccia uno sforzo per non disperderci nel caos. Non dobbiamo far sì che la numerosità della nostra comunità diventi motivo di panico e disorganizzazione. Al contrario, dobbiamo riuscire a concludere l’esodo in modo impeccabile, tutti presenti. E l’unica maniera per fare questo è di distribuirci tra i mezzi di trasporto che, spero, potranno essere a disposizione di tutti entro questa sera.

Come drogato d’improvvisazione, il Bonella riprendeva spavalderia parlando col tono di un documento ufficiale dotato di gambe, mai ferme. Tutt’intorno tornavano a levarsi i mormorii, “come sarebbe, questa sera?”, “esodo, ma fa sul serio?”, poi tentativi di sarcasmo e domande di figli momentaneamente distolti dai propri passatempi che si sentivano dire dai genitori di ritornare a giocare. Circolavano tra la folla i due gnomi e il folletto viola di prima, riapparsi dal nulla, portandosi dietro gente come Scovenzani, Frolla eccetera per trarseli un po’ da parte e parlare di cose pratiche, come progettisti di cantiere, intanto che il Bonella e anche Monica, poverina, cercavano di tenere a bada la parte dell’umore collettivo.

-e magari in nome di questa organizzazione che tanto vantate, mettete noi folletti in un vagone separato da quello degli gnomi, che non possono stare accoppiati con le tarme, e così via, no?

-già, ben detto, e il prossimo passo chissà qual è!-, si rispondeva tra risa al tipico umorismo dei folletti, dalle implicazioni satiriche. Se non gli si spiegava loro qualcosa, rifletteva il Bonella, poteva addirittura nascergli il sospetto infondato che in tutto quel decidere lui e gli altri volessero costituire un’oligarchia... ma cosa mai era possibile spiegare, come si sarebbe dovuta edulcorare una verità che non poteva neanche essere pronunciata, neanche compresa fino in fondo?

-macchè, tutto questo è solo perché qualcuno vuole farsi una partita a carte mentre scappiamo, così non ci si annoia!-, continuavano a scherzare.

-signori, vi prego, questo non è un gioco.-, tentava il Bonella rimproverandosi di aver fatto uscire quella frase sempre uguale che, proprio in opposizione a quanto affermava, sembrava esattamente un gioco.

-ora i nostri che più si intendono di macchinari si stanno adoperando per eseguire una materializzazione più perfetta possibile e poi memorizzarla prima che i Roggeri tornino. Dopodiché ci organizzeremo in modo tale da esser tutti pronti per questa sera, quando si saranno tutti addormentati, così da rieseguirla e partire immediatamente. A tal proposito, è estremamente urgente che si facciano avanti quelli tra di voi che ai vecchi tempi si dilettarono del mestiere di conducenti, durante le nostre gite. Anche in più d’uno, dovremmo riuscire a “metter su” un macchinista decente, un pilota d’aereo e...

-ma perché? Perché questa urgenza di partire?

-stasera mentre dormono?? E dobbiamo avere tutta la roba nostra impacchettata senza neanche sapere che è successo?

-a me mi sembra che si sta tanto bene qua!

-che, per caso viene il terremoto??

-servirà preparare dei panini per tutti!

Ormai la questione centrale doveva essere come minimo accennata, cripticamente, quel tanto che bastava da far trapelare almeno l’ombra orrorifica della realtà terribile, con il suo oscuro potere. Bisognava spaventarli: era brutto da fare, ma s’era palesata l’urgenza di maniere forti. Si ostinavano a non capire, tutte le specie, i folletti tentavano di mettere in discussione il tutto dubitando del fatto che fosse un interesse comune e non esclusivo degli gnomi. Le creaturine unghiute del buio se la svignarono, giacché dall’inizio si erano trattenute con sforzo dal bruciare alla luce del sole e adesso il panico di doversene uscire per sempre dagli amati cunicoli le aveva private di ogni freno inibitore, erano schizzate via in tutte le direzioni per tuffarsi dritte anche nella più piccola ombra, per poi rannicchiarvisi e mandare territoriali sibili serpenteschi a chiunque si avvicinasse tentando due chiacchiere. Qualche piccolo gnomo aveva iniziato a fare i capricci perché gli adulti dai modi troppo eccessivi alzavano la voce, e nel baccano le dieci mosche si guardarono ciascuna con tutti e mille gli occhi, con una faccia scema, come a dire: ”ma che stiamo a fare ancora qua?”, così volarono via e si dispersero per l’aria, ognuna nella sua direzione. “Facile per loro, che tempo due giorni crepano tutte e addio preoccupazioni!”, rosicava qualcuno. Diverso era per le tarme, più sedentarie, sollazzate inquiline della vecchia credenza in pruno abbandonata in soffitta. La farfallina nera batteva freneticamente ali e occhi, cercando di destarsi, sembrava non avesse capito bene, confusa tra immagini residue di sogno che sembravano raccontare un temporale, un diluvio universale… e il Bonella, ora circondato da gente che sparava domande e obiezioni, alzava il collo a cercare Monica. La vide aldilà d’un mucchio agitato di chiome e berretti, discuteva di nuovo con lo stesso ragno e lo stesso vermetto di prima, probabilmente preoccupandosi di come fare a estendere l’informazione a tutti i loro simili e, soprattutto, di come si era pensato di trasportarli, visto che tutti insieme arrivavano a pesare forse una tonnellata. Incredibile, c’erano davvero così tanti ragni in una casa come quella dei Roggeri? Roba che se trovavano un pezzo di ragnatela, con tutto quello che spendevano in colf e prodotti, si mettevano a gridare. Invece quelli riuscivano a vivere, clandestinamente, forti dei loro metodi segretissimi. Magari, avere adesso la loro capacità di adattarsi, adesso che tutti cingevano il tormentato Bonella, rendendogli difficile farsi strada. “E dove andremo, caro Bonella, dove andremo?”, lo aveva afferrato la povera vedova Ravalli lamentandosi col suo lugubre tubare da quaglia decrepita. Lui le aveva afferrato la mano accartocciata, se l’era portata al petto e in slancio attoriale le aveva detto: “andrà tutto bene, si fidi di me!”, tutto melodrammatico ma risoluto nel dolore, quasi mostrando disarmanti lacrime finte ai margini degli occhi da rapace. Poi era guizzato via in mezzo alla folla strusciandosi sulla giubba il sudore della vecchia appiccicaticcio al palmo, fiero e allo stesso tempo disgustato dal suo trucco di prestigiatore, “cosa non si fa per far star buoni i vecchi!”, mormorava. Se fosse riuscito a raggiungere Monica, credeva, sarebbero bastati pochi cenni silenti per intendersi e insieme adottare un nuovo atteggiamento che potesse riportare l’ordine tra quegli animi privati di solide fondamenta. Solo lei poteva aiutarlo in questa operazione, lei che si era rifiutata di visionare la catastrofe per come era stata mostrata dalle pratiche oracolari nel profondo della notte. Con estremo raziocinio aveva convenuto che, sedando la curiosità, sarebbe stata più utile alla causa, così da non esporre la sua naturale dovizia al rischio di essere sabotata da incursioni mentali di immagini troppo impressionanti; dunque aveva affermato che le era sufficiente fidarsi del pallore espanso sulla carnagione di “coloro che avevano veduto”, avrebbe eseguito senza sapere nemmeno, uguale a tutti gli altri. Ed era proprio questa uguaglianza, il mantenimento della sua integrità di gnoma sempre uguale a se stessa, non comunicato ma inconsapevolmente percepito dalla gente, a fare da fondamentale contraltare alle caratteristiche meno amicali del Bonella che si era affidato, con conseguente approvazione dei pochi altri, il compito di coordinazione generale dell’esodo. Lui era un dialettico, gesticolava, modulava la voce, metteva a tacere, certo una persona rispettabile e un vero piacere a vedersi durante i pubblici dibattiti, come un grande attore o intrattenitore, ma quando fosse giunta la paura, si sarebbero mai fidati d’un tipo del genere? O forse erano la stessa capacità di discutere, le stesse doti attoriali e di leadership che lo rendevano stimato negli altri campi, a dargli una parvenza sinistra di inaffidabilità e inganno nel momento di crisi? L’ombra d’un predatore del cielo, traballante nei contorni della sua figura, incuteva rispetto, sì, che tuttavia si sarebbe mutato al primo sentore d’allarmismo in un irrimediabile senso di imboscata, oltre che di superbia e convinzione di volare ben sopra le teste di tutti quanti. Ecco perché era indispensabile unire i suoi sforzi a quelli di Monica, con i suoi sorrisi a labbra strette, la sua serietà utilissima senza essere eccessiva al punto di farle dimenticare l’affabilità. In più non le era penetrata nel sangue quella robaccia nera, che lui e gli altri continuavano a sentirsi scorrere dentro senza soluzione da quando avevano visto, invasivo liquame che scivolando ingloba tutto... magari la gente sentiva queste cose, fiutava i più piccoli cambiamenti nei personaggi che si esponevano al loro giudizio. Era forse questa la politica? Cominciava a esistere, malgrado tutto, anche nella comunità dei minuscoli.

(fine prima parte)


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