racconti delle cinque dita- "il Golem di San Peucezio Alta" (pt.3)
- Milky
- 14 apr 2020
- Tempo di lettura: 22 min
Aggiornamento: 5 set 2020
Fasci di tubature contro le pareti, lastre di circuiti incompiuti larghi come letti a una piazza, buttati alla rinfusa tra pavimento e tavoli; sono molti, piccoli tavoli e scrivanie, disposti caoticamente in direzioni diverse, occupano la maggior parte dell’esiguo spazio in cui è impossibile muoversi con disinvoltura; giacciono su questi, mezzi incartati tra fogli pieghevoli di progetti e schizzi, la maggior parte degli articoli d’interesse; monitor d’inizio secolo dissezionati, motori artigianali; una testa meccanica, dotata d’occhi vitrei; pentolame vario (?), scheletri di braccia meccaniche ingrovigliate di fili rosso sangue; macchie d’oli, bruciature acide sulla superficie del legno; cartelline di floppy disk, CD, meccaniche, cianfrusaglie; spoglie d’un becco Bunsen alla cui base è rimasto saldo un pezzo ostinato di tubo, strappato come un cordone ombelicale; una cuccia, estremamente malridotta, si leggono appena le lettere sbiadite di un nome da pastore tedesco sopra al buco, “Schachner”; giocattoli: burattini di ferro defunti, strappato per sempre il loro status di oggetto capace d’animarsi, stanno sinistramente accasciati col collo spezzato e la mandibola spalancata rivolta all’insù verso la luce pastosa delle lampade, tutte simultaneamente accese sui vari tavoli per mezzo d’un sistema ricavato da illuminazioni natalizie pendenti ovunque in un labirinto di liane. Prendevo avidamente nota di tutto, ligio in quella sempre piacevole fase del mio lavoro, attento alla scrittura come dedicassi a ogni lettera tracciata la sua speciale importanza. Recuperare il rapporto con la carta e le mie mansioni si stava rivelando rinvigorente, la solerzia riusciva a scacciare ciò che di spiacevole stava prendendo piede in precedenza. D’Andrea se ne stava chiuso in un nuovo silenzio, di umore ancora una volta mutato, a braccia conserte in un angolo tra l’ingresso e il muro. Teneva la testa bassa verso il pavimento, ondeggiava un po’ sul posto come nell’atteggiamento di chi ha fretta di andarsene per il freddo o la noia. Mi aveva dato quel contentino e adesso voleva chiudere, apporre la firma alla sua vittoria il prima possibile, così che me ne potessi andare e finalmente lasciarlo a “pensare” da solo. Credo che davvero non avesse orgoglio o interesse alcuno nei confronti di tutto ciò che il garage conteneva, al di fuori del piacere che poteva dargli il pensiero che la vista di quelle cose fosse sufficiente a zittirmi. Invece, si può forse dire che fossi concentrato. Dunque: due mobili scaffalati d’acciaio, sbattuti contro il muro, un po’ in pendenza, tenuti fermi dal rovinare a terra soltanto da scatoloni pieni di ferraglia posti alla base, dai bordi sporgenti di qualche tavolo; sugli scaffali stavano macabre parti anatomiche di droidi, sembravano esser state mozzate da enormi forbici mentre il corpo era ancora in funzione; non riuscii a indugiare molto su quella vista. Su altri scaffali stavano bulloni e attrezzi dal pungente odore di ruggine, l’unico che si senta in questo luogo dove il metallo sembrava aver respinto da tempo immemore ogni incursione di vita; a sinistra dello scaffale più vicino stava un calendario di santi, datato 1991, e ancor più a sinistra un vecchio adesivo con lo stemma di una squadra di calcio bianconera, che non riconosco; alla destra dell’altro, un altro calendario, di automobili, datato 1973. Mi sembrava di distinguere dalla distanza nell’angoletto buio l’immagine di marzo di una piccola Fiat d’epoca, lo stesso tipo di macchina che probabilmente era stata capace d’entrare qui dentro. Mi chiesi se non esistessero parti riutilizzate dell’ipotetico veicolo in vista in quel disordine, magari le sagome tubolari che sembravano sporgere da sotto i teloni gettati su ciò che in fondo alla stanza, a ridosso della serranda per sempre abbassata, si voleva rimanesse nascosto e ostacolato dall’intrico di scrivanie e cavi. Studiavo le pieghe del tessuto, indovinavo il dettaglio delle forme solide rese omogenee dal panneggio, in cerca di quella cosa, l’invenzione finale… ma non c’era nulla che spuntasse con imponenza, nulla che raggiungesse il tetto, tirando il telone al limite estremo della sua capacità coprente. Senza poter perlustrare ulteriormente, bloccato da ogni genere di intoppi, squadravo da cima a fondo l’area da dietro la barriera difensiva che il professore, forse inconsapevolmente, aveva frapposto tra un visitatore e le creazioni più significative, intime, il vero nucleo del suo essere scienziato e individuo. Mossi pochi passetti e mi arrestai subito incappando come in una ragnatela in un campo, timoroso di trascinarmi con quell’addobbo dell’albero tutto l’esercito annientato e maledetto di oggetti contundenti avvolti nelle stesse spire. Idiotamente mi voltai verso D’Andrea là dietro, per quel riflesso congenito che spinge un bambino che muove i primi passi nell’acqua fredda a cercare l’incoraggiamento del padre rimasto sul bagnasciuga, come una torretta di controllo (“sto andando bene, papà? Sto andando bene, dottore?”). Feci una smorfia amareggiata per aver manifestato fisicamente quel pur ermetico barlume di fiducia verso un soggetto deprecabile, ma egli non mi stava guardando. È strano, ma vedendolo così, con la testa bassa e il collo gonfio a schermirlo dal freddo, un po’ dimentico di dove fosse, mi apparve più indifeso. Non so da quale zona bacata del cervello mi uscisse (dovevo essere più stanco di quanto mi accorgessi), ma mi domandai se anche lui non potesse rassomigliare alla figura d’un padre. Insomma, tutti quei giocattoli reietti, venuti al mondo per mezzo delle sue mani. Ed era stato un padre complicato, imperfetto come tutti, che in un momento di distrazione mostrava un aspetto di fragilità. Lui, perfino lui! E perfino lui doveva aver avuto un padre a sua volta, fantasticavo, un’altra figura accanto a quella odiata della madre, chissà se sprezzante anch’essa, o amorevole, o del tutto assente, magari mai conosciuta ma tale da generare una presenza immaginata con malinconia in sogni irrimediabilmente solitari.
Tutta colpa dell’albero se ho pensato a questo. Sì, l’albero, quello secco in uno sfibrato color carbone che vedevo sbucare da dietro il garage con le sue punte, ribelli al decadimento della morte. La porta d’accesso unica del garage che avevo immaginato ostruisse col tronco, nel reticolato esterno, era un’altra saracinesca, questa ridotta alle dimensioni sufficienti per far passare una persona alla volta. Non era serrata, fu sufficiente sollevarla con forza. Ma l’alberello aveva rami fitti e penduli che disturbavano calandosi dall’alto, come spuntassero anche dal tronco, come un cespuglio di rovi che crede di essere un albero: D’Andrea bestemmiava mentre cercava di sollevare la saracinesca, coi pungiglioni lignei che gli si conficcavano ora nel posteriore flaccido, ora in faccia, facendogli perdere il contegno. In quei momenti forse cominciò a mutarsi la sua spocchia, magari instillandosi in lui il vago dubbio che non fosse valsa la pena di abbandonare la poltrona, uscir fuori al freddo e farsi prendere in giro da un arbusto impertinente al solo scopo di “darmi una lezione”. E intanto io rivivevo mio padre. Inebetito nell’aria notturna, col dottore che faticava ad aprirci un passaggio, respiravo quel pezzo di cortile celato ai passanti davanti la casa. Nostalgico di altra scarsa erbetta che cresce in mezzo alla pietra scura, d’altri muriccioli grigi con le linee dei mattoni lasciate visibili per fine decorativo, di cieli serali estivi in cui si librava tra i giochi di pianterreno un odore di cena pronta misto a urina di gatto. Nostalgico di altre radici trapiantate in un posto simile da mio padre, o forse era mio nonno chissà, dalle quali si erse un essere capace di donare l’ombra. Possibile che fossi stato in quel luogo? Non sono estraneo ai dejavu ma questo era diverso. Che posto stavo ricordando, che posto, non riuscivo proprio a richiamarlo alla mente e la cosa mi faceva impazzire, al punto da sentire che anche il cuore di D’Andrea pulsava, come il mio, serbava avvenimenti ed emozioni, che anche quell’albero l’aveva piantato un padre, il suo, con le ossa a marcire proprio sotto quella terra infondendogli lo spirito, che ora si stava vendicando, che puniva suo figlio attraverso le braccia del sarcofago di legno morto. C’era stata un’altra San Peucezio nel mio passato e l’avervi fatto “ritorno” mi stava costando la perdita del controllo, come molti avvenimenti avevano cercato di segnalare alla mia sordità, alla sensibilità che ha perso l’abitudine di certe cose. Se non fossi stato richiamato dal fracasso di membrana metallica flessa e cingoli necessitanti una lubrificata, sarei sprofondato in un buco al centro di questi pensieri e non avrei forse più fatto ritorno. Sarei rimasto sul colle, diventando un tutt’uno col paese, fin quando un giorno non avrei davvero assassinato il dottore (avrei mai potuto farlo? M’immaginai la scritta del direttore modificata, “chiedere assolutamente, e poi uccidere assolutamente”. Dovevo eseguire, o… non voglio più pensarlo, né raccontarlo dopo questa volta).
Volevo chiedere a D’Andrea un’altra fotografia, diversa da quella della sua comunione. Doveva esserci da qualche parte una foto di quella vecchia auto. Magari un bambino cicciottello seduto per scherzo nel portabagagli, con un sorriso scaltro a denti scoperti e un’ombra di demonietto ad anticipare il temperamento futuro. Ma non mi trovavo lì per questo.
-…dottore? Ehm…
-eh? Che? Che vuoi?-, si destò da chissà quale sogno a occhi aperti. Forse da infreddolito non aveva più voglia di darmi del “Lei”.
-allora, io vado, eh…
-ah beh, era ora!
-no, ecco, intendevo, vado…
Indicai genericamente, con un goffo agitare di mani, tutto quello che mi stava davanti, per alludere all’idea di passarci attraverso. Gli risvegliai la gelosia addormentata a spirale in una cesta.
-cosa?! Ancora?? Da quando in qua serve mettere le manacce addosso alle cose, per fare un dannato sondaggio?
-è che, mi chiedevo… no…?- facevo nel procedere titubante in un’orchestra di tintinnii , sperando di sgattaiolarmela grazie allo schermo dell’insicurezza. Iniziare a fare qualcosa nello stesso momento in cui si sta chiedendo il permesso di farla.
-indietro! Indietro!! Queste sono attrezzature estremamente fragili, non permetterò a un pivello inesperto di esaminarl…
Non tardò il primo botto. A tentoni, alzavo le ginocchia per quanto possibile prima di riaffondare la gamba in uno qualsiasi degli spazi apparentemente liberi tra la matassa verde scuro di lucette natalizie spente, ma qualche lembo finiva sempre per offendersi e far cadere qualcosa dall’altra parte della stanza. Dopo un paio di balzi scattanti fatti per evitare una caduta, mi trovavo ormai incastrato tra fili intrecciati e spigoli di tavoli, senza possibilità di tornare indietro. In fondo il professore non doveva tenerci poi molto, chiaro com’era che non entrasse da secoli là dentro; nondimeno, mi seguivano da dietro sue blasfemie e improperi, tornati alle gloriose frequenze del latrato che me lo fece conoscere in mezzo alla strada. A essere sincero, nonostante tutto, un po’ mi pento di quel mio comportamento. Fregarmene della sua privacy e addentrarmi tra le sue cose, in casa sua, non era né professionale, né corretto, né nulla che aspiri a essere in mezzo alla gente. Ma era più forte di me: già vedevo la mia mano, tesa davanti ai miei occhi come l’immaginaria spada di Macbeth, con un magnetismo che la trascinava a sollevare quei teloni, a scoprire cosa c’era sotto… c’era solo quello, ero drogato. Ripeto: poco professionale. Certamente D’Andrea non avrebbe mai chiamato la polizia (e quelli non sarebbero accorsi in suo aiuto), non aveva altro che le sue orribili minacce per difendersi, ma in quel momento neanche ci pensavo, posseduto come un insetto notturno dai lampioni. Mormorai “scusa…” a un povero pinocchio cromato, decapitato dall’impatto col pavimento. Purtroppo mietere vittime era necessario se volevo avanzare, mentre D’Andrea mi urlava “maleducato di merda”. La scelta di queste parole mi scatenò un’ilarità del tutto insensata. Sta di fatto che quasi mi pisciai sotto per non dover scoppiare a ridere, mentre camminavo a braccia avanti con una faccia senza dubbio demente nel garage più strano e incasinato che avessi mai visto, all’interno del cervello del professore. Chissà, magari proprio per questo in tutti questi anni aveva tenuto chiunque fuori dalla casa di sua madre, per rimandare al più tardi possibile l’eventualità in cui venisse uno da fuori a disturbare col suo respiro per poi andare a finire proprio così, immerso là dentro a piantargli i peggiori casini. Credo di aver provato per pochi secondi una gioia purissima e priva di dubbi, l’euforia di un pargolo. Ed ecco infine i teloni: sì, è chiaro, pregustavo le tubature di un vecchio motore, magari la targa della famosa cinquecento, le parti di un vecchio radiatore (mi piaceva, quando queste mani erano più piccole, aggrovigliarle casualmente sulle parti delle macchine, fingendo di aggiustarle. Sembrava che quel gusto dimenticato mi fosse tornato tutto insieme). Puntare la mano qui, dove sembrano esserci dei tubi, si direbbe, la sagoma coperta di un tesoro di frattaglie meccaniche. Quest’altra sagoma fa pensare alla scultura di un uovo a grandezza umana, impone una piega liscia e spaziosa; chissà cosa c’è sotto. Sembravo in corso di scelta davanti a una vetrina di dolciumi, ma avevo saltato la fila. Tirai, strappandolo via, l’orlo di una grossa coperta e…
Cadere su tutte quelle cianfrusaglie fu abbastanza doloroso. A giorni di distanza sento le lamentele di costole e muscoli arrossati, quelle che non potevo ascoltare nel mezzo della situazione. Così dopo l’impatto iniziale della caduta all’indietro, smettevo di accorgermi di tutte quelle cose aguzze che mi si conficcavano tra le pieghe del corpo, quelle che avevo fatto finire a terra prima. Con la nuca urtai il bordo di un tavolo e subito si innescò la suggestione del sangue in subbuglio, che mi portava d’istinto a toccarmi là dietro tra i capelli in cerca di umidità appiccicosa; ma l’unica fuoriuscita visibile era quella sui palmi, screpolati dal brusco strascico a ritroso su ferraglia tappezzante il pavimento. Insomma, avevo fatto bene a porre grande attenzione nello spostarmi in quel labirinto, ero andato bene. Ma non credevo che il solo spavento potesse davvero spingere un corpo cosciente con tale impeto. Nello stesso momento in cui lo scoprii, mi sembrò di udire, frammisto ai frastornanti tumulti interni del terrore, come vaga eco da una stanza comunicante, anche un forte sospiro svenevole di D’Andrea dal suo angoletto. Non sono certo di aver sentito bene, ma fui consolato dall’idea che anche il creatore di quella cosa fosse rimasto suggestionabile alla sua vista. Non c’era effettivamente nulla in quel garage di altezza tale da toccare il soffitto, ma questo solo perché le dimensioni del mostro non corrispondevano alle aspettative: non era un gigante d’argilla, l’automa dalla massiccia corporatura e l’altezza inferiore al metro e novanta. Ma ciò che perdeva in altezza lo compensava con un’imponenza d’altro genere, intangibile, un’aura che gli conferiva l’impressione d’essere di fatto gigante. Vederselo comparire all’improvviso equivaleva al terrore fantastico di rinvenire un antico manufatto maledetto da cui visibilmente scaturissero effluvi pestilenti, gettato con nonchalance sotto i teloni d’un vecchio ripostiglio come fosse stato il triciclo di plastica. Disteso com’ero, schiacciato per terra, lo vedevo immenso. Ero completamente inghiottito dalla sua ombra.
-heh…-, rimasi con una specie di singhiozzo impotente che voltandomi indirizzai al professore, come in cerca di risposte. Lo vidi nel suo momento peggiore, rosso, non capivo se per la rabbia o per qualcosa di indefinibile, ma se anche un misero soffio fosse uscito dalla sua bocca avrebbe avuto la consistenza terribile di un incendio di fiamme nere. Ma non poteva parlare, irrimediabilmente sottomesso alle contorsioni spontanee della sua faccia, una parata di tic traballanti dove si incontravano un’abbassata di mutande pubblica sulla via di scuola e il rinvenimento di cento cadaveri sotto il letto. Riportai lo sguardo avanti, ai lati del corpo freddo. Là dovevano esserci i tubi, le parti della macchina, una visione giocosa e amichevole, ma c’erano solo travi biancastre. Travi di un materiale alieno, si incurvavano e diramavano in ogni direzione creando sotto il telo l’illusione di un familiare pattern meccanico, quello che ci si aspetta di trovare in una normale officina. Non era così, la consistenza nuda di quelle barre stillava come linfa interrogativi nauseanti, su quale potesse essere la loro natura, se fossero vive, o parti smembrate da una cosa viva, o di un metallo sconosciuto di un’altra galassia. Costituivano la rete, la gabbia toracica al cui esatto centro geometrico pulsava il cuore del golem. O forse la rudimentale prigione del suo letargo, l’elemento di cui esso giornalmente s’informava. Guardarle mi faceva star male. Era meglio tornare a guardare quello, col mio petto che ancora non si riposava da un battito incessante.
Il torso, che costituiva la parte mediana del corpo nella sua interezza, sembrava esser stato ricavato da un grosso vaso di terracotta pesantemente sbiadita, ridotta a tinte sabbiose. Sulla sua superficie erano intagliate a bassorilievo quelle che ricordavano delle scimmie, esseri gracilini dagli occhi a palla e le lunghe code attorcigliate a spirale, incastonate al centro di architetture stilizzate di templi. Sotto il labbro del vaso si intravedevano poche linee sinuose e vagamente arboree, come di capitelli corinzi. Le lunghe gambe erano pilastri di marmo, dalla base circolare poggiante a terra e l’estremità opposta intagliata a punta di lancia per conficcarsi nel ventre del vaso. Al contrario le braccia di ferro erano provviste di articolazioni visibili, simili a pulegge o rotori, terminanti in mani robotiche dal design tondeggiante. Stava inserita nell’apertura del vaso una testa di toro, scolpita in pietra lucida di un blu intenso. Quattro cavità gli costellavano il muso: due per le corna, due per gli occhi spenti, che pur sembravano fissare nella loro assenza come tagli solenni. Il vuoto che li riempiva era minaccioso, precludendo alla trasformazione imposta dallo scorrere della vita dopo tanto riacquisita. Bisognava accenderlo. E io dovevo “chiedere assolutamente”.
Zoppicando cercai di tornare indietro, non più preoccupato di far cadere gli oggetti trascinandomeli coi fili. Occorreva una certa distanza dalla bestia, occorreva creare un minimo spazio di manovra nelle sue immediate vicinanze. D’Andrea scattò agitato verso il labirinto, inciampando e sbattendo, un rivolo di sangue che gli colava dal naso. Non so se cercasse di raggiungere me o il golem, non so per quale motivo, ma forse sperava di imprigionare sotto la coperta uno qualsiasi dei due. Rimaneva distante, confuso come un animale dello zoo, davanti agli ostacoli da lui stesso disseminati negli anni dei suoi esperimenti. Di nuovo guardando il golem, diedi le spalle allo scienziato mentre gli rivolgevo a fatica una prima domanda, il fiato appena recuperato.
-si può accendere con il Bluetooth?-, avevo già la mano pronta a estrarre il telefono, come nel duello finale.
-Bluetooth? Bluetooth?!?-, tuonò lui -quanti anni pensi che abbia questo coso? Va a floppy disk, deficiente!
Ebbi modo di capire in seguito che l’esser riuscito a ottenere dal professore un’istruzione sul funzionamento del mostro fosse stata un’occasione fortuita. Egli non voleva che si accendesse, non voleva veder prendere vita alla sua opera più straordinaria, quella che più di tutte avrebbe dovuto infondergli la presunzione che sfoggiava senza controllo o ragione. Non voleva che si vedesse, nemmeno. Non pensava che sarei arrivato a tanto da introdurmi così a fondo nei ruderi del ripostiglio, non era il freddo che gli rendeva allertato l’ingresso al suo interno. Perciò, l’unica cosa che potesse indurlo a rispondere inavvertitamente a una qualsiasi domanda sul conto del golem, era uno strafalcione tecnico. Solo così, per feroce istinto intellettuale e amore della sua arte, poteva scattare e pronunciarsi. Per il resto fuggiva lontano da ogni altra implicazione della sua esistenza. Lo aveva relegato a un buco della casa che odiava, e che allo stesso tempo gli garantiva la sopravvivenza assieme alla restante eredità, ma fingeva che non ci fosse. Dei floppy disk, all’inizio posizionati ordinatamente in una custodia scoperta, giacevano sparpagliati a ventaglio come tante tessere del domino cadute proprio sotto al professore, pochi metri dietro me. Li guardai. Li guardò a sua volta. Si rese conto di cosa aveva detto e arrivò l’ennesima bestemmia, ma mi ero già avventato ai suoi piedi.
Fummo sul punto di ingaggiare una lotta bestiale per appropriarci del bottino, e sono certo che se ne avesse avuto modo mi avrebbe morso alla nuca. Ma non poteva piegarsi fino a raggiungermi, incastrato com’era, e si limitava a menar zampate all’aria, graffiandomi testa e schiena. Riemersi vincitore, in mano una piccola stele irradiante aura mistica e puzza di plastica nera degli anni novanta. Ma non c’erano formule, incise a cuneiformi o scritte col pennarello indelebile, che palesassero l’effetto del comando magico custodito. Neanche gli altri erano stati contrassegnati: uno valeva l’altro, non c’erano ordini specifici da far eseguire al golem, la sua non era l’esistenza di uno schiavo; tutti quanti avevano un’unica funzione, la stessa, e cioè quella di risvegliarlo. Di nuovo arrancai in direzione del mostro addormentato senz’anima, di nuovo fui sul punto di inciampare quando tornai indietro intimorito, dopo aver inserito il floppy disk in una sottile fessura orizzontale sottostante le froge bovine, scoperta a un’attenta ispezione. Avevamo paura entrambi, io e il Dottor D’Andrea. E per metterci lontani al riparo dal crescente ronzio di surriscaldamento dei circuiti, eravamo riusciti senza pensarci a scavalcare tutto quanto, di nuovo al punto di partenza nei pressi della stretta saracinesca che dava sul cortiletto interno. Sembrava che volessimo entrare nelle pareti, mentre si stava risvegliando. Sfoderò le corna arcuate. Come proveniente dal fondo di un tunnel, comparve inizialmente fioco un punto luminoso nelle cavità oculari, sempre più grande e brillante, fino a scintillare di bagliori argentati che permasero come bulbi glaciali a generare gli occhi veri e propri, due sfere di chiarissimo e freddo etere radioattivo. Non si muovevano, non avevano sfumature, non potevano comunicare altro che il proprio pallore perfetto. Poi, contro ogni previsione, la figura si erse sospinta da ruote in miniatura che fuoriuscirono da sotto la base dei pilastri, una ciascuna. Mosse pochi “passi” e si arrestò. Spostandosi i cingoli avevano sferragliato raccapriccio, un rumore come masticazione di sassi. In un battito vertiginoso da provocare infarti si flessero rapidissime le braccia, che in un sol colpo spedirono tutto ciò che giaceva tra noi e lui -scatole, tavoli con tutto quello che c’era sopra, anche le ributtanti travi dal pallore lunare- contro le pareti laterali. L’onda d’urto era palpabile, eravamo stati per un secondo nel ventre di un terremoto. Il garage appariva più spazioso, con tutti gli oggetti ammassati al muro, schiantati uno sopra l’altro, morti, patetici, cadenti. Un sentiero o piazzola univa me e il dottore al mostro, potevamo muoverci liberamente, raggiungerlo, e lui raggiungere noi. Ma non solo per effetto dello sgombero violento di ogni ostacolo, anzi era come se per effetto del risveglio la stanza si fosse magicamente ingrandita, per far spazio al suo potere. Dovevamo essere all’ora delle streghe, la resurrezione si rinforzava degli spiriti pagani in festa tutt’intorno alla casa.
-c’è un interruttore, un interruttore, là alla destra!!-, gridò D’Andrea, spaventato dall’eventualità che la notte di fumi maligni attanagliante quell’angolo di mondo penetrasse all’interno, forse accrescendo la forza della creatura. Le lampade da scrivania che fino a quel momento avevano illuminato l’ambiente erano infatti andate distrutte, come tutto il resto. Un pannello di neon si accese a un mio gesto proprio al di sopra della testa cornuta. Sentii che quella luce scolastica lo ridimensionasse, rendendolo meno oltretombale, e ne fui sollevato. Ciò non toglie il senso di magnificenza, di sublime pathos che vorticava come un sistema planetario attorno a un centro costituito dalla statua vivente. Da un punto interno del volto taurino, si levò una voce cristallina e aristocratica, dal timbro maschile. Uniforme, logica, sembrava provenire dal cuore di un fuoco azzurro.
-salve, mio creatore.-, disse rivolto alla generica direzione in cui ci trovavamo.
-mph. Salve, Tatanka.-, rispose D’Andrea fortemente a disagio, un tremito roco nella parlata, si imponeva di non sollevare lo sguardo da terra per nulla al mondo.
-grazie per avermi svegliato.- diceva a me, o non poteva sapere chi fosse stato? -ricordi dove eravamo rimasti l’ultima volta che ci siamo visti?
-l..l’ultima volta?- incredulo, vedevo D’Andrea balbettare. Questo “Tatanka” lo aveva alienato da tutti, lasciandolo a gonfiarsi e compiacersi di se stesso, eppure ora sembrava quasi vergognarsene. È anche possibile che fosse un altro sentimento a umiliarlo così, una paura conoscibile solo da lui.
-la confessione, Oliviero. La tua anima implorava aiuto.
Assistevo sgomento alla discussione criptica tra un uomo e una macchina che avevano condiviso un passato strano, certo che sarei stato capace di rivelare a un essere dalla voce tanto calma ed educata, angelica, anche i miei segreti più intimi.
-l’anima? Non esiste, l’anima! Sono codici, dati…
-certo, Oliviero. Adesso la pensi così. Ma allora…
-smettila di chiamarmi così!
-…allora eri preoccupato.
-preoccupato, io?!? Ma se non mi è mai fregato niente di nessuno, di…- ansimava, non riusciva a finire le frasi.
-saprai anche tu, mio creatore, qual è il modo in cui siete programmati voi altri. Altrimenti non avresti mai programmato me in un’altra maniera: così insegna la logica.
-…siamo? M..ma io…
-non mi avresti fatto in grado di leggerti così bene.
-possono esserci degli errori, per quanto perfetta la programmazione, possono insorgere dei…
-certo, possono esserci degli errori. Ma mi hai programmato per esserne consapevole, in quei casi, mio creatore. So riconoscere un difetto meccanico, l’autotutela che mi hai correttamente imposto mi obbliga segnali d’allarme al sopraggiungere di qualsiasi deformità, di hardware o software. E non è così, non c’è mai stato da parte mia un errore di lettura.
-e…e allora?!? Ero solo un ragazzo in fondo, va bene, un ragazzo!!! Uno stupido, un ragazzo è per forza stupido, dannazione, anche quando è il più geniale di tutti, e io lo ero, ero comunque il migliore, ero…
-eri un ragazzo. Come gli altri.
-al diavolo!!- D’Andrea si avventò sulle pareti, prendeva a calci gli oggetti già rotti; strappava, lanciava in aria, scagliava, colpiva. Le vene gli saettavano nelle tempie.
-questa robaccia l’ho fatta io, questi modellini, tutte creazioni di quel tempo pigro e molle!! Guardale!
Distruggeva i burattini, riduceva il ferro in poltiglia. Gli cadde davanti la cuccia di Schachner. Si fermò, incantato per un attimo, poi fece volar via anche quella. Percosse gli scaffali, tranciò a metà il calendario della chiesa.
-e allora?? Vuoi forse giudicarmi per quello che mi frullava nel cervello quando ancora facevo queste schifezze! Il mio genio doveva ancora prendere la sua forma definitiva, non ero io, non ero io quello!
-ti sbagli: non mi hai costruito per giudicare, Oliviero, ma per osservare.
-basta!! Quel nome, basta!!- gridò il professore, tappandosi le orecchie.
-e quello che osservo ora non è diverso. Non ti piace quello che ha detto il sacerdote. Non ti piace quello che ha fatto. Non ti era piaciuta la confessione.
-t..taci!
-la dama D’Andrea, madre ricca, torva, alta…
-ti sbagli, è morta, non me ne frega più niente, non…
-…devota, conservatrice, malinconica, ammalata. Depressa, spesso. Severa. Violenta, spesso. E allora, cosa avevi detto al prete? In che consistono, questi “pensieri impuri” di voi umani?
-non ascoltarlo!-, urlò D’Andrea rivolto a me. Mi afferrò le spalle, mi scosse, ormai tanto disperato da toccare un essere umano -è un mostro bugiardo, un fantasma giudeo, un…
-allora Oliviero, descrivimi ancora il sapore di quell’ostia. Hai detto che sapeva di cartaccia sporca, la… consistenza… mi incuriosiscono, questi vostri “sapori”. O “gusti”, si dice?
-non…
-“gusti strani”, ti diceva, giusto? Sulle ginocchia, sette “atto di dolore”, il pavimento di nuda pietra della chiesa è gelido.
-BASTA!!! BASTAAAA!!!!! SPEGNI QUELL’AFFARE, SPEGNILO, SPEGNILO!!!
Non gridava a me, non gridava a nessuno. D’Andrea, anzi, Oliviero -il personaggio del “Dottor D’Andrea” sapeva benissimo che quel coso non si spegneva, che occorreva solo attendere l’esaurimento del tempo di ciascun dischetto- insomma, Oliviero, il “ragazzo”, desiderava solo che si spegnesse, non importava come, non importavano le leggi scientifiche. Possibile che il golem, nonostante gli splendenti occhi meravigliosi, nonostante il monotono gentile e imparziale delle sue parole, il suo distacco ultraterreno… possibile che lo stesse prendendo in giro?
-silenzio, Oliviero: respiri troppo forte.
Il professore scappò via. Tra disperati “basta” a squarciagola e altre grida, corse velocissimo alla serranda, calciò via il mattone usato per tenerla ferma in stato di semiapertura, fece in tempo a fermarla col piede e ritirarla su. Come un lampo si lanciò fuori, a dirotto verso la casa, lasciando ricadere la serranda alle sue spalle e chiudendomi dentro, da solo col golem. Più tardi, finito il ciclo di vita del dischetto, avrei preso a pugni la serranda per farmi liberare, e quando D’Andrea venne ad aprire quasi prese a pestarmi con mani e piedi. Era di nuovo furibondo e latrante come al massimo della sua forma, mi inseguì per i corridoi e per il cortile, tentando di colpirmi sul serio, lanciando soprammobili che si fracassavano attorno a me, urlandomi di sparire per sempre (non che avessi alcuna intenzione di farmi vivo). Non rallentai che prima di aver risalito tutta la sporgenza del colle in fondo alla quale stava Via Uffizi, deciso a non far mai più ritorno a San Peucezio.
Eravamo però rimasti a me da solo con il golem. Dentro un garage chiuso, sperduto tra le colline della provincia, ancora privo della volontà di uscirne. A pensarci adesso, mi sembra quasi che la mia mente fosse regredita a una sorta di condizione atrofizzata, che non saprei come altro definire se non “uno stato scemo”. Non che fosse palese nel modo in cui mi ponevo, ma ricordo distintamente una sorta di intorpidimento che mi faceva pensare “toh! Che bello!” a ogni mio movimento. Riscoprivo il mio corpo, il suo essere all’interno di un ambiente, forse un riflesso inconsciamente attuato per schermarmi dalla paura. Il professore era andato via, non c’era più nulla da “chiedere assolutamente”. Avevo dunque concluso così il mio lavoro? A che era servito, salire fin lassù, passeggiare tutto il pomeriggio per le strade a chiedere cose a gente che non voleva starmi a sentire, se non per ritrovarmi alla fine in questa situazione folle? Forse quello a cui dovevo chiedere qualcosa era “Tatanka”. Bel dilemma, visto che non avevo ancora reimparato a parlare: i discorsi assurdi di una faccia da mucca in pietra riguardo al percorso di catechesi di Oliviero D’Andrea, luminare di robotica e magia nera recluso in un paese arroccato, mi avevano lasciato perplesso e ammutolito. Parlare dopo aver ascoltato cose tanto contorte mi sembrava come una mancanza di rispetto. Poi ricordai che senza permesso mi ero messo a camminare in mezzo a oggetti cadenti e fragili in casa di un altro, e compresi che tutto ciò che serve per parlare è semplicemente la stessa faccia da culo.
-ciao.-, dissi.
-buonasera.-, mi rispose Tatanka (giurai di averlo visto fare un cenno del capo, un discreto inchino appena percettibile). Non si poteva aggiungere altro, non aveva senso instaurare un rapporto più profondo, una relazione di scambio, tra me e lui: era tutto perfetto così com’era, come si vedeva. Non è una cosa che possa essere comunicata mediante una qualsiasi descrizione, c’era solo da trovarsi alla sua presenza; ma in ogni caso, era bellissimo. Può sembrare poco credibile, a sentire la storia per come è stata riferita. Ma così come molte vibrazioni diverse avevano guizzato liberamente nell’aria di quella sera, anche la sua bellezza era una cosa che dava il privilegio di essere percepita soltanto a chi si lasciava sottomettere da essa, a chi era capace di accettare di trovarsi al suo cospetto. Perché vederlo implicava riconoscere di essere prostrati mentalmente. Questo modo attuale di commentare gli eventi è tuttavia una mia ricostruzione: non provo più le stesse cose, riconducendo alla mente la semplice immagine del golem. Ma in quei momenti esso riempiva il mondo. Suturava gli spazi vuoti dell’esistenza, i punti di fuga, i buchi incompiuti, impossibile dire in fondo cosa diavolo fosse. Potevo anche provare, a dire qualcos’altro, ma in che modo, e a che pro? Non c’era il modo: il training dell’azienda mi aveva insegnato a parlare spigliato, mi aveva fatto ingoiare a forza un ripugnante (ma progressivamente gradevole) repertorio fatico e gestuale allo scopo di conseguire obiettivi nel rapportarmi a categorie di persone: clienti, potenziali clienti, intervistati, avversari, colleghi. Anche col Dottor D’Andrea avevo messo a frutto tali insegnamenti nel rispondere “a tono”, nell’impormi il desiderio di sfida laddove lo avrei semplicemente lasciato a marcirsene con le sue fisime. Le scimmie rappresentate sul “petto” facevano scivolare i miei occhi giù per le spirali delle loro code, scombussolandoli; volevo possedere anch’io raggi argentei che mi schizzassero fuori dagli occhi, urlanti contro il mondo l’esistenza di sortilegi incantevoli, o volevo accontentarmi di plasmare una forma che fosse capace di tanto, come era riuscito a fare il professore; mi interrogavo sui limiti del sangue, ponderando l’esistenza di una linfa che dona vita alla pietra. Mi sovvenne la scorrettezza dei miei comportamenti e quella leggerissima sensazione amara, ma che pericolosamente permane, ogni volta che eseguo le procedure manipolative che mi sono state insegnate. Ma nessuno mi aveva insegnato a rapportarmi a questo. No, non c’erano formule, non c’erano modi di “fregarlo”, non… niente. “Ciao” era il massimo rendimento, avevo esaurito le cose giuste da dire. Ero in un garage dove avevo trovata delusa l’aspettativa di rinvenire una macchina vecchia smontata, come mi piaceva smontare le macchinine Hot Wheels da bambino. O forse rinvenire una bicicletta in miniatura appartenuta al piccolo Oliviero affianco alla cuccia vuota, ricordi di pedalate di fianco al cane in corsa sotto il tramonto. Ero improvvisamente parassita di un’infanzia, di altre mille infanzie simili, della mia. Avevo dimenticato le cose che sapevo fare. Lui, il “creatore”, non aveva potuto fare altro che fuggire via, poiché quello che sapeva era tutto quello che aveva, pertanto era stato spogliato. Io avevo altro?
Avevo un adolescente malaticcio, che parlava sempre a bassa voce. Non andava sempre d’accordo con tutti. Teneva un diario dove registrare i suoi pensieri, uno brutto della Bastardidentro che non gli piaceva ma che aveva tenuto in quanto regalo, e lo aveva portato con sé anche quando per la prima volta guardava con aria colma di rimpianti e piaceri dolceamari fuori dalla finestra di un ospedale. Grandi e simpatici uccelli simili a corvi con la coda bianca si posavano sui rami dell’alta conifera, il sole ostruito dall’altezza degli edifici del complesso non giungeva bene a terra e ciò rendeva bellissimi i pochi raggi cadenti. Qualcuno aveva portato da leggere, regalini, cose da mangiare non sempre disponibili, un vecchio Game Boy, così, per scherzo, una cosa simbolica. Ricordo che una notte di quelle ebbi un sogno erotico sull’infermiera e non riuscii a guardare bene in faccia la mia fidanzata di allora quando venne in visita, mentii dicendo che ero preoccupato dal programma scolastico arretrato. Non ricordo perché ci lasciammo, ma ricordo che dopo non volevo pensare a niente. A mamma dissi che non sapevo se prendere antropologia o informatica. Allo specialista che mi seguì durante la terapia aziendale non parlai di quando, per non cadere vittima dell’ennesima violenza, accettai di fare un dispetto al ragazzino ancora più malaticcio di me. Iniziazione, macchia. Al capufficio scrissi per messaggio che le voci che giravano su D’Andrea erano balle, che non si era trattato di una visita di particolare interesse accademico. Al golem dissi un altro “ciao” quando capii che aveva quasi finito.
-spero di poterti leggere ancora in futuro.-, disse lui.
Rimasi per un po’ fermo in piedi, incantato a guardarlo, ripetendomi quanto fosse bello (una testa di vacca, ma è mai possibile?), finché non si spense. E anche allora, passarono forse cinque minuti, forse mezz’ora di vuoto silente prima che iniziassi a picchiare e chiamare sulla serranda. Mi aveva ridestato uno starnuto e per pochi momenti detestai con intensità ingiustificabile la sensazione del muco freddo nel naso, trovandola vergognosa. Dovevo muovermi se non volevo finire congelato e restare per sempre ibernato lì, in una tra chissà quante altre antiche grotte sul colle.
(fine)

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