racconti delle cinque dita- "il Golem di San Peucezio Alta" (pt.2)
- Milky
- 14 apr 2020
- Tempo di lettura: 24 min
Aggiornamento: 22 apr 2020
La porta si richiuse energicamente dietro di me e per poco il latrato cessò. Mi trovavo dunque in casa del Dottor D’Andrea, o c’era stato un errore? Per il momento ero solo sollevato dalla recuperata quiete, ma fu un armistizio di breve durata.
-Oé! Oé, Gertrude, ma lo hai fatto entrare? Ah, lo hai fatto entrare, vecchia idiota!- riprese furibondo, lo udivo dall’ingresso -pazza sei, pazza, e maligna, mi vuoi far del male, io l'ho sempre detto, ah, l’ho sempre…
Continuò a borbottare con foga, mandando strani fischi in mezzo al discorso. Mi voltai e vidi Gertrude che mi guardava con un braccio teso per prendermi la giacca. Lenta e tremolante nei movimenti, fitta di spesse rughe intessute in una sola trama di vimini dalla base del collo alla fronte, era indubbiamente molto vecchia; passava però l’impressione che non fosse stata la sola vecchiaia a ridurla com’era. Sciupata, pallida, costretta in una forma più “insulsa”, una versione ridotta di se stessa. Mi ricordò in un primo momento i malati recentemente usciti fuori dalla prigionia deturpante di una lunga, intensa malattia, ma cambiai immediatamente idea: sì, era stato qualcosa di diverso, una cosa più indefinita, a farle questo. Nonostante gli anni, alcune ciocche della chioma corta e stopposa spiccavano come caratteristiche striature nella massa bianca, ma erano di un colore debole, uno scuro appassito dai riflessi bluastri metallici. Il suo sguardo era debole ma intenso, desolato ma penetrante, non desisteva dal fissarsi su di me mentre le cedevo la giacca. Assomigliava a un animale da fattoria inerme e mansueto, con quel nasone troppo più grande di labbra invisibili e quelle grosse pupille soggiogate da sopracciglia perennemente inarcuate in una posizione di sconforto, non capivo se mi comunicasse gratitudine per un sollievo anche solo temporaneo o se mi trovasse in fondo non molto diverso da ciò che nel passare dei giorni le aveva congelato quell’espressione in volto. Mi sospinse di nuovo, senza toccarmi, conducendomi verso un angusto salotto dal lieve odore di incenso (non c’era fumo visibile, ma sembrava aleggiasse una nebbia trasparente che faceva da barriera per movimenti e sensi). Un orologio ticchettava affannoso, un fiatone di lancette e pendolo costretti a correre da troppo tempo, mentre di tanto in tanto anche dal lampadario di serpentine contrite, simile a un ragno morto, la fioca lampadina giallognola mandava dei battiti contrariati. Nell’alone nebuloso della sua luce soltanto le ombre sembravano nitide, distraevano, enormi com’erano nel contrapporsi a quelle pareti basse e strette. Insisteva in grugniti un uomo conficcato caparbiamente in una poltrona rosa carne, mentre andavo a prender posto su di un’altra uguale, a lui frontale. Gertrude si allontanò velocemente, andandosi a dileguare dietro la visuale per i corridoi tenebrosi celati da quella greve stanza, desiderosa di sparire. Ora eravamo solo noi due, io e il dottore. Mi osservava per un po’, si sarebbe detto con odio, poi distoglieva lo sguardo (“bah!”), poi di nuovo a fissarmi con occhi a fessura. Lo studiavo di rimando, un po’ in imbarazzo. Era un uomo grasso, dai polsi spessi, al culmine ultimo dei quaranta. Doveva essere alto attorno al metro e settantacinque, una statura che unita alla forma a giara del corpo faceva immaginare un andatura arrancata e scostante; c’era però un che di scattante, sgradevole, come uno scarafaggio carnoso che impressioni per la sua rapidità in contrasto con la stazza. Portava scarpe lucide di pelle nera, piantate nel tappeto dai viticci barocchi come basi di rigidi colonne, le gambe coniche ricoperte da velluto blu scuro. Sotto una giacca nera a doppio petto si alzava e abbassava estensivamente una pancia gonfia e rotonda, gracidante, pronta a esplodere veleni difensivi al primo movimento inconsulto. Dalla sommità del petto faceva capolino il nodo di una cravatta dello stesso colore dei pantaloni, in parte sovrastata da una pappagorgia sudata (la testa tenuta leggermente china nascondeva il collo). Sulla carnagione chiara spiccava un pizzetto circolare attorno a mento e bocca, nero come la capigliatura a ciuffi. Arrivato al volto, si accorse che lo stavo esaminando tutto, gli occhi luccicanti disprezzo. Avevano qualcosa di orientale o faraonico, forse in ciglia lunghe che serravano i bulbi in una mandorlina tendata. Un fremito della bocca mi avvertiva che gli sarebbe piaciuto sputare. Batté le dita corte sui braccioli a riassestare la sua posizione e diede un colpo di spalla all’aria come un bestione infastidito, dalla muscolatura rigida e scricchiolante. Mi sembrava arrivato il momento di iniziare.
-volvevo incontrare Lei, Dottor D’Andrea.
Un buon inizio. Sentii che c’era da dare per scontato chi fosse, era meglio non chiedere conferma.
-ah, è così? A me, volevi vedere!-, fece con voce smorfiosa, un irritante sorriso ironico. La parlata era piuttosto squillante, c’erano qua e là rimasugli di un accento da famiglia di “immigrati” nordici, forse romagnoli. Oltre lo schienale della sua poltrona una libreria incastonata a forza nella parete, ricolma sul punto di scoppiare, mostrava i dorsi sfibrati di volumoni dall’aria prepotente, che sembrava volessero imporsi contro l’umiltà della sala. Per prender tempo mi voltai a vedere cosa c’era intorno alla mia postazione: un vecchio televisore staccato, senza fili né niente, solitario sopra le gambe d’un mobile scheletrico. Alla sinistra avevo una parete ornata da massicce tende viola tenute insieme da un cordoncino, laddove ci si sarebbe aspettata una finestra. Qual era il loro scopo? Lasciai perdere e sfruttai questa breve pausa per riappropriarmi di una parvenza di disinvoltura, così da riprendere.
-sì, proprio Lei. È piuttosto conosciuto tra i miei colleghi, e rispettato, si direbbe.- iniziai ad armeggiare con la cartellina, in cerca del dossier (è vero, potremmo tenere tutto su un file, ma quando abbiamo a che fare con le persone in carne e ossa è nostra politica quella di servirci delle stampe, così da tenere qualcosa sotto il controllo di mani e occhi).
-…rispettato ma, mi è parso di constatare tra i suoi concittadini, non molto benvoluto.
-ah! La cosa è reciproca.- fece con aria trionfante. Avevo stimolato un tasto giusto, si era animato e prestava maggiore attenzione, meno disdegnoso delle mie parole.
-e perché, secondo Lei? Se posso chiedere.
-quelli là…- e si sporse, come a parlarmi più da vicino -non sono altro che degli zotici pieni di invidia.
“Come mi aspettavo”, pensai, “ed è ora il momento giusto per introdurre l’argomento del motivo di questa invidia”. Diedi un’occhiata al dossier. Dunque, non era ingegnere, ma non c’era scritto quale fosse la sua scienza. Esperto in termodinamica, fluidodinamica, chimica inorganica, geologia, calcolo delle probabilità, un sacco di altre cose… ma risaltava un passaggio sottolineato più volte a penna: “sorprendente competenza nei campi dell’automatica e dell’intelligenza artificiale”. Pensai che fosse sorprendente davvero, un luminare di simile sapienza in un paese del genere, in una casa del genere. Non riuscii a reprimere un fischio sorpreso, cosa che sembrò infastidirlo. Nuovamente mi osservava torvo, era impossibile accattivarsene l’umore per un periodo significativo.
-mi scusi. È che leggevo qui, sui miei appunti, delle sue abilità. È impressionante.
-tante grazie, non ho bisogno dei suoi complimenti.
-si vede che non ne riceve molti.-, risposi con una certa insolenza, celando sconforto. Mi stava salendo lentamente una volontà di non farmi trattare da sciocco, di non lasciare che un temperamento che si comprendeva essere infantilmente acido fosse d’impaccio al mio lavoro.
-ma insomma, chi diavolo è Lei?- sbottò, questa volta guardando il foglio che avevo in mano, come inquisitorio verso un odioso orpello che aveva la strafottenza di metterlo a nudo, in mano a uno sconosciuto altrettanto strafottente per essere venuto fin lì.
-maledetta Gertrude, maledetta! E non far finta di non sentirmi da dentro i cunicoli, vecchiaccia, topo di fogna!- si agitava sulla poltrona, volgendosi per quanto concesso dalla corporatura in direzione dei corridoi. -ancora a spolverare quelle squallide fotografie, eh? E già che ci sei perché non cambi pure il vetro?
Capii che D’Andrea e Gertrude si intrattenevano più volte al giorno in simili scambi unilaterali. Non commentai la cosa, facevo gli affari miei.
-lavoro per l’azienda ***, svolgo indagini di mercato sull’utilizzo di tecnologie e comunicazioni. Tra i miei compiti rientra anche quello di intervistare individui come Lei, esperti in determinati settori, che…
-va bene va bene va bene, la smetta, non mi interessa.- fece in un solo fiato irritato, agitando la mano circolare. Al di là del disprezzo che tributavano alla sua persona, non era stato uno scetticismo diverso da quello dei compaesani nei confronti del mio operato. Ce l’avevano con l’azienda, per qualche motivo? Era francamente strano pensare che ne avessero mai sentito parlare. Non volevo credere che si trattasse banalmente di uno di quei tanti paesi in cui basta pronunciare espressioni come “tecnologie e comunicazioni” per attirarsi diffidenza e sdegno, e d’altronde non mi sembrava che fosse questa la spiegazione, non essendo nell’aspetto un posto troppo arretrato: vantava cose antiche, certo, ma non al punto da lasciarsi totalmente assorbire dai ruderi e gli ectoplasmi della sua storia. Insomma, tutt’altra cosa che uno di quei borghetti arroccati quasi del tutto abbandonati, e a contraddire le smorfie mostrate al suono di quelle parole già bastavano un piccolo negozio Apple in centro, di fianco alla telefonia mobile, un supermercato, o anche solo una coloratissima insegna coi vari gusti di gelato fuori da un bar. Il colmo era ritrovare un rifiuto simile in qualcuno come quel professore, quello scienziato. Forse si assomigliavano un po’ tutti, i sanpeuceziani? Mi rivenne in mente una persona, tra le tante che avevo provato a intervistare invano, quella che aveva avuto la reazione in assoluto più concitata. Avevo incontrato la donna, sulla sessantina, dai capelli di un bel fulvo focoso, fuori da un alimentari con una busta di seta piena di spesa, sorridente. Inutile ribadire il cambiamento. Ma non si limitò ad adombrarsi come tutti, aggiunse che D’Andrea “ha fatto una… cosa, quello là, una delle sue ne ha inventate, che finché ci stanno ancora i santi lassù in cielo non gli si può perdonare!”, ed era scappata via esageratamente, la voce inacutita e forte, con la busta che oscillava impicciandosi in maniera comica coi passetti frettolosi. Iniziava a sembrarmi gente d’un film, una commedia un po’ surreale, montava la suspense verso il personaggio-incognita e perno dell’intreccio, uno in cui forse si riproponevano a modo suo i comportamenti di tutti gli altri. Ma volevo capire se la percezione m’aveva ingannato, se potesse in fondo trattarsi nel suo caso di qualcosa di diverso.
-non ha simpatia per la nostra azienda?-, chiesi. Feci caso in quel momento al cattivo stato della sua pelle, in diverse parti del viso era arida, come ripresa a stento da un’antica bruciatura. Ebbi la spiacevole sensazione che si fosse procurato la secchezza da solo, come se spinto da una macabra pulsione per la pelle morta, una gioia nell’estetica della screpolatura.
-ma che ne so, non me ne intendo. Insomma, che vuole da me, per disturbarmi a quest’ora di sera?
-oh, l’ho disturbata? Mi dispiace, non era mia intenzione. E che stava facendo?
Mi guardai attorno, come cercando qualcosa che giustificasse un’attività interrotta. Sul tavolinetto frapposto tra noi non c’era neanche una tazza da tè, i libri erano tutti al loro posto negli scaffali, le pieghe indolenzite della poltrona rivelavano che stavano sorreggendo quel peso da ore… dovette cogliere qualche traccia di sfida nel mio tono di voce e, forse, non posso negare con certezza che fosse presente; sul momento non me ne resi conto. Il naso corto sussultò un fremito porcino nel dar fiato a una risatina maleducata, si sporse di nuovo a sventolare la grossa faccia aggrottata in un’espressione come di bambino che moduli vocette insopportabili nel fare il verso a qualcuno.
-ebbene, stavo pensando, se ci tiene a saperlo!
-pensava?
-già, pensavo, pensavo! E allora? Non è usanza, alla grande città? Si capisce, altrimenti non gli salterebbe al cervello di mandare gente in giro a bussare alle case, per far stupide domande.
-ma in verità, io non ho bussato…
-l’ha fatto, e senza ritegno alcuno, bloccando già allora il mio pensiero. Debbo farlo ogni sera, sulla poltrona che è il mio unico piacere, ma no, non è concesso, c’è una congiura in atto da tutte le parti contro i cervelli ben assestati. È vero, Gertrude? Già, fai le tue faccende laggiù, così che non possa sentire il tuo stupido ciabattare per casa. Questa casa, coi suoi sozzi fantasmi…
Ci fu un impercettibile ticchettio lontano, come da una porticina solitaria in fondo a un corridoio buio. Un rumore timido e senza forza, un singhiozzo privato di suono. L’ultima frase del professore sembrava come un’allusione. Che stava facendo Gertrude? Intanto pensavo alla mia stasi di fronte alla casa. C’ero dentro, adesso, quell’invisibile nebbione lugubre era rimasto fuori a cingere le mura come tra grinfie di folletto. Anche all’interno una nebbia invisibile, rendeva l’inspirazione affannosa… ero davvero entrato? O si trattava forse di un’illusione, l’inganno di una bestia magica? Il colle era tornato alla sua originaria foresta, i mostri guardiani mi ipnotizzavano con ologrammi di case, strade, un salotto. In un simile trabocchetto, non dovevo finire col perdere consapevolezza dei miei stessi gesti. Davvero avevo bussato? Ero convinto che là fuori, a parte il televisore della vecchia coppia, non ci fosse nulla a smuovere una particella d’aria.
-tch! È solo per quanto mi piace… voglio dire, per quanto è funzionale questa poltrona, che non vi ho già cacciato tutti e due fuori a calci. Uno si ritrova con la rara fortuna di una cosa che funziona per bene, in mezzo a tanta follia, se la tiene stretta.
-sembra che la follia non la veda solo nei suoi vicini di casa, gli “zotici”.
-sarò libero di vedercela dove mi va a genio.
-anch’io le sembro folle, o è solo la mia pretesa di intervistarla a esserlo?
-non ho chiacchiere inutili, io, che si possano spartire con qualche professorucolo o analista della metropoli, che mi vede come una gemma avvolta dai ciottoli senza valore del paesino. Ah! È troppo tardi ormai per accorgersene! Chi non capisce la mia arte sta bene dove sta.
“La mia arte”. Erano parole d’astio da tipico professore allontanato dagli ambienti accademici, pieno di risentimento, vendicativo. Era normale che proseguissi su questa pista. “Tombola”, mi dicevo, mentre riportavo gli occhi a scorrere tra le righe del dossier, in cerca di domande, curioso (a questo punto quasi non c’entrava il lavoro) di indagare in quale punto avesse messo in disaccordo i “folli” sia di paese che di città. “Ne ha inventata una delle sue”, aveva detto la signora. Cresceva l’irritazione di D’Andrea nel vedermi leggere.
-ma insomma! Perché non mi lascia in pace? Che cos’ha Lei da chiedere a uno come me?
-ah, non saprei. La sua prospettiva sui progressi della robotica, forse?-, tentai. Doveva essere “la sua arte”.
Sbiancò, per una frazione di secondo. Fece un buffo movimento di torso, come uno starnuto in silenzio.
-come?? Che cosa ha detto??
-mah, niente. È solo che mi sembrava potesse essere un suo interesse, a giudicare da qui-, e mi portai il foglio ben davanti alla faccia, D’Andrea reprimendo a stento una bestemmia -perché vede, si parla di intelligenza artificiale, di automatica, e…
Fu il mio turno di impallidire. Non so dire, se fosse stato un bene non aver letto tutto il dossier in anticipo, ma quella parola, scritta lì, l’unica nella sua riga, cerchiata a penna, col suo suono antico e tombale, occulto… quella parola per un breve e spiacevole momento ebbe pieno controllo del mio senno, lo aveva intrappolato in una morsa e trasportato via in volo verso terribili reami di fiabe macabre. La foresta maledetta, gli incantamenti che ricoprivano questo monte, la ragione tartassata da fatture! È proprio una cosa vera, il crescere della soggezione in quel luogo. Ma qualcosa, un aiuto mi era stato lasciato, una traccia che mi conducesse verso il sentiero che esce dalla selva. Guardai con più attenzione, con un istinto speranzoso:
GOLEM
Era sepolta, dissimulata, sotto cascate di informazioni da preambolo. Anche il collega che aveva redatto il file si rendeva conto che posizionarla in questo modo significava accentuarne il brivido. Ma era stata cerchiata davvero, con la penna. Dovevo seguire il tratto, familiare, il riconoscibile inchiostro di un capufficio, per cavarmi fuori dalla paura. Lì c’era stata una persona conosciuta, viva, che leggendo la stampata aveva deciso di apporre dei segni, certo che sarei stato in grado di interpretarli. “Non farti trascinare dalle forze ignote che stanno in agguato qui dentro”, diceva. È solo una parola che esprime un concetto, che possiede una spiegazione. Il tratto si gettava fuori dalla cerchiatura, proseguendo in linee sovrapposte verso uno spazio oltre il colonnato dell’impaginazione. Era una freccia, con la punta rivolta a una piccola annotazione scritta nello stampatello svogliato di chi ha poco tempo: “chiedere assolutamente”. Adesso era tutto chiaro, riacquisivo il colorito. Gente d’alta quota, timorosa di giganti e geni, aveva disdegnato l’uomo con la sua “arte” spaventosa (un’invenzione delle sue…). L’ambiente universitario doveva allo stesso modo averlo allontanato, reputando i suoi risultati pericolosi o, chissà, reazionari. E ora lo tenevano tutti a distanza, lasciando accumulare attorno alla sua casa un fitto strato di emanazioni sinistre, come se il golem fosse nascosto fisicamente in quel luogo… era ovvio, certo! “Chiedere assolutamente”, questo il significato della mia visita, la sua creazione deve effettivamente trovarsi qui, da qualche parte, in questa casetta minuta! Scompare dalla mia mente la foresta, sgusciano fuori i demoni. Ora c’è spazio per una cosa soltanto: la carta reca un ordine, un comando, quello di chiedere assolutamente, e a proposito di una cosa ben precisa. Ciò che sta scritto, io devo eseguirlo. Sento scorrermi dentro una maggiore sicurezza.
-che c’è?? Dammi qua!!-, ruggì D’Andrea tra frenetici gesti goffi di palmi aperti nell’aria per afferrare il foglio senza efficacia, rifiutandosi come faceva di alzarsi dalla poltrona.
-questo? Non se ne deve preoccupare, è tutto sotto controllo.
-maledetto!! Esca da questa casa!
-e perché non lo ha gridato subito a Gertrude, con la stessa intensità di adesso? Era curioso, forse, di parlare con me.
-ah! HAH!-, sbottò ironico il suono più forte che avesse prodotto, le grigie pareti mandarono un’eco da perforare i timpani. -e come no! Curioso di discutere di robotica, con uno sbarbatello amorfo rimasto alle tabelline, uno scimpanzé da statistica! E magari adesso facciamo venire qua quella analfabeta di Gertrude per dibattere di critica hegeliana!
-se vuole parliamo di un argomento più specifico.-, mormorai allusivo.
Per un po’ rimanemmo in silenzio. Già, c’era un orologio in quella sala, un pendolo fiacco all’ingresso, tic tac tic tac. Me n’ero dimenticato. Il Dottor D’Andrea, da sporto che era, si ritrasse dentro la poltrona, accavallando una gamba sull’altra, poi invertendo quella d’appoggio. Le unghie mangiucchiate sulle dita roteanti affondavano nel bracciolo.
-mph. Già, e chissà qual è questo argomento, signor “indagine di mercato”. Non c’è niente di niente che faccia al caso suo o della sua porca azienda, dentro questa casa. Questa casa puzzolente, eh, Gertrude!!
“Sa dove voglio arrivare”, pensai. Ciononostante dovevo arrivarci gradualmente, dovevo farlo parlare, allungare la manfrina. Confesso che a quel punto fui animato da una certa malizia, consapevole che indurlo a esporsi equivaleva a tartassarlo subdolamente.
-non lo escluderei subito. Del resto, se fosse davvero come dice Lei, allora non avrebbe nemmeno fatto in modo che la trovassimo, che arrivassi al cancello di casa sua.
-ancora che insiste?! Io l’avrei fatta venire qui?! Questo è troppo, ora la smetta o…
-forse non mi ha fatto venire qui personalmente, ma le dispiace meno di quanto vorrebbe far intendere. Vero, Dottor D’Andrea?
-e suppongo che un tipo come Lei, tanto acuto con quei suoi ridicoli occhiali dalla montatura troppo spessa, sappia argomentare interessanti punti a favore di questa sua brillante tesi.
Presi il cellulare, ricordandomi all’improvviso che mi ero accordato con una collega per aggiornarci in tarda serata. Molto tempo doveva essere passato inavvertito, sarà stato l’effetto obnubilante della cappa dall’odore di incenso, trucchi oppiacei da brucaliffo. “Ci hai parlato?”, chiedeva sull’anteprima. Stavo per rispondere quando ho notato l’espressione di D’Andrea, una specie di diabolico sorrisetto trionfante. Contrariamente ad altri miei gesti che lo avevano innervosito, come si fosse sentito mancato di rispetto, aveva interpretato quest’ultimo come un mio modo di svignarmela dalla sua domanda pungente, una mossuccia dettata da disagio e imbarazzo. Mandai ripetute occhiate da giù in su, dal cellulare alla faccia che mi galleggiava davanti, e sentii un pungolo sotto al torace che mi spronava inspiegabilmente a modificare i miei modi. C’era forse una recondita derisione rivolta al tema della cover del cellulare intravedibile tra le mie dita, il disegno centrale di un mammifero arancione con le gote gialle, dalla coda lunga che culmina a saetta -un’insegna videoludica. Lo misi in tasca, per il momento.
-beh, Dottor D’Andrea, non serve essere brillanti, basta conoscere l’umanità.
-me ne frego!
-Lei, come molti della sua specie, è un uomo appesantito dall’ego, un bestione d’ego come un dinosauro cornuto. E detesta sentire quell’espressione, “quelli della sua specie”. Deve essere necessariamente orgoglioso. Lo è, non lo neghi, se è riuscito a fare in modo che non venissimo a conoscenza del suo indirizzo pur lasciando che si diffondessero informazioni così precise sulle sue capacità e conoscenze. Le informazioni passano e brulicano se si vuole che passino, e Lei lo sa bene. Sa quanto è facile.
Dopo uno strascicato mugolio idiota, D’Andrea rise sul serio, per la prima volta, dall’inizio della serata. Una risata di petto, lunga e ricca di miscugli vocalici.
-hahohahohehahoh… informazioni, dice Lei! Hah hah hah… mi ascolti, parassita: sono sicuro che comprenderà bene.
Trasse da una taschino della giacca, -che sembrava piuttosto una fessura tagliata a forza con un coltello- un foglio di carta spiegazzato e una vecchia penna stilografica, e si mise a scribacchiare qualcosa con aria compiaciuta.
-mettere in giro informazioni: a che pro? Le informazioni hanno valore solo e soltanto quando possono farti ottenere qualcosa. In tutti gli altri casi, è impossibile affermare che esistano.
Strappò la striscia del foglio su cui aveva scritto e la piegò molte volte, fino a farne una piccola e spessa pallottola. Mi risparmiai dal chiedergli cosa stesse facendo, domanda che avrebbe senz’altro prodotto uno scontato, stereotipico “si faccia gli affari propri”. Gli si era fermato in volto un sorrisetto che increspava la pelle ruvida in mezzo al pizzetto.
-ho due domande-, chiesi dopo un po’, colto da improvvisa ispirazione.
-certo, per la sua intervista.
-quella? No, no, non arreco tanto disturbo. Mere curiosità personali.
-oh, allora fa bene a chiedere, la curiosità è una cosa buona. Peccato non avere la testa per contenere la conoscenza. E, per fare un triste ma dovuto tributo a quella sublime disciplina della robotica di cui mi chiedeva, c’è da dire che non sempre è possibile mettere mano ai circuiti e sperare che l’automa s’aggiusti.
-bene. Ha finito?
-chieda, chieda.
-esiste qualcuno a questo mondo che Lei non disprezzi, a parte se stesso? Che so, una vecchia fiamma, una povera madre…
Un’altra volta esplose una risata, sregolata, ostentata. Tamburellandomi la cover del Galaxy in tasca, pensai che fosse proprio un individuo banale. Per forza, doveva entrarci la madre con tutto questo, con la miseria emanata tutt’intorno a quell’uomo.
-hey, Gertrude! Gertrude, vieni qua, sbrigati! È inutile, non la incolli quella crepa!
Aspettammo l’arrivo di Gertrude. Rammentai di nuovo il pendolo, mentre il professore sembrava divertirsi a calcolare quando sarebbe comparsa la donna in base alla frequenza dei passetti borbottanti dietro le pareti, una camminata di umiltà patetica.
-deve sapere che ne ho combinate anch’io, da ragazzo. La povera Gertrude non s’è mai ripresa dallo sgarro che impressi con la fionda sulla foto della mia prima comunione. Dopo decenni ancora ci si ferma davanti, a contemplarla con quella sua apprensione cretina. Gliela mostro dopo, se vuole, è certamente la cosa più interessante che possa farle vedere in casa: due spaccature perfette, di impeccabili geometrie concentriche che mandano riflessi cristallini, una proprio in faccia al prete, e l’altra su quell’insipida ostia tesa davanti alla mia bocca spalancata.
Per essere un misantropo quasi recluso, aveva una certa disposizione verso le chiacchiere sui fatti propri, pensai, o forse nelle acque inquinate dei suoi ricordi burberi non potevano che riaffiorare sempre le stesse pochissime cose che erano state capaci di toccarlo. A immaginarmi gli altri circuiti di quella mente brillante, li vedevo anneriti, sfrigolanti di puzza bruciata. In quel momento entrò Gertrude, una lievissima sfumatura d’odio, pareva, a modificare appena la solita espressione di agonia perenne. Nel vederla comparire, D’Andrea sfoggiò un ghigno perfido, sadico.
-allora, Gertrude, vecchia carcassa! Hai finito per questa sera di adorare le chincaglierie della tua matrona morta stecchita? La tua innamorata, devo dire, lurida lesbica!
Gertrude inspirò svenevole, ben oltre la capacità dei suoi polmoni rimpiccioliti. Gli occhi fattisi più grandi del solito non esprimevano altro che paralisi di dolore, una dimenticanza della risorsa della fuga.
-te le baci pure di notte, scommetto, perché sei una feticista, una sporca, perversa… neanche sai che vuol dire, è inutile che annaspi! Ti fanno paura queste parole, vero? E il tuo feticcio, la puttana di mia madre…
La povera donnina risucchiò squittendo un malloppo d’aria per scacciare un grumo di vuoto dal petto, quel fischio inconfondibile che so ben riconoscere come il principio di un attacco di panico. Mi alzai dalla poltrona per andarle incontro.
-e che pulisci a fare questa casaccia orribile? Tanto non se ne andrà mai la sua puzza! Forse è per questo che ti piace, vero? Pensa, neanche il mio genio è sufficiente a coprirla, cotanta lordura…
-D’Andrea, la smetta.-, cercavo di accarezzare la schiena di Gertrude, ma mi sembrava distante, sola in un dolore suo. Mi sentivo distante anch’io? Qualcosa intoppa la memoria di quei momenti. Ricordo che le cose mi sembravano accelerate, forse contagiato per riflesso dalle memorie sensoriali dei miei vecchi attacchi di panico, momentaneamente tornato agli anni della mia formazione con le loro vertigini tumultuose… non riuscivo a reagire in tempo agli ultimi eventi che mi sembravano aver preso una fretta maggiore, avevo perso un po’ il filo di cosa facevo e cercavo là dentro… ormai l’interno del mio corpo era come la stanza, piena di cappa d’incenso aspirata dentro.
-non faccia l’altruista, Lei, sarebbe alquanto fastidioso. Chissà, magari cambio idea sul mostrarle una certa cosa.
Sentii un’ondata calda dietro le orecchie. Dopo un po’, la mancanza di finestre cominciava davvero a pesare. L’aria asfissiante aveva certamente contribuito all’alterazione del mio stato, oltre che di quello di Gertrude. Potei guardarla meglio, avendo riacquisito un po’ di fermezza: si era calmata anche lei. Il torace mingherlino continuava a palpitare, i polsi le tremavano nel massaggiarsi il petto, la boccuccia secca traballava a pesce, ma il rischio dell’attacco di panico sembrava scongiurato. Probabilmente sapeva come gestire queste cose, ma mi chiedo per quanto possa resistere a lungo in questo modo un’anziana della sua età. Volevo assisterla, ma… non so. Camminando piano mi mantenevo voltato all’indietro, come a dirle il “tutto bene?” che non mi usciva, bloccato da un muro invisibile tra denti e labbra insieme ad altre parole di conforto. Tornai a sedermi davanti al professore, recuperavo il senso dell’obiettivo che mi ero posto. C’era qualcosa da vedere lì.
-allora, ci siamo divertiti. Io almeno, e sotto sotto anche la Gertrude. Solo Lei pare un po’ turbato. Non si sarà mica dimenticato della sua seconda domanda? Io la aspetto.
-la ricordo. È nel garage che lo tiene, vero?- tagliai corto.
-tengo cosa, di grazia?-, fece con aria innocente. Aveva ancora voglia di giocare. Come i compaesani si adombravano repentinamente, mi sembrava che anche lui fosse andato incontro a un cambiamento radicale. Dall’iniziale stizza era passato alle continue malizie di un bulletto sicuro di sé.
-capirà che non mi riferisco alla foto incorniciata della sua prima comunione.
-è un vero peccato.
-deve essere un tipo nostalgico, Dottore.
-solo di questa poltrona. Pensi, che riesce a tenermi in questo buco di merda. La sua è comoda?
-è così pieno di risentimento che mi sembra un bambino.
-e Lei forse vuole che la conduca al più vicino specchio, così che possa indirizzare al reale destinatario questa sua psicologia spiccia che piace tanto a voi giovani occhialuti.
Parlò d’un fiato, ormai superbo come un leone. Ebbi il timore che fosse trapelato qualcosa del mio lieve giramento di testa, forse un vago ritorno di quel vecchio giallore di pelle che mi valse tanti nomignoli, anni fa.
-che maniere! Viene a farmi un’intervista e poi non è disposto a rispondere di sua volta alle domande di cortesia. È Lei, nonsocomesichiama, a esser pieno di risentimento. Non so se per sua mamma, sua nonna, la sua insulsa faccia o il suo lavoro che la tartassa -le vedo vibrare il suo pezzo di plastica cinese in tasca, a proposito, risponda con comodo. Risentimento a me, bambino a me! Si vergogni: mi è bastata questa sera per farmi odiare da Lei, per molestare le budella molli del suo fiacco sentimentalismo, lo stesso di tutti quanti. E sa cosa ho fatto per riuscirci? Niente! Assolutamente niente! Voi sciocchi non fate altro che servirvi da soli, apposta per farvi prendere in giro, tutti così suscettibili.
Accolsi il suggerimento, questa volta purtroppo per distrarmi da un reale disagio. Cosa stava succedendo? Mentii a me stesso dicendomi che al di là di ogni interpretazione su chi impugnasse il favore della situazione, controllare le notifiche in cerca di comunicazioni importanti dell’azienda era una cosa che andava fatta. Quello che D’Andrea mi rivolgeva dall’altra parte del tavolino era adesso il suo vero sorriso, uno spicchio di luna in mezzo a guance grottescamente arrossate, sotto stralci striminziti di occhietti perfidi. “È un colloquio difficile, ma mi parlerà di quella cosa”, tasto invio, due spunte; è facile mentire con la punta d’un polpastrello, doloroso sperare che la bugia si avveri quando la si sente come un dovere insindacabile, ed è fonte di una strana emicrania fare tutto questo al centro di vibrazioni d’ironia velenosa. Credevo che quegli occhi, quei pungiglioni sondassero in blocco la cover del mio cellulare, i miei occhiali, il bracciale blu del Meyer di Firenze, il riccio più lungo che mi calava sulla fronte: come se vedesse un collegamento tra tutte queste cose nella ridicolaggine e l’insulso (mi auguro ancora di essermi in quel momento sbagliato sulla suggestione di un tic nervoso a lato della mia bocca). Come stimolato da barbarica gioia alla prospettiva di “sconfiggermi”, fu in un baleno ispirato da un impeto tale da indurlo a uno sforzo muscolare notevole per la sua persona in profonda simbiosi con la poltrona: con lancio furbesco spedì veloce contro Gertrude, rimasta in piedi ad ansimare sulla porta aperta, la palletta di carta che aveva fatto prima, quella su cui aveva scritto (qui stavano i riflessi latenti a cui ho accennato). La povera vecchia sussultò, risvegliata di soprassalto dal proprio incubo luttuoso, e subito scattò in una moltitudine spontanea di gesti curiosamente ritmici, ben precisi, ritualizzati. Era ancora altrove, sebbene più calma, ma l’ennesima violenza del professore l’aveva costretta a passare in fretta verso un punto intermedio tra se stessa e il mondo, dove a tenerla a galla erano proprio quei perpetui rimescolii di braccia e dita, danze di piedi, imitazioni manuali e scongiuri mormorati. D’Andrea rise rumorosamente, colmo di soddisfazione.
-guardala, guardala! La tipica scaramanzia di San Peucezio, il massimo per i turisti!
Notai che mentre scemavano i movimenti più pittoreschi e lentamente si chinava a raccogliere e spiegare il foglietto, ancora battevano ritmicamente i piedi afoni sul parquet, teneri e innocenti sotto le venose caviglie visibili fuori dall’ultimo lembo del vestito. Leggendo, ancora formulava in silenzio la minuscola bocca. Andò in un’altra stanza, rituffandosi nel buio che più spesso abitava.
-non c’è rimedio alla superstizione che infonde questa gente semplice e bigotta: questo paese sorge su un colle abitato sin dal neolitico da popolazioni indigene pre-latine dedite a fuochi notturni in onore di spettri e combattimenti sacrificali. Roba del genere ha sempre pullulato come peste in tutte le ombre dei boschi di qua, e la gente ci ha sempre vissuto a contatto. Poi si sono inventati la fede cristiana e questa fama dell’operosità per farci un’ascia bipenne da usare contro l’ignoto, rinnegando di aver trangugiato secoli di melma negromantica. Qui fede e sveltezza di mani sono esattamente la stessa cosa, nient’altro che tarocchi irrazionali per schermarsi dall’irrazionale. Ed eccoti la triste Gertrude: pratica queste mosse cattoliche di periferia, con le mani appiccicose di sudore da fabbri e totale ignoranza di quanta eredità pagana, blasfema, si annidi in ogni gesto, suo e di tutte le care signore devote che impestano le case di rosari.
Gertrude ritornò con due bicchieri di limoncello, fecero un cozzo soffocato sul tavolino basso. D’Andrea, non certo per un moto d’educazione, aveva scritto sul foglietto che l’ospite (io, cioè) desiderava da bere, e quella non aveva fatto storie, eseguendo come scritto. Era un’altra sua dimostrazione, un altro proseguimento di quella fase della serata in cui s’era accorto di averci preso gusto. Come il breve excursus storico. L’indomani mattina, dopo una nottata inquieta in albergo, vidi scorrermi di là dai finestrini dell’autobus che scendeva dai boschi verso le paludi bonificate le immagini di guerrieri vestiti di cervo, indaffarati tra scie di sangue e teschi da spargere tra quei territori dove oggi sorgono le industrie, ciminiere torreggianti sul suolo acquitrinoso.
-ecco a che servono, la devozione e l’operosità- fece D’Andrea con un cenno del capo, odorando nel calice di limoncello -l’industriosa prontezza di San Peucezio che porta subito la bevanda in tavola. Gertrude, come Lei, mi detesta. Ma proprio come quell’odio la consuma, è incancrenita da tutti gli altri generi di fanatismi, che la costringono a ciò che non vorrebbe fare. Credulona, sentimentale: la Madonna e la mia stupida madre morta sono la stessa cosa nella sua testa. Perciò per quanto mi detesti non riuscirà mai a disobbedirmi. Posso scriverle quello che voglio anche su un pezzetto di carta, così, e per umiliante che possa essere non lo troverà mai insopportabile quanto il mancare di rispetto al figlio della sua povera santa matrona, quella che non esitò a chiederle di cambiarmi tutti i pannolini. Non obbedirmi è per lei come bestemmiare.
Ero stanco. Ma non volevo dargliela vinta, non fosse altro che per non dargli la soddisfazione di averci preso a considerarmi uno stupido e inutile a partire dal mio aspetto, dalla mia età, la mia professione, quelle cose visibili che quell’uomo di sconfinata superficialità usava come appigli per esercitare una prepotenza sfogata solo su una vecchia moribonda e indifesa, a quanto pare insufficiente. Per quanto sfuggisse era un sanpeuceziano: c’era il modo di far scattare in lui l’operosità e la devozione che prendeva in giro, così da ottenere per me che egli facesse qualcosa, si mettesse in moto per un mio obiettivo. Come Gertrude eseguiva un ordine, come una signora con la spesa in borsa gridava e fuggiva al nome “D’Andrea” (provai un breve spasmo d’odio per la gente del posto). La sua fede era se stesso, la sua devozione era l’orgoglio: su questo dovevo far leva, con le ultime forze rimaste.
-sta da tempo evitando la mia domanda- provai. Diedi un colpo di tosse e poi proseguii, nella voce i residui di un attacco di mal di gola represso -forse ha paura che dopo queste sue brillanti dimostrazioni, ciò che il suo genio ha progettato non possa invece rivelarsi all’altezza. Tante chiacchiere, insomma.
Non ero per niente convinto, ma era abbastanza stupido, a modo suo, da imporsi di non ignorare la provocazione.
-e che problema c’è?- fece fintamente concitato, imitando la comunicazione umana -la porto a vedere le mie invenzioni. Come ha detto, sono nel garage. Mi segua.
A un impropero del professore tornò Gertrude a portarmi la giacca. Mentre mi alzavo dalla poltrona il pendolo aveva cambiato vocali: clack, clack, all’infinito. Era patetico, quasi imperdonabile, essere arrivati a farsi condurre al garage dopo essersi persi in tanti discorsi inutili. Certo, ormai avrei avuto ciò che mi era stato ordinato di ottenere, ma contrariamente a quello che mi aspettavo e volevo, per il gusto di averci indovinato, mi sembrava non fosse stata la semplice vanità a indurgli le ultime parole, la concessione che mi serviva: piuttosto, un contentino che si può anche concedere a un fesso, dopo una serata in cui si è ormai nella sicurezza di aver raggiunto il massimo compiacimento possibile. Una sensazione amara come di rimpianto permaneva dentro me, spina in circolo.
-ah, senta. Ora che sta per andarsene, vorrà forse sapere come mi sono accorto che lei era qua fuori.- disse beffardo, mentre raccoglieva la voglia di lasciare la poltrona.
-non ha importanza.
-oh, invece sì.
Lo disse in modo strano. Per la prima volta da quando ero entrato sentivo di essermi infiltrato in una tana, tutta tunnel e terriccio freddo pieno di vermi. Avrei dovuto accorgermene subito: questo dicevano i rumori dell’orologio, la cappa, Gertrude, le tende chiuse senza finestra, la tv inutile. Tutto ribadiva il messaggio non detto dall’occupante seduto in fondo alla galleria principale: nessuno può entrare qui. Mi aveva fissato con espressione dura, abbandonati anche i sorrisi falsi o diabolici, e ci fu la netta impressione che con quello sguardo mi trascinasse verso un’impossibile zoomata sulla sua faccia, con atterraggio disastroso su pochi peletti atri in mezzo alle sopracciglia. Un brivido gelido e sudato mi agitò la colonna vertebrale.
-la sentivo respirare. Mentre era fermo, là fuori, che studiava la situazione. Come uno che crede di saper studiare, ma purtroppo respira anche Lei. Respirate, respirate tutti, in continuazione, siete di un fastidioso che fa perdere la pazienza anche al metallo. Respirate, con quelle narici, quei tubicini caldi nel vostro nasaccio sudicio… è disgustoso.
Forse era disgustoso davvero.
Ci eravamo lasciati alle spalle la sala a luce spenta, il mio limoncello intatto com’era stato portato da Gertrude nel bicchiere sopra il tavolino. Seguivo per pochi passi in un breve corridoio la figura di spalle di D’Andrea sguazzante nel buio, procedeva spedito come fluttuasse. Mi si attaccava alle spalle lo sguardo di Gertrude che ci seguiva dappresso, sentivo spiacevolmente che frugasse qualcosa alle mie calcagna senza neanche sbattere le palpebre. D’Andrea si scostò per farla passare con la chiave ben in vista, la mano cadaverica come reggesse una lanterna. Aperta la porta si liberò una ventata glaciale. Sembrava proibito deturpare le viscere dell’abitazione con l’illuminazione elettrica, e nel poco che era possibile distinguere nel buio, reso meno forte soltanto dagli stiracchiati rivoli di una luce rimasta accesa in una stanza lontana, riconobbi una sorta di anticamera verso l’esterno. Come pensavo, per accedere al garage si doveva passare per un quadrato di “giardinetto” murato, e prima ancora era necessario attraversare quei due metri stantii di sgabuzzino nel quale la seconda porta bucherellata infiltrava il gelo da fuori, rinchiudeva i turpiloqui furibondi dei venti in uno sbattere di cardini. Urtai con la testa una lampadina scoperta, appesa a un filo che pendeva dal soffitto. Doveva essere rotta da decenni. Una manata decisa del professore separò il legno marcio e umido della porta dal proprio contorno, consentendo all’aria notturna di investirci in pieno e sovrastare l’odore muffito di legni di scopa, quel vago sentore di topo. Mentre il professore procedeva fuori, ristetti come scosso dalla diversa natura del buio esterno, e nella lentezza del mio incedere fui bloccato da qualcosa. Mi voltai: dal fondo dell’anticamera, sporta scomodamente dalla soglia del corridoio, Gertrude mi aveva afferrato la giacca. I suoi occhi, sempre uguali, specificavano implorazione. Implorava me.
-ti prego, uccidilo.
-come?-, bisbigliai sbalordito.
-uccidilo, uccidilo, è l’unico modo. Ti prego!- piagnucolava disperata, la voce bassa e acuta come un lamento funebre. Era seria. Quella vecchia mortificata mi stava seriamente implorando di eliminare il Dottor D’Andrea. Confuso mi liberai dalla presa e le diedi le spalle, girandomi più volte in tic compulsivi di sgomento. Vide allontanarsi la sua “ultima speranza” nell’intermittenza del mio volto in movimento, ora basito ora inespressivo. E mettendo piede nel riquadro esterno, man mano che mi allontanavo, vidi la sua sagoma retrocedere nella nerezza del corridoio, riempiendosi dello stesso vuoto scuro. Così Gertrude scomparve per sempre dalla mia esistenza.
...
(fine seconda parte)

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