racconti delle cinque dita- "il Golem di San Peucezio Alta" (pt.1)
- Milky
- 14 apr 2020
- Tempo di lettura: 9 min
Aggiornamento: 21 apr 2020
IL GOLEM DI SAN PEUCEZIO ALTA
Quando finalmente giunsi all’indirizzo del Dottor D’Andrea, non potei fare a meno di sentire una certa soggezione. Tuttora non mi ritengo il tipo che si lascia suggestionare da maldicenze e leggende di paese (non sarebbe peraltro in linea con i comportamenti che l’azienda si aspetta da me), ma devo riconoscere mio malgrado che, non diversamente da quanto volevano anticiparmi le varie voci e indicazioni che avevano cercato di dissuadermi in quella giornata, si spargeva da quel posto un’aria lugubre. Certo, poteva benissimo trattarsi di un banale effetto della tarda sera in un paese caratteristico come San Peucezio Alta, dove le sporadiche crepe che si delineano sulle case più vecchie e gli strettissimi borghetti medievali danno adito alle più numerose vertigini di fantasia scaramantica. È normale, per chi è abituato a vedere palazzi e tangenziali, lasciarsi stregare dal fascino vecchio di un centro abitato che sta aggrappato a un colle e distribuisce le sue vie su altitudini diverse: chiesette antiche, i bar che sembrano moltiplicarsi a profusione durante le ore dei giorni soleggiati per poi scomparire prima del tramonto, gli scorci ariosi di panorama, quelle caratteristiche officine dove ancora schizzano sui metalli i bagliori e le scintille di mestieri obsoleti, qualche piccolo pollaio sul retro di una casa proprio affianco all’ufficio postale… tutto questo incontra la notte in una maniera troppo estranea alle sensazioni della metropoli perché non se ne resti in qualche modo colpiti, e allora ci si deve aspettare che sogni e impressioni ne vengano contagiate. Non che l’aria si faccia necessariamente priva del benché minimo rumore, ma rispetto al traffico e le luci di festa sembra qui che una certa razza di silenzio coli direttamente dai monti più alti attorno, frammisto a una densa oscurità dove sbocciano racconti sgraziati di vecchie centenarie. Gettando lo sguardo a ridosso del paesaggio circostante, passate le nove di sera, si sbatte da ogni direzione contro un vuoto nero nel quale ci si può soltanto immaginare il profilo delle montagne, dello stesso colore (si ha la sensazione che, non viste, ammoniscano austere con facce brontolone di pietra e boschi). Dunque, non c’entra niente il cedere alle superstizioni: sono molte le zone di questa località in cui qualcuno che conduce uno stile di vita urbano come il mio può ritrovare simili sensazioni, un po’ inquiete e un po’ intriganti. Ma a essere onesto non è la stessa cosa per la casa del Dottor D’Andrea. Qualcosa mi dice che se anche ci tornassi adesso, pur sapendo ormai cosa c’è lassù, mi ritroverei di nuovo con la stessa sensazione nello stare da solo, in piedi nella notte, davanti al cancelletto e al garage, in quella viuzza d’asfalto opaco, poche lucette dalle finestre vicine; lì e solo lì sembra che l’oscurità abbarbicante i contorni delle case sia di sostanza diversa, come un fiato viziato di fantasmi gelosi che gridino di stare lontani, di esser lasciati in pace. Oltre il piccolo garage, con la serranda insaccata negli strati di polvere che dava l’idea di esser rimasta chiusa per decenni, spuntavano le punte spoglie e nere dei rami di un alberello morto, fitti e acuminati come una capigliatura irsuta. Mi dissi che doveva ostruire col tronco l’altra entrata, aveva qualcosa di parassitico nel poco che lasciava vedere da fuori, come se le sue spoglie recassero ancora le tracce di un’insolenza che lo aveva caratterizzato in vita. Alla destra del garage stava il basso cancello oltre il quale un modestissimo cortiletto conduceva alla porta stretta e scura. Ce n’erano molte di case così, anche di più rovinate, eppure…
Insomma, non riesco a venirne a capo: i pettegolezzi potrebbero aver influenzato l’impressione anziché no, o viceversa trattandosi di un’aura che tutti sentono, si sono generate a partire da ciò quelle chiacchiere sinistre. Forse non ha importanza ed è meglio lasciare il dubbio lì, sta di fatto che da quando cominciai a chiedere delucidazioni alla gente del posto sul domicilio di D’Andrea ottenni sempre come prima reazione un’ombra in volto a chi interpellavo, sempre la stessa, calava tutta d’un tratto quasi capovolgendo l’atteggiamento per pochi secondi. Nell’assistere ripetutamente a questa metamorfosi, sentivo che cominciava a distillarmi dentro un piccolo timore come una bile fremente. Sono un popolo tendenzialmente affabile, i sanpeuceziani, per giunta caratterizzati da una certa spavalderia tutta loro -a volte quasi altezzosa- per le cose che si trovano là, dalla carne cotta che si assapora meglio in questa o quella osteria, alla fama diffusa di industriosità e destrezza nelle sapienze manuali ( la stessa poi per la quale sono stato mandato a fare un rendiconto proprio qui, in mezzo a tanta provincia). Basta accennare a questi argomenti e parlano con espressività viva e accentuata. Perciò il cambiamento appariva ancora più stupefacente, a maggior ragione quando dopo un po’ finivo col parlar loro del mio lavoro e quelli quasi storcevano il naso. Non riuscivo a capire se fosse stato sufficiente menzionare D’Andrea, evidentemente uno antipatico a tutti, per indurre il cattivo umore e in seguito debellare ogni volontà di continuare a conversare con me; oppure per qualche motivo a quella gente industriosa non andava a genio il mio lavoro che dell’industriosità fa un interesse primario.
-svolgo delle indagini di mercato per un’importante azienda che opera in molti campi della tecnologia. Il mio compito è quello di intervistare e stilare statistiche sull’utilizzo e le preferenze per quanto riguarda apparecchiature, elettrodomestici e così via.
-aah, aaahhh…-, facevano quasi tutti con diffidenza alzando il collo più volte, una risposta piuttosto omogenea che doveva appartenere al vernacolo locale. Si distoglievano dal confronto, ancheggiavano un po’ più di lato come a voler comunicare che il colloquio era da considerarsi fisicamente concluso. Mi feci anche l’idea che potesse trattarsi di invidia nei confronti di D’Andrea, poiché chiedevo subito di lui, com’è anche giusto che fosse: se tra tutte le zone limitrofe alla metropoli che mi era capitato di visitare mi si chiedeva per la prima volta di alzarmi di quota, probabilmente non aveva contribuito solo una fama antica del paese, un fattarello limitato al pittoresco e al folkloristico, ma anche il fatto di sapere che lì viveva un sapiente che si era distinto a tal punto da far arrivare il suo nome (e poco altro) all’orecchio dei miei colleghi. Mi fecero arrivare in ufficio un opuscoletto, come una vecchia guida sulle cittadine dei colli, in cui trovai tutta una serie di informazioni che arricchivano gli accenni sparsi in rete. Se Wikipedia si limitava alla menzione di una consuetudine medievale, da parte dei signori più ricchi del contado sottostante di approvvigionarsi di armi e attrezzi prodotti a San Peucezio Alta, la guida invece si dilungava sul modo in cui i rapporti feudali avevano plasmato e influenzato il territorio; da un elenco di poche imprese lì stanziate si passava a un paragrafo di società e demografia in cui si diceva che quella fama ha tramandato qualcosa alla modernità attraverso i festival o, per esempio, nella notevole percentuale di iscritti a facoltà come ingegneria meccanica tra i pur pochi studenti pendolari che vivono lì, prendono l’autobus e scendono alla più vicina stazione in pianura. Certo caratteristiche che farebbero pensare all’idoneità di una nostra indagine, ma non molto supportata dal numero di abitanti e la loro età media. Ma c’era dell’altro, chiaramente.
“Cerca di capire dalle parole di questa gente operosa se si conosce e si fa uso delle più recenti innovazioni, se sono bendisposti nei confronti dei nuovi media e le tecnologie avanzate. Ma c’è una cosa più importante: se ci vai, devi assolutamente intervistare D’Andrea. Tra tutti quanti, è praticamente un’eminenza, stando a ciò che si dice. Nonostante non si trovi il suo domicilio, è certamente notissimo e ti sapranno indirizzare o dire se non vive più lì. In tal caso, se non si è trasferito lontano, dovremmo considerare l’ipotesi di raggiungerlo nel corso di una successiva indagine.”
Inutile dire che ero incuriosito, se non altro per l’inesistenza di un indirizzo unita a una notorietà tale da giustificare tutta una ricerca. Doveva essere comparsa nella mia mente un’idea ingenua, come d’un misterioso alchimista e scienziato che viva recluso dopo essersi fatto conoscere per l’oscura audacia delle sue sperimentazioni. Immagino che si riproponesse a livello inconscio anche nel constatare come tutti diffidavano di quel nome. “Lascia perdere”, avrebbero voluto dirmi i più cortesi, “stai lontano da quella casa e dall’uomo che ci sta dentro”; ma la disposizione a consigliarmi in questo modo, genuino per quanto pettegolo, lasciava posto a un unilaterale “fuori dai piedi” non appena parlavo della mia occupazione. Il massimo che ottenni fu, appunto, il civico 1 di via Uffizi con qualche indicazione per arrivarci, dalla voce arrochita di un tale che non voleva saperne più niente e si era allontanato di fretta come a manifestarmi che era tanto peggio per me. Ce l’hanno con lui perché è più bravo di loro? Ce l’hanno con me perché l’industria di cui mi occupo io è forse eccessiva, lontana dai loro principi? Ero in ogni caso amareggiato da quanto grette si fossero rivelate delle persone inizialmente cordiali, quanto poco si mostrassero aperte verso quella che era l’evoluzione naturale di ciò che vantavano di aver perseguito nella loro storia. Confidavo in cuor mio nella speranza che l’incontro col Dottor D’Andrea smentisse quei pareri in quanto mere animosità di paesani superstiziosi, ma ammetto che riuscirci era difficile a causa di quell’aria cupa che il ricordo della sua persona diffondeva in un istante, così tetra, così convincente nell’instillarmi uno sfortunato presagio come se fossi stato il primo a sentirlo intensamente nel mio profondo.
Quando ne ebbi conferma, se di conferma si può parlare, il pomeriggio era ormai trascorso nell’inconcludenza e l’inutilità di provare a rivolgere domande. Era stata in fondo una piacevole passeggiata tra caseggiati sobri, tutto dello stesso colore grigio del cielo, a tratti accompagnata dalla musica di Brian Eno che scorreva dalle cuffie alle insenature dei miei padiglioni come un visitatore abituale che conosca la strada. Quando mi incamminai dalla parte alta del paese per scendere lungo il viale che mi avrebbe portato a Via Uffizi, i riflessi del tramonto avevano cominciato a scemare, inghiottiti dal primo blu che precludeva alla notte. Quando invece mi fermai davanti al cancello era già buio pesto negli angoli discosti dalle case. Certamente allora le presenze funeste uscivano circospette, quasi impercettibili ma presenti, si irradiavano dalle pareti della vecchia casa. Era curioso, un domicilio perduto, rintracciabile solo al costo di aver chiesto a molte persone prima di ottenere la minima informazione necessaria d’un nome e numero, un chiedere che equivaleva quasi al farsi dei nemici. Via Uffizi, uno. Sul dossier non ce n’era menzione alcuna. Non avevo ancora letto il resto, l’avrei consultato una volta faccia a faccia con D’Andrea, come a fare un raffronto tra l’uomo fisico e l’ombra cartacea della sua vita condensata in caratteristiche e gesta sparute. Si sentì l’abbaiare lontano di un cane di grossa taglia, io ero rimasto per diversi minuti fermo davanti alla casa. Non si trattava solo dell’atmosfera un po’ spaventosa, non sapevo come approcciarmi. Davvero qualcuno che viveva lì avrebbe aperto la porta al suono d’un campanello? Doveva esserci un modo non convenzionale per richiamare l’attenzione. Non che lì dentro dovesse esserci per forza una sorta di genio pazzoide fuori dagli schemi, ma almeno, che so, uno che assomigli a un vampiro. Riflettevo, mentre cercava di incoraggiarmi l’intermittente scrosciare di applausi e risate di un varietà della Rai, acceso davanti una coppia di morigerati anziani nel palazzetto di fronte e tenuto a un volume tale da sentirsi per strada, forse per vincere una lieve sordità poveretta. Mi faceva pensare che si trovavano più vicini di tutti a quello che pareva un personaggio assai controverso, chissà se ne parlavano ad altri, se riferivano con fare malizioso di quando usciva a buttare la spazzatura (se mai faceva qualcosa del genere), o se magari la sua vicinanza contaminasse anche la loro reputazione. Fabbricavo con facilità simili pensieri che erano cuscinetti per il mio temporeggiare, fintantoché le emanazioni spettrali lì concentrate ancora non mi avevano trasmesso l’impulso di darmi alla fuga. Forse questa è una via che rimane un po’ buia, poco soleggiata anche durante le ore diurne? Ondeggiavo anzi sul posto, tra una fantasticheria e una possibile soluzione, che irruppe poi spontaneamente a sconquassarmi con la consapevolezza che forse da solo non mi sarei deciso. Sembrava quasi un latrato, un urlo rabbioso da dentro la casa, proprio quella. L’impeto mi colpì, inaspettato per il contegno severo della modesta abitazione, inevitabilmente mi trovai a impallidire e mandar giù un grosso grumo di saliva spumosa di agitazione. Nel mezzo del ringhio si erano frapposte delle parole che non ero certo di aver inteso, ma mi sembrava di aver distinto un “basta”, forse un “ora basta!” dal colore del rosso in faccia. Quasi inciampai all’indietro quando vidi aprirsi la porta in fondo al vialetto e comparire sulla soglia la sagoma scura di una donna. Ancora più destabilizzante mi apparve il fatto che la sua forma si stagliasse in contrappunto a un cerchio di luce che proveniva da dietro, dall’interno della casa in cui dunque qualche luce doveva essere accesa. Fu allora che mi accorsi di una peculiarità alla quale, inspiegabilmente, non avevo ancora fatto caso: non c’erano finestre. Non è che mostrassero stanze a luci spente, come dovevo aver registrato spontaneamente e lasciato correre senza altre domande, è che non c’erano proprio. Era immancabile che sembrasse tutto più buio, si spiegava quell’oppressione nell’aria che prima di quel particolare trovava soltanto giustificazioni non tangibili. Titubante mi avvicinai al cancello, come attento per via di uno strano istinto a non sembrare troppo deciso.
-Ehm, salve, è qui che vive il Dottor D’Andrea?
-entri, per l’amor del cielo!
-…come?-, dissi con deciso stupore. Mi sembrava di distinguere in mezzo al buio un bianco disperato negli occhi inarcati in su della donna, ne percepivo dalla distanza i contorni luttuosi e affaticati.
-entri, entri, e se non entra vada via, via!!-, implorava contritamente, per non sovrastare le lamentele stizzite che dalle sue spalle si gettavano ora in strada. Forse non voleva farsi sentire dall’uomo arrabbiato, certamente il Dottor D’Andrea, ma con chiarezza giungevano a me le note lamentose della sua voce di squittio, nitidi i sentimenti mortificati che le ammuffivano chiusi in gola. Come ridestato o spronato, diedi un piccolo scatto inconsapevole verso la casa, quasi mi premesse di mettere a tacere quello sbraitare prima che qualcuno si potesse affacciare dalla strada, prima che i due coniugi da dietro il balcone lassù trovassero in me un sostituto al programma serale. La donna agitava il braccio frettolosa, un po’ discosta per farmi entrare, e nella fretta non feci caso al fatto che il cancello non era chiuso a chiave e l’avevo spalancato con spontaneità per entrare nel vialetto al più presto, lasciandomi dietro un cigolio raggelante.
...
(fine prima parte)

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