racconti delle cinque dita- "Crepitio" (pt.2)
- Milky
- 14 apr 2020
- Tempo di lettura: 22 min
Aggiornamento: 24 apr 2020
A quell’ora, nel sottobosco ai margini di radure e spiazzi, si muovevano come fantasmi gli esseri più piccoli e sfuggenti, maestri della notte di sensi acutissimi. Con piccoli e rapidi balzi scampavano alla picchiata silenziosa di abitanti del cielo, poi correvano verso buchi nella terra e restavano nascosti fino al tramonto successivo. Chissà se si incontravano tutte in uno stesso luogo, le prede mancate. Complottavano magari alle spalle dei cacciatori che hanno fallito, per dargli il tormento, farli pensare. La cacciatrice davanti al falò agguantò l’aria, dando come una zampata per afferrare il vuoto. Riguardandosi il pugno chiuso, ben saldo a stringere il nulla, faceva una strana smorfia amara che implicava una certa rassegnazione: qualunque cosa fosse quella che l’osservazione delle mani le portava alla mente, era così e basta, poco da fare. Gli altri, lasciati come in sospeso dal finale di una storia che non aveva spiegato loro niente, osservavano incuriositi quei suoi gesti, vogliosi di altri strani racconti. Bastava mostrarsi in questo modo, per far sì che essi saltassero fuori o gli venissero incontro, in quella notte strana dove strani timori emergevano per la prima volta dopo innumerevoli imprese.
-vengo da una famiglia che si è sempre dilettata di arti magiche. Io stessa conosco qualche trucchetto, che preferisco non usare secondo alcuni miei principi. I miei genitori non sono, non erano propriamente dei maghi, ma sin da piccola sono stata a contatto con persone di quell’ambiente. È per gli artefatti misteriosi che provenivano dai boschi, la scienza di funghi e pozioni, lo studio delle forze sconfinate della natura che osservavo quotidianamente nel mondo attorno a me, che stabilii la forma della mia vita. Dall’unione tra le mie origini e ciò verso cui mi stavo dirigendo, come la bambina che con zaini e amuleti attraversa il bosco sconosciuto per arrivare dalla nonna, ottenni questi.
Le mani diedero in un guizzo fulmineo che squarciò il presente, e nell’istante successivo erano apparsi enormi artigli alla sommità delle dita. Sfoderandosi avevano prodotto una contrazione nel volto plumbeo dei cacciatori, un’espressione nella quale quasi prendeva forma una sorta di stupore effimero. I volti erano poi tornati a spegnersi, dando giusto il tempo alle sinapsi di far arrivare quella domestichezza con le brutalità del mondo, forgiata dalla pratica, che subito li abituava a ogni novità. Era un meccanismo evolutivo che li rendeva una razza a sé. Un essere nelle cui vene scorre soltanto sangue umano che sfoggia artigli del genere, una cosa mai vista -ma è sufficiente un attimo, ed essi sono registrati soltanto come uno dei moltissimi strumenti per uccidere che il mondo sembra produrre all’infinito, c’è un meccanismo per il quale ci si deve aspettare di incontrarne uno nuovo ogni giorno, niente per cui fare baccano. Lei li ritirava ed estendeva, dentro e fuori a ripetizione, come giochicchiando annoiata con una banalissima parte del corpo che ispira movimenti compulsivi. Curvi e lunghi, lisci e regolari senza alcuna scanalatura, brillavano di magenta scuro come bulbi di fiori o insetti che suggeriscono di stare alla larga. L’armatura, fatta di spuntoni e scaglie lucenti, non era meno minacciosa. Doveva essere pelle sotto la quale un tempo ribolliva in rivoli un sangue incandescente, o che magari luccicava riflettendo i raggi cadenti dalla superficie agli abissi di un lago.
-sono velenosi. Qualsiasi cosa feriscano, ne rendono il sangue infetto. Se dovessi berlo io, invece, il veleno rovente da me prodotto diverrebbe comune acqua. Posso cacciare soltanto per me stessa, nutrirmi da sola acquattata sugli alberi.
Piegò la bocca contenuta tra due delicate rughe che addolcivano il profilo duro della mascella, scavavano una certa maestria nella pelle olivastra. Ogni piccolo movimento dei muscoli facciali le scuoteva la coda fulva ben stretta a torreggiare sulla nuca.
-esiste un altro modo di consumare la caccia?- intervenne per la prima volta il piccolo cacciatore stralunato, avvolto nel suo mantello come per proteggersi. Parlava con lo sguardo che cercava la luna invisibile, senza rivolgersi a nessuno. Attendeva risposte di oracoli o presagi nel cielo.
-o anche di viverla- aggiunse, -per me è tutto così. Lo dico perché, da dove vengo io, nessuno può e vuole credere a ciò che racconto delle mie imprese. Nemmeno se avessi portato la pelliccia di… quell’animale, per essere vista e toccata da tutti, avrebbero creduto che fosse appartenuta a un essere di questo mondo. Tanto meno che fossi stato io ad avvistarlo e ucciderlo, cosa che comunque non avevo intenzione di fare.
-che ti importa?- disse il cacciatore dai capelli bianchi -soltanto il cacciatore che va per il bosco all’angolo della strada conosce l’acclamazione degli altri. Ho capito che a volerci avventurare su queste montagne dovevamo aspettarci tutto questo. Quassù non si respira vergogna, eppure finalmente l’abbiamo conosciuta anche noi: vergogna deve toccarci per ogni lamento, anche involontario, che mandiamo sulla nostra condizione. Vergogna per ogni rimpianto, noi che rimpianti non dovremmo portare nella nostra sacca; già c’è poco spazio per le trappole e per le provviste, per gli strumenti che in tutta una vita ci hanno sempre cavato fuori dai guai, giacché siamo qui a parlare.
Per quel cacciatore il fuoco acceso non aveva più misteri. Guardandolo non vedeva altro che l’interno di lastre d’arancio, spesso come un muro impenetrabile. La forma nera si manifestava ora agli occhi della cacciatrice in armatura e del cacciatore in mantello. Conoscevano il tremore, tutto privato e inavvertibile per gli altri, dato dall’incontro prolungato e intenso con una cosa miserabile che ha pure l’arroganza di avere qualche vaga caratteristica di uno specchio.
-hai ucciso i tuoi genitori, vero?- la cacciatrice si schermò istintivamente dal calore. La domanda le era stata rivolta dal cacciatore grande e grosso, di nuovo intento a masticare. -con quei tuoi artigli velenosi.
-no- rispose un po’ colta alla sprovvista, ma senza l’ombra di un’offesa. Gli altri lo osservavano, lui che aveva dato voce alla stessa intuizione che avevano trattenuto. -o forse sì. Per quanto ne so potrebbero essere in salute, a condurre una vita felice nella nostra vecchia casa. Una villa luminosa, tutta avvolta da rampicanti, sembrava vivere essa stessa, un germoglio appena sbocciato che ancora odora di terriccio freschissimo di nutrimento umido. In mezzo alla campagna rigogliosa ai margini di una collina, era come vivere in un sogno. Potrebbe essere ancora così per i miei fratelli rimasti là, ad affiancare mio padre e mia madre nei loro anni tutti uguali, fatti di faccende quotidiane intervallate dai loro passatempi magici, qualche festa, qualche occasione speciale. Tutto questo per me è ormai morto, e sì, sono stata io a ucciderlo. Questi- e li sfoderò ancora, più rumorosamente di prima -mi hanno garantito innumerevoli successi nella mia, nella nostra attività, chiaramente a un prezzo. Una maledizione, per l’esattezza. Tra i castagni fitti di quella collina, viveva nella sua dimora di legno incantato una strega vecchia di molti secoli. Ovviamente ci conoscevamo, e molte volte crescendo avevamo sentito dire di poter contare su di lei, ma di far attenzione e attendere di aver ottenuto una certa esperienza con le questioni magiche. L’eventuale patto magico, da stipulare proprio con lei una volta raggiunta la maggiore età, era uno scenario immaginato più volte tra le mura delle nostre camerette, una di quelle promesse sul futuro che, ne sono certa, esistono in ogni famiglia, anche se non ne ho più conosciuta un’altra. Stavamo anche ore, prima di addormentarci, a parlare dei sogni più eccitanti, di quello che saremmo potuti diventare. Un fratellino si immaginava a chiedere la capacità di trasformarsi in un drago ogni volta che lo desiderasse, che sciocco, non fantasticava d’altro che draghi; una sorellina di potersi immergere nei laghi più profondi per quanto lo volesse, i maggiori di ricevere un talento ineguagliato per le arti alchemiche… i sogni di cui parlavo io li ho dimenticati, e quando un giorno arrivò l’istinto della cattura, dell’ottenimento di una cosa per sé, della conoscenza e lo scontro con un'altra forma di vita, non ci fu più spazio per altro. Bastò acciuffare un ramarro durante uno dei nostri giochi primaverili tra i prati, piccolissima, perché anni dopo, ai primi sanguinamenti, mi precipitassi dalla strega a chiederle l’arma infallibile. Non conoscevo nulla ma avevo fretta, una fretta che non mi riuscivo a spiegare.
-in ogni caso- disse il cacciatore robusto -se è alla famiglia che hai rinunciato, è perfettamente comprensibile per uno della nostra professione. Come ha detto lui, c’è un accoglienza diversa per chi va a caccia in questi posti. Prima o poi famiglia, amici, finiscono per sparire da soli.
-questo pensavo, quando la strega mi ha detto che la maledizione mi avrebbe per sempre impedito di avvicinarmi alla casa dove sono nata e a quelli che la abitavano, neanche li avessi incontrati dall’altra parte del mondo. Una forza incontenibile ci spinge verso direzioni opposte, oppure risultiamo inesistenti per i sensi dell’altro. Non possiamo avere conferme della reciproca esistenza. Questo il prezzo, per dar forma alla mia personale difesa, che nemmeno io conoscevo. Lei la vide proiettata nell’infuso ribollente dentro al calderone, che aveva infine interrogato dopo le mie molte insistenze. Comprese qual era la natura dell’arma che custodivo in me, e lesse quello che comportava così come lo vedeva vorticare e rimescersi simile a magma nascosto sotto la roccia. Aveva provato a dissuadermi in precedenza, ma arrivati a quel punto del rituale non c’era parola che potesse arrestare ciò che avevo desiderato. Mi ero fatta dura ai rimproveri, respingevo le urla che dopo inutili discussioni l’avevo costretta a rivolgermi, non mi smuovevo davanti a nulla. I suoi occhi erano capaci di sguardi stregati in cui sembrava concentrarsi l’essenza di ogni sortilegio che avevano testimoniato, incanti simili a spiriti fumosi che venivano risucchiati verso il centro delle pupille; nelle rughe, tutte le ragnatele annebbianti soffitte in rovina, tutte quelle che si possono trovare in secoli di vita. Sopportai anche questo. Sopportai perfino l’affetto che sentivo nelle zone più disperate del suo parlare, quello che proveniva da legami risalenti ai miei più lontani antenati giunti alla collina, e dalla consapevolezza di essere sul punto di reciderne uno in maniera definitiva. E anche lei dovette cedere, cedere al suo codice d’onore per il quale i maghi non si tirano indietro neanche dalle più pericolose richieste, cedere alla legge magica che impone l’irreversibilità dei flussi di energia che uniscono le persone. Ero orgogliosa e soddisfatta, nella presunzione di contenere la maturità necessaria a inserirmi di mia volontà all’interno di meccanismi dal funzionamento analogo.
-non sei convinta della tua scelta?
-lo sono. L’unica mia vita possibile è quella che sto vivendo. Una vita che richiede di allontanarsi. Ma…
L’essere nero, uscendo dal fuoco, si voltò verso di lei, per quanto gli fosse possibile senza una testa separata dal corpo. Si agitò, e sulla sua schiena ondeggiarono creste che si abbassavano e alzavano a intermittenza, come un’onda propagantesi su pece nera. Durò un respiro, poi si arrestò. Era di nuovo la figura senza distinzione alcuna, ma aveva dimostrato di poter contenere una moltitudine.
-allontanarsi non è per forza abbandonare. In me si aprì uno spazio destinato all’incompiutezza. Non è della mia scelta che non sono convinta, no. Semmai della vita, in generale.
La creatura soffiò, un boato assordante come se ne fossero cento a gridare, improvvisamente rese sensibili all’arsura del fuoco. Ma era un pianto vittorioso, soddisfatto, l’essere aveva ottenuto quello per cui era venuto. La cacciatrice si sentì perforare i timpani, sentì ballare nel cervello una goccia melmosa di quell’essere riuscita ad annidarsi fin là. Poi quello scoppiò come una bolla. Non era ancora scomparsa soltanto per gli occhi del cacciatore con il mantello. Seduto su un tronco tra la fiera cacciatrice, alla sua sinistra, alla destra il cacciatore dai capelli bianchi che sedeva un po’ in disparte per potersi sporgere a manovrare il falò, l’ometto con la testa all’insù si era trovato nel punto più caldo del cerchio. Come se nelle figure ai suoi lati avesse ritrovato un legame da tempo reciso, prendeva senza chiederlo e senza accorgersene anche il calore dei loro corpi. Eventuali folate di vento raggiungevano prima loro di lui, due cinte murarie dotate di artigli per difenderlo o capaci di soggiogare una chimera. Sul lato opposto rispetto al cacciatore dai capelli bianchi incombeva forte la presenza massiccia dell’ultimo arrivato, nonostante fosse ancora più in disparte. La sua era una distanza soltanto fisica, mentre soprattutto il roteare degli occhi, fattosi più vivo col procedere dei discorsi, suggeriva una centralità molto sentita all’interno di quel momento, più degli altri poteva percepire che ci fosse qualcosa di speciale nell’aria. Aveva preso a rivolgersi più spesso proprio verso quel cacciatorino sognante, il più riparato dal freddo. La sua impressione di bassezza era data da gambe tozze che cercava di celare con stivali dal colore di fango lacustre. Il mantello verde scuro che lo avvolgeva tutto evocava un certo profumo di pini secolari, il berretto anch’esso verde si accartocciava come pelle flaccida in eccesso sulla cima dei neri capelli gonfi e lunghetti. Il volto privo di barba mostrava una pelle sulla quale le più lievi irritazioni lasciavano solchi rossastri più permanenti del normale, le sfumature dello sguardo vacante facevano pensare al personaggio di un quadro pieno di allegorie. Il cacciatore robusto piegò le labbra dopo aver esaminato ciascun particolare per quanto possibile dalla sua postazione, come sorridesse in approvazione. “Ora guardalo tu, il fuoco”, voleva dirgli. Non aveva mai visto la creatura scura, ma senza sforzo poteva vedere propagarsi come aria mossa le inquietudini altrui. Qualcosa svolazzò rumorosamente al di sopra dell’aria nera, richiamando una fugace attenzione da parte dei volti stanchi. Tornarono al suolo dove il fuoco scoppiettava, o a fantasie confusionarie dove le storie degli altri si mescolavano inquietantemente alle proprie esperienze più insondabili.
-qual è l’animale che hai inseguito tu?-, chiese il massiccio cacciatore a quello in mantello, creando un ponte tra il più solido e il più fumoso. Sapeva che quello non avrebbe raccontato ciò che lo spingeva a scrutare il vuoto, se non gli fosse stato chiesto. Dove uno aveva raccontato della chimera, era aleggiato un paesaggio fantasma dominato ancora dalla preda di un tempo che faceva oscillare il terreno, caricando minaccioso e incorporeo; dove le parole dell’altra avevano disegnato una famiglia, una casa, equilibri fragili, si era sovrapposto un buco in cui vorticavano un susseguirsi di anni solitari, tempo immobile dove nulla si è mai rotto e poco si è generato. Sentendosi domandare, un barrito aveva rimbombato nei recessi di un orecchio, risvegliandolo, chiamandolo per essere riscoperto, mai dimenticato.
-forse lo sto ancora inseguendo, in ogni altro animale che incontro lo cerco. Un enorme mammut che viaggia da solo, fulminante con la sua pelliccia mai vista. Mi sembra violacea, come il contorno distante delle montagne quando l’aria densa rende più irraggiungibili le cose. Il tempo si mescola da quando è comparso. Soltanto il primo avvistamento rimane come tale, un punto fermo nella mia storia. Tutto il resto può essere accaduto prima, dopo, entrambi, contemporaneamente, in continuo scambio. Dietro una fila di sequoie infinite, che sembravano attaccate al cielo, la sua sagoma sembrava prender vita dall’orizzonte, come ne fosse l’incarnazione. Se la cosa più lontana, più irraggiungibile ma ancora visibile, quasi per farsi desiderare, può mai avere una forma e un corpo fatto di carne viva, quel corpo è proprio quello.
L’essere nero fluttuava sopra la punta del fuoco, sollevandosi lentamente sempre più in alto. Il cacciatore in mantello lo guardava sporadicamente, inquieto come gli altri che l’avevano conosciuto, eppure schermato dalla sua stessa inquietudine. Non passava molto tempo perché si distaccasse dopo aver iniziato a guardarlo, ma non si trattava di una deferenza causata dalla paura. Era come immune alle piene implicazioni di quella innaturale presenza, troppo perso nel calore protetto tra due corpi capitati ai suoi lati, per accettare fino in fondo nella sua percezione un’anomalia fluttuante.
-dunque, l’orizzonte ha le zanne.-, rise virilmente il cacciatore robusto, come se l’idea gli piacesse.
-zanne poderose e incurvate, sì. E zampe come tronchi millenari congelati nei tempi del freddo, un muso lungo che modifica le montagne, ridisegna le nascite degli alberi. Ecco cosa c’è, nella lontananza più assoluta.
Il cacciatore in mantello parlava come incantato dalle sue stesse parole, bulbi pieni di un fluido zuccherino che egli metteva al mondo per schiudere e succhiare. La sua ragione di vita era una caccia pericolante al di sopra di un temibile vuoto, la decantava come in preghiera dentro un mondo di cui era rimasto l’unico abitante, anche l’unico santo e dio. Gli altri invece non pregavano. Dalle pianure gli umani potevano ritenere le montagne dei ponti verso l’alto dei cieli, ma standoci sopra, sempre immersi nei loro equilibri, partecipi di loro violenza e rinascite, si arrivava a considerare la preghiera e la venerazione del cielo un atto egocentrico. L’unico egocentrismo ammesso in natura è l’istinto di sopravvivenza, e chi ne è depositario più grande merita un rispetto maggiore di quello tributato tra gli uomini a un alto sacerdote, qualcuno che si fa interprete dell’assoluto. Basta vedere come gli abeti più robusti, i capobranco sopravvissuti a infinite battaglie non preghino, per comprendere che si tratta di un gesto non appartenente a quella dimensione. Se fossero esistiti disprezzo o disgusto nel cuore del cacciatore dai capelli bianchi, questi avrebbero disposto le rughe dal collo alla fronte in un disegno di esplicito scetticismo. La cacciatrice si toccava l’armatura, ora carezzandola ora sfiorandola con la punta di un singolo artiglio sfoderato come per metterlo alla prova. Trovava quasi piacevole ascoltare quelle parole, così simili a fiabe raccontate davanti a un camino, ascoltate da sotto delle lenzuola in una stanza piena di letti e ciabatte, in quel tempo di intimità e vulnerabilità che nel corso di una sola notte si era vista richiamare più volte. Bastava forse imbattersi casualmente nei propri simili, perché si schiudesse un vissuto fatto di pezzi in gran parte sepolti? Non era invece un atto involontario e continuo come il pompare del sangue, non raccontava se stessa in faccia al mondo ogni volta che i suoi artigli affondavano in un’altra superficie, di carne o di roccia?
-cacciare in questo modo è rischioso.- commentò il cacciatore dai capelli bianchi, malcelando una vecchiaia in agguato. -a stare sulle tracce dell’orizzonte, un obiettivo che sta sempre lontano, si lascia perdere tutto ciò che sta tra il cercatore e il punto in cui vede ergersi quella preda. Il rischio è quello di non catturare mai nulla, e non catturare mai nulla equivale a non essere un cacciatore. Una ragione di vita nata da un fatidico spartiacque nel tempo che finisce col cancellare il nome che si è data.
A sentirlo parlare così, veniva da chiedersi se da qualche parte, tra guglie sporche di polvere e impenetrabili fortezze erette dalla terra, arrancasse una chimera le cui code e criniera cominciassero a incanutire, il cui passo non racchiudesse più la potenziale distruzione di mille mondi. L’essere scuro cominciava a calare lentamente, un letargico ritorno dentro al fuoco.
-parleresti diversamente, tutti voi lo fareste, se aveste visto con i vostri occhi l’incanto in atto. -rispose il cacciatorino -Avvistarlo dopo mesi di ricerca forsennata, anche solo sentire di esser stati di nuovo alla sua presenza, motiva a continuare e continuare sempre in questo modo. Si decide che vale la pena anche rischiare il precipizio, nell’affrontare una camminata lungo un pendio scosceso, se è da lì che lo si può osservare mentre riposa su un altopiano dall’altra parte di un burrone. Ho rischiato di finire schiacciato da macigni in pioggia, come se la corsa della bestia facesse vacillare anche il cielo. Su un piano erboso in prossimità di una vetta, dove non mi era più possibile salire, non vedevo più nessun orizzonte; e lui era là, più vicino che mai. Non potei muovermi, in nessun modo tentare la cattura. Sa quando viene osservato e scappa, più forte che mai. Tuoni continui percuotono l’esistente, immobilizzano. Soltanto per caso venni risparmiato da zampe inesorabili che dettano una corsa cieca, investe tutto ciò che non eguaglia le sue dimensioni. Persi i sensi e quando mi svegliai ero scivolato molto più in basso, a causa della ripidità dell’ambiente. Tutto intorno solo scie di terra ribaltata, massi fracassati, e un silenzio come prima del mondo, prima del caos, o forse dopo tutto. Il sole scrosciava raggi pieni, dorati, assaltavano i miei occhi riposati. La distruzione si era mutata in un pomeriggio simile a un miele sgorgato da una scorza sconosciuta, sangue di un frutto vivo presente solo nel giardino più esotico. E una sensazione annebbiante, di una foschia carezzevole frapposta tra l’occhio e le cose, aleggiava come polline. È possibile che da un mammut si stacchi una polvere onirica, che venendo inspirata infesta vene e polmoni di desideri reconditi.
Pensò alla sensazione di attraversare un campo fiorito in primavera, quando a ogni passo polvere brillante si sbriciola da ali di farfalle intente al nettare. Funzionava così tra le cose piccole, un mondo microscopico in cui le regole della sopravvivenza sono altrettanto rigide. Occorreva cospargersi di sostanze per potersi addentrare in determinati luoghi, per comunicare, far defluire dai propri lembi gli odori che hanno significati precisi. Si accoppiano così esseri con ali di foglia che al tatto reciproco dei corpi avvertono strati di pollini morbidi o pungenti, così rivestiti penetrano tutti interi tra pistilli succosi, affondano una bocca sinuosa nel cuore unto del fiore, non dissimile dal muso del mammut. Nella mente del cacciatorino, simile a un uovo, dal guscio friabile e il nucleo caldo e melmoso, aveva preso posto con prepotenza l’immagine della farfalla, contenta di sciaguattare avvolta dal nutrimento fluido. Voleva essere come la farfalla, doveva. Se il mammut spargeva una polvere magica, doveva ricoprirsene, mai distaccarsene, sfruttare al massimo i momenti in cui gli era possibile trovarne il contatto. Avanzare sicuro nello scenario opacizzato dal brulicare di questa, tuffarvisi come dentro una purissima sorgente e restare bagnato per il perdurare dell’effetto. Quanta più ne raccoglieva sulla superficie della propria pelle e gli abiti, tanto più era possibile avvicinarsi all’essere che l’aveva prodotta, calcare le sue orme, vivere la stessa vita fino a incontrarlo vicinissimo, forse ai confini del mondo dove sole e luna faticano a lanciar dritti i propri raggi. Si accarezzò il braccio: sotto la manica era rimasta forse qualche traccia? Anche un singolo batuffolo, tale da non allontanarlo dal sogno pur nella secchezza della radura rocciosa col falò e i cacciatori. Sperava in un lieve prurito, anche un fremito di narici allergiche, purché sapesse per certo di non esser stato vittima di semplici allucinazioni. Doveva esserci da qualche parte uno scheletro gigante coperto di carne spessissima, pelliccia violacea che sgretolandosi in granelli lucenti rende tangibili le fantasie più ancestrali e remote, forse antecedenti all’utero. La speranza gli lasciava un taglio lungo e sottilissimo come un capello sulla guancia irritabile. Un essere di nube nera sembrava lottare per risollevarsi dalla punta del fuoco, teso tra opposte forze gravitazionali.
-e nessuno, nel posto in cui vivi, ha mai creduto a queste storie.- disse il cacciatore robusto. -è naturale. In pianura si rallegrano anche della vista di una beccaccia, e stentano a credere pure se racconti di un cinghiale un po’ più grande del solito. Figurarsi un mammut con la pelliccia viola, a maggior ragione se lo racconti in quella tua maniera di menestrello.
-come è stato detto poco fa, quando non viviamo in mezzo ad alberi e pareti di roccia viviamo in mezzo alle incredulità.- commentò sardonica la cacciatrice, amara ma svelta come il veleno fluente dentro i suoi artigli -che a volte sono le pareti più dure.
-e ho anche detto che non dovremmo lamentarci.- era il lamento freddo del cacciatore dai capelli bianchi. -Questo è quello che facciamo, riceviamo tutto ciò che avremmo dovuto aspettarci. Non c’è tempo di stare a condannare chi odia le nostre faccende, del resto anche noi odiamo tutto quello che non ci riguarda. E non dovremmo biasimare chi vorrebbe stessimo dietro a prede più produttive di un vecchio bestione che impollina gli altipiani dopo averli devastati.- Perentorio e austero dietro a un guizzare di scintille, il più intenzionato a mettere i ciocchi nel falò e i punti alla fine delle frasi. Dal lato opposto del semicerchio, dietro la barba folta, appariva di nuovo il sorriso di un cacciatore-quercia grande e grosso, sempre più esplicitamente curioso e soddisfatto, le cui labbra nell’ultima notte si erano piegate più volte che nel resto della vita recente. “Piano piano, un po’ del venditore del mercato è entrato in lui, lasciandogli qualcosa”, pensava. La chimera, vagabonda tra i suoi lontani nascondigli, si dissetava succhiando il sangue di altri animali, come cieca di fronte all’acqua. Un tonfo segnò la caduta della creatura nera nel fuoco. Non fluttuava più, si schiacciava e rimpiccioliva sui tronchi carbonizzati. Ricoperta di fiamme, non soffriva: era soltanto immobilizzata, accettava di buon grado la riduzione dello spazio occupato dalla sua consistenza simile a gas. Sarebbe scomparsa, o ritornata da dove era venuta, come aveva fatto anche per gli altri. Due fiammelle si erano posate per caso sulla sua superficie, in direzione del cacciatore che per la prima volta la guardava insistentemente, richiamato dal rumore della caduta. Sembravano due occhi, la prima cosa che guardava sul serio. Il cacciatore si accorse di una certa nausea che lo aveva accompagnato senza farsi sentire, eppure fu in quello stesso momento che iniziò a sentirla scemare.
-Tutte le altre prede, quelle davanti a te, quelle che scappano quando passi ignorandole del tutto… lasci intendere che nulla più ti potrà rimettere sulle loro tracce.- aggiunse ancora il canuto, i cerchi argentati attorno alle pupille erano un guscio che impediva sempre alle sue parole di emanare rimprovero, lì risiedeva l’autorità delle sue stoiche opinioni. L’altro li incontrava per la prima volta, pronto ad assumersi la responsabilità della risposta.
-no, ormai le cose continueranno ad andare come sono andate finora.- rassegnato ma senza rimorsi, scosse la testa, il berretto calò fin sulle sopracciglia. -l’obiettivo della mia vita è quello che è, non posso farci niente. Forse ora sono più consapevole del tipo di cacciatore che rappresento. Se lo avessi saputo tempo fa, quando il caso mi pose sul percorso di quell’animale, probabilmente non avrei proseguito allo stesso modo, avrei scelto di essere altro. Catturare le prede tra me e l’orizzonte, esaminare orme più piccole, scrutare gli infinti dettagli nascosti nelle immediate vicinanze, ascoltare il respiro delle cose ridotte invece del richiamo indecifrabile di un mistero troppo grande per tutti. Ma ho fatto allora la mia scelta, e il destino si è delineato di conseguenza. Posso solo accettare, credere che in fondo non deve essere stato un caso se, qualunque cosa sia quel mammut, si sia imbattuto proprio in me tra tutti i cacciatori che vagano quassù, proprio con quella forma, quel colore.
Il fuoco, per quanto piccolo, procedeva da tanto. La sua bolla termica era ormai stabile e omogenea, l’area coperta dalla sua luminosità contenuta respirava uniformemente. Lontani latrati e fruscii soffiavano nel buio placido, umidità imperlava i sassolini e scorreva sotto la terra. Tra le fiamme non c’era più nessuna creatura. Nella mente, nel giallo dell’uovo, la sagoma della farfalla si ridusse e annerì, la proboscide si ritirò divenendo tozza, gli occhi grandi e arrossati, le ali sagomate e trasparenti… una mosca. Il ricordo di una mosca sfuggita all’inverno, al riparo dalle nevi su un vetro familiare. Il corpo ingrassato da briciole deposte da pani e carni, cibarie trattate da mani. L’aveva osservata a lungo in quel crepuscolo, appoggiato al davanzale, dove aveva luogo la massima contraddizione tra ciò che si vedeva di là dalla membrana trasparente e ciò che si sentiva accarezzare la pelle: da una parte un bianco duro e indifferente che ingloba e preme, dall’altra ondate di calore galleggianti nell’aria. Un ronzio come unica compagnia di giorni inesorabilmente solitari, prima o dopo l’avvistamento che ha cambiato il senso dell’esistenza. Per tutti, anche per chi correva dietro all’inafferrabile, arrivavano i giorni del ritorno a una dimora un po’ isolata, ma meno lontano del solito dalla vita in cui si udivano parole, risate e pianti, baccano di attrezzi. La gente beveva e mangiava nelle locande, raccontava storie, quelli da soli come quelli in compagnia. Lui raccontava dell’unica cosa di cui avrebbe mai voluto parlare, e si sentiva deridere. Assurdo, pensava al tempo, esser deriso per ciò che si è visto. Ma era logico, come spiegava il cacciatore dai capelli bianchi. Ricordò un bambino, al tempo suo coetaneo, quando anche lui stava crescendo in mezzo agli esseri umani, prima di prendere la via dell’avventura. Lo aveva incrociato in un corridoio, una galleria di legno scuro scavata per far passare orde di fanciulli. Dalla distanza di un piccolo corpo sdraiato, aveva osservato la figura intera dello sconosciuto a lungo, come incantato da un indecifrabile legame. Quello sentendosi guardare si era irrigidito, gli rilanciava contro uno sguardo di diffidenza tagliente, sicuro di sé, di chi ha già imparato come si trattano le sfide. Pallido nella carnagione e nei capelli, negli occhi e il portamento, magro ma forte, capace del silenzio per intimidire: ecco cos’era, un folletto dell’inverno, gelosissimo spiritello il cui unico compito è quello di allontanare ogni cosa mobile dal ghiacciaio che protegge. Come aveva potuto dimenticare questa immagine? Il cacciatore ancora non portava il mantello e il berretto caratteristici della sua persona, ancora non sembrava l’abitante di un dipinto; già allora, però, ciò che era oggetto del suo desiderio andava bandito dai discorsi degli uomini. Un incontro casuale che forse aveva instillato in lui, secondo principi imperscrutabili, una disposizione verso l’ineffabile. Si faceva strada in quell’istante dimenticato, in una nicchia segreta dei suoi sogni, il fantasma di un pachiderma di strani colori, un desiderio di baciare il corpo di ghiaccio di un suo compagno.
-dunque, ci siamo confrontati con forze varie. -disse dopo un po’ il cacciatore robusto, quando il fuoco si era quasi spento. Una striscia di fumo nero saliva dritta e appuntita. -gli esseri umani, intanto. Poi quelle prede, che quando cadono fanno tremare la terra. Ma a parte il mio vecchio uro bianco, credo proprio che gli altri non hanno fatto nessun tonfo…- parlava come facendo il punto, ormai avvezzo a un certo entusiasmo che la compagnia gente affine gli aveva trasmesso, esplicitamente sereno -e adesso sappiamo che ancora camminano tra queste montagne una chimera, un mammut viola, e…
Si rivolse alla cacciatrice, come invitandola a raccontare di una sua caccia significativa, alla quale aveva certamente pensato durante quella serata di storie attorno al fuoco.
-un cavallo magico, sul cui manto crescevano a chiazze muschio, liane, foglie verdi, funghi a lingua come quelli che spuntano dai tronchi. È stato l’unico animale risparmiato dai miei artigli.
Da quando li aveva inizialmente mostrati, sembrava aver acquisito l’istinto di sfoderarli ogni volta che faceva riferimento a essi, come fosse necessario alla comprensione delle sue parole.
-una cosa così vi cambia mentalmente, sapete.- mormorava meditabonda, la testa china sulle mani. -quando hai artigli del genere e ti metti sulle tracce di una preda, smetti di fiutarle come facevi un tempo, chinandoti da una posizione eretta, raccogliendo informazioni, usando la conoscenza; invece senti scorrere per tutto il corpo come energia lucida una reattività a ogni piccolo cambiamento raso al terreno, parti da una postura acquattata che ti fa procedere a balzi fulminei. Quando li sfodero sono istintiva, i miei sensi sono moltiplicati, sento odori che non posso trovare altrove e le pupille perforano come acciaio affilato. Con una certa attenzione, prendo coscienza di una specie di cavità che si forma nel mio addome, mi avvisa dei movimenti di cielo e terra. Sono veloce, talmente veloce da non avere neanche il tempo di chiedermi cosa è opportuno fare di una qualsiasi vittima. Innumerevoli esseri si sono trovati senza uscita in questa sconfitta che non conosce pensiero. Poi trovai il cavallo, già imprigionato in chissà quale incantesimo, come me. O forse così dalla nascita, nato nello stesso luogo dove lo vidi galoppare. Sono monti rotondeggianti, di altezza media, tutti ammassati insieme, battuti sempre dal sole. Non sembra vero, un luogo ai confini tra le montagne della mia vita adulta e un’atmosfera di campagna collinare, proveniente da qualcosa di diverso… era un frutteto, alberi bassi e nodosi circondati da nuvole quasi invisibili di moschini minuscoli, tutto intorno stagna l’odore dolciastro di polpa sbattuta sull’erba, così matura da nauseare. Uccelli variopinti cantavano di continuo, razzolavano strusciando code spioventi che accecavano per brillantezza, volavano a piccoli balzi da un ramo all’altro. Sembrava il giardino segreto di un principe di una leggenda esotica, immaginavo di trovare al suo margine una fontana abbandonata da cui sgorgano liquidi capaci di annullare ogni incantesimo, di arrestare la vecchiaia, domare la morte; per la prima volta desideravo un oggetto e non un animale, da tutto questo dovevo già capire di essermi svegliata in un giorno strano. Tutto puntava all’anomalia, all’unica volta in cui i miei artigli avrebbero catturato senza uccidere. Allo Scalpitare degli zoccoli dimenticai qualsiasi fontana. Tra i tronchi guizzava un manto chiaro, sopra il quale luccicava qualcosa che non riuscivo a definire. In pochi balzi ruzzolavamo sul terreno, io slittando sul suo muscoloso corpo atterrato. Si arrestò, scalciando a caso, e in pochi gesti le punte dei miei artigli gli furono a un granello di distanza dal recidere irrimediabilmente un tubo pulsante nella lunga gola. Ma mi arrestai. Qualcosa mi bloccò. Un istante in più, un insignificantissimo istante in più rispetto a come le cose si erano sempre svolte, è stato tale da illustrarmi il terrore che la consapevolezza di soccombere dipinge in faccia a un animale, negli occhi roteanti a scoprire il bianco celato del bulbo, nel tremito del muso solitamente fermo. Non fu la pietà ad arrestarmi, ma questo mi diede un margine per pensare, mentre il veleno dentro le mie vene ancora insisteva a formicolare, per richiamarmi alla mia natura corrotta e assassina. Il tatto mi avvisava delle proprietà generatrici di vita di cui quel corpo era infuso. Se per via della mia mano deforme non avessi avuto conferma della sua paura, la stessa che accomuna tutti, lo avrei ritenuto un essere immortale. Sarebbe stato un dio presso ipotetici antichi abitanti di quelle strane alture fertili, un portatore di cose fresche e dense di linfe. Viticci si attorcigliavano impotenti alle mie caviglie, dilungandosi dal corpo che la morsa delle mie ginocchia teneva fermo. Riuscii a fare una scelta. L’ho detto, qualcosa di strano era nell’aria. E anch’io feci ritorno tra gli esseri umani, sperando chissà cosa. Volevo mostrare il cavallo, fare un tentativo, ovviamente lontano dai luoghi della mia nascita e crescita; mi dissi di provare a vedere come erano gli uomini che vivevano da altre parti, in villaggi raggiungibili soltanto dopo interminabili giorni di marcia senza riposo. Ne trovai uno cullato sotto le ombre di abeti severi, mi presentai nella strada, recando il cavallo al mio fianco. Ero certa che potesse generare frutti commestibili, all’infinito, poteva sfamare chiunque, debellare concetti come ricchezza e povertà. Mi derisero, ripetendo con insistenza che da quelle parti le donne non si mettono a caccia. Non sono capaci di uccidere, dicevano, e infatti tu il tuo bel cavallino non lo hai ucciso, dicevano. “Non ne saresti mai in grado”, lo ripetevano come se volessero vedermi provarci. Avrei potuto metterli a tacere semplicemente sfoderando gli artigli, ma qualcosa me li teneva chiusi. “No”, pensavo, “non è questo il loro posto, l’unica cosa che può appartenermi e che posso portare in questo posto è proprio questo cavallo, la sua capacità di formare sempre la vita. Soltanto questo mi potrà far comunicare con loro.” Ma non comunicammo.
E non aveva mai “comunicato” tanto a lungo, non che lo ricordasse. Nessuno di loro ricordava di averlo fatto. Con soltanto le braci a render distinte poche cose nel buio, si rendevano conto della fatica provata. Conversare era stancante. Lasciavano riassestare il fiato dopo averlo impiegato come non mai nella formazione di parole, ognuno rievocando tra sé le cose che più li avevano colpiti, mentre il freddo tornava lentamente a prendere possesso della radura. Nuvole di vapore si sollevavano rapide da bocche e narici, un insetto notturno fischiava i suoi ultimi momenti nella sfortuna di esser stato colto dal gelo. Di lì a poco si sarebbero rimessi in marcia, ognuno per la sua strada.
...
(fine seconda parte)

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