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racconti delle cinque dita- "Crepitio" (pt.1)

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 14 apr 2020
  • Tempo di lettura: 32 min

Aggiornamento: 23 apr 2020

CREPITIO

Tre cacciatori erano seduti attorno a un fuoco, al riparo dai venti in una conca rocciosa. Stanchi e in silenzio, non smettevano di contemplare con intensità le scarne fiamme vorticanti a pochi passi dalle loro gambe incrociate, rese momentaneamente inermi da interminabili scarpinate verticali lungo le spine dorsali dei picchi più aspri, tra un costone e l’altro di quelli dove soltanto i caproni arrivavano a nutrirsi di brulli arbusti e gettare lo sguardo quadrato a ridosso delle vallate sottostanti. Fango di boschi e granula di sentieri si erano depositati nelle più profonde trame dei loro pantaloni, quasi diventando una cosa sola con la materia tessuta dagli uomini. Il calore del piccolo falò molestava i bulbi oculari fissati dritti a penetrare le sue tinte calde, come a raccoglierle e farne provvista in vista di sfumature più fredde profilantesi all’orizzonte del giorno venturo. Anche quando il volto avvampava e gli occhi parevano seccare, privati di liquido, i cacciatori non perdevano la concentrazione rivolta al fuoco. Non c’era verso che vivessero con superficialità o distrazione quel momento tanto importante, in cui dopo marce e arrampicate durate mesi recuperavano un flebile ma sufficiente contatto con un elemento appartenente alla vita della gente e gli affetti, che periodicamente abbandonavano per avventurarsi sulle alture; quasi una regola non scritta, quella di lasciarsi assorbire dall’alone arancione che benediva la conchetta gelata, una prassi imposta dalla natura stessa della loro occupazione -che, tra di loro, non necessitava di presentazioni in una lingua che non fosse quella del silenzio, lo stesso che si avverte al risveglio in un altipiano cosparso di bassi e giovani aghifogli, quando la mattina penetra nella pelle come mille lame. Richiamava in loro un remoto bisogno di umanità, necessario per continuare ma che rappresentava un pericolo particolare, per cui neanche in quei casi potevano permettersi di abbassare la guardia. Diverso dalle infinite possibilità truculente acquattate tra i meandri rocciosi e nell’oscurità della foresta, il rischio di lasciarsi abbandonare mollemente alla culla temporanea creata dal momento della combustione equivaleva, a lungo andare, alla stessa cosa: lasciare il corpo alle montagne, ai capricciosi numi del meteo e agli avvoltoi, altri dei che con ali nere li avrebbero condotti attraverso il passaggio successivo, che sembra inarrestabile per tutte le cose e puntella il paesaggio dei suoi presagi ovunque ci si incammini (fetori dolciastri, farina di materia non più in grado di respirare, humus rigonfio…). La forma di conforto concessa a chi sceglie questa vita assomiglia alla nostalgia di qualcosa che è stata consapevolmente resa vaga, sepolta in un luogo sicuro, come ficcata in una tasca nascosta in fondo allo zaino per essere tirata fuori al momento opportuno. E quanti mesi erano passati, da quando avevano intrapreso la caccia corrente? Due? Sette? C’era chi si soffermava sul ricordo di un abbraccio, una carezza di pochi istanti in sospeso su una soglia, incontaminata, senza parole, solo quel mormorio costante che persiste laddove c’è qualcosa di costruito, di cui ci si accorge soltanto una volta che ci si è allontanati; qualcun altro, di vita più solitaria, si soffermava sul ricordo di una mosca sonnolenta che si strascicava lungo la parte bassa del vetro di una finestra, contenta di esser riuscita a entrare in quella grossa scatola di ciliegio levigato, dove qualcosa, da qualche parte, produceva un calore che fuori non esisteva. Solo il legno, lavorato ed eretto a racchiudere il lato sedentario delle loro esistenze tra pareti e lievi sensazioni, accomunava i vari background. Poi si era riconfigurato, fatto selvaggio nell’infinità di alberi, ed era sempre meno liscio, sempre più umido e pieno di bruchi tra le fessure man mano che si allontanavano da dove erano partiti, nel giorno in cui, come di consueto, si era ripresentata l’improvvisa consapevolezza di doverlo fare, un’idoneità del momento fiutata soltanto da ricettori invisibili che spuntano col mestiere. Nel buio echeggiò l’ultimo fischio di un uccello diurno ritardatario, forse smarrito. Il crepitio schizzante fuori dalla legna morente diffondeva con ipnotico ritmo una quiete che attutiva tutti gli stimoli dell’esterno in un cuscinetto di tepore familiarizzante. Per questo, i passi di un quarto cacciatore che era giunto in quel luogo e che andava a sedersi non si presentarono come un’irruzione, ma come una naturale evoluzione del battito della benevola terra in tregua. Nessuno si voltò, nessuno salutò, nessuno protestò. Quest’uomo portava scarponi davvero massicci, più spessi e orsini di qualsiasi altra calzatura in dotazione agli altri, affondavano in ogni superficie spargendo tonfi brevi e sicuri, come punteggiatura di un discorso rude. Un baccano inusuale nel contesto annunciava che il nuovo arrivato si stava sistemando, tra sciaguattare di indumenti umidicci di pioggia e piegature varie di bisacce, gesti di mani grosse che si indaffaravano tra fili e spaghi, le uniche serrature concesse in alta quota, dove le vette si arrogano il diritto di estendere la propria granitica potestà ai segreti dei visitatori inaspettati. Nulla si può nascondere agli occhi della roccia, e al massimo è dentro la roccia che ci si nasconde: un’altra legge che non necessita di essere scritta, declamata, o di essere definita in quanto tale, semplice decoro che appartiene alle creature che frequentano tali luoghi. Per un po’ ci fu di nuovo soltanto lo scoppiettare di tizzoni, lamenti lontani di animali, e i discorsi imperscrutabili degli agenti della natura, forse intenti ad assemblare la prossima nebbia o a monitorare frane lontane. Tra una fiammata e l’altra forse vorticava pure qualche pensiero, ma si esauriva prima di mutarsi in angoscia che rischiasse di intaccare la precisione dei gesti che mai doveva separarsi dai corpi lì seduti, esecutori gelosi prima di tutto della propria infallibilità. Respiri profondi ma non ingombranti, sentimento di stanchezza grata e accettazione della sporcizia accumulata sulla pelle. L’ultimo arrivato fu il primo a parlare. Non si deve credere, infatti, che i cacciatori diventino necessariamente silenti come la pietra che scavalcano, o burberi come il tasso che scava i cunicoli sotto il terreno che calcano. Si ammettono discorsi udibili, purché nei contenuti non si distanzino da ciò che pertiene il mondo manifesto entro i confini creati dall’inizio e la fine della missione in corso. Si ammette la conversazione, anche quella sul tempo, anzi, è particolarmente apprezzato un parere, saturo di esperienza altrui, su ciò che una qualche forma strana delle nuvole suggerisce, su quanto le orecchie hanno captato in un incrociarsi di venti da neve.

-quando neanche di bestie ce ne sarà più, pure questa montagna crollerà.- disse il corpulento cacciatore ora intento a sfregarsi le mani in prossimità del fuoco, in un atteggiamento che in qualche modo si mostrava più trepidante e aperto rispetto agli altri. Un insignificante sputacchiare aveva dato il via al discorso della bocca mantenuta costantemente umida, famelica di frescura.

-si farà un cumulo di rocce prima, e poi col tempo l’erosione ridurrà tutto a una valle, come quella là.- con il capo proteso accennò a un punto indefinito nel buio pesto al di là del cerchio di luce, certo di farsi intendere da quelli della sua specie che come lui si facevano un tutt’uno con il territorio, le direzioni e i paesaggi nel momento in cui li attraversavano.

-l’ultima volta che abbattei un uro capobranco, mi parve di sentire il lamento della montagna nel rimbombo che ha fatto cadendo. E di nuovo un’impressione così a vedere il cratere che ha impresso nel terreno, quando ho trascinato tutto quel suo peso spaventoso tirandolo per un corno. Mi sono detto, è giusto che quando crolla una bestia di questo calibro, la terra mostri la durezza del colpo, rechi i segni della sofferenza che significa. Ed era un animale eccezionale, dal manto bianco, le corna alte e incurvate come magnifici archi. Una di quelle prede che ti fanno capire molte cose.

Trasse da un piccolo impacco un trancio di carne secca, e lo addentò rumorosamente. Gli altri si volsero, ognuno con un’espressione diversa, con una diversa forma di curiosità. Sentendosi osservato, l’altro indicò la carne.

-questo? No, questo è solo parte delle provviste.- rise con una certa autoironia -Carne di paese, si sente il sapore di strade e chiacchiere. Quando catturo le mie prede, la carne la vendo. Mi vivo la montagna già troppo, da volerne sentire il sapore anche quando torno tra la gente. E poi, quell’uro, parliamo di una preda di molti anni fa, neanche so dire quando. Ma è una di quel paio di cose della mia vita che ricordo bene, che ce le ho in faccia. Il bianco di quell’uro è diventato il bianco dei miei occhi stessi.

Con un movimento un po’ grottesco, a metà tra uno scongiuro di una nonnetta superstiziosa e il gesticolare eccessivo di un imbonitore circense, si spalancò un occhio con due dita spesse come bastoni, messe a forma di forbice; lo mostrava, indicava agli altri, come potessero vedervi proiettata la morte dell’animale. Osservavano interessati, senza far commenti, poi tornarono al fuoco con nuovo sguardo, la testa brulicante di lievi stimoli introdotti dalle cose ascoltate. Lui fece per affumicare un’estremità del trancio, a capo chino per proteggersi dall’impatto iniziale col calore di cui si era persa l’abitudine. Era molto alto e robusto, dai muscoli dritti e intagliati come pilastri, come fosse venuto al mondo uscendo così da una quercia. La barba nera e fitta, non eccessivamente lunga, ricopriva tutto il volto rossastro, le pupille umide ondeggiavano in occhi grandi. I capelli corti e spessissimi erano ritti e uniformi sulla testa schiacciata, fatta eccezione per uno spicchio lungo una tempia dove sembrava fossero stati bruciati, lasciando visibile una voglia sanguigna dal pattern maculato che si estendeva sulla cute. Nel complesso aveva il tipico aspetto del guardaboschi, oppure del cacciatore specializzato nella cattura di animali di grossa taglia, quelli troppo pelosi e dal carattere difficile. Si avvertiva una certa sensibilità nel suo parlare, come spesso accade in tipi del genere. Gli altri si erano avviati a riflettere su quell’argomento raramente frequentato, le conseguenze che nascevano dalla conclusione di una missione. Se, come sembrava suggerire quell’uomo, un giorno un monte su cui camminavano sarebbe crollato per questa ragione, occorreva capire se era necessario che cambiasse qualcosa nel modo in cui si approcciavano al mestiere, l’unico mondo che sentivano di conoscere. Non si conoscevano tra loro, non conoscevano i nomi: sulle montagne non si sentiva mai “come ti chiami?”, e nessuno si chiedeva chi fosse un passante, perché se di un “collega” si tratta sono gli occhi e l’istinto i primi a rivelarlo. La competizione non aveva ragione d’esistere, le montagne si estendevano sconfinate, immense, nessuno le aveva mai percorse tutte e nessuno lo avrebbe mai fatto a meno di campare fino alla morte dello stesso dio che le aveva messe in terra. Parlare di prede era diverso dal parlare di bottini, diverso dal saggiare valori o misure. Era anch’essa una conversazione che non deformava l’ambiente, orchestrata al crepitio come insieme di suoni sgorganti da anime radicate nella profondità immobile degli enti inanimati più antichi, genitori della terra. Uno alla volta, con disinvoltura mimetica, quasi si abbarbicasse alla natura stessa dei boschi come liane in simbiosi, raccontarono qualcosa, di una qualche caccia passata.

Il primo cacciatore era un uomo alto ed esile, dalla pelle molto grinzosa, con rughe aggraziate che salivano dalla base del collo fin sotto gli occhi grigio-ambrati. Massimamente privo di barba, ma sulla testa una chioma di paglia biancastra era tenuta ferma in ciocche da lacci rudimentali. Le mani lunghe non raggiungevano mai le labbra per staccare una sottile sigaretta di foglia marrone, che pendendo indefinitamente dava all’aspetto del cacciatore una sottile sfumatura buffa, da “personaggio”. Tra tutti, sembrava quello più ipnotizzato dal fuoco, forse a causa dello schermo argenteo delle pupille che dava l’impressione di celarlo dalle altre cose circostanti. Sospirò rivolto al tremore delle fiamme, come aspettandosi di scrutare sotto le loro arcate, nascosto al centro del fuoco, lo sguardo di qualcosa di familiare e poco rassicurante al tempo stesso, di cui per abitudine accoglieva la sfida. Cominciò a raccontare, con un tono che pareva essere inquieto per impostazione naturale.

-fu proprio la mia ultima cattura. Una chimera, selvatica come poche altre creature. Non ne avevo mai incontrata una, ma credo che in genere siano più grandi di quella, forse era un esemplare giovane. Non fatevi ingannare dalla criniera tutta larga e irsuta, che le fa sembrare più spesse di quello che sono: scattano a una velocità impressionante, sembrano davvero saette imprigionate dentro una bestia. L’ho trovata mentre perlustravo il fondo di un crepaccio desolato, ripidissimo, il modo in cui passa la luce laggiù fa sembrare che è sempre nuvoloso e grigio, come grigie sono le pareti rocciose e tutte quelle ossa che cospargono il terreno. Ogni passo è un rotolare di frammenti e sassetti, scricchiolano ossicini e denti, tutto sembra sulla via della rovina. La chimera è piombata all’assalto a breve distanza da dove mi trovavo, è venuta giù correndo verticale dall’alto, con artigli a pugnale tutti sfoderati, che la tenevano aggrappata a ogni sporgenza come un ragno pazzo. Soffiava e ringhiava, ho alzato la testa verso l’alto dandomi tempo di accorgermene e spostarmi, tutto il resto ho dovuto pensarlo in fretta. Mai un animale mi ha spaventato a tal punto, nel modo in cui si muoveva, ogni strattone inarrestabile, come tremasse dalla furia e le sostanze magiche che scorrono dentro i suoi organi… era un concentrato di follia, un’esplosione di ferocia reietta posta a comando di quel cimitero naturale fatto di rocce scarne e arbusti spinosi. Sbavava, colava questa roba tossica fumante, toccando terra si inscuriva diventando quasi nera, e se solo quelle grinfie o quelle zanne mi avessero raggiunto sarei morto all’istante. Fortunatamente però, a una creatura del genere, così frenetica, manca il controllo. È forse proprio per questo che non mi ha preso al primo agguato, intanto perché l’avevo sentita arrivare, e poi è probabile che con quel moto così tremante, tutto brividi e nervi accesi, non sia capace della pazienza necessaria a prendere la mira per bene. Ho capito che quando degli intrusi arrivano nel suo territorio, poiché sa di non riuscire a contenere l’energia che possiede, risolve la questione con una scommessa: se ci riesce, ottiene un’uccisione certa, altrimenti è abbastanza da spaventare e allontanare qualsiasi cosa.

-però ha trovato te-, disse il cacciatore robusto.

-sì, ha incontrato me.- non voleva essere una lusinga, e l’altro nella replica non voleva sottolineare le proprie abilità. Non c’è l’individualità nelle mosse di un cacciatore esperto, sono giuste perché l’esperienza le plasma in un certo modo. Il cacciatore robusto avrebbe potuto dire anche “ha trovato me”, o che avesse trovato uno qualunque di quelli seduti attorno al fuoco, tutta gente che sapeva il fatto proprio, come infallibilmente a ciascuno di essi era stato suggerito dagli affinati sensi di cacciatore consumato. Ribadire che la bestia avesse incontrato quell’uomo era come ribadire che avesse incontrato un cacciatore generico, il concetto astratto e universale dell’occupazione in cui si identificavano anche al punto da perdere altri aspetti, cari e importanti. Era come porre l’enfasi sul succo ancestrale dello scontro, come disegnare con le stelle nel cielo la lotta di due giganti, uno animale e l’altro cacciatore, estesi lungo tutta la via lattea. La scena che un meccanismo misterioso, intagliato nella parte più misteriosa e inquieta nel cuore, li aveva spinti a incarnare e ripetere fino alla fine dei giorni: una lama si contrapponeva alle armi che erano state affilate dall’evoluzione, e ciò che l’evoluzione aveva posto su due gambe si intersecava in un sanguinario amplesso di muscoli e tensioni con una statura speculare, un’andatura quadrupede che aveva deciso di ergersi per imitare, spaventare, incombere con tutta la potenza di una stazza scolpita dalla foresta. Il lungo corpo eretto, ombra di morte per occhi umani, struscia la sua enorme pelliccia di astri sul fondo blu del cosmo, carezzata da lontano da altre piccole stelle vicine, simili a lucciole che assistano allo scontro della notte dei tempi senza prendervene parte (gli insetti, per quanto curiosi, hanno da sempre un mondo un po’ loro). L’altro corpo di muscoli nudi indaga se stesso osservandosi dal basso, riflesso nella costellazione, cercando di interpretare qual è il significato dei suoi contorni. Sarà l’ingegno contro l’istinto, o qualcos’altro? Per i cacciatori è una cosa più semplice, automatica…

Non occorse spiegare come fosse avvenuta la cattura, non è di questo che parlano gli uomini che affrontano la montagna. A meno che non sia necessario per quello che vogliono dire, non si dilungano sui dettagli del modo in cui un’impresa è stata portata a termine, non c’è orgoglio o millanteria in destrezza e bravura. La chimera era in gabbia, questo il risultato. Le sbarre, fabbricate dalla gente delle miniere, resistevano ai poteri di qualsiasi creatura. Là dentro però, la chimera non si stancava mai e dopo aver azzannato o colpito a zampate una sbarra, subito passava all’altra, senza arrestarsi: anche con la convinzione di essere fuori pericolo, un tale spettacolo dava quasi l’impressione che prima o poi ci sarebbe riuscita. E intanto ringhiava, sibilava, mandava gorgoglii dalla gola, come una vera meraviglia posta a servizio della distruzione. Al cacciatore uscito dal luogo remoto dove essa abitava sembrò di risuscitare da un abisso che nessuno poteva immaginarsi, una volta approdato dove intendeva far ritorno, ormai forato, invaso da un’oscurità forestiera al posto dove tutti stavano in piedi. La bestia, la lontananza della sua dimora avevano cancellato il ricordo della civiltà, e i peli aguzzi nelle narici feline non avevano forse mai captato odore di umano.

-non so perché, ma mi piace pensare- disse il cacciatore canuto -che per questo motivo, un nuovo eccitante dato sensoriale, una roba mai sentita prima, la chimera fosse entrata in uno stato ancora più febbrile, più incontrollabile ancora di quanto non fosse di solito. Ma è probabilmente la mia immaginazione, probabilmente la chimera si comporta sempre così, senza che sia possibile notare mai una variazione nella sua indole. È che, voi lo sapete, è sempre molto forte ciò che succede dentro un animale quando per la prima volta una cosa strana come un essere umano entra nelle sue narici.

Annuirono. In sincrono con l’essenzialità del breve cenno, balenarono in un recesso della mente di ciascuno scene diverse, risalenti alla giovinezza. Il terrore di un coniglio selvatico in un boschetto vicino casa, proprio dietro un campo coltivato; l’attenti che irrigidisce il collo di un capriolo alla prima uscita più in alto, gli uccelli che si tuffano tutti insieme fuori dalle fronde in una chiassosa nube a ventaglio. Il cacciatore sospirò di nuovo, ancora una volta rovistando un dubbio incagliato nel fuoco, che insisteva a spiarlo nonostante l’impassibilità, l’immunità alle fisime che l’avventura scolpisce negli umani che se ne rivestono. Si preparava a una parte più faticosa del racconto, più faticosa in effetti di qualsiasi caccia o scalata. Usciva dai tipici discorsi dei cacciatori per menzionare aspetti proibiti. Ma anche in questi casi, un cacciatore non intendeva lamentarsi.

-portai la gabbia alla via del mercato, era tempo di fiera e i passanti brulicavano.- tutti capirono allora il sospiro, motivato dalla presenza nel racconto della gente che rimaneva a bassa quota, con la quale sempre sorgevano incomprensioni.

-non ero certo l’unico ad aver messo in mostra un animale- proseguì -diverse gabbie ornavano quel lato della via, a ridosso da un colle. Ma la mia era la gabbia più grossa, e tutti gli altri gradualmente si erano allontanati da dove stavo io, cosicché si vedeva questo grosso cubo un po’ al centro dell’attenzione, e diverse spanne a destra e sinistra tante gabbiette sorvegliate da occhiate cariche di sospetto nei miei confronti. Dovevo portar sfiga agli affari.

Il cacciatore robusto rise di nuovo allo stesso modo, come a dire che non fosse ammissibile altrimenti. Una cacciatrice in armatura assunse un’espressione quasi malinconica. Non si erano mai viste fossette tanto pronunciate a incuneare le labbra di qualcuno del mestiere, ma era solo una delle tante risposte che erano comparse al sentir parlare di quell’argomento. Un cacciatore piccolo, in posizione molle, sembrò tremolare mentre guardava altrove. Quello coi capelli bianchi indugiò sulle deformazioni che le cose dette avevano prodotto sui presenti, respirandone l’eco per farsi deformare a sua volta, un muso forzatamente divertito dal constatare la giustezza dell’aspettativa che la pietanza preparata e offerta avesse un retrogusto amaro. Se avesse avuto più fiato, più scambio tra sé e i suoi simili, lo avrebbe mutato in un risolino, prima di proseguire.

-gli animali nelle gabbie, tutti di piccola taglia, avevano preso a tremare. Più la mia chimera tremava nel modo suo, più a tutti gli altri prendeva un tremore d’altro genere. Polli impauriti, topi, furetti addestrati per la caccia, un maiale fuori da una gabbia, tenuto a un guinzaglio, si era fatto rigido come una statua e guardava dritto avanti a sé, come se stesse per finire al macello in mezzo alla piazza. L’animale più interessante era un cucciolo di viverna, non più grande d’un gallo. Si arrampicava sulle maglie della gabbia con la scioltezza dei gechi sulle pareti, cacciava la lingua nei fori, soffiando in direzione della chimera. E in effetti bastava guardare il proprietario per capire, bastava osservare il suo aspetto per capire la sua diversa politica negli affari. In mezzo a quei contadini e allevatori, preoccupati solo di crescere buoni esemplari da uova e da carne spiccava quest’uomo, tutto bardato di vesti ad arabeschi sovrapposte, parevano tanti tappeti che si era buttato addosso con tutta la polvere. Si era cosparso di ricami d’oro, gialli ocra brillanti, serpentine vegetali per attirare l’attenzione, ma aveva anche qualcosa di sporco. Mi venne da pensare per qualche ragione che fosse un uomo di scarsissima igiene personale, ma che riveli questo aspetto solo a chi lo vede al riparo dalla luce del giorno, in metamorfosi notturna. La campana formata dalle vesti nascondeva un’agitazione di piedi che neanche fermi sul posto riuscivano ad arrestarsi, una trepidazione sviluppata di pari passo con il coinvolgimento negli affari strani che andava a cercarsi con strana spontaneità. Dovevo averlo notato già, qualche altra volta.

Si fermò brevemente per un tentativo sforzo di memoria, il cui scopo era solo quello di comunicare agli altri che la sensazione trasmessa dall’uomo era quella di conoscerne il personaggio, per chissà quale via. Non poteva ricordare davvero, la memoria dei cacciatori era troppo densa di mappe, informazioni, pattern del sottobosco, ramificazioni di sentieri lungo un costone, odori di funghi… non c’era spazio per volti e caratteri. Ma qualcosa di quell’individuo, che spuntava fuori solo ai mercati, aveva trovato posto in una nicchia già scavata nell’immaginazione del cacciatore, proprio corrispondente alla sua figura. S’era fatto brillante ed esotico, per mostrare fino a che punto lontano si spingeva il suo assorbimento negli affari, per fare un contrasto con quella sua barba ricciuta e appuntita, frastagliata e nera, unticcia, che non prometteva nulla di buono. Era tutto un contrasto, l’occhio sinistro di azzurro pungente come cristallo lacustre contro la pelle olivastra, e contro l’altro occhio, di un marrone intenso che pareva diventare rossiccio in certi giochi di luce. A reggere lo sguardo mandato da quelle pietruzze di opposta glassatura, cresceva la sensazione di conoscerlo. Sembrava esercitare sui clienti due forze opposte: un occhio li trascinava a sé, l’altro li respingeva, col naso aguzzo ne fiutava l’attitudine che avrebbe portato alla prevalenza dell’una o l’altra tendenza. Ma a tutti restava una certa fascinazione nei suoi confronti, che assorbiva come nettare e in parte immagazzinava in una memoria prodigiosamente selettiva; in vista di una futura visita presso una fiera, si sarebbe rafforzato dell’idea di conoscere già, in alcune parti profonde inaccessibili ad altri, molti dei potenziali clienti. Godeva nel lasciare negli altri il ricordo di un odore di sabbia e bazar, di tabacchi strani, nel riuscire a imprimere in tutti senza sforzo l’impressione della sua curiosità, tale da non arrestarlo nemmeno davanti a cose sinistre, un tratto che spaventa la gente comune ma che in fondo la affascina. Tuttavia non riusciva a leggere bene quel cacciatore con la sua buffa sigarettina, con in gabbia una bestia più interessante della sua. Volle studiarlo subdolamente, capire se fosse un ostacolo.

-e devo dedurre, collega,- gli si era rivolto dalla distanza, sorridendogli di sbieco -che quella bestia feroce l’ha catturata proprio lei!

-esatto.-, rispose il cacciatore col suo tono basso e cupo.

-l’ha ficcata lei là dentro, in quella gabbia, con le sue stesse mani!

Non disse nulla, sembrandogli che avesse già risposto.

-sì, si capisce subito che è di quella specie, lei. Quanto a me, mai e poi mai andrei a ficcarmi in un simile pasticcio, ci tengo troppo alla mia pellaccia-,diede tre piccoli calci alla gabbietta della viverna, che aggrappò più forte le maglie per non perdere equilibrio -manco fosse per prendere questo piccoletto, qua. Ma quando si tratta di esporre una bestia, o anche una sua piuma, un uovo, una squama, e fruttarne qualcosa, inventarsene il valore… là sono io a non aver rivali.

Il cacciatore osservò la giovane viverna, tutta intontita, ora quieta per riprendersi dalle scosse. Gli occhi rossi spalancati, i muscoli tesi, era pietrificata. Soltanto la base della gola, a ben vedere, col suo affannato pulsare anfibio segnalava che fosse una cosa viva. In pochi gesti era stata mutata in un oggetto inanimato, uno fra i tanti del mercato. Si voltò poi verso la sua chimera. Una zampata, un sibilo di lingua rossa, poi scattava e prendeva a girare in tondo rapida, poi di nuovo un balzo ad avventarsi contro il tetto. Impazziva per il fatto di essere contenuta; poteva mai esistere un gesto che riducesse anche quella alla quiete di una merce sul bancone, pronta per essere ispezionata dalla mano di un avventore e portata in una casa?

-oggi, però, le cose sembrano un po’ diverse… -il commerciante fece qualche passo verso la sua postazione -permette? Posso avvicinarmi al suo esemplare? Mi serve, capirà, un’occhiata più da vicino, da intenditore. -a quest’ultima parola diede un ghigno di affabilità mal riuscita. Il cacciatore fece un cenno col capo, senza interessarsi ulteriormente. Manteneva lo sguardo sulla strada, dove i passanti irrequieti, proseguendo davanti alla chimera, acceleravano il passo con diffidenza, e qualche bambino meravigliato veniva trascinato con forza da una madre vigile; alle sue spalle, il commerciante che eseguiva le sue stime non era affar suo.

-mmh, davvero un bell’animale…- disse accarezzandosi la barba -vediamo se…

Ci fu un forte rimbombo metallico, frammisto a un assordante insieme di sibili vari. Il commerciante fece un salto all’indietro, impallidendo per una frazione di secondo, si udì il respiro mozzato. Poi, in un baleno riprese il suo colorito, e rise ostentatamente. Aveva avvicinato una mano alle sbarre, per testare chissà quale caratteristica, e in tutta risposta la chimera si era avventata con maggiore violenza, impressionante come un piccolo lampo che corre su zampe.

-non c’è dubbio, questa è una bestia eccezionale, migliore di qualsiasi cosa su cui abbia messo le mani io… - tornò alla viverna, un altro calcio. -questa peste, la ottenni da un falconiere straniero, che incontrai presso un’oasi orientale. Era sceso dagli altipiani non lontano da là, tutti arsura e piante grasse, e se ne stava tranquillo a bere un infuso, col falcone appollaiato di fianco a lui, senza nessuna fretta com’è tipico della sua gente. Un tale stupido! Non sapeva niente delle proprietà magiche della viverna, nulla del valore delle uova e del veleno, della dentatura nel mercato nero. Fu un gioco da ragazzi, me la sono fatta dare per due monete, e adesso me ne frutterà dieci volte tanto. O anche di più, se mi riesce di trovare uno fesso come lui, hahaha!

Il cacciatore non comprendeva discorsi di quel genere, pur senza disprezzarli, e non commentava. Si rendeva conto del fatto che non fossero poi tanto separati dalla sua professione, anzi, ne erano nella sostanza parte integrante. Si limitava alle catture, talvolta le uccisioni, nella sfera privata della sua esistenza, egli contro la vastità della natura selvaggia; in comunione solo con l’animale, con la vita e la morte, con quel tuffo inebriante che le tiene unite come un filamento agonizzante, il momento in cui lo si trova dopo mesi di esplorazione a rappresentare il punto più sublime dell’attività intera, e di ogni attività umana. Ma poi, occorreva far ritorno tra la gente, e là altre cose si verificavano. Credeva che nessuno, se non un cacciatore come lui, potesse carpire l’essenza del rapporto profondo che si generava nella caccia, che sembrava parlasse ogni volta, comunicando un’essenzialità ancestrale in cui si racchiudeva il significato ultimo delle cose, un sostituto al bisogno umano di ricercare un senso. Era convinto di essere nato con l’idea che trovare un senso nelle cose fosse impossibile, perciò non c’era altro destino che quello, l’unico che gli avrebbe riempito il cuore di qualcosa di diverso, che lo distraesse dal vuoto. Eppure quelle persone, interessate più che alla sostanza reale del suo lavoro, a tutta la parte successiva -cosa fare della cattura? Carne, addomesticamento, trofeo, eliminazione, libertà?- anche loro, insomma, conoscevano forse una forma di pienezza, diversa e raggiunta in modi diversi. Poteva egli, in effetti, scrollarsi di dosso la responsabilità di tutto ciò che accadeva in seguito? Poteva lasciarsi assorbire dai sogni di epicità, che fermentavano la mente in simbiosi con le montagne, al punto tale da ignorare che era sempre lui a tornare ogni volta, a inserirsi in quella fase successiva per un impulso indefinito e nascosto? Pensò ai legami che conosceva, o aveva conosciuto, con altre persone. Si veniva al mondo da una famiglia, e si finiva per generarne un’altra di propria volta. Si sopravviveva, si prendevano decisioni che determinavano l’esistenza stessa di un villaggio, di una comunità. Decisioni che odoravano di chiuso e caldo, di accogliente, di utensili ed empatia, di odio e invidia, di calendari e feste. Lontane, lontanissime da decisioni di bufera e ululato, di artiglio e grandine, di eco senza fine tra gole e caverne. Ed era a quella stessa vita che stava facendo ritorno, anch’essa parte di lui. Il cacciatore raccontava di quando la sua preda stette al mercato, e il fuoco mutava forma di continuo. Stava accadendo qualcosa. La cosa invisibile acquattata tra le fiamme lo stava finalmente smuovendo, stava insidiando un sentimento illeggibile dentro di lui, e lui raccontando lo estendeva a tutti. Tornavano sui propri pensieri, generavano questioni. L’aria ondeggiava, smossa da ondate di energia lontana dai sensi, generatrice indisturbata di groppi alla gola. Era una proprietà di quel fuoco, forse un falò magico donato dalle viscere della terra, oppure si trattava di qualcos’altro?

-mi misi a osservare la chimera. Sentir parlare quel tizio mi aveva messo come una voglia di prestarle maggiore attenzione. Anche i passanti, di fronte a me… qualcosa mi faceva distogliere lo sguardo. Non mi andava più di vedere la pelle nuda, gli abiti. Cominciavano a trasmettermi inquietudine. -fluttuò nell’aria un’impressione aliena. I cacciatori ascoltavano, assai presi, come bambini, e come bambini cercavano di ignorare una certa ansia derivata dall’estensione del buio tutto intorno al cerchio sicuro del fuoco, quelle cose nascoste oltre l’alone arancione di luce.

-invece, mi accorsi che guardare la chimera mi calmava. Proprio come si dice, sembra che nei suoi tratti si incontrino più animali, molto diversi. Nella parte davanti è come un grosso gatto selvatico o una lince, snella, dai contorni aguzzi, eccetto che per la folta criniera, che a guardarla dà l’impressione di lacerare come aculei di istrice, urticante come un cespuglio d’ortiche. Volto triangolare e orecchie appuntite, canini lunghi, lingua rossissima e verminosa. Il bel manto è giallastro, con striature e macchie che si intersecano. Nella parte posteriore però si fa scuro, fino a diventare nero e di consistenza stopposa, come torba sfilacciata: un po’ un incontro tra il pelo rovinato di un cane randagio e lana di montone. Anche i piedi, diversamente dalle zampe feline davanti, si induriscono come avessero zoccoli per cozzare sui picchi. Spuntano da questo pelo molte code dure, come placche ossee, code squamose di rettile di varia lunghezza, che muovendosi fanno rumore come sonagli. A questi e ai soffi da gatto si uniscono delle ali, non molto grandi e invisibili se non si è attenti, come di insetto. Battendo sulla schiena danno un ronzio costante ed energico come il volo di uno scarabeo. Questa la creatura che avevo catturato, in cui cercavo una qualche forma di conforto. Sfidai quegli occhi arancioni, quelle pupille verticali. Non smetteva di soffiarmi, di spalancare le fauci per intimidire, le vibrisse che si agitavano. E in quel volto che mi odiava, d’un odio che può provenire solo dal crepaccio in cui è nata e cresciuta, ho trovato il sollievo dall’odio che poteva provenirmi dagli altri.

Il cacciatore si inclinò lateralmente, per raggiungere col braccio teso un bastone. Si mise a ravvivare il fuoco, come per concedersi una breve pausa. La cacciatrice lì presente, colpita dal racconto, prese a guardarsi con intensità inspiegabile il pugno chiuso, come cercasse di entrarvi e nascondersi sotto le nocche. Il cacciatore robusto, seduto all’estremità opposta del semicerchio, non gli levava gli occhi di dosso, mentre l’altro teneva il collo sollevato con aria sognante. Ognuno a modo suo attendeva il seguito.

-“ha portato un mostro quaggiù!”, “vuole vendermi carne avvelenata”, “se facessimo una pelle di quella cosa, chiunque la indossi ne uscirà maledetto per la vita”… presi ad attribuire questi pensieri alla gente che passava, non volevo fidarmi di loro. Non mi volevo fidare di nessuno che potesse odiarmi soltanto per aver portato lì quell’animale magnifico. Lei non mi avrebbe mai odiato per una mia azione, quale che fosse. Il suo odio, forse, neanche ha questo nome, ed esiste solo come iscrizione antichissima e immortale sulle matrici delle nostre stirpi opposte. Dovrei liberarti, qui, ora, mi dicevo. Dovrei cacciar fuori zanne e artigli anch’io, farmi spuntare le code, produrre bava tossica, diventare un insieme grottesco di membra aberranti che non dovrebbero mai unirsi. Dovrei tendere la mano così agli sconosciuti, in queste fattezze, spaventarli a morte per essere più creature in una, salutare e ruggire al contempo. E se ti liberassi qui, per le vie del mercato, mia chimera, potresti correre in giro e cambieresti con la tua apparizione le vite della gente, infondendogli un timore della morte mai conosciuto, o magari conducendoli tu stessa alla morte, con una sola zampata o più lentamente con le tue sostanze demoniache; o al limite, ti avventeresti su di me per primo, e lotteremmo rotolando qui nella polvere, assassinandoci a vicenda, e sarei contento di morire in questa maniera.

Il cacciatore riferiva i suoi pensieri così come gli si erano presentati allora. Era sorprendentemente facile ricordare questi particolari. La sua anima era stata plasmata, quasi avesse essa stessa generato ali di insetto e code di rettile, mandanti sibili lungo tutte le membra a ogni suo moto. Bastava guardarsi dentro per ritornare all’asprezza del paesaggio in cui l’aveva trovata, asprezza che ella doveva aver assorbito pascendosene da che era venuta al mondo. Il cacciatore da allora si era sentito un nuovo odore addosso, di silicio sgretolato, midollo di roditori fracassati su guglie millenarie, detriti portati da venti viziati.

-la invidio, amico mio. -gli aveva detto il commerciante vestito di deserto e spezie -ma sa che le dico? Sarò contento fin tanto che oggi vedrò compiuti dei buoni affari. Non importa che non sia io a concluderli, purché ci siano. Mi dica, dunque, che intende fare di questa sua bella bestia? Cosa se ne ricava? Veleni, elisir? Forse la testa nella sala grande di un nobile, che pagherebbe alti prezzi pur di averla e vantarsene coi visitatori. A quelli piace inventarsi storie, di come hanno ucciso i mostri più spaventosi, ma spesso il massimo della campagna che conoscono è una passeggiata nel lussureggiante giardino di famiglia. Io ho commerciato con tutti, e conosco ogni tipo umano. Per esempio…

Il commerciante ruotò il collo lentamente, più volte a destra e sinistra, per dare uno sguardo ricognitore ai paraggi. Leggeva nei passi e gli atteggiamenti storie famigliari, tendenze e insicurezze, convinto di avere in pugno tutti in virtù della sola furbizia. Qualche passante si accorgeva di avere addosso, simile a una macchia di sporco da sbatter via a pacche energiche, lo sguardo arrogante di quella torretta barbuta roteante su se stessa.

-sì, in effetti qualche piccolo nobile potrebbe passare da queste parti e domandare della sua bestia. Un piccolo nobile con qualche voglia di farsi credere più grande. Ma, a giudicare dalla maggioranza- accennò chiassosamente, in modo che potessero sentire, agli altri commercianti che aveva lasciato più in là, tra pollame e maiali -direi che abbiamo perlopiù un pubblico popolano. Poco male, non si preoccupi! Gente rozza e superstiziosa, può vendergli un osso come amuleto, sangue e urine come una panacea. Ma queste sono solo idee mie: la preda è la sua, sta a lei decidere come sfruttarla. Per curiosità, mi direbbe a cosa aveva pensato? È il minimo, dopo che le ho svelato certi trucchi del mestiere!

Ammiccò gesticolante, cercando di lasciar intendere per accattivarselo che raramente degnava qualcuno di tante attenzioni, del privilegio della sua esperienza. Il cacciatore non voleva saperne niente, ma… già, cosa ne avrebbe fatto? Con il corpo era là, le gambe ce lo avevano portato quasi da sole, come facevano al ritorno da ogni caccia (ma perché?)… con la testa, però, era ancora sulle montagne, ancora nel momento sacro della tenzone tra nature dal sangue opposto. Non poteva rispondere, non poteva capire cose tanto umane. Rispose allora nel solo modo possibile, schiudendo la stessa vaghezza che galleggiava nel suo cuore.

-io sono un cacciatore, il mio compito è di prendere la bestia, o di ucciderla. Quale cosa tra le due, lo capisco quando sono là. Una bestia rara così, la catturo e la espongo agli uomini. Cosa se ne debba fare, sta a loro stabilirlo. La mia parte è già fatta, e non è questione di guadagno.

Il commerciante sorrise malignamente, scoprendo fino alle gengive due file di denti ingialliti, gli occhi infossati in una sorta di piacere autoerotico della vittoria, i piedi sempre frettolosi ora fermi.

-aaah, aah, capisco…- accondiscendeva con tono eccessivamente cordiale, con scherno mascherato da dolcezza, come si rivolgesse a un marmocchio -allora, beh, la lascio ai suoi, ehm, “affari”, e io bado ai miei… mi stia bene!

Detto questo ritornò alla sua postazione, tutto soddisfatto, col naso a sperone puntato a squarciare i cieli, a incidervi l’arroganza di un uomo che costantemente li sfida. Era tutto come aveva previsto, il cacciatore era un idiota, e in nessun modo poteva rappresentare un ostacolo ai suoi affari. Che merce sprecata, quella chimera nelle sue mani! Ma era inutile provare a sottrargliela, non ci sarebbe mai riuscito: aveva inquadrato il tipo. Certo, come commerciante poteva ottenere qualunque cosa desiderasse, ma la regola era che si muovesse per ottenere soltanto ciò che dava più profitto. E in quel caso, per quanto piangesse il cuore a vedere una simile rarità andare a male così, la cosa migliore da fare era lasciarla dov’era. La gente, per quanto raggirabile, del tutto stupida non era (non stupida quanto il cacciatore!), non si avvicinava a chi neanche aveva idea di cosa stesse facendo. Nemmeno avere in palio una meraviglia poteva cambiare questo fatto, un fondamentale problema di atteggiamento. In sostanza, aveva vinto lui: era ancora la forza attrattiva più forte nel mercato degli animali, quel giorno. Continuava a ridersela sotto i baffi, non prestando più attenzione ad altro che i passanti, come avesse cancellato dalla sua testa il cacciatore e la sua chimera, ormai informazioni insulse che intralciavano il guadagno. Più tardi nella giornata gli riuscì di vendere la sua viverna per trenta monete, dopo di che scomparve.

-un tale venne a chiedermi perché mai avessi portato la bestia al mercato- continuava a raccontare il cacciatore -sembrava quasi disgustato. Il mercato è un luogo che ha del sacro, diceva. Sacro!

Per un istante sembrò che per la notte montana potesse librarsi qualcosa di simile a delle risate, non più udite da quando, prima delle parole, le scimmie decisero di scendere in pianura camminando su due gambe. Un cacciatore che iniziava a rendersi conto di aver annaspato a lungo tra le estremità del suo essere, non più afferrabili come una volta, si appellava al relitto della presunzione di un tempo, contando sul fatto che anche gli altri lo facessero. Non ci credevano più neanche loro, ma cominciava a ritornare la debolezza e avevano un certo bisogno di bugie. Che fosse la vecchiaia in avanzamento per tutti, a rendere la stanchezza di una missione in grado di manipolarli tanto? Forse di quei tempi si iniziava a invecchiare prima.

-che ne sanno, loro, di cosa è sacro?- derideva la gente, poco convinto, nervoso nel riso che trovava riflesso nelle altre nuove insicurezze attorno al falò -non c’è suono di rocce laggiù, niente di così perentorio come il battere di zoccoli duri contro un dirupo. Non c’è eco neanche a pagarla, neanche a pagarla con l’oro finto che tanto amano far circolare. Eppure questo ometto era capace di convincere. Più parlava, più gente si fermava, molta più di quanta se ne fosse fermata prima a vedere la chimera. Erano diffidenti, come scappassero più lontano possibile dal punto in cui stava. E invece è bastato un primo temerario insolente quanto basta da mettersi a far discorsi, capace di mettere a frutto quella stessa diffidenza come arma e non come incentivo alla fuga… poteva quasi scoppiare una rivolta contro di me e la chimera.

Il fuoco avvampò l’ultimo strenuo tizzone di un tronco perituro. Una fiammata arcuata fece un balzo più alto della sua ormai flebile altezza, come fosse il respiro finale, una parola densa di sdegno. Sul viso di chi stava davanti si distese un boato caldo.

-“non si può mangiare la carne di questa creatura, non produce latte né uova”, mi diceva indignato. Io volevo dirgli che di uova ne produce eccome, deponendole in anfratti irraggiungibili a meno di saper arrampicarsi come lucertole; dove poi si schiudono, consegnando il contenuto famelico a un mondo che è carestia e minerali, carcasse, isolamento. Ma a quello non sarebbe potuto interessare, perché tutto ciò che vuol farci con le uova è mangiarsele.

“E chi può dirgli niente?”- pensò tra sé, senza mostrarsi -“quando io stesso ne ho mangiate tante, prima di chiedermi da dove venissero?”

-e così la sua tesi era che avessi disturbato la quiete delle persone per bene, facendogli vedere la chimera soltanto per farmi bello. Della bellezza non so che farmene, dicevo io. Però, in un attimo che mi voltai alla chimera in gabbia, per non doverlo guardare in faccia, mi accorsi che la trovavo bella. Era dunque la bellezza, l’averla trovata con tutta la sua aridità e asprezza, a darmi l’impulso di mostrarla? Non glielo potevo mica dire. Quello blaterava di come i cacciatori si vantano di prove di coraggio e non portano niente sulla tavola. E tutti a incitarlo, a gonfiargli la parlantina. Mi pareva che i volti di tutti si andassero a coprire dello stesso mediocre alone grigiastro che gli faceva da barba, che sputacchiassero come lui dalla foga, che al posto dai capelli crescesse quel suo copricapo bianco a due alette lungo le orecchie. Diventavano tutti come lui, coi denti lunghi e stretti e gli occhi in cavità sempre arcuate e pronte al rimprovero, con le braccia più spesse delle gambe, l’addome duro e le stesse opinioni. Mi circondava una squadra di ometti tarchiati e tozzi dalla testa dura, laddove c’erano contadine e artigiane, pastori e figlioletti, vecchi e sfaccendati di passaggio al mercato. Dissi loro che prima o poi sarebbero venuti a lamentarsi: se altri villaggi fossero stati costruiti, altre strade aperte per far sentieri e mercati lungo i versanti della catena montuosa, prima o poi la chimera sarebbe discesa a sterminare il loro bestiame. Io portandogliela davanti davo la possibilità di decidere, nel qui e ora, cosa farne. Anche ucciderla, se tanto detestavano vederla, per sventare la minaccia futura. Continuavo a gettare occhiate verso di lei, prima inquieto e poi sicuro, dicendomi che tanto a lei non cambiava nulla, che si dicesse di farla morire o lasciarla in vita, di venerarla o disprezzarla: nessuna parola umana avrebbe avuto alcun effetto sugli scatti inarrestabili contro le pareti della sua prigione, nessuna frase avrebbe sovrastato i sibili selvaggi. Mi inorgoglii del suo comportamento come fosse un figlio.

-“e allora potevi ucciderla già che eri a mille metri sopra i fatti nostri!”, mi ha risposto. “Che senso ha portarla quaggiù, se non vantarti della tua bravura, che a noi non serve?”, e appresso a dirgli bravo e giusto. Questo si è avvicinato alla gabbia, in maniera diversa dal mercante di prima. Nei gesti di quello almeno si avvertiva la sua conoscenza, derivatagli dalle numerose esperienze in giro per il mondo, che lo avvertiva del magnetismo misterioso irradiato dalla creatura. Se avvinandosi le ha mancato di rispetto, lo ha fatto con la consapevolezza della bestemmia insita nel suo gesto, in nome di quella curiosità che va contro gli dei. Mai si sarebbe sognato di ritenerla una cosa da niente. Invece quell’oratore di campagna si era gonfiato di sfida e disprezzo. Piegando le braccia scure e pelose, spesse come travi, con le nocche infilate nei fianchi, si era piantato lì davanti a non batter ciglio nemmeno quando la chimera si avventava con gli artigli fuori dalle sbarre, a un palmo dalla faccia che la squadrava come fosse nient’altro che un insetto fastidioso. C’era qualcosa di ammirevole nella faccia tosta di quell’uomo, nell’estrema ignoranza che gli permetteva di imbruttire un animale più mitico e grande di qualsiasi cosa la sua mente avesse mai concepito, riducendolo a una scocciatura; una roba da sbruffoni, una roba “strana” dalla quale magari un fesso si lasca incantare, ma lui no, non lo freghi. Sa dove stanno i suoi piedi, calcati nella polverosa strada del mercato, sa dove stanno i suoi pugni, ficcati nei fianchi a mostrare tutto lo sdegno di una vita orgogliosa di semplicità e onestà. È assurdo, ma riuscivo ad ammirarli entrambi. L’uomo schietto e ottuso, ma che ha vissuto cose a me estranee, la bestia selvatica fatta di bestie diverse, che ha vissuto come me uccidendo e difendendosi, scappando verso l’alto in nascondigli remoti. Volevo essere entrambi, volevo esser fatto delle opposte energie che li animavano, volevo fuggire da quel mio ruolo in mezzo a tutto ma nel cuore di niente. Un intermediario tra due mondi che non si parlano è uno che ancora una volta deve ritornare tra i monti da dove è venuto e riflettere di nuovo su quello che fa, prima di scendere e ripercorrere i passi che l’hanno portato a smarrirsi.

Per un po’ il cacciatore si rintanò in discorsi indicibili, per il suo solo orecchio interno. Si toccava una mano, imitando senza accorgersene il tocco lontano di un’altra persona. E mentre suo malgrado veniva posseduto da un ricordo immerso nel legno e il calore domestici, un’ombra sembrava esser finalmente strisciata fuori dal fuoco. La rara, temibile manifestazione delle traveggole del cacciatore, al suo capolinea quando inizia a scorgere nelle ombre del mondo strani allungamenti, mosse che non ci sono, spettri. Come sgusciante dalla scorza ignea, una forma schiacciata e uniforme, nera e incolore al tempo stesso, composta del nulla, estendeva numerosi arti atrofizzati per arrancare a fatica lungo il terreno concreto che non costituisce la normale superficie dei suoi passi. Come un neonato gattonava, reimparava lo spostamento. Tutta piena della stessa sostanza dei suoi contorni, non aveva occhi ma sembrava guardasse e si facesse guardare, per gli occhi dell’immaginazione fuori controllo d’un montanaro sognatore. Non era aggressiva, non incuteva timore, ma ispezionava i dintorni con curiosità fastidiosa: laddove rivolgeva la sua occhiata inesistente, spuntavano fuori altre piccole ombre, batuffoli scuri in fermento risvegliati da un capo emerso dal letargo. Legioni che formavano fiotti guizzanti e che, ci si rendeva conto con un brivido come di numerose zampette viscide sulla pelle, erano annidate nelle fessure imperscrutabili tra le cose del mondo. Ora si eccitavano alla fuoriuscita di ciò che era della loro stessa sostanza, ma più grande, la versione migliore del loro essere. Gli altri cacciatori non la vedevano procedere macilenta, quella “cosa” scura. Oblunga e liscia, smussata dal fuoco da cui usciva senza terminare mai, si avvicinava -chissà a cosa- senza far rumore. “sì, so che ci sei”, sembrava invitasse a pensare. “me l’hai fatta, sei riuscita a impressionarmi”.

Molte volte l’aveva incontrata, percependola senza visualizzarla, a braccetto con la sua coscienza, separata da essa come una seconda testa. Il cacciatore dalla chioma bianca non sapeva comportarsi. Si muoveva come tra le bestie e i demoni delle montagne anche in mezzo agli uomini, mandava sporadici sbuffi di asprezza granitica frammista nel tempo delle cose molli e tenere. Riecheggiavano parole che erano la forma sonora del tocco d’amore impresso nella memoria tattile, aleggiante sui pori, voce confortevole giunta a cambiare le implicazioni dei suoi sbagli.

“non ti rimprovero per il male che puoi fare a me o agli altri, ma per quello che puoi fare a te stesso. Se ti comporti con le persone come quando sei a caccia, prima o poi accadrà il contrario. Sei confuso, sei un miscuglio; ti ricorderai del sentimento, delle debolezze quando starai in mezzo a un bosco. E a quel punto che succede? Qualcosa salta fuori per succhiarti il sangue?”, lo prendeva in giro. Quel momento era arrivato. Ci siamo, pensava il cacciatore, mi sono fregato, sto avendo l’allucinazione di un mostriciattolo che esce dal fuoco. Ho paura e nostalgia, e mi sta venendo da ridere. Non visto dagli altri, tutti resi meditabondi dalla storia e dalla notte, piegò la bocca compulsivamente, un sorriso di nervi e contraddizioni. “sei proprio un animale strano tu, lo sai?”, gli aveva detto ridendo quella stessa voce, in un’altra occasione (era in fondo un tipo che dava modo di esser preso in giro affettuosamente) -“cambi a seconda di ciò che hai intorno, ma a volte ti dimentichi di farlo. Vuoi avere più facce, più parti del corpo. Neanche tra tutte le bestie che hai preso ce n’è una contorta come te.” Lei gli faceva ballonzolare come un giocattolo flaccido la sigaretta nelle labbra.

Si riebbe di colpo. La creatura del fuoco era sparita senza lasciar traccia, non seppe dire quanto tempo fosse trascorso in silenzio, dall’ultima interruzione della storia. Ripensò alla chimera, alla sconfinata e inspiegabile affezione che aveva sentito crescere nei suoi confronti. Era stato come il senso di brivido nello scoprire pezzi di sé nascosti, terribili e meravigliosi, letali ma straordinari come un brivido fiabesco.

-mi costrinsero, insomma, ad andarmene. Non volevano la chimera là in mezzo a loro, non volevano me. Avevo frainteso la gente. Che cambia se la uccido qui, davanti a voi, o se torno su in montagna a compiere quello che dite andasse fatto sin dall’inizio? E invece non potevano tollerare la morte di un mostro in mezzo a una strada, perché credono fortemente nei giorni e il loro succedersi. Scannano oche, maiali, con normalità e destrezza di gesti, perché sono creature che hanno il permesso di vivere e morire vicino a dove dormono gli uomini. A questi si riuniscono attraverso i prodotti della loro morte. Invece un mostro, un nemico, si para davanti al viandante nella foresta, o ai margini del campo che va a depredare; è in questi luoghi alle estremità della vita che la sua sgradita esistenza è contemplabile, è lì che ha il permesso di soddisfare con la sua morte violenta il bisogno di sicurezza che tutti hanno. Tutto questo, io, non lo avevo previsto e compreso. Non volevano vederla, né pensare alla sua esistenza multiforme in quello spazio delle loro vite, lontano da leggende e spauracchi. Non dovevo portarla laggiù. Così risalii la montagna, trascinandomi dietro la gabbia che la mia fatica aveva condotto a valle. Arrivai sulla sommità di un’altura verdeggiante, tutta sparsa d’erbe alpine e fiori appuntiti coi petali solari. L’aria era fresca come un ghiacciaio purissimo, le gole e i picchi si alternavano sull’orizzonte severo, le valli sotto erano un pavimento lontano puntellato di ruscelli e mulini, su cui ombre di nuvole e aquile scivolavano più grandiose della vita. Mi entrava tutto nei polmoni, mi riempivo di allucinazioni d’alta quota, e ributtavo fuori aria calda e corrotta che veniva aspirata a sua volta da una chimera che mi stava accanto, pochi passi discosta da me, come un compare di camminata con il quale mi stessi riposando ad ammirare il panorama. Ci lasciammo l’un per l’altra molti ultimi sguardi, vecchi e stanchi d’argento opaco, aguzzi e incandescenti di ambra selvaggia che splende nel buio. Quello che accadde poi di quella bestia lassù, io, cacciatore, creatura che per mestiere cattura e uccide, non intendo dirlo. Ciò che non cambia è che la chimera non è più con me, né con nessuno. Irraggiungibile come intendeva essere dalla sua nascita in mezzo a crani spolpati. Quale che fosse il modo, una separazione c’è stata, ed è stata una separazione giusta. Non ho rimpianti.

Il debole fuoco crepitava sotto improvvisi capricci del vento, nuove immagini vorticavano nel neonato spazio inospitale dei pensieri solitari. Forse altre creature attendevano di uscire.

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(fine prima parte)


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