racconti delle cinque dita- "Alphard (titolo di un brano Post Punk)" (pt.2)
- Milky
- 14 apr 2020
- Tempo di lettura: 12 min
Aggiornamento: 15 apr 2020
Pomeriggio. (Niente. C’era una strana roba nell’aria. In sogno la vedrei come una consistenza scura di gas polverosi. Sono piuttosto densi, li si può toccare, spezzettare, scomporre. I lembi strappati sono evanescenti ai bordi, cucitura sottile, uno smembramento che non reca urla né sangue. Come i malloppi di polvere che si trovano agli angoli ombrosi delle case. Zucchero filato. Mah, roba da drogati allucinati. Gatti che assaporano spezie, mangiano erbe destinate ad altre stirpi. Io invece? Avrò solo mal di testa. Anche se a dire il vero mi sembra la mia testa stia benissimo, nessuna emicrania. Mah, un’aria strana che circola ogni tanto in certi posti delimitati, spicchi d’ombra come chiome d’alberi. Per il resto aria normale. No chiacchiere. Gironzolare dopo pranzo, così, in zona. Che aveva preparato oggi la vecchia? Non è neanche così vecchia. Non dovrei chiamarla così, poverina, non saranno neanche tanti anni che sta in pensione. Sono molto moooolto più vecchio di lei. Udon, pasta in brodo, per un gatto. Digerisco ogni cosa, sono il felino più robusto del circondario, roar. Un po’ appiccicaticcio in bocca di brodo d’ossa midollose grasse, alito di vacca secca. Una volta ricordo che si mise a farmi un ritratto. Non è la mia padrona. Sicuro neanche lei pensa di me che sono il suo animaletto che non ricambia il sentimento. Una persona equilibrata, lei è. Stava là sul suo tavolo, a fare schizzi di prova su un foglio più piccolo, poi l’autentica tela. Io ero là sul davanzale a fare il pallone gonfione. Mezzo addormentato, è chiaro. Poi mi sono mezzo svegliato, e me ne sono andato via. Non credo lei abbia mai più ripreso quella sua opera. Mica sono un modello, io. Forse l’ha stracciato quel foglio. Meglio così. Cioè non meglio, non mi interessa e basta. Però è una signora tranquilla. Cucina perché le piace, dipinge uno stupido gatto –stupida lei!- che con lei non ha nulla a che fare, solo perché le piace. Mette roba in balcone perché le piace, insegna la briscola ai marmocchi perché le piace. Tutto apposto. Brava, anche io. Andrò a dormire di nuovo. Il sonno quando c’è quel sole forte, che in realtà è meno forte che all’ora di pranzo, ma non so, ha un temperamento più sanguigno e ingestibile, almeno per come ti si ficca negli occhi. Devono essere stupidi a vederli formicolare da fuori. Sbadiglio, sbadiglio assai.)
Forse in tutto l’arco della sua esistenza quel gatto si faceva coinvolgere da certe cose solo quando era mezzo addormentato e uno poteva fregarlo.
...
Sera. La sera è diversa. A maggior ragione, meglio non farsi venir sonno, che sono le ore in cui saltano fuori strani inganni. Aiuta essere un animale notturno, cosa di cui il gatto in questione non è mai stato del tutto convinto (ha i suoi buoni motivi).Tutto il giorno ha scambiato due parole solo con la gazza, chissà dov’è. Non ha idea di cosa faccia a parte quando parla con lui. Solo con la gazza, beh no, non è esatto. Qualcuno ha parlato proprio ora (non sappiamo che ora è, insomma, mica ci si può aspettare che l’orologio legnoso del balcone segua il gatto ovunque si sposti). Sul ciglio della strada polverosa, sprofondando con umore lieto nella brezza serale sempre più umida, una raganella sta in piedi su due zampe lunghe e secchissime, stravaccata contro un palo da giardiniere conficcato in un bozzo erboso. Ha l’aria del viaggiatore, il tono è rude come quello di un rospo che ne ha viste tante, di cose insolite sotto i sassi umidi, e conta di vederne tante altre nella notte pronta apposta per lui e tutti quelli come lui. Ha un sigaro in bocca –ma insomma, come fanno tutti questi animali a procurarsi questa roba?-, nelle tinte nere e blu acide dell’incombente notte sulla campagna sembra quasi una fantasia da fumi alcolici di un disgraziato giocatore.
-croak!
Bello sonoro, vuole che quel gatto che cammina dritto per il sentiero si giri. E infatti si gira. Osserva un po’, giusto il tempo per inquadrare la situazione, giudicarla troppo bizzarra per starcisi a raccapezzare e proseguire oltre. Pochi grilli si sentono stasera. Capitano sporadici residui di freddo.
-hey, serata umida come l’inferno, eh? Porco il diavolo delle rane e tutti gli anfibi!-, impreca con aria complice e pelle mucosa.
-già.-, dice il gatto senza fermarsi. Non pensava che l’inferno fosse umido. Superstizioni blues.
-beh, allora ciao, croak. Buon proseguimento!
-a lei!
E finisce così. Quella rana, rospo-no, raganella- sembra il tipo che stia aspettando un autobus trainato da spettri bifolchi e pagani. Appoggiato al suo paletto. Cose strane accadono per chi vive da quelle parti. Aleggia un irriducibile vapore di sigaro toscano.
Il gatto giunge nei pressi di un alto fienile di legno scuro, linee lunghe dritte separano le assi, piccozze e zappe abbandonate contro la facciata. Le teste piegate a terra mandano un lucore di metallo affaticato, più scuro del resto della notte. Oggetti da gente povera, con più stenti del solito: insieme a pochi brividi compongono un quadro invernale. Nei pressi si trovano spesso altri gatti a caccia di roditori del crepuscolo. Ora però non c’è nessuno, nemmeno volatori serali. Un rumore improvviso di cespugli agitati. Il gatto scatta, all’erta, atteggiamento capovolto. Sempre composto, adesso sembra quasi matto. Cosa sono quegli occhi a palla, cos’è quel frastagliarsi del pelo superficiale? Artigli quasi quasi scattano, ma… si guarda le zampe: sente irradiarsi poco gelo nelle vene, come in accordo a una presenza che si avvicina di nascosto, come macchia di condensa che si espande su vetro. Ecco che significava quel senso di annebbiamento pomeridiano, banchi di polvere come geni severi dell’atmosfera. Sempre così quando qualcosa incombe. Poi esce allo scoperto il rumore delle fronde, concretizzato. Essere furbo e appuntito.
-oh.
-ciao, Dindin. Risparmia l’emozione, mi raccomando.
-mph.- (Dindin mi ha chiamato, maledetta, sempre inutilmente sarcastica) -figurati.
C’era stato un certo sussulto in petto al gatto, se non altro per quanto inaspettato era stato l’incontro. Da quanto non la vedeva, decenni, forse? Si augurava che non ci fosse nessun motivo dietro alla sua manifestazione. Perché quando c’è, è una gran scocciatura.
-rilassati.-, dice lei perspicace (insopportabilmente). Pulsa di luce intermittente come una medusa del bosco, accelera in particolare se si sente coinvolta. Creature senza forma, tutte di umore instabile.
-atmosfera intensa, nevvero?
-mah, può darsi.
-tsk, un lardoso ingrato come te neanche sente il freddo come le altre bestie, vero? Lo sento più io di te.
-dispiace deluderti. Ci vediamo.
-heyhey, aspetta. Stasera non guardi le stelle?
Il gatto si acciglia rivolto alla sua vecchia conoscenza, le vibrisse superiori fremono con disapprovazione come se qualcuno avesse allungato la zampaccia in un sacco con la sua roba (se avesse roba da tenere in un sacco). Si volta verso il cielo. Nuvoloso.
-anche mi andasse, mi sembra ci sia poco da guardare.
-ti va’ se ci mettiamo comunque a guardarlo lo stesso?
Dindin, fa la campanella.
-che fai, ci provi con me?
-no, è solo che è bello ogni tanto non avere un bel niente da fare, proprio come te.
-touché. Andiamo.
Così si mettono in mezzo al campo arato, il loro movimento scombina disastrosamente un po’ di timide foglioline pronte a crescere e dar frutto un giorno, e arrivano infine sotto a un ulivo solitario. Chi ce l’ha piega il collo all’insù, il giorno seguente sarà indolenzito. Visto da dietro, montagnola sormontata da una testa cornuta di orecchie triangolari, sembra come tutti gli altri gatti. Orgoglioso ma buffo, scattante ma pigro, prono a ritrovarsi casualmente assorto nell’osservazione immobile di una roba lontana.
-sai che giorno è oggi?-, la spiritella è infastidita e ammonitrice, consapevole di domandare invano.
-il mio compleanno.
-no che non è il tuo compleanno!
-fanculo, io ci ho provato. Apprezzalo.
-oggi, signorino,- (chi insegna a questi cosi il tono da maestrina?) -è passato un tot di anni dalla tua trasformazione. Uno di quei numeri con lo zero.
-ah.
-non c’è niente che vuoi chiedermi?
-non vedo perché dovrei.
-e certo!!- (ecco che comincia a gridare. Sempre così…) –stupida io, a credere che in tutto questo tempo potessi essere diventato meno irrimediabile!!
-senti, facciamo che è davvero il mio compleanno? Così mi devi fare un regalo. E facciamo pure che ti avevo già detto che regalo volevo: cioè, che tu smetta di fare tanto chiasso. Un po’ di silenzio, grazie.
-ah, tu, despota! Tu, stupido, sordo, cieco, testardo…
-mi sa che devo farlo cambiare questo regalo, è rotto.
-mph! E va bene allora: così, se non vuoi il baccano, mi risparmio dal comperarti quella musica chiassosa che ti piace tanto.
(musica?). Il gatto si volta. Deve ben valerne la pena e non essere un vinile che hanno quasi tutti tipo TDSOTM o ITCOTCK.
-come hai fatto, tu, a prendermi un disco?
-non te l’ho preso, infatti. Ma ho catturato per poco il tuo interesse. Che se uno non ti parla in bassi plettrati e chitarre sporche tu non capisci la lingua.
(il solito bluff. E dire che per darle retta ho lasciato perdere la scena che mi stavo girando nel cielo: La Lucertola, goffa costellazione amante del luglio, che pure si nasconde per timidezza quando cominciano a sciogliersi le nevi, arranca fuori dalla tana. Ha sangue caldo, bugiarda. Camminando rasente ondeggia, destra sinistra, barcolla ma è rapida, le punte degli artigli staccandosi dalla volta e infilzandola ancora vi lasciano impressi dei segni, nascono nuove stelle lontane per ogni impronta. Si reca in visita presso Il Drago che con le sue spire cinge gli immobili ghiacci del polo nord, sonnolento bestione dalle froge mai ferme, soffiano fuori fumo siderale. Ovviamente non si vede neanche mezza costellazione. Faccio finta di trapassare le nuvole con queste mie iridi di felino.)
-mph. Sto pure a darti retta.- fissava le stelle più intensamente, recuperava il filo della trama interrotta.
-è stato sleale, lo ammetto.- (come ogni cosa che fai…) –Per farmi “perdonare”, stasera sto ad ascoltarti se vuoi parlarmi di dischi. Com’è, quello raro che avevi, i “Floor…?”
-Pavement. Perché tanto generosa tutt’a un tratto? Ti penti forse di quello che accadde “un tot” di anni fa?
-pentirmene? Ah no! P..proprio no!-, ingarbugliava il discorso sempre concitato (dannati spiritelli lunatici…). Un po’ se ne pentiva, in fondo. Spesso quelli della sua specie, lasciandosi sopraffare dal travolgimento emotivo del momento, dimenticano che gli incantesimi lanciati sono irreversibili, e solo quando si danno una calmata sono capaci di rendersi conto che simili misure possano risultare un po’ eccessive. Si parla inoltre di creature orgogliose che in un modo o nell’altro riescono ad autoconvincersi che non c’era proprio modo di impedirlo.
Occorre sapere che “Dindin”, quel gatto massiccio grigio e bianco, sempre col collare indosso, tanto tempo fa era stato un essere umano. Proprio un essere umano, nato in una famiglia grande, tre o quattro fratelli e sorelle, un padre e una madre, due nonni su quattro in casa con loro. Era andato all’asilo, le elementari e via dicendo. Una volta era pure finito in una scazzottata, da vero randagio di pessimo temperamento. Si comprò una macchina tutta sua, la lavava spesso. Gli era cambiata la voce, parlava un po’ come suo nonno dicevano; dicevano pure che sarebbe diventato calvo o stempiato. Aveva lavorato, si era sposato, aveva dei figli, amava farsi le sue passeggiate fuori città, guardarsi qualche partita, leggere Hemingway, e intanto continuava ad ammonticchiare i vinili che si comprava con i suoi soldi da quando era un adolescente con un lavoretto incastrato alle ore di scuola. “Affinità Divergenze” etc. dei CCCP era stato il primissimo. C’era un tipo con un bel negozio, gli consigliava le rarità e i nuovi arrivi dell’usato, non lontano da dove si recava ogni mattina. Una buona cosa. Sigarette e musica le sue spese (suo malgrado dovette smettere, persa la sua forma originaria). Si facevano delle vacanze in famiglia. Buona occasione per passeggiate. Senonché con queste sue passeggiate e divagazioni, in vacanza o meno, aveva cominciato a esagerare negli ultimi tempi, nessuno sa se per qualche motivo. Un giorno se ne era andato a passeggiare e non si era fatto vivo per quasi una settimana, senza dire niente a nessuno. Poi quando era tornato faceva come se fosse niente di che, e rispondeva arrabbiato a quelli che lo attorniavano in lacrime: “e che vi prende a tutti? Uno grande e grosso non può starsene via neanche per un po’?”, di conseguenza venne mandato al diavolo. Non intendevano sul serio, erano parole dettate dalla desolazione. Ma lui ne aveva approfittato per prenderle sul serio e tornarsene a passeggiare fuori. Inforcò giacca a vento, si infilò nella Suzuki (“c’è una cacata di uccello, dopo la lavo ma adesso mi girano troppo”), si rassegnò a doversi calmare con la musica di un CD (di quelli ne aveva pochi) e partì per la periferia. Iron Lion Zion. Un tramonto di fine Novembre, la terra scura ma non abbastanza fangosa da lasciar segni sulle scarpe. Sulle sponde coltivano, pomodori, zucchine, più in là raccolgono kiwi; l’edificio lontano è un agriturismo che conosce bene. Troppo vento, passa subito la voglia di star fermi ad ammirare gli splendidi rossori del cielo. Fa avanti e indietro nervosamente, la faccia da vecchio intrattabile, deambulata da leopardo in gabbia tutto immerso nei propri ruvidi soffi. La spiritella, nascosta all’occhio umano, evocata dalla vita vegetale lì attorno, lo vede. Lui, concentrato sui suoi pensieri, non la vedeva. Eppure si era resa visibile, ma continuava a darle le spalle. Si sporgeva dai cespugli, curiosa, flettendo i rametti chiede loro scusa, un essere imbarazzato ma dotato di una devastante forza interiore. Ecco, sta “arrossendo” (se avesse pelle per arrossire): vuol dire che quella forza interiore, forse la sua rabbia, sta per uscire fuori; poi tornerà a essere timida e imbarazzata come sempre, o ancor più di prima, in attesa del prossimo sbotto. Lunatici esseri. Insomma, si arrabbia: “Chi si crede di essere, per combinarla così grossa ogni volta? E non impara mai!”, così, non potendo sopportare cotanta maleducazione in un solo cocciuto bastardo, puf! Senza farsi troppi problemi lo trasformò in un gatto. E la Suzuki puf! Dissolta nell’aria. Ecco, ora puoi andartene tutte le volte che vuoi! Gli urla e scompare imprecando, una megera bipolare che sorvola i campi. Ma chi ti conosce, risponde lui poco convinto. Gli ci vogliono circa due ore per adattarsi alla sua nuova condizione. Poi tutto normale: ah, sono un gatto, e va bene. Fatto curioso, perse il controllo soltanto una volta, qualche settimana dopo: un diluvio senza preavviso lo aveva trovato lontano da un riparo, e portò con sé una pesante febbre. Nel corso della notte si svegliò di soprassalto, in preda a mordaci visioni come piranha di starnuti. “Maledetta!”, gridò, “maledetta!”… non poteva sopportare che l’ultima canzone da lui ascoltata fosse un pezzo Reggae. Ma presto si fece passare anche quella.
Passarono tanti anni senza musica e sigarette, senza vedere nessuno di tutti quelli che aveva conosciuto. Passò un numero con lo zero.
Quel “tot” di anni dopo qualcosa manda uno schiamazzo delirante nella notte, sembra una vecchia bestiola prigioniera della demenza. I grilli sono troppo pochi perché si avverta l’interruzione. La spiritella sbadiglia (per imitazione: non ne ha bisogno), poi parla a un gatto come fosse una cosa normale.
-è solo che so quanto ti piace ricordare quelle cose. Sarai uno stronzo e un idiota e uno spregevole...
-grazie ancora!
-…ma almeno a modo tuo conosci una qualche forma di, come dire, di affettività, nostalgia. E sarà pure tutta rivolta a quegli stupidi polverosi dischi scricchiolanti, ma già è qualcosa. Sono contenta di vedere che ti diverti a passare del tempo con quella gazza dal cappello. Ci tenevo a dirtelo. Mi hai sorpresa.
-hey, non mi spingerei a tanto, “mi diverto”… e poi che fai, stai sempre a spiarmi?
Cri, cri. Din, din. “Croak” da lontano, forse l’autobus della raganella ha finito il giro e l’ha posata alla fermata (e intanto non risponde mica, la maledetta…).
-sai…-, fece dopo un po’, stranamente malinconica. O in imbarazzo elfico? –da pochi giorni ti è nato un pronipote. Il figlio del figlio del tuo più piccolo…
-ah. Ma pensa. E di un po’, come sta Giampiero?
Ci fu un barrito elettrico. La spiritella, dopo una specie di starnuto sordo, aveva cominciato a lampeggiare di gas luminosi, una tortura per la retina.
-Giampiero?!? Giampiero??! Chi cazzo è Giampiero??
-beh, sai…
-Gianluca, forse???
-eh, quello...
Il gatto seppe ancora una volta, dopo molti anni, di averla fatta grossa. Per quanto parzialmente incorporea, per quanto astratta, la capricciosa cascata di pugnetti che gli stava piovendo sul fianco era piuttosto fastidiosa. In più ogni colpo dava una leggera scossa.
-scemo, scemo, sei il peggior gattaccio che abbia mai visto! Cuscino pulcioso, straccio di pelo marcio!– (ecco che ricomincia con gli insulti) –neanche il nome di tuo figlio!
-ma no, ma no, che hai capito…
E continuarono così per un po’, non serve soffermarsi sul resto. Si salutarono dopo aver passato molto tempo a seguire i percorsi delle nuvole, scivolavano come iceberg lumacosi.
...
Il gatto seguì gli ultimi movimenti del cielo scuro da sopra un tetto, casa della signora pittrice. Poche ore all’alba, i nembi già imbianchiscono. Un merlo comincia a provare i suoi assoli. Troppo Coltrane, “trovati un tuo stile!”, gli griderebbe se soltanto gli andasse. Nessun contadino ancora esce, nessuna Ape frettolosa, ore fatte di acqua calma. Eccoci qua. Tanto non aveva sonno. Non saliva spesso sul tetto, anzi, forse ci era salito soltanto una volta, non ricordava quando. Chissà perché. Non era male. Ci sarebbe tornato ancora. Nette linee dove si separano e incontrano le singole tegole celeste chiaro, piacevoli al tatto. Bello farcisi le unghie. Bella vista, deve esserlo anche all’alba sul podere. Meglio il cielo, però: c’è una storia in sospeso da riprendere. Il gatto è accovacciato, la solita posizione cicciona, guarda in su con la stessa faccia distratta di ogni gatto curioso, e le sue pupille sono più sferiche che mai. Membrane umide. Fa le fusa a se stesso.
(“Svegliati, svegliati o Drago, abbandona per poco i tuoi ghiacci: al tuo ritorno saranno intatti. Che io sono venuta qui, fuor di stagione, proprio per te, per invitarti a partire”, canta La Lucertola. “Perché, perché importunare me, re dei rettili? Scendi più giù lungo il cielo che splende: troverai di che avventurarti con un altro compagno. Io non migro, i miei ghiacciai non li lascio.”, brontola Il Drago. La Lucertola è triste, ammutolita vaga; cammina cammina nel cosmo immenso. Incontra più giù un’Idra, verde anch’essa come lei e come Il Drago. “Idra, cara Idra”, parla alle teste, guardando ora questa ora quella, “la mia coda mi avverte: qualcosa viene a staccarla. Accompagnami nel cielo, che c’è da svignarsela.”, e le teste, biforcute lingue, rispondono una parola ciascuna: “cara Lucertola, spostarmi non posso: sono la più grande che si vede nel cielo, ingombrante e pesante, sono un tempio: solo le teste si agitano e il mio corpo sta fermo. Ma ascolta: le teste muoiono. Cadono, cadono, una ogni giorno. Se accetti di prendere il posto di una, avrai garantita la tua protezione.” Così la lucertola, per la sua faccia di serpe, poté passare i suoi giorni come testa dell’Idra. Ma pensava al suo Drago col suo ghiaccio lontano, e isolata se ne stava in una posizione discosta dalle altre stelle. Talvolta la paura tornava a tormentarla, allora aveva bisogno di essere consolata: chiamava, chiamava invano le altre teste, ma per quanto stirasse il lungo collo erano tutte troppo lontane da lei, non distingueva le parole delle loro risposte urlate nel vuoto. Così doveva cavarsi fuori dalla paura da sola. Udiva però dal nord un ruggito: roar, roar. Lassù c’era una costellazione feroce, il re della savana e delle notti di Marzo. La Lucertola manda fuori la lingua a intermittenza. Vista dalla Terra sembra tintinnare.)
Titoli di coda, si riaccendono le luci, “The Light Pours Out Of Me”. Oppure “All Cats Are Gray”, ma quella preferirebbe usarla per un altro suo film.
(fine)

Comments