racconti delle cinque dita- "Alphard (titolo di un brano Post Punk)" (pt.1)
- Milky
- 14 apr 2020
- Tempo di lettura: 17 min
ALPHARD (titolo di un brano Post Punk)
Erano circa le 7:15, quasi 20 diciamo, quando nella cieca lontananza il suo occhio aveva colto il fremito luminoso di un movimento privo di sorgente. Proveniva da un’altra terrazzina esterna a ridosso della via sterrata, proprio come quella sul cui bordone del davanzale lui stava rannicchiato e ancora sonnolento, tutto intorpidito e apparentemente di cattivo umore. Nella tipica posizione in cui pareva momentaneamente piuttosto ciccione, scorbutico e buffo allo stesso tempo, dava soltanto pochi nervosi colpetti di orecchia e le palpebre lottavano con se stesse per non ricadere di continuo. Si disse che doveva essere qualcuno che sbatteva un tappeto impolverato all’esterno, a giudicare dal rumore di cuoio tendinoso, frup, frup (ci sentiva meglio di come vedeva). Troppo lontano nella luce del mattino: improduttivo per la sua visione notturna di predatore affinata per la ricerca di piccoli obiettivi raggiungibili soltanto in pochi balzi. Perciò non riusciva a vedere la persona che scuoteva quel tappeto, tutto ciò che rimaneva nell’occhio era un vago ondeggiare completamente avvolto e catturato dai raggi solari, eccessivi, troppo forti a quell’ora. Non c’era vento, ma un certo freddino pungente di atmosfera limpida –doveva esserci un po’ di brina tardiva nei campi primaverili-, tutto era biondo. Non sapeva se si sarebbe riaddormentato, o se era bello semplicemente riposare senza far nulla là sopra, circondato dai soliti “buongiorno” degli elementi che rivedeva palesarsi nello stesso ambiente ogni dì. Cirirucirpcirp sviolinavano gli uccellini più esibizionisti, solo cirp cirp quelli che sapevano di essere rauchi ed evitavano le brutte figure. Bulbeggiare umido di piccole semenze ai lati della strada, apparecchi accesi in lontananza. Tintinnare mattiniero di lastre d’aria invisibili, simili a ghiaccioli. Insetti, piccole palle occhiute di rifrazione caciarona. Lui è raccolto dall’ombra che su tutto il perimetro della villetta ha una tinta da sera estiva. Eppure è giorno, il confine è netto, là fuori è tutto un bagliore. Le vibrisse non stanno un attimo ferme come debbano abituarsi a delle onde che il sole espande nell’aria. fanno temere un tic. Sì, diciamo le 7:20.
Alle 7:40 circa pensa: “boia, mi sono addormentato?”, guarda le lancette, si incanta sul gufetto di legno scolpito al bordo del quadrante; poi si riaddormenta. Gli sembra di aver colto, nei pochi momenti di ridestamento intontito e inaffidabile, la comparsa di tracce di talpa nel prato poco più in là. Sì, dovrebbe esserci anche quell’odore netto di terra rivoltata, ma… oh, al diavolo l’olfatto, si dice, e richiude tutte le fessure. Per quanto sopraffino, non ha molta simpatia per il proprio olfatto. Anche se dorme le orecchie saltano ancora ogni tanto. Nervoso? Non si direbbe, ma forse un po’lo è, in qualche modo.
Alle 8:05 percepisce uno sferragliare assordante, ma è abbastanza lontano e riesce a tenere gli occhi chiusi. Dopo poco, “chicchirichì”, è lo stesso che aveva tanto insistito quando era ancora buio (forse le 6), arrivando a penetrare tra gli spazi in mezzo alle travi accatastate che costituivano il suo casuale riparo. Inclinate, arenate contro il muro sottostante il terrazzo, avevano formato una pila alta e cava all’interno, abbastanza spaziosa, un gatto poteva distenderci le membra con spaparanzo e tranquillità, dormire alla grande dopo qualche fugace euforia notturna. Uccello vermiglio, ruspante urlatore, gola sanguigna a forza di berciare come i vistosi barbigli. Per non starne a sentire il baccano, si era portato la zampa a coprire il volto, tutto contorto e con la nuca schiacciata a terra. Quando i ragazzini che abitavano o gironzolavano da quelle parti lo vedevano in questa posizione ridevano e gli scattavano fotografie, percepiva i click e il chiacchiericcio oltre la cortina del sonno. In quelle circostanze tendeva ad alzarsi e cercare un’altra postazione. Lì sotto invece nessuno lo avrebbe disturbato, invisibile a tutto quanto più grande di lui. Eppure, senza sapere perché, a un certo punto nel corso della mattinata aveva comunque deciso di spostarsi su e andarsi a mettere sulla piattaforma marmorea della ringhiera, sopra le colonne bianche. Gli capitava spesso, di aver voglia di andarsene da un’altra parte senza aver nulla da fare, inspiegabilmente. Se ne stava un po’ là, poi nuovamente cambiava idea e andava in cerca di qualcos’altro, luoghi, sensazioni o il nulla.
Tra le 8 e le 9 non accaddero cose che ritenesse particolarmente memorabili, ciononostante aveva persistito nella sua appassionante osservazione accovacciata. Soltanto la bianca diteggiatura delle zampe anteriori spuntava visibile da sotto il petto rigonfio, il resto del corpaccione peloso protuberante come una scodella rovesciata. Fosfeni dalla forma di mucche pascolavano pacificamente lungo la nera matrice del suo stato letargico, immaginava i campanacci ondeggianti sull’orizzonte della campagna gialla che si estendeva proprio là, fuori dalle palpebre calate. Sbadigliò: una floreale bocca rosa, appuntite zanne candide. Chi lo vede ricorda d’un tratto che quel malloppo di pigrizia e risibile orgoglio è capace di difendersi all’occorrenza: viene così rivelata la natura fiera della sua persona felina, normalmente nascosta. Roar. “Roar”, sorride tra sé, “visto sì che bel bestione sono? Un bestione che spera di poter dormire tutto il giorno”. Era un po’ di tempo che non sorrideva. Vedersi “leonino” costituiva un motivo per farlo, quasi ubriacatura.
9:10, forse 9:12 a essere precisi. È possibile affermare tutto ciò perché c’è un orologio appeso a una parete esterna che dà sul terrazzo. Curioso. Di solito non tengono quegli affari all’esterno, ricorda. Ma alla signora che vive lì piace decorare il balcone con tante cianfrusaglie diverse, è tutto pieno di cose ovunque. Per esempio, dall’altro lato è appeso pure un pulpito in miniatura col mezzo busto di un papa di pietra, e subito sotto pende da un chiodo una specie di targa in latta con su scritto: “Camargue”, canneti e fenicotteri in volo. Vasi sparsi con piante verde scuro, rampicanti sottili che si diramano sul muro, per qualche tratto si infilano pure in casa passando per le fessure della tendina a fili. Ci sono sedie, tante sedie, eleganti, contorni riccioluti, scure, lisce. Pure una sdraio, e una specie di poltroncina da esterni. Che se ne fa di tutte queste sedie? Vive sola, ma a volte la vengono a trovare. Che siano figli e nipoti con al seguito nipotini e pronipotini o qualcosa del genere? Sono come i micetti, cosetti spettinati a cui bisogna far trovare tanta roba inutile immobile così che possano muoverla. Mah, meno male che non ne ho avuti, pensava, anche se. Certo anche quell’orologio artigianale di legno stimolava il loro gusto puerile, il gufo intagliato aveva probabilmente una colorazione innaturale (viola scuro, roba così). Veniva forse da un negozio di oggetti del genere che poteva trovarsi in un paese sotto le alpi. Il tavolo era lungo e stretto, la tovaglia grigio cenere dalla trama acquatica, sempre quella per il tavolo fuori. Macchie di pittura. A volte sistemava un cavalletto, in estate con poco vento, ma più spesso si accontentava del tavolo. Una brava signora. Tra innumerevoli famiglie che si era visto passare davanti ce n’erano state tante che non gli davano da mangiare -comprensibile, neanche lui lo avrebbe fatto al posto loro- e che per giunta lo allontanavano a calci; altre gli propinavano di tanto in tanto carne in scatola, maccheroni duri, grasso. Ma la signora che viveva lì amava cucinare, non di rado si divertiva a preparare in maniera fantasiosa una piccola porzione della pietanza del momento, apposta per lasciarla a lui. Tutta roba buona, ma nessun motivo di ringraziare: del resto lui non chiedeva niente, non aveva mai chiesto niente a nessuno, tutto ciò che faceva era appoggiarsi ogni tanto sulle sporgenze naturalmente offerte dalle case, sonnecchiare tra le comodità, sul cuscino di una sedia a dondolo… certi contadini credevano che acchiappasse i topi e questo gli faceva piacere, altri temevano fosse pericoloso per i polli e lo mettevano in fuga, in entrambi i casi era lo stesso. Ognuno facesse come voleva e tanti saluti. Ecco, lui voleva solo poltrire. Se la professoressa d’arte in pensione si divertiva a preparargli del cibo, che lo facesse pure, non lo riguardava. Si deve mangiare per fame e non per cortesia. Stessa cosa per i nomi, gliene erano stati appioppati tanti. Non ricordava come lo chiamasse lei, a ogni modo nessun fastidio.
Il collare con la palletta dorata, fioco sonaglino. Non se l’era più levato. Quello era stata lei a metterlo? Forse una volta che l’aveva trovato mezzo morto di sonno e inoffensivo, poche svogliate zampate in dormiveglia non sufficienti a bloccare l’intento. O forse erano state quelle altre persone, quelle del bazzico precedente? Ecco, quel nome un po’ lo infastidiva a volte, quello con cui gli si rivolgevano certi animali alludendo al collare. Din, addirittura Dindin in certi casi. Però, per qualche motivo assurdo, il collare gli piaceva. Neanche fosse l’equivalente di una giacca elegante dai contorni poligonali, intimidatoria per status, ci si era subito abituato e nemmeno una volta aveva provato a scrollarselo di dosso. Era diventato il suo collo, era parte del suo corpo.
Dunque, uno dei tipici punti più concitati di una delle discussioni con la gazza, le 9:27 (questa volta è chiaro, lo si vede su quelle lancette blu varicose. Strano, il quadrante segue un design diverso da quello del corpo in cui è incastonato, transita da legno di color bollente a impersonalità metallica da cancello d’ingresso. Comunque i numeri sono tutti visibili e tondi, tutti possono leggere l’ora. Capita a volte di essere così precisi…). Quelli che passano le ritengono il più delle volte discussioni idiote, non si capisce cosa mai li porti a infervorarsi tanto su argomenti stupidi. E poi, quella gazza è un tipo conosciuto come strano, troppo intelligente per tutti, ama chiacchierare di disparati argomenti sempre aggiungendovi un suo tocco stravagante. “Si sono proprio trovati”, dicono, con quel gatto senza padrone eppure ornato di collare, anch’esso inseparabile da un indumento morbosamente incollato –sulla testa trapezoidale della gazza sta sempre posato un cappello di velluto, nessuno ha idea di quale sia la sua provenienza né perché sia stato tessuto così piccolo. È l’unico individuo con cui il gatto viene visto conversare in più di due risposte.
-nulla, ribadisco nulla, rivaleggia con un grave che cade: l’imprevedibilità del rimbalzo, che contrasta e si sposa al contempo con la prevedibilità assoluta della caduta. Ne discutevo con le cornacchie: se ne sono accorte anche loro, cadono tutti alla stessa velocità. Averlo scoperto dà una sensazione fantastica. E poi, oh! Il modo in cui si comportano i corpi toccando terra, tutto dipendente dalla forma, la densità, gli spigoli che hanno e non hanno: sublime, straordinario, l’osservazione non diminuisce mai il suo elemento costantemente curioso e fresco. Perciò lo ripeto: è questo il gioco migliore che c’è, ovvero, far cadere gli oggetti.
-e per me, nonostante tutto, il gioco migliore rimane quello che ti ho detto.
(Avere zampe rotonde, dentro celano artigli, ricurvi, ruvidi. Si ha voglia di muoverle e colpire, ogni forma lunga e sottile che si agita deve essere arrestata. No! Non arrestata. Cioè sì, ma solo un momento. Poi, ah! Di nuovo in movimento. Arresta, agita, arresta, agita. È così bello! Ti senti incastonare nel cranio le pupille che diventano verticali, come ti si conficcassero due fulmini paralleli nel cervello. Poesia di agitazione e quiete, l’unica che c’è.)
La gazza d’altro canto posava sui tralicci nei pomeriggi tersi. Il peso incurvava i fili della corrente. Sporco di piume sfiorava le sfere biancorosse visibili anche dai finestrini del treno che passava lontano sulla ferrovia rurale. Primavera, estate. Soprattutto i fili: da lì sì che cadevano bene gli oggetti, piccoli gusci di frutta secca, pallette, sassi. E c’era spesso una compagnia di uccelli colleghi d’osservazione.
-ma andiamo, andiamo!-, gracchiava,-dopo ciò che ti ho detto, proprio tu dovresti essere in grado di capire.
-e perché mai, sentiamo?
-beh, un conversatore del tuo calibro…
-sìsì, certo…-, scuoteva la testa il gatto, profondamente scettico, fintamente infastidito –sta a sentire, che sia chiaro: io non converso d’un bel niente con te.
-sì, sì, come vuoi, “Dindin”. In ogni caso, pensarti ancora appresso a pagliuzze e fili scossi dal vento, tutto preso da un gioco tanto blando…
-io rimango sulle mie opinioni, sempre. E rimango sull’istinto.
-oh, andiamo, voi mammiferi con questo istinto. Vi assorbe ogni senso indagatore del mondo, la curiosità per i fenomeni.
-e voi uccelli multicolore non fate altro che ficcare il becco ovunque.
-è un difetto?
-sì.
Discutevano così di quale fosse il gioco migliore. Erano rappresentanti di due specie molto prese da giochi di vario genere, per quanto differenti negli approcci. Potevano andare avanti per molto con argomenti a catena, di solito la gazza esponendo le sue dissertazioni e osservazioni del giorno e il gatto poi ad accodarsi con i suoi commenti e talvolta sprezzando cinicamente. Erano quasi le 10.
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-certo è un alimento che da principio disgusta chiunque, tranne direi certi rospi, storni, e qualcun altro pure. Ci ho trovato qualche similitudine con i funghi: dapprima scoraggiano se tutti umidi e viscidi, vischiosi di bave e cose che disseminano dai bordi. Ma se poi ne scovi le parti tenere e gustose diventano un piacere da ricercare altre volte. E così per le lumache: perciò chi come me ha corpo di uccello può gioire dell’umidità di terra che segue un temporale, tutta la sera a razzolare in cerca di queste. Sai che hanno un odore peculiare? Prima, vedendole sempre dall’alto senza avvicinarmi, me le aspettavo inodori.
-no, non le provo le lumache. Non mi passa neanche per la testa.
-rigido.
-e loro molli. Appiccicose, non mi attirano, anzi.
-non hai ancora detto la tua.
-la mia? Niente.
-come sarebbe, niente?
-niente. I pasti della vecchia sono buoni, a volte li cambia ma grossomodo la sostanza è riconoscibile. Sto bene così…
-oh cielo, che gran conservatore.
L’argomento era “sapori interessanti scoperti di recente”, oppure “cose che prima non piacevano e adesso sì”. Si era arrivati alle 10 e un quarto forse, non è che si avesse modo di guardare le lancette in mezzo a chiacchiere tanto insistenti. L’ora in effetti dello spuntino di metà mattinata, un istinto acquisito stando in zona per riflesso delle abitudini degli animali che la abitano. Ma la signora non esce fuori. Dove sarà? Il gatto difatti non andava mai a caccia. Non gli piaceva l’odore del sangue. Vide per la prima volta il sangue di maiale che era piccolo, in piedi su due gambe, in una terra diversa dalla sua. “Antiche tradizioni salumiere e casearie”, dicevano quelli di lì. Le lumache non hanno sangue, ma, come dire, oltre a essere viscide e poco appetibili, allontanano. Sguardo dall’alto, lente sulla terra, stillano vulnerabilità… confessava però di aver a volte sgranocchiato degli insetti neri e senza occhi, quando aveva proprio bisogno di proteine. Hanno una linfa incolore. Sapore molto amaro, facevano venir sete, e voglia di infilare tutta la testa nello stagno, pure per distrarsi un po’ con quello che succede là sotto. Raramente aveva acchiappato pure dei piccoli pesci, ma insomma, non accadeva mica con regolarità, e poi che colpa se ne può fare, se a molti gatti piace provare il pesce? Certo gli avrebbe fatto piacere un piattino di latte a quell’ora… il latte, forse avrebbe dovuto rispondere che il latte era quella cosa. Sì, ne aveva bevuto ogni mattina, moltissima anni fa, ma poi era passato ad altro, cambiando più volte nel corso della crescita la bevanda di preferenza. Lo aveva riscoperto negli ultimi anni, quando l’insegnante d’arte in pensione aveva preso a offrirglielo. Grasso, energetico, fa passare la fame. 10:25.
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-dunque, sostieni che sia davvero una rarità?
-sì. Da queste parti, almeno. Mi chiedo proprio che tipo di persona possa essere quella che colleziona certi pezzi proprio qui…
-perché?- chiese querula la gazza, inclinando la testa di lato. Movimenti di scatto da uccello colto da un senso di aspettativa, come il gatto avesse delle cose sconosciute alla base delle sue azioni, come ci fossero ragioni strane e interessanti perché credesse qualcosa.
-beh, perché… non so, dicevo così.
-un bel disegno, non ne avevo mai visti di simili- tornò al suo discorso la gazza, senza pensarci troppo. Stupido cappello. –mi sembra che rappresenti proprio certe cose strane che fanno gli umani.
-ah, sì?-, chiese il gatto sventolando un orecchio, in omaggio al raro senso di curiosità genuina che quell’osservazione gli aveva suscitato.
-sì, ho pensato: devono essere fatti un po’ così i loro pensieri. Quando costruiscono i macchinari, quando si mettono a piangere da soli nel bosco, quando gettano quei fili nell’acqua e non so che altre cose. Fanno un po’ paura, quelle facce bianche.
-chissà, magari è proprio così.
Guardarono per un po’ il cielo, ognuno pensando chissà cosa. Magari è ora che quella gazza si chieda come mai indossi un cappello, e se nel farlo gli passino per la testa le stesse immagini che stanno sulla copertina di quel disco. Il gatto cercava di rivangare a fondo nella memoria, per una melodia perduta una vita fa, o anche solo un titolo… aveva una conoscenza enciclopedica –o almeno tale rispetto agli altri animali- riguardo vecchi dischi in vinile, da collezionista. Si intendeva in particolare di Punk e derivati: New Wave, Noise, HC… inoltre se la cavava nel Prog e certe branche del Jazz, più classici di altri generi qua e là. Nessuno sapeva come diavolo un gatto avesse acquisito simili conoscenze. Doveva aver avuto anche lui un padrone un tempo, un appassionato di musica, altrimenti non si spiegava. Le 11 meno un quarto circa. Fatto ancora più strano, sapeva leggere l’orologio. Gli altri animali non lo imparavano, non ne sentivano il bisogno. Nessuno a parte lui stesso sapeva di questa sua ulteriore capacità insolita e misteriosa.
-mh mhmh mhmh mh mhhhh… no, era così… qual era, l’ultima del lato A?-, il gatto mormorava tra sé, completamente assorto. Poche nuvole nel cielo, la scia di un aereo.
-ma che fai?
-eh? Ah. Niente. Cercavo di ricordare quei brani.
(“Motorcade”, forse? No, era “Burst”. Sì, decisamente.)- pensava ora in silenzio.
-ah, io queste cose non le capisco. Anche se mi piacerebbe un giorno poter ascoltare tutta questa musica.
Incredibile che bastasse avere le ali per incappare in così tante autentiche chicche delle quali gli veniva riferito con precisione nei particolari (impossibile che riuscisse a inventarsi le cover, doveva averle viste davvero): “Real Life”, primo album dei Magazine, se non ricordava male anche lui ne aveva posseduto una copia, o forse gli era stato prestato da qualcuno. Le loro discussioni musicali erano cominciate per caso. Il gatto non poté fare a meno di lasciare un attimo da parte gli affari suoi per avvicinarsi a quella gazza col cappello che se ne andava in giro volando con un disco in faccia, il becco ottusamente infilato nel foro centrale. Lo aveva rubato da una pila adiacente a un giradischi “da giardino” lasciato incustodito, da qualche amante degli esterni in cerca di piaceri idilliaci in una tiepida giornata di maggio. Ovviamente una gazza è attratta dai riflessi metallici rinviati dalle lucenti squame nere del vinile (mai lasciar spuntare nulla dalla confezione, neanche il minimo bordo). Il gatto gli aveva chiesto scettico se per caso ricordasse cosa c’era disegnato sull’involucro di carta che lo conteneva.
-certo che lo ricordo! C’era una scritta dai contorni gialli, non molte lettere, ma grandicella. Tutto scuro, e poi la faccia di un gigante coi capelli ricci. Sembrava arrabbiato, o chissà, molto concentrato. Uno sguardo intenso che scava a fondo in una cosa lontana, forse troppo, e per questo verrà punito. Sul suo occhio destro c’era la faccia di un tizio normale, minuscolo in confronto a lui. E poi altre due persone piccole, uno occhialuto in giacca marrone, l’altro con una cravatta a pois. Ma ti dirò, gli altri tre si notavano a malapena rispetto a quel gigante a petto nudo.
Fortunatamente le gazze hanno un’ottima memoria, come ebbe stupore e piacere di constatare il gatto. Così prese a farsi raccontare dei dischi che quella vedeva in giro posandosi sui davanzali nei suoi indiscreti voli di ricognizione –se non nelle vere e proprie operazioni intrusive, per appropriarsi di qualche bell’arnese scintillante.
-quello è certamente il primo e omonimo album dei Doors.-, aveva miagolato.
-ah, lo conosci?
Così il collezionismo musicale era diventato un abituale argomento di conversazione. C’erano diverse cose che facevano la vita da gatto, aveva concluso lui dopo tante esperienze diverse in così tanti posti. Innanzitutto, era fondamentale –ma questo ormai pare abbastanza chiaro- trovare una fonte di sostentamento non troppo scostante e un bel posticino dove adottare la posizione rannicchiata foriera d’ogni pace e saggezza; poi c’erano le caratteristiche tipiche di ogni luogo –il carattere di quelli che ci vivevano, l’architettura bianca nel paese di collina dove visse per un po’, con le poche macchine che ci passavano, al contrario le troppe macchine e i troppi rumori farraginosi quando viveva ai caseggiati sotto la stazione, poi gli alberi fitti del boschetto, poi le roulotte…- e in quella zona di ville di campagna, non troppo eccessive, non troppo modeste, aveva conosciuto qualcuno con cui poter parlare di dischi. E parlandoci si stupiva nel constatare come fosse capace di riportare alla mente cose alle quali non credeva di poter ripensare mai più. Ogni LP trascinava dei ricordi (ma per ora meglio rimanere sui dischi in sé, giacché di quelli si parlava e non delle cose attorno), d’altro canto la gazza amava fare collezione nel proprio enorme e lucente nido di tutte le cose che brillassero, eleganti o volgari, tutte eccitate come famigli delle volubili divinità solari. Non importava tanto la musica là incisa, è vero, ma il gatto aveva la sensazione che ciò che lui un tempo carpiva dalle note e nei testi, la gazza poteva ritrovarlo ugualmente raccontato dal modo peculiare che aveva ogni disco di riflettere la luce, su questa o quella scanalatura, più o meno intensamente; sentiva che in fondo parlavano della stessa cosa. Solo a uno stravagante come quella gazza, commentavano i benpensanti, poteva venir in mente di farsi coinvolgere da un interesse tanto insensato. E solo un gatto buono a nulla del genere, che si fa superbo per un ridicolo campanello che non gli appartiene davvero, poteva andare a sapere certe cose.
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-no, non riesco proprio a capirti.
-è strano: di solito voi mammiferi, mi pare di intendere, avete tutta una gerarchia di affettività che applicate costantemente nella vita. Tu mi pari più un rettile. Un gatto-certola.
-non me ne frega niente dei mammiferi. E poi sono stronzate con cui te ne esci solo tu.
Verso le 11 o giù di lì il tono della conversazione si era fatto burbero. Di lì a poco si sarebbe conclusa, ognuno dietrofront su zampe o ali con un certo appiccicoso senso di errore amaro rimasto addosso, con la consapevolezza di dover pensare ai casi propri per un po’ prima della prossima chiacchierata in cui si sarebbe fatto finta di nulla, del tutto automaticamente. I toni si alzano senza rancore –mica hanno tempo da perdere con capricci del genere, le creature della campagna!
-è vero, è vero!-, insisteva la gazza con le sue teorie zoologiche, -basta guardare quanto siate ossessionati dal sesso. Le femmine che vanno in calore, i maschi sempre a vagabondare in cerca di nuove vagine, ma è una cosa assurda, ridicola, e insomma! Chiaro che poi rimaniate attaccati a tutte queste smancerie di corpi e carezze, di calori e sudore e non so che altro. E invece, tu…
-e intanto gli uccelli sono quelli che rimangono con un solo partner per la vita.
-secondo me lo facciamo per coerenza.
-puah!
La gazza rivalutava le sue esperienze a contatto con altre e varie specie. Era stata in pollai costruiti dagli uomini, fatta giocare con i loro curiosi marchingegni, aveva imparato a imitarne il linguaggio, e con i polli aveva imparato ad apprezzare vantaggi e svantaggi di un cuore piccolo che impone la moderazione nel volo. “Un atteggiamento collaborativo e di commensalismo”, sosteneva, “per quanto pericoloso la maggior parte delle volte nella vita di ogni animale, va’ riconosciuto, per mia esperienza, come utile in tante altre circostanze”. Il gatto viveva da tantissimi anni. Troppi, nessuno sapeva quanti. Non era vecchio: a vederlo, era l’immagine del gatto maschio adulto, in piena salute. Indipendentemente da come mangiasse e vivesse, aveva la sua muscolatura dura e robusta, lo sguardo fiero e forte. Il bel pelo rado e liscio, lucente di grigio pieno di riflessi bluastri tutto attorno alle zone bianche più molli di ventre e zampe, la parte inferiore dalla faccia che grazie a tale incontro cromatico rendeva più espressive le sue smorfie arcigne o corrucciate.
-commensalismo, dici. Come gli avvoltoi e i corvi sulle carcasse.
-per esempio.
-da qui a ringraziare un’umana solo perché è fricchettona e si decide a farmi dei pranzetti, ce ne passa!
Rise sprezzante, una risata a ringhio, quasi l’avesse imparata da un mastino vagabondo dal pelo muschioso. Nascondeva dei segreti, quel gatto, per esser vissuto tanto a lungo. Quei pettegoli dei passeri avevano disseminato tra i venti delle voci, che pareva qualcuno di loro avesse appreso dalle più longeve testuggini sparse in tutta la regione: queste dicevano di vederlo bazzicare da qua a là, macinando chilometri, sin da quando erano uscite dall’uovo. In tutti quegli anni era sempre rimasto più o meno lo stesso. Gli piacevano le stesse cose: non disdegnava il rumore della pioggia battente sul tetto di una cassetta rovesciata; erba gatta a volontà quando fa caldo; non sa parlare con le femmine e pare evitarle (in genere evita tutti gli altri gatti), ogni tanto canticchia senza accorgersene e pare idiotamente contento, è molto attento alla propria pulizia e non solo, sembra gli piaccia proprio leccarsi il pelo; sta ore sulla terra battuta, sempre, cocciutamente, irrimediabilmente nella stessa posizione, sfinge di sabbia che lascia andare la mollezza del ventre; e a volte, come confermato da lucciole e civette, pipistrelli e grilli, stava ore e ore a guardare il cielo notturno, e gli occhioni tondi diventavano tutti una pupilla di gelatina molle. E di recente c’era stato modo di scoprire che apprezzava latte di mucca e musica di umani.
(“il mio disco più raro, chissà se ce l’ha ancora qualcuno… no, lo avranno buttato insieme a tutto, è chiaro. Quell’EP di cui non ricorderò mai il nome. Pavement, l’EP con la faccia del pollo in copertina, cose geometriche. Proveniente dall’America. Dieci minuti circa. Introvabile. Sepolto sotto la terra come ossicine di preda. Mi manca il mio bottino?)
-pronto?
-che c’è?
-non mi stavi ascoltando!
-già.
-un gatto-certola, ti ripeto! Magari fai pure le uova.
-le uova le fanno le femmine.
-e scommetto che non sei capace di fare le fusa nemmeno per sogno.
Il gatto fece un ghigno furbastro, “adesso lo sistemo io”.
-sogno? Gli unici sogni che faccio sono quelli in cui sto in una bella isola deserta: non ci sono uccelli impiccioni, mi trovo in mezzo al mare, vastissimo e solenne come pietra blu. La sabbia delle spiagge mi riscalda i cuscinetti, da alte palme e alberi freschi cadono noci di cocco e ananas succosi, che si spaccano a terra e da mattina a sera sto a lapparmi il latte. Aaaaaah, che bellezza. Il fragore di onde, tanti bei cespugli odorosi dove pisciare in continuazione. I gabbiani li sento da lontano, che mandano schiamazzi ritmici, kai kai kai, ma non li vedo mai. E certo non vengono mica da me a raccontarmi la loro giornata.
-non capisco più che dici. Ci vediamo!
La gazza volò via disinvolta, nessuna accezione di rimprovero. Il gatto rise: ha davvero uno stupido cappello. (Quanto a me…)
Ddddiiiiinnnnn
Diede una bella zampata al collare. Osservò ondeggiare la palletta dorata, ipnotizzato per un po’ a collo rannicchiato in giù. Adesso ho tutto il dì per me, si disse.
Il dì. Pomeriggio e sera.
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(fine prima parte)

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