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quante storie per un ginocchio sbucciato

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 9 ago 2021
  • Tempo di lettura: 11 min

Aggiornamento: 13 ago 2021

Gli si avvicinavano, in volo lento, le cornacchie e anche gli avvoltoi. Alla fine arrivavano sempre. Molte volte aveva visto saltellare le cornacchie ai giardinetti, portar via qualcosa col becco. Gracchiavano nei pomeriggi torridi da che ricordava. Le piume nere sporche che si trovavano a terra, lo stelo bianco unto e lattiginoso nel mezzo, erano sempre quelle della loro coda. Gli avvoltoi non li aveva mai visti da quelle parti, ma sapeva che ci avevano abitato un tempo. Poi morirono tutti avvelenati dalle esche degli allevatori, tanto tempo fa. Ma eccoli, ritornavano infine, per lui, che infine era riuscito davvero a cadere da solo di bicicletta in quella campagna desolata, e farsi male sul serio. Forse erano un’allucinazione, ma arrivavano, magari dal vicino oriente, per far ritorno alla terra dove dovevano tutti far ritorno.


Il volo calante in cerchi delle due specie di uccelli, pronti a lacerare la sua carne divelta da ghiaia e sabbia urticante sulle vene scoperte, arriva frusciante come un venticello, si lega al suo tatto: più che un angosciante conto alla rovescia, sembra che le piume lo carezzino. Tu verrai con noi.


Se lo porteranno dentro, e lo carezzano, gesti da madre. Lui era venuto da una madre. Cresciuto un po’, cambiato in forma e dimensioni, tenuto insieme da qualcosa di indefinito che lo diceva uguale a un ammasso di cose totalmente diverso, d’un tempo diverso non più raggiungibile, un ammasso di cellule ormai tutte scomparse. Eppure se stesso. Eppure se stesso anche ora che, venuto da madre, scompariva all’insaputa della madre. Dentro gli uccelli scompariva, e le parti non strappabili dai becchi acuminati rimanevano, ossa nient’altro che polpa rifluente nelle trame della terra sottostante. E scendendo, attraverso gli strati, mescolandosi a detriti e terriccio e sudiciume nero di semenze morte, avrebbe prima o poi incontrato lo scheletro in pezzi d’un altro scomparso in momento irraggiungibile e incomunicabile, trasformato in polvere e minerale dalla pressione e la temperatura, calpestato sotto innumerevoli strati di indifferenza dei vivi e delle cose che proseguivano vive. Proseguiva anche lui morto, nascosto. Era venuto da madre, aveva combattuto, età conflittuale, interessi dei re, corpi in prestito; carne divelta questa ogni giorno e non per cadute dalla biciletta. Sotto il sole torrido, un tramonto caldo come mai ne aveva conosciuti, grondante sudore e sangue suo e altrui e acqua squarciata da cisti, era stato trafitto da una lama, acciaio temprato da bollenti scintille d’officina, urti di un altro strumento in una mano, generata da una madre, morti tutti. In mano a un altro morto che conquistò l’avversario, conquistato nella stessa terra, chissà in che direzione. La spada gli aveva dislocato una costola, spappolato granella compatta di grumi sanguinolenti tutt’intorno al cuore, barriere rese irriconoscibili dal semplice ingresso di una cosa, tessute tanto assiduamente da codici interni alla materia, da amore di madre e memoria di padre, e padri e madri precedenti, e altri che erano sopravvissuti prima di lui per poterlo costruire così come era stato. E ora la costruzione entrava nei vermi, e prima dei vermi l’avevano beccato, anche lui, le cornacchie e gli avvoltoi volteggianti sull’odore della strage nel campo, cornacchie e avvoltoi che erano madri e padri di madri e padri di quelle che stavano per beccare il ragazzo capitombolato dalla sua bicicletta, i raggi che frinivano ancora circolando indefinitamente e abbandonati sull’intelaiatura accasciata su un fianco come bue stramazzato a terra. E ciò che restava si mescolava a tutti i resti. Nel sangue del guerriero ucciso nei secoli scomparsi c’erano la forza, il coraggio, l’istinto, il testosterone assorbiti da un cavallo, animale di muscolo e spocchia rispettato dalla mente. Animale fatto nascere, ignari giumenta e stallone, al solo scopo di far mangiare le sue carni dalla specie degli uomini, bellicosi per natura, sottrarre il potere alle altre creature. Tu verrai con noi. E il cavallino aveva galoppato, libero e felice, quando, generato da madre, aveva per la prima volta sentito un brivido incontenibile, brivido di vita, vento tra crini e frantumarsi terroso polveroso dallo scalpiccio degli zoccoli suoi, suoi e di nessun altro. Non è vero: generati da codici, generati da madre, da interminabili cavalli prima di lui. Interminabili erbe ingurgitate, sbocciate da semini puntiformi sotto tutto il territorio ignare di finir estirpate da dentature ruminanti, con quella forma solo per estirparle. Tutto ignaro del proprio scopo. Lo scopo di tornare alla terra, in un modo o nell’altro. Attraverso destrieri. Mezzi di trasporto per gli ammassi di particelle, con la forma disegnata per annientarne altre.


Perché? “Perché” è una domanda, se la chiede il ragazzo, rimasto immobile, con le ginocchia fracassate e storte, che non possono sorreggerlo, con la sete che lo aveva colto già da quando era uscito in sella e la bandana da pirata in testa, tutta madida adesso di rossa salsa dalla fronte. Cominciava a far freddo, nonostante l’estate impietosa, la secchezza che lo avvolgeva tutto come un’altra pelle. Già si andavano rinnovando le cellule perennemente morenti, anche prima che morisse la somma delle parti, quel se stesso senza senso perché non era mai stato una cosa sola immutabile nemmeno per un istante percepibile in tutta l’esistenza. Sulla pelle rugosa a dattero disidratato, piena di tagli verticali orizzontali scavati da null’altro che il loro deperirsi desertico, solchi in cui si depositano granelli e punte di raggi di sole, su questa pelle accartocciata si dipingono, fresche, le ombre degli uccelli che aspettano. Vegliano.


Se li immagina che parlottano, loro che non possono con le stesse parole sue. Potrebbero imitarle, forse, gracchiandole. Ma anche dicendole non apparirebbero forme nelle loro teste. Li immagina che parlano in un modo come il suo, si capiscono, perché in quel momento vuole qualcuno che capisca. Dice, esclama per finta e per gioco senza voce, sto per entrare, cielo e terra apritevi, che sto per entrare. Apriti, comprensione degli uccelli. Voglio farvi capire il freddo che provo. E voi fatemi capire il sapore mio, che è bello esser vivi e masticare i morti. La decomposizione che scende in gola e fermenta nel ventre, e poi volarsene via, come le nuvole, nel vento bellissimo.


Perché sto sprofondando? “Perché”, era una domanda. Il linguaggio, la risposta è nel linguaggio. Quello umano rende l’umano diverso e ragionevole quando pensa parole tipo “umano”, in contrapposizione agli altri animali: è innaturale. Quando comparve il linguaggio umano, rendendolo cosciente nello stesso istante di non appartenere al presente, un modo tutto nuovo malsano fonte di misteriosa energia di concepire passato e futuro. Si crearono storie nella testa. Immagini imperversavano nei crani solidi, banali sassi bucherellati, dell’umanità, astrazioni dentro scatole di calcio. Capivano il momento, si domandavano, la morte e la vita, l’uccello che si staglia sulla forma del sole, un simbolo. È pace o salvezza? Nessuno di questi corvidi, di questi rapaci, ha il colore bianco, color nero di ali coda e testa invece si associa alla notte, di predatori e cecità, noi esseri basati sulla vista, non buono. Nero come quando chiudi gli occhi, dormi, metti a riposo la rete intessuta di codici che è il tuo corpo, nero come quando chiudi gli occhi, come fanno molti morti quando muoiono. E allora? Era tutta colpa del linguaggio, che aveva dato loro il potere, che aveva dato loro la paura, che aveva dato lui, che moriva e sentiva di riversarsi in tutto come acqua di mare e magma nel profondo del sottosuolo, il sublime. Dall’addome degli uccelli fluttuerà nel sangue di uccelli che volano, che saranno catturati da altro, un’autostrada sferzante una pala eolica un veleno un felino un fulmine, il macerarsi interno della tensione che aggruppa piume pelle ossa anima. Poltiglia scorrerà. Dalla polpa d’ossa plasmata a quella del guerriero là sotto, del petrolio, esserini poliposi del mare estinto, il gatto seppellito nel giardino sul retro, il kaki maturo squagliato prima che lo cogliessero per avvicinarlo alle labbra e farlo disciogliere prima lì e nei villi intestinali che direttamente al suolo, molti passaggi di mezzo, mosche e vermi e acque putride. Entrava nel sublime, lo capiva, entrava nella paura, avente la stessa origine, generata da madre, la madre è il linguaggio. Nel linguaggio c’è la chiave. Chiave è un’altra metafora, da metallo solidificato in energia di stelle sprofondata nel pianeta e raccolto e fuso e colato a forma precisa, ora una parola, un’astrazione, un tramite per l’apertura sia di porte che di risposte.


(Discutevano gli uccelli, lasciatemi le unghie delle dita e va bene, per me la cartilagine del naso, beati voi avvoltoi che potete anche le ossa. Sì, ma non è che proprio tutto tutto, eh. Anche se, un pezzo di femore… giovane comunque. Beh, poverino, ma che ci si può fare. Dallo sguardo mi sembra che capisca, però. Ottimo sguardo acquoso pieno di buoni vasi sanguigni. Ah già, voi della stirpe dei corvi andate matti per quelli, eh. Peccato ce ne siano solo due. Dai, non litigate. Siamo tutti in amicizia, vecchi spolpatori di carcasse. Amici tra di noi e con la carcassa. Povero ragazzo! E sta attento, con quella bici, che prima o poi ti farai male sul serio. Ora vieni con noi.)


Nel linguaggio c’è la chiave. Quale madre generò il linguaggio? Una meteora? Cadde sulla terra, incenerì le piume di molti dinosauri, ne risparmiò altri, quelli di adesso pazienti e pronti a beccarlo secondo dettami di codici orologi mappe migratorie sapienze interne, che sanno che devono riempirli di putrefazione per soddisfarli, muoverli ancora, viverli. La meteora esplose nuovi elementi, schizzò sassi spaccati, esplose vulcani. Mutazioni si vorticarono incontro come nel nucleo d’un sole, d’un atomo, d’una cellula viva, fusione di materie aliene. E in una scimmia nacque un linguaggio diverso, dono d’un altrove, un altro cosmo e dimensione. Rigurgitata la palla di roccia ghiaccio e fuoco dal cosmo. Fuoco che è energia e consuma invisibili globuli, roccia in gestazione in un nucleo che esercita attrazione e genera pressione sotterranea, ghiaccio che è acqua, prende un fulmine e nasce la vita, perché sì. E cade questa palla sulla terra a ingenerare una nuova trasformazione.


Perché?


Per gioco. Nacque per gioco.


L’embrione, anfibio fluttuante nel grembo intessuto di carne e cavalli mangiati e codici e acqua bevuta e coiti consumati e spermatozoi estinti meno uno, l’embrione pulsa sangue e riceve nutrienti da un cordone. Ma poi esce, generato da madre, la placenta al collo, futuro stregone, o solo masticata da gabbiani sulla spiaggia. Cambia forma, rinnova le sue cellule, tempra le ossa succhiandosi il calcio della madre non madre perché anche lei ha cambiato pelle miliardi di volte al secondo, indecifrabile serpe. E quando l’embrione uscito fuori, generato da madre falsa, è cresciuto, guardando la faccia, che i codici gli orologi interni gli suggeriscono essere una “persona”, occhi che non ne vedono l’inarrestabile trasformazione, ecco, vedendo identificando parolando “bocca” “occhi” “bellezza” comincia l’embrione a cantilenare. Per ottenere movimento, risposta. Per gioco. Tutto per gioco. I giochi linguistici al culmine dell’evoluzione, spermino a verme o girino, branchie di feto come pesce anfibio, dita a scimmia, uomo che schiocca la lingua boccheggia le labbra e parla, poco a poco infilando significati, trucchi mentali a forza dentro quel blaterare. Riscalda l’appendice che lo definirà, l’autocoscienza. Rumori appresi da soli, messi in fila.


Nella savana le scimmie alte dritte in piedi diedero un nome un rumore al sole alla caverna al riparo all’albero di vedetta al leone alla linea nella quale si tuffava la palla di fuoco e quella d’acqua bianca come gelatina d’occhio nel nero infinito di stelle. Per gioco, tutto per gioco.

Per gioco il ragazzo si era allontanato con la bicicletta, perso nella campagna, caduto rovinosamente, ferito mortalmente. All’inizio faceva male: erano sciami di nervi e neuroni a stabilirlo, inviare un segnale all’altro sciame incorporeo lì dentro incarnato per un legame inconoscibile, lo sciame della coscienza. Brulicavano e ronzavano i pensieri attorno a uno centrale come un globo luminoso, quello dell’ora della morte. Per gioco anche questo, giacché non c’era altro da fare. Per gioco il sistema solare era anch’esso fatto così. Il sole è l’ossessione angosciosa di un titano inciampato su ghiaia cosmica, i pianeti pensieri in circolo ignari di culminare in orbite uguali.


Giocare, interrompere il tempo, uscirne. Concetti sbocciati contemporaneamente, tempo e la sua rottura. Entrambi responsabilità, causa ed effetto del linguaggio. Il dilemma non sarebbe certo stato risolto da un ragazzo, nemmeno adolescente, che stava per morire dopo una caduta dalla bicicletta. E tante altre cause, arsura desertica nella campagna cicaleggiante, infezioni, immunodepressioni, inerzia…


Per gioco aveva imparato a girare i piedi sui pedali, muoversi così. Per gioco, aveva deciso di mettersi la bandana come un pirata, ma per caso fu proprio quella bandana a impedirgli di prendere un colpo di sole pochi minuti dopo aver preso la sterrata oltre l’ultima fermata dell’autobus, sotto i fili molleggianti per il peso di rondini allineate tra un palo telegrafico e l’altro, piantati all’infinità nell’orizzonte brullo. Comunque avrebbe accelerato solo di poco la sua caduta in terra. Avrebbe nutrito un formicaio anziché un altro, polpa d’ossa confluita incontro un morto antico anziché l’altro. Lo stormo di becchini sarebbe stato lo stesso forse, solito sorvolare tutta la grossa area.


Secca la sua imminente carcassa con i pantaloncini strappati, la maglietta della vacanza con le alpi verdi e celesti, lo stambecco ricamato. Per il momento, non sa decidere se la freschezza appiccicosa data dalla bandana premuta sul taglio in fronte sia piacevole o no: una giornata caldissima, un freddo sempre più intenso che infilzava dall’interno. Ha la sensazione che quei brividi siano uguali ad altri provati in un tempo lontanissimo. Scherzosamente, s’immagina a fluttuare, in cerchi infiniti, nel vuoto cosmico, come se da là fosse giunto. Lì certo faceva freddo. Oppure provengono da un altro ricordo dimenticato, sempre intessuto dalla coscienza a connetterlo a un altro corpo d’un momento inaccessibile.

Per gioco s’immagina a scherzare con gli uccelli che lo ripuliscono. All’imbrunire poche mosche girano sulla sua carcassa, sarebbero tornate il giorno dopo. Le cicale scemano, e la sua coscienza già spiraleggia in basso in sella a movimenti che mai ancora erano appartenuti. Nuova forma, e cambiava anche questa. Ma, per non entrare del tutto ancora nella morte, in piena transizione con dei residui della sua forma viva ancora riesce a immaginarsi sprazzi di quella scena. A proiettarsi, come un film, un sogno realizzato per gioco, la scena vista da occhio esterno imparziale, stimolata ogni volta che un becco affonda nei tessuti.


-mi chiedo, voi che siete spesso a contatto con la morte, avete capito qualcosa su, beh, sull’altra parte?


-ci chiedi se abbiamo qualche sapienza che appartiene solo a noi, per il compito che la natura ci dà?


-aspetta, aspetta, io non l’ho capito che intendeva. Cos’è l’altra parte?


-è il grande buio, noi lo chiamiamo così, non so voi.


-e perché lo vuole sapere?


-ma perché lo sai, sono fatti così, anche quando sono già morti, non si fanno andar bene niente.


-hey, ma io non lo chiedo mica perché non mi va bene niente- ribatte contrariato il cadavere -è che chissà quando mi ricapiterà di morire, almeno vorrei capire se quello che sto provando io è lo stesso per voi, che siete i miei ultimi testimoni.


-lo dici tu che siamo gli ultimi! Vedete bene sulla prateria, umani dall’occhio evoluto, ma non riuscite mai a vedere tutti i pezzi insieme.


-era un modo di dire.


-comunque non ha senso, capisci? Il grande buio è il grande buio, se si potesse sapere qualcosa non sarebbe così. Buonsenso animale, istinto, tutti lo sanno, pure gli alberi lo sanno.


-e perché non potrebbe essere... non così?


-vedi che non vi sta bene niente? Perché non esisteresti, credo. Boh. Che ne so! Perché noi ci mangiamo.


-sì, ma poi morite anche voi…


-e meno male!- dice un avvoltoio staccandogli un orecchio -spero almeno che trovino buone le mie cavità auricolari come io trovo buone le tue. Ah, questi sono i tuoi germi, i tuoi e di nessun altro, hai curato bene il tuo cerume. Un bell’ecosistema.-, sentenzia infine leccando nel foro.


-…no, sono scettico. Nessun animale vuole morire, quando vi inseguono scappate, scattate sempre in allarme a ogni rumore, paura della morte. Eppure dici che quando morirete vi andrà bene anche quello.


-quindi? Che problema c’è?


-giuro su Dio,- brontola il cadavere -che io questi dannati uccelli proprio non li capisco.


-benvenuto al mondo, caro morto!


Rispondono quelli. S’immaginò che ridessero tutti quanti, mentre le prime stelle cominciavano a baluginare in una tintura di rosa e blu e giallastro sporco di foschia nel cielo ibrido. Si scomponeva, mutava poco a poco, sostituiva i suoi tasselli. Una ventata sospinse un’altra carezza, delle basse spighe secche, sul corpo lì stramazzato, nessun solletico al tatto. Gli uccelli ci saltavano sopra, avendo già ripulito molte parti, a carezzarlo col fruscio di penne della coda, delle ali chiuse. Sarebbero tornati la mattina dopo, trovandoci qualche morso di cane randagio lasciato nottetempo. E giurando su dio di non capire quei dannati uccelli, e immaginandoseli a ridere insieme, e alla fine davvero capire la vertigine del suo sprofondo che lo spargeva all’interno di tutto il paesaggio e tutti gli altri paesaggi sotto la volta che scuriva, la coscienza infreddolita se ne rifluì in mille forme per le mille direzioni, smettendo di associarsi a un nome che s’era appuntata standosene dentro quella carcassa.


I raggi, pupille di bicicletta, parevano fermi. In realtà senza l’intervento di una forza che fermasse le ruote continuavano a muoversi impercettibilmente. Eco dell’eco di una rotazione, di un impatto, di un’esplosione. Nella campagna silenziosa si abbassava la temperatura e molte cose chiudevano le palpebre.


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