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poesia e salmodia su trasporto pubblico

  • Immagine del redattore: Milky
    Milky
  • 9 set 2022
  • Tempo di lettura: 11 min

(( nella testa, nelle orecchie, si agitavano immagini mugghianti, fotografie di musica. Stringeva con più foga gli attorcigliamenti del filo e infilzava dolorosamente gli auricolari nei timpani in accordo a ogni accelerata dei nervi, costantemente rovesciati da una caffeina immaginaria autotrofica. Vedeva davanti a sé, in gif solipsistiche: busti e addomi di autobus, tram, trenini interurbani, tutti ranciati a metà, e gli strati della pavimentazione, i decenni e i secoli, venir invasi dalle lente maree dei loro plasma densi, a fiotti da vene di tubature vulcaniche. E nella sua distruzione la musica si sottraeva al controllo, perforando gli argini degli album in uno shuffle casuale. Disintegration in un giorno senza pioggia. Giorno di biomeccanica sanguinante, unico vangelo e iconografia del credo possibile nei giorni superstiti. Dallo shuffle saltano schizzando mutilazioni stillanti linfa da un album di toni gialli accesi,

swollen and small is where you’ll find me now – with that silver stripping off – my tongue you’re tearing out,

e il tardo pomeriggio si depositò, di nascosto, sotto ruvidi fogli puntellati di peletti sensibili tra i substrati della coscienza, dove risiedeva la sua consapevolezza dormiente, quella di potersi sentire dentro il tardo pomeriggio, dentro le cose che procedevano al suo interno, stravolto dal tutto dal rumore delle cose che dicevano io dai fenomeni ottici dal troppo esistere. ))


.

Si avvicinava il momento in cui avrebbero varcato il confine invisibile, implicito nell’asfalto, del luogo chiamato capolinea, perlomeno così si sarebbe detto dal grafico pittogrammato in alto, in una lastra di plastica bianca. O era il capolinea ad avvicinarsi, generare una forza d’attrazione. Ma qualcosa lo ostacolava: sostanza disciolta nel tempo e nell’aria, e in quelle giunture eteree rappresentanti il confine in cui non si capisce bene in che modo siano separati. Un mezzo di locomozione, sorretto internamente dagli sbuffi e gli sfrigolii che emette, a nuoto in una fluttuazione dei suoi stessi scarti, necessariamente s’immerge in un tipo di sostanze che provocano attrito: registrabili dai sensi. Andata e ritorno, la sua provenienza e il suo punto d’arrivo -dalla megafauna che abitava le conche di questo mondo, allo stare con le disintegrazioni della megafauna che era morta nelle conche di questo mondo-, erano concetti veloci a disgregarsi, rendersi opachi in quel fluido governato da endecasillabi di fili sospesi in cui tutte le apparecchiature, i bestioni fatti nascere per muoversi avanti e indietro indefinitamente, esistevano. Da qualche parte, nel latte sterile di luci rintanate in angoli di vuoti e sconfinati magazzini color siringa, gorgogliava rinchiuso ed efficiente un allevamento intensivo dove i mezzi locomotori erano partoriti tra clangori e metallici graffi di ineffabile raccapriccio, piogge verticali e paraboliche di scintille sopra le placente di magma e combustibili fossili eviscerate sul pavimento da carcasse di madri. Fatti nascere e crescere per pascolare l’asfalto.


Ma se io salgo in uno di questi cosi, si diceva proprio lui che salito in uno di quei cosi, allora cosa sono? Una cellula? Un rene? Un miracolo nella scienza e la religione di un corpo capace di muoversi e volere -perché va al capolinea, teleologico, non sa far altro che andare ai due capolinea-, una parte di un miracolo fatto di materiale e di immateriale e di semplice e di Dedali di integritas consonantia claritas? Vaffanculo si disse, sei l’occhio e l’occhio soltanto, l’occhio è fallocentrico e sa solo predare.


( “Sono un occhio che ha dentro un rene e adesso il mio sguardo piscerà sul mondo, sulla vita che ho vissuto”. )


Così declamava, senza utilizzare linguaggio e purtroppo ignaro di questo istante di libertà, la faccia e gli attributi dell’io (divisa scelta per se stesso, torace messo insieme così com’era dai secondi che avevano messo insieme se stesso) che si disperdevano in corpuscoli nel vetro, schermi di disintegrazione del paesaggio.


Intanto giardini, scalini, obelischi, statue scorrevano, scorrevano, tramutandosi in bagliori riflessi. Leoni con boccoli di criniera rocciosa, bocche semiaperte nello sforzo d’odio regale verso il mondo. Le ville tengono lontane gli intrusi, sollecitano il timore assopito nei petti dei passanti e osservatori e turisti. Devi sentire che lì non puoi entrare, che il leone è un cane da guardia trasformato da un eccesso d’identificazione nel proprio ruggito, afrore che marchia il territorio della propria aggressività. Ascoltare muti ruggiti e provarne ancestrale paura. Vide tra un semaforo e un Conad un’alta granitica scalinata grigia e color grillotalpa, e lassù in cima nel silenzio di hinoki distanti dalla strada, i komainu, canileone stranieri, facevano l’est e l’ovest e il giorno e la notte e Shiva e Shakti per i pilastri estremi di un tempietto col tetto curvilineo, signore rossiccio del paesaggio. Il verde tornava.


In polmoni metastatici di inesorabile urbanità a volte spuntava inspiegabilmente l’impero color verdeombra della chioma enorme di un albero, una canfora regina di parchi e invisibili morti sotto le fontanelle, un cedro antico con rami di neve vegetale, il tronco inclinato dentro sé come a trattenere il respiro, come a ricordare il tocco muscolare di Gilgamesh quando facendosi strada nel progredire della storia e nel mistero della morte lo aveva scostato in una foresta libanese di agrumi e sabbia e oscurità, e l’aveva spostato così tanto da lanciarlo fin lì -posato sopra panchine logore e cicche vomitate in terra come borre, sopra scoiattolini borghesi e sacchetti di plastica abbandonati con le pance ricolme di qualcosa di triste e umido di refurtiva maleodorante. Scarti di città. E il capolinea si avvicinava. Il tramonto scomposto in oblique spade di sciroppo formava cunei paralleli in movimento, abbarbicandosi alle architetture e i fili sospesi, e poi salendo a bordo, a fluttuare con l’atteggiamento scrupoloso di una lancetta dei secondi negli angoli alti, tendenti al cielo, dell’opaca vetrata del mezzo caracollante di ferraglia. Due fermate, soltanto due fermate al capolinea. Parevano trascorsi dieci tramonti da quando avevano cominciato a mancare due fermate soltanto. Parevano cento fermate quelle dove il veicolo si era fermato rimanendo sempre distante due fermate dal capolinea.


Qualcosa nella sua ansia di passeggero, qualcosa di estraneo come corpi come globuli d’acqua di pianeta alieno nella sua gola, la sua sconfinata distrazione: non riusciva a percepire, soltanto lui -doveva essere questo il problema- il susseguirsi delle fermate, il loro esistere a sorveglianza di piazze di spirito nazionale in pietra parlante e crocevia di snodi storici. Le piazze sono conche di precipitazione, catrame puro d’estinzione.


Ma era un problema in fondo? Non aveva avuto dove scendere sin dal principio. Scendere al capolinea come avventura estemporanea nell’andamento elettroencefalico in un’emicrania di tedio. La sua camicia bianca e pantaloni neri e tracolla oscillante, divisa da insetto nel sole, in una scatola che procede nel sole e nei resti della sua moria. Bestiame solare disciolto in nuvole a ogni strattone dell’astro verso la gola promessa dell’orizzonte. Lui un insetto che canta solitario sotto lo stelo pendulo di una canna cava, crepitante nelle venature della scorza esterna chiara e scanalata come pelle di fata, singola canna di campo e acquitrino rimasta a giganteggiare sull’insieme di piane e colline da cui un giorno cominciarono a sorgere i palazzi, a gridare in mandrie cocciute d’esistere i vitellini assassinati e i loro vittimisti carnefici. Un altare sacrificale, amorevolmente accudito dall’ombra catramosa di un cartellone di plastica in ebollizione nelle cui fauci rimane incastonato da decenni senza esser sostituito il manifesto di una commedia inoffensiva non sopravvissuta, appare austero nel vicino orizzonte di svolte e linee elettrificate, alberi e giardini di grandi ville d’opale folgoranti al cielo del giorno.


Tardi. Dopo cento fermate che sono due, si accorse che c’erano altri. Esseri nel vetro, esseri nel fiato esalato attorno, impercettibile. No: esseri vivi, in piedi, nel grembo del mezzo che è come una stanza. Non ancora scesi prima dell’ultima fermata. La conoscono, loro vivono qui, conoscono il posto e il significato recondito di tutti i suoi respiri, quelli che un estraneo non potrà mai scavare, disseppellire, trasformare in feticistica archeologia della distanza. Alcune cose solo standoci dentro. Altrimenti non si può capire. Come i pesci. Il bestione di locomozione diventa un pesce: simbolicamente sacrificato sull’altare abbandona una pelle ruminante, indossa vischiosità sgusciante tra gelatine neonatali. Diventa un pesce. Allevato intensivamente. Gravido di corpi in piedi stretti a pali e maniglioni: parassiti d’un pesce che nuota in un tramonto: quando si spiega a fisarmonica, sta respirando lacerandosi a ogni passaggio d’ossigeno apneumonico le branchie rosse di sangue. Icone e simboli sulla geografia visibile ricordano e raccontano a tutti coloro che dispongono del codice per capirlo il viaggio e gli scioperi di quel pesce là, di tutti i pesci del tramonto e di altra collerica progenie della giornata. Catacombe, sotto e sopra la terra. Paleocristiani in riti segreti, sussurrati in combutta con neocristiani, tutti passeggeri, tutti “diretti a …”, diretti a un vivere da qualche parte, cose da fare. Non hanno la sua stessa divisa: nessuno nota la sua divisa: eccellente. Non sarebbe una divisa da insetto, se la si notasse al punto da interpellarla con frasi di ronzii non intellegibili. Barbarie. Nel mondo, quello di un acquario mobile, altre divise, a volte, un indistinto movimento dell’esterno (il mondo dove stanno quei cartelli rossi con la “M” bianca), fantasmi di falene avvizzite, coleotteri anonimi, sistri serali senza forma nella nuvolosa stanchezza di un lavoro terminato in altri formicai. Dentro: passeggeri che raggiungono una meta, tutti la stessa meta, capolinea della linea, capolinea di un’altra linea più grande che sorveglia proprio tutto, e non è una statua classica infilzata crudamente dall’occhio puntuto di un obelisco, e non è un cartellone pubblicitario, non l’insegna di un cinema che chiuderà, non un elicottero e nemmeno un cedro e nemmeno un vanaglorioso fallo vitreo con mille occhi, pupille di scrivanie sulla superficie intera dell’enormità, che sorge dove un tempo viveva un bosco di druidi addormentati in coma d’amore e morte. Nemmeno la gigantografia del nome dell’azienda che in cima ancheggia pubblicizzandosi, spot o mantra dell’ego gridato all’altezza delle nuvole. Nemmeno le nuvole. Nulla di tutto ciò.


O forse sì?


Quale cosa nello specifico? Occorre scegliere. Falso: nel pesce che nuota lì non occorre scegliere niente (come ti sei anche solo permesso di fingere di pensare di dire una simile…) di ciò che è in sé già una risposta schiusa per nascita nel multiforme, nell’emicrania nemica e tentatrice della specie -le sue unghie che distribuendosi tra tutte le specie che la compongono, all’unisono e assieme in disarmonia, graffiano sulle convessità polverose del cranio. Non occorre scegliere: forse si tratta di tutto questo assieme.


Ma cosa? Aveva perso il filo. Un filo soltanto lo teneva legato alla vita e a un battito sferragliante nel cuore dell’asfalto, del cielo suo, di una mente elettrica superiore. Bellezza nei fili elettrici ballonzolanti tra semafori e pini marittimi che odorano d’Appia.


Nell’utero del pesce sognò. Infilando su una lisca parole sognanti che si appuntò, insetto egotistico del linguaggio chiuso. Sentì che il respiro lì dentro incrociava altri, ma era difficile sentirli veramente? Era suggestione, era evoluzione giunta alla capacità di simulare così bene la sensazione che respirassero veramente, proiezioni di impulsi elettrici superiori in grado di comporsi in immagini residue d’ombre antropomorfe dotate di luce.


C’era un popolo vivo, individui, mani affamate di maniglioni e pali cosparsi di germi, volti stanchi di stare in mascherina.


Pelle rosa e bianca dallo scalpo arido alle ginocchia, riflesso nato nella carne, intrinseca circolarità delle sue superfici: lui scende dove si vendono magliette rosse, dove bave di murici e bachi tessono trame minuscole e perfette di regali di compleanno o di armadi interi d’abitudini imperiture; chioma soffice di bionda scopa, occhiali enormi di colore primario, nanetto: non importa dove scenda la madre di cui afferra un lembo di gonna blu notte, l’importante è lo schermo squarciato da un fuoco, diversivo al giorno che può davvero bruciare come brutte cadute su brecciolini del parco, traumi; sguardo perso nei sobbalzi che fanno tintinnare il rosario, velo bianco e nero: lei scende dove dice di scendere il simbolo intagliato nel legno portato al collo; occhiaie grigie come i capelli, come le rughe di Susan Sontag e il suo portamento riproposto in metempsicosi di sorrisi leggermente irritati, sguardo che taglia il discorso circostante anche quando si dissimula nella quiete intervallata dal caracollare sgraziato: lei certamente vuole sigarette, un distributore; occhi d’ambra, lì dentro riposano insetti in camicia che assomigliano a lui che la guarda, ricurvi come virgole e internamente abbracciati al loro ultimo pasto di sangue preistorico fluttuando nel mondo rifrangente della pupilla mentre guarda lui a cui ha chiesto monetine d’oro sporco: cerca una casa di un’amica e spera di non confondersi con tutti questi cazzo di pini, niente punti di riferimento, bucano asfalto, fanno sentire a casa i cinghiali; baffi folti, francofono del nord, fiandre, continentale: lui e le sue genti cacciavano quegli spiriti di porco selvatico ingurgitandone il coraggio, segue l’istinto ovvero ciò che è sancito dalle rune di una mappa turistica; mascara nero e bianche ossa di zigomi: lei ama un cimitero, amabili sepolcri di frescura altrimenti impossibile, sogno impossibile di respiri di gatti lugubri e spiriti che non ci sono da queste parti, scenderà lì per fare un breve tratto a piedi in cerca dei fantasmi, che possano essere più esplicitamente simbolici di cosa è un capolinea, in fondo anche questa una conferma, una fiaccola contro la stessa identica confusione che appesantisce il pavimento traballante del mezzo di locomozione, fuoco nero ma pur sempre una fiaccola; scarpe di cavallo d’acciaio che battono ad alternanza un ritmo di nervi: lui scende dove ci sono soldi e qualcosa di tagliente da ammirare, per tensione inconscia verso forme di quel tipo; barba incolta e simili ombre scure sulla pelle, e occhi appannati in un fosco sprofondare: scende al capolinea per cercarsi un romitaggio nella foresta calda che certamente deve esistere laggiù, portarci il disco solare che ha in tasca per continuare a meditare ronzando nel Drone Doom con vocalizzi lancinanti nell’abisso di influenza Death, e lì per sempre sedersi in volo, e lì diventare cicala di infiniti corpi, gocce di fontanelle di Kannon, Siddharta imbestialiti al sole di mosche, petti gonfi di cadaveri di canidi pariah masticaossa, e lì illuminarsi e rimanere attaccati per il solo lembo di un disco di musica d’estremo assassinio di meningi. Singolo lembo ma di nascosto ci si infiltrano i muggiti morenti e i profumi di seni simmetrici e i denti particellari di Māra e tutti i fiori e tutte le palme carezzate da nettare di raggi sotto un tardo pomeriggio sospeso quando per primo un beato si recò alla bodhi o sotto il cedro di un capolinea della linea ABC123, così tanti millenni prima che esistesse la loro immagine residua, la loro concretezza che lascia screpolature e un alone di polverina sulla devanagari dei dermatoglifi.


Tutti sullo stesso mezzo. Tutti lo stesso mal di testa?


Rimase solo. Millenni dopo. Non avere dove andare. Anche lui a meditare? Tutti a cercare il proprio spasmodico tipo di meditazione, idoneo secondo volere interno e insondabile del cosmo. In omaggio all’imperscrutabilità che l’aveva fatto arrivare fin lì, nonostante il suo desiderio di morte, nonostante la preghiera paleocristiana e indoaria di venir calpestato o falciato quando morirono i canneti o per mezzo delle mille mani misericordiose della Kannon sapiens, alla fine scese a quella fermata materializzata in fondo a un tunnel di spade incrociate di bagliori rosei e verdi, tunnel centrale nel cuore dei tunnel del mondo. Sarebbe voluto restare all’infinito seduto su quei sedili, nella nuova raggiunta perfezione di solitudine, mai vista da alcuno. O forse da tutti, in segreto e dove non è possibile comunicarlo, nemmeno inventandosi tutti i monumenti e i parchi del mondo, nemmeno scrivendo le bibbie del tempo (anzi: non tutti: un tipo molto particolare di tutti, i tutti invisibili e incomprensibili, maledetti loro e il peso che continuano ad avere, le ossa che continuano a brandire per simboleggiarsi). Con nostalgia che tra sé chiamava malincuore, che tra sé carezzava e lucidava volendo fare un tesoro di quell’interminabile scivolata dentro il tramonto imminente, mosse i suoi passi ticchettanti sul marciapiede, il mondo della fermata che si era concretizzato. Una ferita respirante si apriva nel verde di fitti cespugli ammassati dietro ringhiere, collegati come in un singolo micelio a un boschetto rigoglioso nelle vicinanze, confini incerti. Affianco alla ferita qua e là muriccioli avviliti, carcasse incomplete di cestini dei rifiuti smantellati; rigonfiamenti dove lottavano per vivere ed esplodere in un sole rosso di legno odoroso le radici dei pini, sotto la terra ricoperta d’aghi, o forse segreti tumori benigni del sottosuolo. Un clacson e un’ambulanza si allontanarono e progressivamente si spogliarono di strati sonori in una definitiva incertezza della loro nascita e morte, di là dal boschetto e la sua frastagliata linea d’alberi, di là nel mondo, distante o vicino che fosse, da quell’altra parte.


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